Il sindacalista venuto dai campi
Di Vittorio, una storia epica
Il film sarà presentato alla Camera alla presenza di Fini, Epifani, Angeletti e Bonanni
Il regista: "Una vicenda umana eccezionale, al di là delle bandiere e delle ideologie"
di ALESSANDRA VITALI *
COSI’ era il sindacato, così la Cgil, così la statura del suo primo grande segretario del dopoguerra. Quello che diceva che "nessuno dovrà più morire per un pezzo di pane". Quello che durante i fatti d’Ungheria disse, nonostante Togliatti, "fra i carri armati e gli operai, noi stiamo con gli operai". Giuseppe Di Vittorio, mito laico, la gente a piangere alle fermate del treno che riportò la salma da Lecco a Roma.
Oggi, nel pieno della crisi, con il dramma di migliaia di posti di lavoro a rischio, i sindacati spaccati e un governo che sta mettendo a dura prova i fondamenti stessi dei diritti dei lavoratori, RaiUno manda in onda (domenica 15 e lunedì 16 marzo) una miniserie dedicata a uno dei padri della Repubblica e del sindacato. Titolo, Pane e libertà.
Prodotta da Carlo Degli Esposti, diretta da Alberto Negrin (che per la tv ha già realizzato, fra gli altri, Perlasca, Bartali, L’ultimo dei Corleonesi), musiche di Ennio Morricone, Pane e libertà è interpretata da Pierfrancesco Favino nei panni dell’uomo che dedicò la vita alla battaglia per i diritti della classe operaia e per un sindacato "autonomo dai partiti, dai governi, dai padroni".
Un film-evento. Per la natura del personaggio, i legami con l’attualità, il fatto che Di Vittorio fu uomo del Sud. Nato nel tessuto del movimento bracciantile pugliese, a Cerignola, da una famiglia di braccianti (si definì "figlio del bisogno e della lotta"), lavorò nei campi e da lì cominciò l’attività di sindacalista rivoluzionario.
Per Pane e libertà, dopo la presentazione alla stampa in Rai, anche un’anteprima alla Camera, martedì 10 marzo, con il presidente Gianfranco Fini, i segretari confederali Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti e il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. Ci saranno anche Baldina Di Vittorio e Silvia Berti, figlia e nipote del sindacalista. Una personalità, lo ha definito Epifani, "che ha innestato i diritti dei lavoratori nella cornice della Costituzione, da questo punto di vista è un padre della patria per quanto riguarda il lavoro e i rapporti con le istituzioni. La sua è una storia che ha qualcosa di epico".
Il film copre l’intero arco della vita di Di Vittorio, dalla morte del padre - nella prima puntata - quando a otto anni viene messo a fare lo "spaventacorvi" nei campi, fino all’assalto alla Camera del Lavoro di Bari mentre la moglie sta partorendo il figlio Vindice, passando per i primi scioperi, la morte dei compagni durante la repressione per mano dei latifondisti, fino all’elezione a deputato nel Partito socialista e la fuga in esilio dopo la condanna a dodici anni di carcere da parte del Tribunale Speciale.
Nella seconda puntata, l’attività politica dall’esilio a Mosca e a Parigi, la guerra di Spagna, il conflitto con il Partito comunista al quale si era iscritto nel 1924, l’amicizia con Buozzi e Grandi e le vicende personali, la morte della moglie Carolina e l’incontro con Anita, trent’anni meno di lui, compagna fino alla sua morte. "Quella di Peppino è la storia di un grande sognatore - dice Negrin - che ha avuto un unico desiderio: unire i lavoratori d’Italia e del mondo per vedere riconosciuti i loro diritti. Un sogno che lo coinvolgeva intimamente, non da un punto di vista astrattamente intellettuale ma esclusivamente umano".
Proprio sull’uomo-Di Vittorio si è concentrata l’attenzione del regista, anche coautore della sceneggiatura con Pietro Calderoni e Gualtiero Rosella, oltre alle "molte ore trascorse con la figlia di Di Vittorio, Baldina, che mi hanno fatto entrare in una vita così complessa ed eccezionale". L’uomo al di là delle bandiere "perché la sua umanità non era esclusivamente o necessariamente ’rossa’, la sua grandezza è stata quella di saper toccare il cuore della gente". Il suggerimento del regista è quindi di "spogliarsi dei legami ideologici" e "guardare il personaggio negli occhi e nel cuore: solo così il film avrà un senso altamente politico, termine questo che non va disgiunto dalla più alta moralità".
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
GIUSEPPE DI VITTORIO (Wikipedia).
GIUSEPPE DI VITTORIO (Casa Di Vittorio)
GIUSEPPE DI VITTORIO: DATI PERSONALI E INCARICHI NELLA COSTITUENTE (Sito della Camera)
Lavoro e Costituzione C.G.I.L., 1906. Un anniversario che conta: W W W 100 ANNI !!!
COSA SIGNIFICA ESSERE ITALIANI ED ITALIANE. LA LEZIONE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI
LA SVOLTA DI SALERNO... E LA LOTTA PER LA LIBERTA’ E LA DEMOCRAZIA, OGGI!
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
LA LEZIONE DI CARLO LEVI - OGGI: LA "DITTA RENZI" (DI TORINO) AD ALIANO (MATERA). Un invito alla ri-lettura di "Cristo si è fermato ad Eboli"
La conoscenza
Fame di istruzione
Da Antonio Gramsci a Giuseppe Di Vittorio fino a Gianni Rodari la forza dell’umanità ma anche uno dei suoi primi bisogni è: sapere. Magari "tutti leggessero non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo”
di Ilaria Romeo (Collettiva, 08/12/2020)
Insediandosi in Parlamento diceva Giuseppe Di Vittorio nel 1921: “Onorevoli colleghi, questa mattina qualcuno seduto in quest’aula, per dimostrare il suo disprezzo per la mia presenza qui, ha mormorato: “Un cafone in Parlamento...”. Ebbene sappiate che questo titolo non mi offende, anzi, mi onora, infatti se io valgo qualcosa, se io sono qua, lo devo ad Ambrogio, a Nicola, a Tonino, a tutti quei braccianti analfabeti che hanno dormito insieme a me nelle cafonerie e con me hanno mangiato pane e olio, che hanno lottato duramente per i diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori, perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto”.
