Science: diverso sia dall’uomo di Neanderthal che dall’Homo Sapiens, lo rivelano le ossa del polso
La scoperta mette fine a un’annosa disputa: per alcuni scienziati era solo un nostro antenato più piccolo
Svelato il "mistero" dell’hobbit
"Quell’ominide? Una nuova specie" *
WASHINGTON - E’ stata una delle scoperte recenti più affascinanti e discusse della storia dell’antropologia, che ha diviso la comunità scientifica. Ora la saga dell’Hobbit - così venne soprannominato il misterioso ominide i cui minuti resti furono rinvenuti sull’isola di Flores, in Indonesia, nel 2003 - si arricchisce di una nuova puntata che potrebbe chiarirne una volta per tutte il segreto.
Si tratta davvero di una nuova specie di ominide - nano e dal cervello piccolissimo - come sostengono i suoi scopritori o era solo un individuo di taglia più piccola, affetto da microcefalia, malformazione che aveva portato il suo cervello a restringersi - come invece controbatte il partito opposto fra gli scienziati? Ora, in un lavoro pubblicato su Science questa settimana, un gruppo di ricerca internazionale coordinato da Matthew Tocheri, del dipartimento di Antropologia del museo nazionale di storia naturale dell’Istituto Smithsonian di Washington dà nuova forza alla teoria secondo la quale l’Hobbit testimonia una specie finora sconosciuta.
Gli scienziati hanno analizzato le ossa del polso fra i fossili scoperti originariamente nel 2003 nella grotta di Liang Bua, sull’isola di Flores in Indonesia, che finora non erano state studiate in dettaglio. E sostengono che in base all’analisi morfologica di alcuni frammenti si può stabilire che l’Hobbit apparteneva ad una specie simile ad altri ominidi finora scoperti in Africa, ma molto diversa sia dall’uomo di Neanderthal che dall’Homo Sapiens.
L’Homo floresiensis, così lo hanno chiamato i ricercatori dal nome dell’isola, risale all’ultimo Pleistocene. Niente anomalie fisiche o difetti di crescita, quindi, ma una specie a sè. Si chiude così - almeno per il momento - il dibattito: l’Homo floresiensis discenderebbe, quindi, da un ominide diffusosi prima dell’Homo Sapiens, di quello di Neanderthal e dei loro più comuni progenitori.
* la Repubblica, 21 settembre 2007.
Noi, umani, e le storie che raccontiamo
Un’intervista a Frank Westerman sul racconto dell’evoluzione umana, a partire dai resti di Homo floresiensis, protagonisti del suo ultimo reportage.
di Luigi Guarnieri siciliano, vive a Berlino - nato nel 1995, laureato in filosofia, si interessa di letteratura, scienza, linguistica. *
La storia scientifica delle ricerche sull’evoluzione umana è costellata di scoperte spiazzanti, di litigi e ripensamenti. Ogni bravo scienziato deve sapersi esporre all’ignoto, è vero, ma nel campo della biologia evolutiva e della paleoantropologia, la scienza delle nostre origini, sembra esserci qualche azzardo in più. D’altra parte si tratta di una disciplina che per forza di cose si basa, molto più di altre, sulla prudenza, sull’incertezza, sui dubbi, le supposizioni e l’intuito dei ricercatori, oltre che sul confronto con le altre scienze. In Noi, umani (Iperborea, traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo) Frank Westerman racconta alcune di queste storie: trionfi e dissidi di una manciata paleoantropologi attorno a un mucchio di ossa.
Nell’ottobre del 2004, sulle pagine di Nature compare un articolo sorprendente: riferisce del ritrovamento dei resti di un piccolissimo essere umanoide il cui scheletro è stato rinvenuto qualche mese prima, in mezzo a resti animali e manufatti in pietra, in una grotta immersa nella vegetazione tropicale a Flores, un’isola a metà strada tra Indonesia e Australia. Si tratta di un individuo di sesso femminile, corporatura minuta, circa un metro, e cervello piccolo, molto più piccolo di quello di qualsiasi altro resto con cui si prova a confrontarlo. Non c’è nulla di simile nella documentazione fossile umana, scrivono i ricercatori. Un’altra cosa sorprendente è la datazione: i resti avrebbero solo 18.000 anni, un’età che in termini paleoantropologici è un battito d’ali. Fino a quel momento eravamo convinti che 18.000 anni fa non ci fosse ormai altro che noi, Homo sapiens, che fossimo noi gli unici rappresentanti della nostra famiglia. Questi resti, invece, non sembrano poter appartenere a un esemplare di Homo sapiens. Sbagliavamo, allora? Abbiamo convissuto, molto a lungo di quello che pensassimo, accanto a altri ominidi, altri rami della nostra stessa evoluzione?
Lo scheletro viene chiamato amichevolmente Flo o, più scientificamente, LB1, dalla grotta in cui viene ritrovato, in località Liang Bua. Passano i mesi e si scopre che Flo non è sola: ci sono altri resti, lì nei dintorni. E anche la datazione cambia, ora oscilla ora tra 10.000 e 100.000, che sembra tanto ma rimane comunque poco, almeno per i paleoantropologi: Homo neanderthalensis, l’altro ominide con cui sappiamo aver diviso la Terra, è vissuto tra i 200.000 e i 40.000 anni fa. Homo sapiens è comparso circa 300.000 anni fa. (Sono tutte date, come si sarà capito, da prendere con il beneficio del dubbio). Grazie anche a questi nuovi ritrovamenti, che infittiscono il mistero piuttosto che risolverlo, l’interesse mediatico esplode, e la storia di Flo viene raccontata ovunque, su giornali e riviste, a volte con approssimazioni e sensazionalismi. Forse anche in reazione a tutta questa visibilità, considerata eccessiva, nella comunità scientifica nasce la perplessità di una fazione di studiosi. Una frangia di scienziati in particolare cerca di smentire alcune delle conclusioni, o delle supposizioni, che sono state ormai tracciate attorno alla storia e l’origine di Flo. Quello scheletro è un membro della nostra specie, dicono gli scettici: le stranezze si spiegano in altro modo, forse siamo davanti a un esemplare (o a diversi esemplari) di pigmei, e si può ipotizzare che fossero anche affetti da qualche patologia che ha bloccato la loro crescita. Ma comunque Flo è Homo sapiens.
Nel frattempo però l’equipe internazionale che ha trovato i resti lancia il cuore oltre l’ostacolo: ci sono troppe cose fuori dalla norma, non si può trattare di umani moderni, siamo davvero di fronte a una nuova specie, una specie sconosciuta e ormai estinta, affetta da nanismo insulare: Homo floresiensis. Nasce così una battaglia di ricerche e contro-ricerche, paper, ipotesi azzardate, smentite e accuse (mentre scrivo questo articolo, per esempio, è tornata in voga l’idea, fantastica e ancora poco solida, che esemplari di Homo floresiensis possano essere ancora in vita, nascosti in qualche anfratto di qualche altra isola). Per la cronaca, oggi l’interpretazione più corretta dei resti sembra quella fornita dagli scienziati che hanno fatto la scoperta.
Westerman trasforma questa storia scientifica in una storia poliziesca, o meglio nell’anatomia di una storia poliziesca: perché il libro, con una scelta quantomeno insolita, gira attorno a una lezione che lo stesso Westerman dà all’università di Leida, durante il suo corso di reportage, in cui racconta proprio le vicende di Flo e il suo viaggio per ricostruirle. Il lettore segue quindi la lezione, i dubbi degli studenti, le risposte del professore. Lo storytelling di una lezione di storytelling. La scrittura è quella ormai tipica dei libri di Westerman: tanti capitoli che come in un bulbo di cipolla tornano ogni volta indietro aggiungendo uno strato, cercando di mettere sempre più a fuoco alcune domande fondamentali. In questo caso: come cambia la percezione che abbiamo di noi stessi quando impariamo qualche dettaglio in più sulle nostre origini?