Sempre Di Vittorio affermava in occasione del secondo Congresso nazionale della cultura popolare (il primo Congresso si era tenuto a Milano, nella sede del Castello Sforzesco, il 7 e l’8 dicembre 1946; il terzo Congresso si terrà a Livorno dal 6 all’8 gennaio 1956, relatori Norberto Bobbio, Tommaso Fiore e Giulio Trevisani)
Perché la cultura è, e deve tornare ad essere, esattamente questo: uno strumento di emancipazione, di integrazione, dialogo, valorizzazione, sviluppo, coesione sociale. “Istruitevi - diceva Antonio Gramsci - perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. “Vorrei che tutti leggessero - affermava il maestro per eccellenza, Gianni Rodari - non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo”.
La cultura rende liberi perché ci permette di pensare con la nostra testa, perché fa in modo che i nostri pensieri non si fermino alle apparenze, non siano superficiali. In un mondo infestato dalle fake news sulla politica, sulla salute, su ogni ogni singolo aspetto della nostra vita, ciò di cui più di ogni cosa in questo momento l’essere umano ha bisogno è di allenare la sua capacità di discernimento, di autovalutazione.
Abbiamo bisogno di cultura. Una cultura messa a dura prova dalla pandemia e dal lockdown. Ma mai come oggi universalmente a disposizione di chi chiunque voglia accedere al sapere. Istruiamoci, perché abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza, oggi come non mai.
Il gesto
Quando Giuseppe Di Vittorio onorò il Natale rifiutando il regalo del padrone
Una vigilia magrissima e un dono che avrebbe potuto aiutare la famiglia ma il sindacalista lo restituisce al mittente, il potente Conte Pavoncelli: "apprezzo la cortesia ma sono un uomo politico attivo, un militante"
di Collettiva *
È il 24 dicembre 1920 a Cerignola. L’anno successivo Giuseppe Di Vittorio verrà eletto deputato, nel frattempo nella sua Puglia è stato alla guida del movimento dei lavoratori, braccianti che rivendicano i loro diritti davanti ai proprietari terrieri. A casa Di Vittorio ci si appresta a celebrare il Natale quando arriva un cesto, regalo del conte Giuseppe Pavoncelli, il "Principale" lo chiama il sindacalista. Pavoncelli è un uomo potente, discendente da una delle famiglie più importanti dell’imprenditoria agraria italiana dell’epoca, oltre a essere uno dei padroni contro i quali Peppino continua a battersi.
Di Vittorio durante il fascismo verrà più volte arrestato e sarà costretto alla clandestinità. Pavoncelli invece diventerà membro della Camera dei fasci. Sono gli anni in cui le camicie nere iniziano a dilagare con le loro violenze, anni in cui la fame per chi vive di lavoro e militanza si fa sentire. Ma Di Vittorio davanti a quel dono dice no e scrive una lettera all’amministratore della tenuta Pavoncelli, il signor Preziuso. Peppino ringrazia e rifiuta.
Non importa se il Natale sarà magro, sarà un Natale integro, fatto di coraggio e onestà.
La lettera è stata resa nota nel 2007 quando Stefano Pavoncelli, erede di Giuseppe, la consegnò all’allora responsabile del Progetto Casa Di Vittorio, Giovanni Rinaldi. L’occasione era scaturita nell’ambito della visita fatta nell’azienda Santo Stefano come sopralluogo per individuare possibili location del film Pane e Libertà insieme allo scenografo Luciano Ricceri, che curava le ambientazioni della fiction su Di Vittorio, e a Flavio Tallone, direttore di produzione.
* FONTE: COLLETTIVA, 24.12.2020 (RIPRESA PARZIALE, SENZA IMMAGINI).
La memoria
Delitto Rosselli, quando Salvemini difese Di Vittorio
di Ilaria Romeo
Il 9 giugno 1937 Carlo e Nello Rosselli cadono vittime, in Francia, di un agguato fascista. Diciotto anni più tardi, il 2 novembre 1955, Firenze viene tappezzata durante la notte da manifesti che, con intenti provocatori, accusano Giuseppe Di Vittorio di essere stato il mandante dell’assassinio. Della vasta riprovazione suscitata dal volgare attacco al segretario confederale si fa interprete Gaetano Salvemini con una lettera su Il Mondo (1). “Quel giornale murale - scrive Salvemini, fra l’altro professore di Nello nell’università del capoluogo toscano - è stato affisso dopo aver ottenuto il visto del signor questore di Firenze. Io presento ora al signor questore la seguente rispettosa domanda: se dei comunisti gli chiedessero il visto per un giornale murale in cui fosse affermato che Cesare Battisti fu impiccato da un boia che si chiamava Alcide De Gasperi, o che il ministro Scelba non può avere a tiro di mano una ragazza senza farle fare un figlio entro nove mesi, il sullodato signor questore darebbe l’autorizzazione?”.
Ebbene, prosegue il grande storico, “il comunista Di Vittorio non ha diritto di essere rispettato nel suo onore non meno di De Gasperi buonanima, e di Scelba, che Dio gli dia cent’anni di buona salute? Se vi fosse in Italia libertà di stampa incondizionata, cioè se ognuno potesse appiccicare sui muri i giornali murali che meglio crede, il questore di Firenze non ci entrerebbe né punto né poco. Nel caso in questione penseremmo noi, amici di Carlo e Nello Rosselli, o penserebbe Di Vittorio, a mettere le cose a posto [...]. Ma in Italia la libertà di affissione non c’è; il questore deve dare il suo visto ai giornali murali [...]. Ho aspettato che qualcuno protestasse prima di me e mi risparmiasse la fatica di scrivere questa lettera. Ma visto che nessuno si muove, consenti, caro Pannunzio, che almeno su Il Mondo qualcuno dia segno di vita”.
L’indignazione pressoché generale per l’ennesimo nuovo esempio di malcostume politico costringe il ministro degli Interni a intervenire, facendo sequestrare il manifesto. Di Vittorio ringrazia Salvemini per il suo pungente intervento e ne segue tra i due uomini un affettuoso scambio di lettere. Così l’anziano antifascista risponde a una delle missive speditegli dal leader della Cgil: “Carissimo Di Vittorio, sono assai contento di apprendere dalla tua lettera che tu attendevi la mia sfuriata. Questo vuol dire che mi ritieni ancora vivo, sebbene io mi senta ormai più che quasi morto. Per scrivere bisogna che io sia preso da un eccesso epilettico, e questo ormai succede più raramente che ‘quando ero paggio del Duca di Norfolk’. Ma quella bricconata fiorentina mi avrebbe dato un attacco epilettico coi fiocchi anche se fossi stato morto e sotterrato. Tu dovevi disprezzare quelle sudicerie. Eravamo noi che dovevamo farci vivi. Ma siamo stati pochi a farci vivi!”.