I resti di Homo floresiensis sono stati descritti, in questi anni, in molti modi diversi, modi che spesso rivelano il pregiudizio dello sguardo di chi raccontava quel cumulo di ossa. Flo è stata raccontata come un pigmeo, un nano, un ominide che soffriva di microcefalia, un nuovo antenato di Homo sapiens mai scoperto prima, un nuovo tipo di Homo erectus. A partire da qui Westerman accumula storie, aneddoti e suggestioni.
A partire dai temi del libro, ho fatto qualche domanda a Frank Westerman sugli intrecci tra scienza e narrazione. Lo scrittore e giornalista nei prossimi giorni sarà in Italia, ospite, a Milano, di “I Boreali”, festival italiano interamente dedicato alla cultura del Nord Europa, ideato e organizzato da Iperborea.
Perché Flo è fantastica. Un metro di altezza, piedi grandi e piatti. Testa delle dimensioni di un pompelmo, eppure abbastanza intelligente da poter accendere il fuoco. Cosa ancora più importante: non c’è, apparentemente, alcun ramo che leghi quei resti all’albero genealogico dell’umanità. “Se tutti gli ominidi finora conosciuti appartenevano al genere frutti, [Homo floresiensis] era una palla di Natale”, scrivo nel libro. Ha sradicato l’idea di chi pensiamo di essere: non mi serviva nient’altro per dare il via alla mia “storia poliziesca”.
Condivido la loro sete di conoscenza, e ho anch’io una formazione da scienziato (come agronomo). In più, in questo caso, se vedo degli esperti che si sporgono su questi resti di ossa antiche e si chiedono Cos’è che ci rende umani?, mi viene naturale cercare almeno parte della risposta proprio nella gelosia, nell’invidia, nella lotta reciproca e persino nell’odio che loro stessi mostrano quando si mettono a litigare per delle ossa. Mi sembra un comportamento decisamente rivelatore.
La scienza è fantastica, ma è condotta dagli scienziati, con le loro carenze umane, la loro fallibilità. Nello studio di chi siamo, l’oggettività è la prima vittima, quasi inevitabilmente.
Non nelle società aperte, nelle democrazie. Gli stati dittatoriali possono facilmente allevare e produrre pseudoscienziati in stile Lysenko dal momento che sono affamati di supporto ideologico, che lo ricerchino nella biologia o nella storia. Molti storici rinomati nutrono autocrati nazionalisti, disposti a stravolgere e distorcere il passato, è una cosa che ho visto fare sia a Belgrado (dove vivevo e lavoravo come corrispondente) che a Mosca (idem, e lì ho assistito all’ascesa di Vladimir Putin al Cremlino, al modo in cui è passato sopra ai cadaveri dei ceceni coprendosi di giustificazioni “storiche”).
È che il numero di scienziati della “vecchia scuola” sta diminuendo sempre più rapidamente. Il pericolo allora è che il pendolo oscilli completamente all’altro estremo, al lato “postmoderno”, con il suo disprezzo dei fatti chiari e semplici. Ai miei studenti, mentre raccontavo le vicende di Homo floresiensis, ho dovuto dire: “Aspettate un attimo, fermatevi. Non tutto è astratto. Stiamo parlando di teschi che potete toccare. Sono lì, sul tavolo, e vi stanno fissando con le loro orbite vuote”.
Traccio proprio questo parallelo. Come le specie (in natura), anche le storie evolvono (nella cultura). Si riproducono per essere raccontate, ristampate. Nel frattempo, mutano. Sussurra una storia all’orecchio di qualcuno, lascia che passi da orecchio a orecchio e ascolta il modo in cui quella storia viene raccontata dall’ultima persona della catena: è un gioco che si fa a scuola, è divertente ma anche molto rivelatore. La cosa spaventosa, da questo punto di vista, è che le storie più forti (più sensazionali) hanno un vantaggio evolutivo nella lotta per la sopravvivenza, rispetto rispetto a quelle sfumate ed equilibrate.
Oh sì. Diamo ai nostri bambini cibo, riparo, vestiti... e una favola della buonanotte. Non puoi fare a meno di quest’ultima cosa. Siamo stati e siamo tutti nutriti di favole e fiabe. Storie che parlano del bene e del male. E abbiamo bisogno di queste storie per navigare nella società, per sopravvivere nella giungla culturale. La maggior parte delle persone preferisce la finzione ai fatti.
Saper cucinare.
Interessante. Ho parlato di queste cose di recente con la preside della mia università (a Wageningen). Lei sottolineava proprio l’importanza dell’uso del fuoco, della cottura dei cibi. Perché se non fossimo riusciti ad affidare gran parte della digestione ai fornelli e alle fornaci, oggi masticheremmo ancora cibi crudi per la maggior parte della giornata, e avremmo poco tempo per scrivere in prosa, per esempio. Mi piace l’idea che noi esseri umani creiamo sempre più “protesi”: non solo occhiali e bastoni da passeggio, ma tutti gli oggetti che ci aiutano a diventare bravi in cose in cui siamo poco portati (creiamo archivi - prima cartacei ora digitali - per ampliare la nostra memoria, aeroplani per poter volare, e così via). Mia figlia ora studia intelligenza artificiale. Credo che se ci sarà un nuovo salto nell’evoluzione umana, inizierà da lì.
Ricostruite le origini dell’Hobbit
Sono africane, era parente dell’Homo habilis
di Redazione *
Ricostruite le origini dell’hobbit, ossia dell’Homo floresiensis, vissuto nell’isola indonesiana di Flores e chiamato così per la sua piccole statura. Le ultime analisi dimostrano che era una specie sorella dell’antichissimo Homo habilis, vissuto in Africa 1,75 milioni di anni fa. Pubblicata sul Journal of Human Evolution, la scoperta si deve al gruppo coordinato da Debbie Argue, dell’università Nazionale Australiana.
Finora si pensava che l’Homo floresiensis, vissuto su Flores fino a 54.000 anni fa, si fosse evoluto dall’Homo erectus, l’unico altro ominide noto nella regione. Grazie alla più completa analisi dei resti scoperti nel 2003 l’ipotesi è stata smentita. L’analisi infatti indica che l’hobbit era probabilmente una specie sorella dell’Homo habilis, uno dei primi ominidi, vissuto in Africa 1,75 milioni di anni fa. ’’Le analisi mostrano che sull’albero di famiglia, l’Homo floresiensis era probabilmente una specie sorella dell’Homo habilis’’ ha detto Argue. Questo significa, ha aggiunto, ’’che le due specie avevano un antenato in comune’’. Sono possibili due scenari, ha proseguito, che ’’l’Homo floresiensis si sia evoluto in Africa e poi sia emigrato, oppure l’antenato comune si sia spostato dall’Africa e solo dopo si sia evoluto nell’Homo floresiensis’’.
Molte caratteristiche, tra cui la struttura della mascella, indicano che l’hobbit sia più primitivo dell’Homo erectus. Una caratteristica primitiva come la regressione della mandibola smentirebbe infatti questa ipotesi, ha rilevato Argue. Anche per Mike Lee, dell’università australiana di Flinders e del Museo australiano del sud, le analisi mostrano che l’Homo floresiensis occupa una posizione molto primitiva nell’albero evolutivo dell’uomo e che c’è un chiaro rapporto di parentela tra Homo habilis e Homo floresiensis. ’’Possiamo essere sicuri al 99% - ha osservato - che non sia legato all’Homo erectus e sicuri quasi al 100% che non sia un Homo sapiens malato’’, ossia con un difetto di crescita.
* ANSA 22 aprile 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
Dall’homo erectus agli Hobbit: quando l’evoluzione torna indietro
Scoperte Nella storia dell’homo floresiensis rinvenuto in Indonesia restava un mistero: chi erano i suoi antenati? Una campagna di scavi ha individuato un fenomeno, non nuovo in natura, di «regressione», avvenuto in 300 mila anni: il passaggio da figure alte 170 centimetri e dotate di un cervello di 9 etti a figure alte meno di un metro con un cervello di 4 etti
di Claudio Tuniz (Corriere della Sera, La Lettura, 26.06.2016)
Recentemente è tornato alla ribalta Hobbit, lo gnomo dell’età glaciale i cui resti ossei, appartenenti a diversi individui, furono scoperti dodici anni fa dall’archeologo australiano Mike Morwood, dopo avere scavato una fossa di 9 metri nella caverna di Liang Bua nell’isola di Flores, in Indonesia. Si trattava di una nuova specie umana, con caratteristiche sorprendenti, cui fu dato il nome di Homo floresiensis.