Ormai, a giudizio di Salvemini, nell’Italia del dopoguerra “nessuno più si sdegna di niente”. “Tutto - commenta rassegnato - passa liscio come una lettera alla posta. Questo è il fenomeno che più mi sgomenta oggi. Sì, il governo, quando vuole, può arginare il malcostume. Ma chi si muove per svegliarlo quando dorma? Voi vi muovete, ma vi muovete sempre, e nessuno bada a voi. Siamo noi che ci dobbiamo muovere, al momento opportuno. Ma noi ci guardiamo l’ombelico. Di quante cose mi piacerebbe parlare con te a cuore aperto! Ma i miei 82 anni mi incatenano qui: ad allontanarmene farei dei guai. Mille buoni saluti, e ti prego, non darmi del ‘Lei’. Non ho ancora fatto nessuna cattiva azione (a parte la mia ‘ideologia’)” (2).
Il fondo personale di Bruno Trentin conserva una fitta corrispondenza tra Salvemini, Bruno, Franca e Giorgio Trentin. Nell’aprile del 2009, Iginio Ariemma pubblica all’interno del volume “Bruno Trentin tra il partito d’azione e il partito comunista”, edito dall’Ediesse, un vero gioiello conservato presso l’Archivio storico Cgil nazionale: una lettera di Bruno Trentin a Gaetano Salvemini del 14 ottobre 1952. Si tratta di una lunga missiva che trae spunto da un articolo su Il Mondo del professore, amico di suo padre e che Bruno aveva conosciuto a New York nel 1947, sul caso Angelo Tasca, accusato di doppiogiochismo e che Salvemini invece assolve e giustifica, al contrario di Bruno e dei suoi fratelli. Nella lettera, Trentin, oltre a contestare la posizione di Salvemini su Tasca, illustra la sua visione della Resistenza.
Il mese precedente, il 16 settembre 1952, Salvemini aveva scritto a Franca “per tutti” (a differenza della risposta di Trentin, la lettera di Salvemini è totalmente inedita): “[...] Tasca fece il doppio gioco - voi dite (3) - e sputate addosso al doppio gioco. Io non ho temperamento da fare doppio gioco. Ma purtroppo ho fatto pratica della vita. E dico che se nessuno avesse fatto doppio gioco né in Italia né in Francia dal 1940 al 1945, Hitler e Mussolini dominerebbero oggi il mondo. In Roma metà della popolazione fece doppio gioco dall’autunno del 1943 alla primavera del 1944. Il movimento dei partigiani in Italia sarebbe stato impossibile, se i partigiani non fossero stati favoriti dal doppio gioco di chi si teneva a contatto coi tedeschi [...]”.
Tasca, si legge ancora nella lettera di Salvemini, “dimostra coi documenti che fece il doppio gioco di chi combatteva Hitler, Mussolini e Pétain, non di costoro. Che abbia fatto questo secondo doppio nessuno può dimostrare; ma lui può dimostrare di avere fatto il primo [...]. Il nostro Trentin condannava allora Tasca. Aveva allora ragione [...]. Anch’io ebbi su Tasca informazioni catastrofiche dagli amici che vennero in America dopo il disastro del giugno 1940. Fui profondamente scosso da quelle accuse. E non appena, nel 1945, mi fu possibile scrivere a Tasca, gliele contestai senza complimenti. Egli mi mostrò i documenti della sua attività. E io gli ridetti la mia stima e la mia amicizia. Badate che io ammetto - e l’ho ammesso su Il Mondo - che nell’estate del 1940, quando pareva che tutto il vecchio mondo europeo fosse uscito dai cardini, Tasca ebbe una crisi di smarrimento, e di disorientamento, e sperò che intorno a Pétain si potesse riorganizzare una resistenza contro la Germania. Ma la crisi durò poco. E ben presto l’uomo prese il posto che doveva nella lotta contro Hitler, Pétain e C. [...]” (leggi tutto).
Salvemini morirà a Sorrento il 6 settembre 1957. Nell’ottobre 1961 la salma sarà trasferita da Sorrento a Firenze. Nonostante l’antica ruggine, Trentin darà “la sua più calda adesione alla iniziativa promossa per onorare la memoria di Gaetano Salvemini”, definendosi onorato di far parte del comitato promotore e impegnandosi a partecipare alla cerimonia (leggi).
(1) Il Mondo, 15 novembre 1955, p. 6
(2) Anita Di Vittorio, “La mia vita con Di Vittorio”, Vallecchi editore, Firenze 1965, pp. 252-253
(3) Il 26 luglio 1952 Bruno, Giorgio e Franca scrivono a Mario Pannunzio, direttore de Il Mondo
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Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale
Baldina e Dorella, cartolina da Cerignola all’Italia di oggi
di Roberto Napoletano (Il Sole-24 Ore, Domenica, 11 gennaio 2015)
«Direttore, le scrivo da cerignolana, non so se lo sa, ma è morta Baldina Di Vittorio, figlia di Giuseppe, il più carismatico dei leader sindacali italiani, era una donna forte Baldina, ha vissuto nel solco di un grande padre ed è stata lei stessa una grande donna. Salvata bambina da operai e contadini nascosta sotto il tavolo delle riunioni della Camera del lavoro di Bari assediata dai fascisti, due volte parlamentare del Pci, volle e fondò Casa Di Vittorio a Cerignola e ha speso una vita, fino agli ultimi suoi giorni, per trasmettere ai giovani i valori, la caparbietà, la voglia eretica di cambiare del suo grande papà. Non crede che meriterebbe di essere ricordata?».
A scrivermi è Dorella Cianci, classicista, esperta di storia e metodi di educazione, innamorata della parola e del corpo della cultura greca che narrano inascoltati di una bellezza, antica e fragile, ma straordinariamente attuale, ingaggiata via mail come collaboratrice della Domenica del Sole con la forza che questo giornale ha sempre avuto di individuare e aprire le porte a nuovi talenti.
Devo ringraziarla, e lo faccio volentieri pubblicamente, perché è bello il trasporto, non soltanto cerignolano, che traspare dalle parole di una donna di trent’anni per una signora di oltre novanta che ho conosciuto bene, due occhi azzurri e un naso aquilino, l’inconfondibile eleganza e soprattutto la forza espressiva che appartiene ai cromosomi ricevuti dal padre e agli anni passati da internata nel campo di Rieucros in Francia prima della fuga negli Stati Uniti dove raggiunse il marito, Giuseppe Berti. Da bambina al sindacato e poi in Parlamento fino al suo peregrinare nelle scuole, Baldina ha testimoniato per una vita intera la lezione di Giuseppe Di Vittorio, per gli amici Peppino, bracciante figlio di bracciante con la quinta elementare e la passione per la lettura e gli studi, l’uomo che ha cambiato la storia dei lavoratori italiani e si schierò da solo contro Togliatti sui carri armati in Ungheria, l’uomo che non esitò a chiedere sacrifici straordinari ai lavoratori, piccole rinunce sui già gracili salari in cambio di una prospettiva duratura di lavoro, e venne ripagato con applausi fragorosi e un rapporto di fiducia mai interrotto sotto la spinta di una coerenza di comportamenti, una capacità di innovare e un carisma magnetico che non hanno mai avuto eredi.