Mike era un vecchio amico e m’invitò a Giacarta per toccare l’Hobbit con le mie mani e a Liang Bua per vedere dove l’ominide aveva vissuto durante l’era glaciale. Io lo invitai a mia volta a Trieste per presentare la nuova «creatura» alla nostra comunità scientifica. Nei primi anni Novanta avevo aiutato Morwood a datare con il radiocarbonio le meravigliose pitture rupestri del Kimberley, in Australia, paragonabili per bellezza a quelle di Lascaux e di Chauvet in Francia.
Nel corso di quel progetto avevamo anche pubblicato insieme un articolo su «Nature», nel quale deducevamo l’antichità delle pitture datando i nidi che certi tipi di vespa ci avevano costruito sopra. In seguito Mike ampliò le sue ricerche cercando l’arrivo di noi sapiens nelle isole indonesiane, per ricostruire la traiettoria della nostra dispersione dall’Africa verso l’Australia, e per studiare il nostro possibile incontro con Homo erectus (l’Uomo di Giava).
Nel 1998 egli trovò strumenti litici nel centro di Flores, risalenti a 850 mila anni fa. Furono subito attribuiti a H. erectus , l’unico umano che a quei tempi aveva sicuramente popolato quella regione. Altri reperti simili, risalenti a un milione di anni fa, furono trovati dai suoi collaboratori nella stessa area ma non apparve nessun resto umano che potesse essere a loro collegato.
Si trattava di strane scoperte perché l’isola di Flores si trova oltre la linea di Wallace, ovvero al di là di quella fossa oceanica che anche durante l’era glaciale (quando il mare era 100 metri più basso di quello attuale) separava la fauna di tutte le isole più a oriente (inclusa l’Australia) da quella del sudest asiatico. Fu sapiens , armato di pensiero simbolico, la prima specie umana a navigare e attraversare quella barriera. Tuttavia, anche se Mike non trovò a Flores i resti umani che cercava, né di sapiens né di erectus , si imbatté nei resti della nuova specie di cui abbiamo detto, raggiungendo così la notorietà.
L’occasione per portare finalmente Mike in Italia arrivò con una conferenza internazionale sull’uso della fisica in archeologia, tenutasi presso l’International centre for theoretical physics (Ictp) di Trieste nel 2006. Gli scienziati che vi parteciparono, in compagnia di qualche archeologo e paleoantropologo, pensavano forse di assistere a uno spettacolo fantasy. Sullo schermo della prestigiosa aula Budinich, dove Paul Dirac faceva lezioni di fisica teorica e Abdus Salam presentò la sua teoria dell’unificazione delle forze, passavano immagini di gnomi con un cervello minuscolo che usavano strumenti di pietra per cacciare elefanti nani, topi giganteschi e dragoni di Komodo. Mike sosteneva che gli Hobbit si erano evoluti da Homo erectus , ma andava dimostrato. Si sarebbe trattato di un noto fenomeno evolutivo: dove le risorse sono più scarse (come su una piccola isola) la selezione naturale favorisce un processo di rimpicciolimento. Questo fenomeno ci fa trovare resti fossili di elefanti nani in Sicilia e di piccolissimi mammut in Sardegna.
Sfortunatamente Mike ci lasciò nel 2013, prima di poter provare le sue idee, ma le ricerche da lui iniziate sono continuate. Alcuni mesi fa si è dimostrato che gli Hobbit si estinsero 50 mila anni fa, in coincidenza con l’arrivo di noi sapiens sulla loro piccola isola («la Lettura», 10 aprile 2016). Ma restava un mistero: chi erano gli antenati di H. floresiensis e da dove venivano? Sembra ora che l’archeologo australiano avesse proprio ragione.