Parlare di Baldina significa parlare di Di Vittorio perché a loro modo padre e figlia sono stati un tutt’uno e lei se ne è sentita portavoce dopo la sua scomparsa. «Dobbiamo parlare ai giovani, dobbiamo spiegare chi sono stati gli uomini che sono stati capaci di trasformare in pochi anni un Paese agricolo prima in un’economia industrializzata poi in una potenza economica» risento le parole di Baldina di un po’ di tempo fa quando lei e la figlia, Silvia Berti, mi cercano e vogliono solo dirmi grazie perché mi sono permesso di ricordare la lezione di Di Vittorio straordinariamente attuale proprio in questi anni di crisi profonda, quella spinta così contadina e così innovativa a trovare il coraggio di cambiare e di occuparsi di chi il lavoro non ce l’ha che mai come adesso si impone per la Cgil e tutti i sindacati, ma anche per le forze produttive, professionali e politiche di questo Paese.
Ricordo quando all’Archivio di Stato all’Eur, a Roma, Baldina ha voluto, insieme alla figlia Silvia e alla presenza del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che rievocassi con Fabrizio Barca e Guglielmo Epifani la figura del padre. Di quel pomeriggio mi sono rimaste dentro tante cose, anzi ne ho capite tante di nuove, e ho davanti agli occhi lo sguardo fermo e appagato di madre e figlia quando sulla parete bianca scorrevano le immagini del documentario di Lizzani dedicato a Giuseppe Di Vittorio, le strade di Roma piene di lavoratrici e lavoratori di ogni città d’Italia nel giorno del suo funerale, luce e pianto, gioia e dolore. Tra le tante immagini una che non ho mai dimenticato: una signora anziana di Cerignola con un velo nero che si rivolge a una ragazza sotto un sole luminoso e dice testualmente: «Lo voleva bene pure le pietre, non saccio come ha fatto a mori’». Per quella signora di Cerignola un uomo così grande non poteva morire.
Questa "grandezza" Baldina l’ha raccontata fino all’ultimo giorno della sua vita, soprattutto ai giovani, un modo per testimoniare che anche da noi sono esistiti grandi italiani, più di quanto si immagini, che hanno saputo cambiare il Paese con poche chiacchiere e molti fatti. Mangiava le triglie con le mani Peppino Di Vittorio e scriveva solo con la sua penna stilografica (guai a chi gliela toccava) ma non esitò mai a prendersi le sue responsabilità e contribuì a cambiare l’Italia.
Grazie Dorella per avermi spinto a parlare di questa straordinaria famiglia, ciao Baldina. Questa cartolina da Cerignola è così antica e così straordinariamente nuova, significa tante cose, bisogna solo avere voglia di leggere e di ascoltare.
È morta Baldina Di Vittorio
Dopo la Liberazione si occupò dei diritti delle donne
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 05.01.2015)
Quando Palmiro Togliatti venne incarcerato in Francia sotto falso nome per alcuni mesi, tra il 1939 e il 1940, fu Baldina Di Vittorio che tenne i contatti con il famoso avvocato Pierre Loewel, che difese il capo del Pci senza sapere chi fosse in realtà il suo assistito. Nata nel 1920, Baldina era una ragazza spigliata, che non destò sospetti: se le autorità francesi - comprensibilmente ostili ai comunisti dopo la firma del patto Molotov-Ribbentrop - avessero scoperto che il prigioniero era un leader di quella caratura, ben difficilmente Togliatti se la sarebbe cavata a buon mercato e avrebbe potuto quindi, come poi avvenne, raggiungere Mosca senza troppi problemi.
Baldina, scomparsa sabato all’età di 94 anni, era figlia di un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita al sindacato e alla politica: Giuseppe Di Vittorio, l’ex bracciante pugliese, nato poverissimo, che sarebbe diventato il più importante leader storico della Cgil. E lei, coinvolta sin da ragazza nelle vicende dell’esilio antifascista e del movimento operaio, si era collocata naturalmente sulla via tracciata dal padre, al quale la legava un affetto enorme. Capita spesso che gli uomini dediti a una causa politica trascurino la famiglia, ma non era assolutamente il caso di Di Vittorio.
Tuttavia nemmeno da ragazza Baldina, che aveva perso la madre a soli 14 anni, era vissuta all’ombra di un così autorevole genitore. Per esempio aveva sposato molto giovane Giuseppe Berti, un autorevole dirigente del Pci (poi emarginato da Togliatti dopo la guerra) che aveva quasi vent’anni più di lei, nonostante i dubbi del padre. Per qualche tempo, durante la guerra, era stata rinchiusa nel campo di prigionia francese di Rieucros, prima di trasferirsi con il marito negli Stati Uniti, allora ancora neutrali.
Dopo la Liberazione, la scelta più logica per Baldina era stata quella di dedicarsi alla tutela dei diritti femminili nell’Udi (Unione donne italiane, organizzazione legata ai partiti di sinistra), un lavoro che aveva continuato in Parlamento, dove era entrata nel 1963. Non amava mettersi in mostra: lavorava con discrezione e serietà. In un telegramma di cordoglio il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ne ha ricordato «la linearità politica, la serena operosità, il tratto di inconfondibile finezza e garbo personale».
Effettivamente Baldina Di Vittorio aveva vissuto esperienze molto dure, ma aveva mantenuto una signorilità estrema, che chiunque l’abbia conosciuta direttamente non può che testimoniare. In questo assomigliava al padre, che anche nei momenti più aspri dello scontro politico non aveva mai perso l’umanità profonda per quale è sempre stato ricordato anche dagli avversari.
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. IN MEMORIA DI CARLO LEVI, DI ROCCO SCOTELLARO, E GIUSEPPE DI VITTORIO ...
Oltre la crisi e l’austerità
Vale 60 miliardi il piano della Cgil
Si apre oggi la conferenza di programma
Si punta su innovazione e beni comuni per far tornare la disoccupazione al 7%
Le proposte: mutualizzazione europea del 20 per cento del debito e Banca nazionale di investimento
di Massimo Franchi (l’Unità, 25.01.2013)
Un piano di legislatura ricordando Di Vittorio ma puntando ad un nuovo modello economico che riporti finalmente al centro della politica il lavoro. Figlio di un dibattito interno e territoriale partito già nello scorso giugno, il Piano del lavoro che questa mattina la Cgil presenta al PalaLottomatica di Roma ha un obiettivo ambizioso: «ridurre il tasso di disoccupazione nel 2015 al livello pre-crisi: il 7%» e «piena, buona e sicura occupazione».