In un articolo pubblicato tre settimane fa su «Nature», in cui Morwood è giustamente incluso nella lista degli autori, si parla di quanto appena trovato nel sito di Mata Menge, a circa 70 chilometri da dove era stato trovato il primo Hobbit. Sotto alcuni metri di argilla e materiale vulcanico sono stati rinvenuti un frammento di mandibola e sei denti che appartengono ad almeno tre piccoli esseri umani, molto simili a quelli di Liang Bua.
La cosa interessante è che essi risalgono a 700 mila anni fa. Secondo i ricercatori australiani, giapponesi e indonesiani che hanno condotto la ricerca, il ritrovamento conferma che H. floresiensis fosse proprio un prodotto del cosiddetto «nanismo insulare». Gli strumenti litici di un milione di anni fa, scoperti da Morwood e collaboratori nel centro di Flores, appartenevano a degli erectus che potevano essere finiti sulle spiagge di Flores aggrappati a tronchi d’albero sull’onda di uno tsunami, fenomeno non raro in quella parte del mondo.
La trasformazione evolutiva da umani del tipo erectus , alti un metro e settanta e con un cervello di nove etti, a piccoli gnomi, alti meno di un metro con un cervello di quattro etti o poco più, avvenne quindi in tempi relativamente rapidi: 300 mila anni, un fenomeno non nuovo in natura. Circa 100 mila anni fa, nell’isola di Jersey esisteva un cervo le cui dimensioni si ridussero, in soli 6 mila anni, a un sesto di quelle originarie dei suoi antenati comparsi sull’isola.
Ci si chiede quali altri esperimenti evolutivi riguardanti la specie umana siano avvenuti nel laboratorio delle migliaia di isole dell’arcipelago indonesiano nel passato, quando cambiavano rapidamente sia il clima che la biogeografia. Non è detto, infatti, che la storia umana possa essere raccontata tutta in base ai reperti rinvenuti in Africa. L’idea che vi sia stato un progresso lineare, capace di trasformarci da scimmie bipedi in uomini dotati di strumenti litici e poi in umani moderni, dotati di pensiero simbolico, può essere fuorviante o comunque ammettere numerose eccezioni.
I resti umani di Flores suggeriscono che non esiste una direzione evolutiva preordinata, legata alla crescita del corpo e del cervello, per descrivere la nostra storia, e che anche per gli umani ci può essere un «rovesciamento evolutivo», rispetto a quello dominante, che ammette varianti inattese e contribuisce alla biodiversità.
L’evoluzione dell’uomo L’«homo» che soppianterà Lucy
L’importante scoperta di Rising Star, Sudafrica, di uno scheletro di maschio adulto della nuova specie «naledi» apre una serie di interrogativi. Eccoli
di Guido Barbujani (Il Sole-24 Ore, Domenica, 13.09.2015)
Su un punto sono tutti d’accordo: la scoperta di un’enorme quantità di resti fossili nelle grotte di Rising Star in Sudafrica cambierà profondamente la nostra comprensione della storia dell’umanità. Su come esattamente cambierà, questa comprensione, i pareri sono vaghi o discordi, e lo resteranno ancora per un pezzo.
I fatti sono noti, ma vale la pena di riassumerli. Rising Star è un complesso di grotte vicino a Johannesburg, in una regione così ricca di fossili umani da essere battezzata dall’Unesco Culla dell’umanità, nientemeno. Nella camera di Dinaledi, trenta metri sotto la superficie, fra l’ottobre 2013 e l’aprile dell’anno seguente, i paleontologi (tutti paleontologi smilzi: l’accesso alla camera è strettissimo) hanno ritrovato 1724 resti ossei; ne rimangono sicuramente da scavare molti altri, forse moltissimi.
L’esplorazione della camera di Dinaledi è stata seguita fin dall’inizio con grande attenzione sui social media e raccontata passo passo dal National Geographic, che ha finanziato gli scavi insieme all’Università di Witwatersrand. Una sessantina di ricercatori, coordinati da Lee Berger, hanno rimesso insieme i pezzi, attribuendo le ossa a quindici individui: adulti, adolescenti e bambini. Questa settimana hanno pubblicato il loro lavoro sulla rivista eLife, proponendo che i resti appartengano a una nuova specie del genere Homo, Homo naledi.