Per farlo servono «risorse per 50-60 miliardi in un triennio», reperibili grazie ad «una riforma del sistema fiscale» (40 miliardi), «la riduzione dei costi della politica e gli sprechi di spesa pubblica» (20 miliardi), «il riordino delle agevolazioni alle imprese» (10 miliardi) e «l’utilizzo di una parte delle risorse delle fondazioni bancarie e dei fondi pensione.
Sebbene il nome voglia rendere merito all’espressione scelta da Giuseppe Di Vittorio nel II congresso confederale di Genova del 1949 (e i cui principi si manifestarono negli anni sessanta), la Cgil guarda al futuro. Il futuro più prossimo, con le elezioni politiche che arrivano fra meno di un mese e che la portano a proporre al centrosinistra (oggi interverranno, in ordine cronologico, il ministro Fabrizio Barca, Nichi Vendola, Pier Luigi Bersani, Giuliano Amato) le sue proposte economiche. E il futuro più lungo, quello su 3-5 anni che fermi il declino del Paese, l’austerità imperante e punti ad una crescita che ridia lavoro ad un’Italia sempre più scoraggiata.
SEI MESI DI CONFRONTO
Il testo finale che sarà presentato questa mattina con la relazione di Susanna Camusso è stato limato fino alle ultime ore. È figlio di un dibatitto lungo sei mesi con centinaia di riunioni con tutte le strutture, territoriali e centrali. Un lavoro capillare, coordinato da Gaetano Sateriale che andrà avanti: il testo è infatti aperto al confronto fino al prossimo Congresso confederale del 2014.
PAROLE CHIAVE
Se le proposte, gli strumenti, le coperture delle risorse necessarie potranno variare, il cuore del documento si basa su concetti e parole chiave su cui la Cgil ha deciso di puntare. Beni comuni, innovazione e condivisione territoriale sono i principali.
L’attenzione ai beni comuni è centrale nell’approccio di Corso Italia: «la prima grande ricchezza dell’Italia è se stessa, il suo territorio, la sua cultura, il suo patrimonio storico e artistico», si legge in un passaggio. La seconda parola (innovazione) è il leit motiv di ogni proposta: la Cgil contesta e vuole affrancarsi dall’immagine di un sindacato ancorato al passato e che dice sempre “No” (come sostiene Mario Monti) e punta sul mettere in rete formazione e tecnologia.
In una delle slide che arricchisce il testo si evidenzia come l’Italia nell’ultimo decennio sia fanalino di coda nell’economia ad alta intensità e della conoscenza. Nel nostro Paese la quota di valore aggiunto di questo settore è solo di 32,5% e occupa solo il 20% dei lavoratori totali, nonostante una produttività doppia rispetto agli altri settori.
La Cgil punta ad invertire questi numeri mettendo in rete, grazie a politiche orizzontali, formazione, Università (e quindi tecnologia), imprese e territori. Quest’ultima è la terza parola chiave del Piano del lavoro: lo Stato centrale deve definire solo le linee di indirizzo e le risorse da utilizzare, tutto il resto è demandato ai territori (Regioni, Comuni, parti sociali locali): «Il territorio deve ritornare al centro dello sviluppo: il lavoro si lega necessariamente al welfare, ai sistemi territoriali, per questo la contrattazione sociale nel territorio e il confronto sindacale con Regioni e Comuni può diventare il momento di attivazione, di adattamento e di verifica dei Progetti operativi per la crescita, sostegno delle Piccole e medie imprese».
NUOVO RUOLO DEL PUBBLICO
Il Piano per il lavoro è molto lontano dai tanti progetti di intervento pubblico diretto in economia che si sono succeduti negli anni. La Cgil punta invece a definire un «nuovo ruolo del settore pubblico», partendo dal presupposto che la crescita si può ottenere solo agendo sul lato della domanda: aumentando investimenti e consumi. Per ottenerli il ruolo delle imprese e dei privati è complementare a quello statale. Le politiche di crescita ed innovazione devono essere co-finanziati, lasciando però al pubblico il ruolo della gestione. Per il resto si punta Progetti operativi di politica industriale attiva e “orizzontale” e che punti «alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, produzioni verdi e blu, edilizia antisisimica, reti digitali, Trasporto pubblico) e ai servizi pubblici (tutela del territorio, ciclo dei rifiuti, riassetto idrogeologico).
PIANO STRAORDINARIO PER IL SUD
L’unico punto in cui il ruolo dello Stato è diretto è quello del Piano straordinario di creazione diretta di lavoro. Per «fermare il declino» specie delle parti più deboli del Paese la Cgil propone un piano straordinario di creazione diretta dell’occupazione, in particolare nel Mezzogiorno, attraverso una grande iniezione di investimenti pubblici in beni comuni (ambiente, energia, infrastrutture, conoscenza, welfare). A questo progetto vengono destinati tra i 15 e 20 miliardi, finanziati però in gran parte dai Fondi europei, già ben utilizzati dal ministro Fabrizio Barca, proprio per questo invitato a parlare oggi.
PATRIMONIALE PER REDISTRIBUIRE
Dal 2009 la patrimoniale è un cavallo di battaglia della Cgil. L’idea viene riproposta nel Piano per il lavoro, ma la sua implementazione è rimodulata. A differenza di quello che molti sostengono, la Cgil non vuole una tassazione straordinaria: si prevede infatti una Imposta strutturale sulle grandi ricchezze e i grandi patrimoni. Lo scopo non è aumentare il carico fiscale, bensì redistribuirlo e ridurre la parte sul lavoro (la più alta in Europa con il 43%) per ridare fiato a imprese e lavoratori e rilanciare i consumi.
MUTUALIZZARE IL DEBITO CON BCE
A conferma che la Cgil è cosciente dei vincoli di bilancio che la situazione internazionale impone, arriva la proposta forse più innovativa. Il Fiscal Compact sottoscritto anche dall’Italia imporrebbe almeno 45 miliardi di tagli al debito ogni anno. Per Corso Italia è una quantità insostenibile per far ripartire il Paese. E quindi ecco la proposta: il governo italiano si faccia promotore, assieme ad altri Paesi contrari all’austerità di bilancio, di una richiesta alla Bce di mutualizzazione del 20 per cento dei debiti pubblici europei. La Banca europea garantirebbe questa quota e in questo modo la riduzione del debito risulterebbe molto più sopportabile.
BANCA NAZIONALE DI INVESTIMENTO
Accanto ad una Cassa deposito e prestiti che investa realmente e direttamente nel salvataggio delle industrie in crisi (come anticipato da Susanna Camusso a l’Unità in agosto) e che finanzi «progetti di sviluppo ed infrastrutturali», il Piano per il lavoro introduce un nuovo strumento: la Banca nazionale di investimento. Sull’esempio di altri Paesi, si tratta di un fondo a controllo pubblico ma aperto ai privati per finanziare filiere di innovazione e progetti sui beni comuni. Potrà emettere titoli e sarà tutto il contrario di una banca d’affari: perseguirà il bene comune.
PIANO DEL WELFARE
Altro punto molto importante è il piano per un Nuovo Welfare a cui la Cgil dedica fra i 10 e i 15 miliardi. Con le indicazioni sulla sanità già anticipate nel convegno di martedì, il piano punta da un lato ad ammornizzare i livelli essenziali sul territorio: le diseguaglianze, specie fra Nord e Sud, sono intollerabili e rischiano di aprire le porte alle assicurazioni private. Su ospedali, rete sanitaria, asili e servizi alla persona non devono esistere differenze sul territorio.
Diverso il discorso su una necessaria riorganizzazione del sistema welfare. Un forte “No” alla privatizzazione tipica del modello lombardo e un convinto “Sì” ad un Terzo settore, ad un’associazionismo che sul territorio sia conosciuto, stimato e soprattutto accreditato in modo trasparente dalle istituzioni pubbliche. In questo modo, per la Cgil, è possibile anche far diminuire gli sprechi e controllare la spesa pubblica in materia.
«Il mio Di Vittorio»
Il ricordo di Bruno Trentin in una lettera inedita indirizzata alla sorella Franca
di Bruno Trentin (l’Unità, 24.01.2013)
ROMA, 27 NOVEMBRE 1957 MIA FRANCHINA, DOPO UN LUNGO SILENZIO POSSO SCRIVERTI E TRAMITE TE ANCHE A MARIO. Quest’ultimo periodo è stato convulso e sconvolgente, per me. Prima, il Congresso di Lipsia, con tutte le discussioni e le battaglie che ha comportato. Poi una serie di riunioni e di conferenze in Italia compresa la commissione elettorale del partito di cui faccio parte e dove si sono riaper- te vecchie ferite dell’VIII Congresso. (...)
La morte di Di Vittorio ha rappresentato naturalmente il maggiore elemento di sconvolgimento. Ero a Napoli, di ritorno da Palermo, quando si è diffusa la notizia. E puoi immaginare quanto mi abbia colpito.
Tuttora non ho ancora completamente eliminato la sensazione d’angoscia e di dolore che mi ha provocato. Dio sa quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze e quante volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di contadino meridionale. Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e retorica a parte semplicemente di uomo.
Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre «provocatorio», come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni. Qualche volta e in questi ultimi tempi, spesso questa forza diventava meno razionale, ingenua e puramente polemica. Ma anche in questi casi restava come un’esigenza, come un richiamo a un certo linguaggio, fresco e stimolante, come l’affermazione polemica di un metodo che io sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi nessun «sistema», in una società o in un uomo, se non avendo fiducia nell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha giustificato l’esistenza, se non sottolineando l’incapacità di una società o di un uomo a realizzare vittoriosamente «la sua ragione d’essere».
Anche in modo ingenuo, Di Vittorio vedeva nella società capitalistica italiana «la ricchezza che poteva essere prodotta» e che non lo era piuttosto che la «povertà» esistente. Ed era l’idea della «ricchezza» ad entusiasmarlo.
Per questo non poteva essere un fatalista o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva, con accanimento, da autodidatta, essere un uomo del proprio tempo: era stupito dalle macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di automobili. Rispettava come profeti gli scienziati e i medici. Voleva essere sempre «al corrente» delle cose. Temeva con angoscia, come uomo e come Cgil, di venir «escluso», di non svolgere un ruolo riconosciuto nello sviluppo della società contemporanea.
NESSUNO PUÒ SOSTITUIRLO
Era d’altro canto uomo di un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava straziante ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ «populistica» e romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno.
Capisco, ora che è morto, quanto io l’amassi. Purtroppo non c’è nessuno del suo calibro a sostituirlo, i migliori hanno un respiro molto più modesto. Gli ultimi giorni sono stati occupati come puoi immaginare dalle discussioni sulla «successione». Sembra che sia stata adottata la soluzione migliore: quella di sostituire Di Vittorio non con un uomo ma con una nuova segreteria, con un collettivo di uomini nuovi, dopo aver eliminato tutte le «zavorre», tutte le mummie. Se si otterrà questo risultato, avremo fatto un grande passo in avanti.
Di Vittorio e il Piano del lavoro, storia di un sogno mai realizzato
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 12.06.2012)
Il Piano del lavoro lanciato nel 1949 da Giuseppe Di Vittorio, leader della Cgil, era una proposta originale e politicamente accorta, ma condannata in partenza a rimanere sulla carta. Troppo alta era la tensione tra la sinistra egemonizzata dal Pci e la coalizione moderata, nella fase più acuta della Guerra fredda, perché fosse possibile instaurare una collaborazione costruttiva per dare una prospettiva mirata allo sviluppo economico. Il governo, nonostante l’interesse manifestato da alcuni suoi esponenti, lasciò cadere l’iniziativa e anche la dirigenza comunista, Palmiro Togliatti in testa, la interpretò soprattutto in chiave propagandistica.
Il guaio è che anche gli altri tentativi di incentivare e guidare la crescita economica attraverso intese tra governo e parti sociali, esperiti in epoche a più bassa temperatura ideologica, dagli anni Sessanta ai Novanta, si sono risolti in altrettanti insuccessi. Tanto che, nella prefazione al volume Crisi, rinascita, ricostruzione (Donzelli, pp. 125, € 25), che raccoglie, a cura di Silvia Berti, gli atti di un convegno su Di Vittorio e il Piano del lavoro, l’attuale ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca segnala, sulla base di queste esperienze poco incoraggianti, la persistente difficoltà delle classi dirigenti italiane «ad amministrare con un metodo e una prospettiva di medio-lungo termine».
Poco male, si potrebbe pensare. In fondo programmare lo sviluppo è un’ambizione piuttosto intellettualistica, perché la realtà molecolare degli operatori economici sul mercato non si lascia facilmente indirizzare. Specie in un Paese d’individualisti come l’Italia, meglio affidarsi alle dinamiche spontanee, da cui è derivata per molto tempo un’espansione sorprendente, che ha elevato in modo enorme il tenore di vita medio.
Purtroppo però ci si accorge spesso, in particolare nei momenti difficili, che la crescita italiana, peraltro ormai anemica da parecchi anni, poggia su fondamenta alquanto fragili: mancano le infrastrutture, l’energia si paga a caro prezzo, il sistema formativo è scollegato dal mondo del lavoro, i costi dell’imprevidenza (si pensi al rischio sismico) diventano esorbitanti. E il divario tra Nord e Sud tende ad accentuarsi, fino a mettere in discussione l’unità nazionale.
Appare evidente, leggendo i testi del grande sindacalista pugliese riportati in appendice al volume, che Di Vittorio parlava a una società ben distante da quella attuale: si pensi solo che all’epoca gli italiani emigravano in massa, mentre oggi il nostro Paese ospita milioni di lavoratori stranieri. Non si tratta allora di attribuire al leader della Cgil doti profetiche che non aveva, ma di capire se il problema di fondo posto dal Piano del lavoro, l’opportunità di un intervento pubblico volto a correggere gli squilibri socio-economici, sia tuttora rilevante. A occhio e croce, parrebbe di sì. Ma servono idee nuove e poche se ne vedono in giro.
Il vocabolario di Peppino
Giuseppe Di Vittorio e il valore della conoscenza
di VINCENZO MORETTI *
Tempo di esami. E di vocabolari. Che in questo periodo diventano compagni inseparabili degli studenti che studiano, hanno la testa al proprio posto, cioè sul collo, e sperano di portare a casa il diploma.
Il momento insomma è di quelli giusti per parlarvi di una persona davvero particolare e del suo particolare rapporto con il vocabolario.
La persona in questione è Giuseppe Di Vittorio, del quale si celebra quest’anno il cinquantenario della morte.
Nato a Cerignola da una famiglia poverissima, costretto dalla morte del padre ad abbandonare giovanissimo la scuola e a lavorare nei campi come bracciante, Peppino conosce assai presto le ragioni dell’impegno a favore dei più deboli e ad essi dedica la sua vita, sempre dalla parte del lavoro (l’affermazione del valore sociale e culturale del lavoro è stata l’idea-guida che ha ispirato la sua azione) e dei lavoratori.
Tra i suoi atti principali come leader della CGIL vanno ricordati il Piano del Lavoro, presentato al Congresso di Genova del 1949, e la proposta di uno Statuto dei diritti dei lavoratori, lanciata al Congresso di Napoli del 1952.
Ma che c’entra tutto questo con il vocabolario?
C’entra. Perché Peppino diventa grande da molti punti di vista, dirige decine di migliaia di operai e braccianti, scrive lettere e corrispondenze per i giornali e ancora non sa dell’esistenza del vocabolario.
Come egli stesso raccontava, l’ignoranza gli costa tanta fatica, lo costringe a sfogliare giornali e libri per ore nella speranza di trovare la parola che intende scrivere per poterla usare senza commettere errori.
La scoperta, come racconta Felice Chilanti nella biografia pubblicata a puntate nel 1953 su Lavoro, settimanale della CGIL e ripubblicata su Rassegna.it in occasione del centenario della confederazione, avviene un giorno a Barletta, lungo il bel viale della stazione. "Di Vittorio vide una bancarella di libri e cominciò a chiedere i prezzi, a scorrere gli indici, a calcolare le sue possibilità. In un angolo del banchetto vi era un grosso volume che Di Vittorio cominciò a sfogliare: era un libro vecchio, molto usato e anche sudicio. Scorrendo le pagine scoprì che conteneva lungi elenchi di parole e che accanto ad ogni parola era indicato il significato. [...] Era il libro che da tanto tempo cercava, lesse sulla copertina la nuova parola: vocabolario. Chiese al venditore il prezzo [...]: lire 3,75. Fu un grave colpo per lui: non aveva in tasca che una lira e settantacinque centesimi, e con estrema amarezza confidò la cosa al libraio. «Datemi almeno due lire e cinquanta» disse questi. Ma Di Vittorio non possedeva neppure un soldo di più. E già se ne stava andando amareggiato quando il libraio lo richiamò: «Nemmeno due lire volete darmi?». «Se volete vi dò la giacca, ma in tasca ho soltanto una lira e settantacinque».
Come avrete già immaginato, il libraio diede il vocabolario a Peppino, che passò la notte a sfogliarlo pagina dopo pagina. Ma la storia non finisce qui. Perché Di Vittorio il giorno dopo cominciò a segnare su un block notes tutte le parole sconosciute, udite negli incontri casuali, in treno, lette in un giornale o in un libro. «Ricordo ancora alcune di quelle parole - racconta egli stesso a Chilanti - come ad esempio idraulica, bigamia. Quando tornavo a casa ne apprendevo il significato sul vocabolario e lo trascrivevo con parole mie sul notes. Questo metodo mi aiutava molto. Con un metodo di poco diverso, molti anni dopo ho imparato il francese».
Incredibile? Semplicemente vero.
E a voi? Vi va di raccontare la vostra voglia di imparare?
Il sito della Fondazione Giuseppe Di Vittorio
La vita di Giuseppe Di Vittorio
di Felice Chilanti *
L’idea di scrivere una vita di Giuseppe Di Vittorio non ha una paternità facilmente identificabile. Tutti gli scrittori e i giornalisti democratici hanno posto quest’idea nei loro piani di lavoro; tutti si propongono da tempo di porvi mano. La personalità di Di Vittorio si è imposta all’attenzione di tutti gli italiani soprattutto in questi ultimi anni, e il solo fatto di sapere che l’uomo che ha raggiunto un così elevato posto nel mondo e che assomma nella sua persona una così alta responsabilità era in gioventù un bracciante pugliese suscita interesse e curiosità in un pubblico assai vasto e non solo a sinistra.
E’ toccata a me la fortuna di poter tracciare un primo schema di biografia di questo uomo eccezionale proprio nei giorni in cui i lavoratori italiani festeggiano il suo sessantesimo compleanno.
Devo dire che non è stato facile raccogliere il materiale, soprattutto quella parte che necessariamente ho dovuto trarre dalla voce viva di Giuseppe Di Vittorio. E la difficoltà principale era questa: chiedere a Di Vittorio di dedicare una parte della sua giornata a un biografo era impresa imbarazzante. Un uomo che lavora dalle dieci alle quattordici ore al giorno, che esce dalla Cgil come minimo alle dieci di sera, non può accogliere quella richiesta col sorriso sulle labbra. Sono entrato nel suo ufficio, alla Cgil, la prima sera, verso le ore 21, dopo una lunga serie di appuntamenti rimandati che avevano addirittura messo in imbarazzo la sua segretaria. Erano i giorni in cui il segretario generale della Cgil, intervenendo alla Camera sul bilancio della Difesa, difendeva il pane di 1.300 operai minacciati di licenziamento dal ministro Pacciardi. Non era possibile insistere, non era possibile protestare; non si poteva pretendere che Di Vittorio abbandonasse l’aula di Montecitorio per concedere al modesto biografo che io sono un tempo sì prezioso. E del resto la richiesta sarebbe caduta nel vuoto. Quella sera veniva appunto dalla Camera, dove aveva pronunciato il suo discorso. Sono entrato nel suo ufficio con la complicità di un cortese segretario e vi ho trovato i segretari Bitossi e Lama. Di Vittorio riferiva ai suoi collaboratori sul discorso: «Mi hanno ascoltato con molta attenzione e non hanno avuto il coraggio di interrompermi» diceva. Gli dissi che intendevo scrivere una sua breve biografia: la mia richiesta cadde quasi nell’indifferenza, in un primo momento. Poi, come conversando, Di Vittorio cominciò a ricordare episodi della sua infanzia. Mi accorsi allora che la sua memoria aveva qualità eccezionali: una memoria profonda e forte, lucida fino al dettaglio.
E fu una prima occasione fortunata.
La sera successiva tornai inutilmente a cercarlo: i giornali annunciavano uno sciopero nazionale dei ferrotranvieri; mi portai dalla sede confederale al Parlamento ma nemmeno lì potei incontrare Di Vittorio. Venne più tardi ed era di ottimo umore. Aveva appena avuto un colloquio col ministro Scelba sulla questione dello sciopero e aveva strappato l’assicurazione di un intervento efficace per una buona soluzione.
«Bisogna fare il possibile per evitare questo sciopero, per ottenere giustizia ai tranvieri senza ricorrere a questa forma estrema di lotta - disse -. I muratori, gli operai tutti, gli impiegati sarebbero costretti a recarsi a piedi al lavoro con grande disagio». Diceva queste cose con semplicità. Pensavo a coloro che gridano contro gli agitatori, contro i cosiddetti fomentatori di scioperi. E considerando che decisioni così importanti, aventi ripercussioni vaste nella vita del paese, dipendevano in così grande misura dall’uomo che la sera prima ci aveva raccontato la vita di un bimbo, figlio di braccianti, costretto a lavorare a sette anni di età nel latifondo pugliese, non potevo sottrarmi a una vera e propria emozione.
Con grande soddisfazione ho potuto osservare che ora Di Vittorio riandava volentieri con la memoria al passato e volentieri rispondeva alle nostre domande.
Ma la sera successiva ecco la questione di una grande industria del Nord che poteva riaprire i battenti dopo una lunga chiusura, e la sera dopo ecco sul tavolo di Di Vittorio l’accordo per i minatori di Cabernardi e così di seguito. Per una settimana intera ci siamo trovati ad ascoltare i ricordi della vita di un uomo posto oggi al centro della storia politica del nostro paese; un uomo chiamato dalla fiducia di milioni e milioni di operai e braccianti, impiegati e contadini a decidere questioni riguardanti ognuna vasti settori della vita nazionale: fabbriche, miniere, porti, la quotidiana esistenza di migliaia di famiglie italiane.
La nostra breve biografia è dunque nata così: da sei colloqui con Di Vittorio, ottenuti a tarda sera, nei ritagli di tempo, alla Cgil o durante il tragitto, in automobile, tra la sede confederale, il Parlamento, un ministero.
Molti furono i momenti di commozione profonda nel corso di questo lavoro e voglio ricordarne due; due episodi, cioè, rievocando i quali vedemmo dipingersi nello sguardo e nel volto di Di Vittorio una commozione incontenibile.
Il primo episodio si riferisce a un tempo remoto, quando Giuseppe Di Vittorio, ragazzo di otto o nove anni, fu costretto a interrompere il lavoro perché ammalato di malaria. Le febbri, altissime, durarono più settimane. E il ragazzo era il solo sostegno della sua famiglia poiché il babbo era già morto da un paio di anni. Venuto a mancare il magro salario nella sua casa, dove viveva insieme con la mamma e la sorellina, qualche volta mancava il pane. Durante la convalescenza e quando ancora non si reggeva bene in piedi si recava ogni giorno sulla piazza del paese dove altri disoccupati aspettavano che qualcuno venisse a chiamarli al lavoro. «Ogni sera - raccontò Di Vittorio - la mamma attendeva il mio ritorno dalla piazza, seduta alla soglia della misera casa: quando mi vedeva giungere accigliato capiva che il giorno seguente non avrei guadagnato il salario e allora entrava nel tugurio a piangere».
Il secondo episodio riguarda invece un’epoca vicina: l’anno 1941, quando Di Vittorio, arrestato in Francia dai tedeschi, fu «tradotto» con un lungo viaggio attraverso le prigioni di tutta Europa, nel carcere di Lucera. In quella prigione egli era stato chiuso più volte in gioventù, ma ora intorno alla sua persona i carcerieri avevano tentato di fare il vuoto. Pur comportandosi con lui con grande deferenza, lo avevano sottoposto, per ordini superiori, al regime di sorveglianza.
Così il detenuto Di Vittorio veniva condotto ogni mattina all’aria, nel cortile, tutto solo. Incontrava soltanto un gruppo di ragazzi del carcere minorile nel breve tragitto tra la prigione e il cortile.
E tutte le mattine quei ragazzi, che sapevano trattarsi dell’onorevole Giuseppe Di Vittorio, al suo passaggio si mettevano in fila e gli facevano il saluto romano. Di Vittorio, che era assente dall’Italia da molti anni, credeva che i bimbi traviati a causa della miseria dei loro genitori irridessero alla sua persona e intendessero schernirlo.
Una mattina però i piccoli detenuti gli fecero avere un messaggio, un foglietto di carta legato a un sassolino che lanciarono oltre il muro dove Di Vittorio si trovava al passaggio. E il messaggio diceva: «Noi non vi conosciamo ma i nostri padri ci hanno parlato di Voi. Noi siamo detenuti per reati comuni ma il babbo ci ha detto che siamo qui in prigione proprio perché anche Voi siete in prigione». Questo era il significato di quel prezioso documento. Salutavano Di Vittorio romanamente perché conoscevano soltanto quel saluto. «Valeva la pena di aver lottato e sofferto in carcere, all’esilio, in carcere ancora, col pericolo della stessa vita per avere, alla fine, questo premio», disse Di Vittorio quella sera.
(Continua)
* www.rassegna.it, 21 giugno 2006 - per proseguire nella lettura, clicca sul rosso.