Genere Homo: si tratta quindi di una specie umana finora sconosciuta, e su questo c’è poco da discutere. Di certi ominidi possediamo solo frammenti del cranio, da cui è ovviamente difficilissimo capire se si tratti di specie a parte, o magari di individui un po’ strani appartenenti a specie già note. Qui, tutto il contrario: abbiamo lo scheletro quasi completo di un maschio adulto, DH-1 (ricordiamoci questo nome, si appresta a offuscare la fama dell’australopiteca Lucy). Ma soprattutto, fra DH-1 e gli altri quattordici individui è stato riportato alla luce tutto ciò che conta: cranio e bacino; una mano e un piede praticamente intatti; femori, tibie e tanti denti.
Una quantità di dati impressionante, su cui si lavorerà per anni: Lee Berger ha dichiarato che Homo naledi è la forma umana estinta di cui sappiamo di più, e non è una sbruffonata. Intanto, queste ossa ci permettono già di dire che Homo naledi aveva la statura e la forma corporea di un piccolo umano attuale, diciamo di un pigmeo magro, ma un volume cranico di appena 500 centimetri cubi. Come fosse il suo cervello non lo sa nessuno, ma era grande come quello di un piccolo scimpanzé, cioè poco più di un terzo dei cervelli moderni.
Siamo insomma alle prese con una strana creatura: un prodotto dell’evoluzione che ci spiazza, perché la forma generale del suo corpo ricorda molto la nostra, ma il suo cranio no; una creatura i cui molari sono piccoli e con cinque cuspidi, come i nostri, ma i cui premolari hanno radici molto primitive; con una mano che ricorda la nostra, ma le cui falangi sono curve come quelle delle scimmie che vivono sugli alberi; con gambe che in alto ricordano quelle degli australopiteci, però sembrano sempre più moderne man mano che si va giù, e terminano con un piede quasi come il nostro. «Se trovavamo solo il piede, avremmo detto che era di qualcuno morto di recente» ha dichiarato a National Geographic Steve Churchill, paleontologo americano. Insomma, Homo naledi sembra un bizzarro mosaico: ha qualcosa in comune con gli australopiteci, qualcosa con altre specie di Homo, e altre caratteristiche mai viste prima in nessuna specie ominide.
Era davvero umano? Non so se si possa rispondere, dipende da cosa vuol dire umano. Darwin pensava che fossimo diventati umani nel momento in cui siamo passati alla stazione eretta, il nostro cranio si è espanso e abbiamo cominciato a produrre strumenti per mezzo di altri strumenti. Bipedalismo, encefalizzazione, abilità di progettare attrezzi: tre caratteristiche che scimpanzè e gorilla non hanno, e che secondo Darwin avremmo acquisito simultaneamente. Darwin era fenomenale nel ragionamento, ma di fossili ne conosceva solo uno, l’uomo di Neandertal.
Molta acqua è passata sotto i ponti da allora, e abbiamo capito che si è trattato di tre eventi diversi e indipendenti, separati nel tempo da centinaia di migliaia di anni. Il più antico appartenente al genere Homo è Homo habilis, documentato in Africa a partire da più di due milioni di anni fa. Non è proprio certo che si trattasse di un’unica specie: i suoi resti sono frammentari ed eterogenei; ma li ritroviamo insieme ad attrezzi relativamente sofisticati, che queste creature erano dunque in grado di progettare e realizzare; e così, un po’ arbitrariamente, facciamo cominciare da loro la storia dell’uomo propriamente detto.
Se Homo naledi fosse un artigiano altrettanto bravo non lo sappiamo: nella grotta non sono stati ritrovati utensili. In quella grotta, nella camera di Dinaledi, non sappiamo neanche come ci sia finito, in così vasta compagnia. Richiamandosi all’autorità di Sherlock Holmes («Quando hai eliminato l’impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità») Berger ha parlato di sepoltura collettiva, ma ci credono in pochi: il culto dei morti presuppone come minimo un’idea dell’aldilà, e per quanto ne sappiamo le sepolture compaiono solo molto di recente, poche decine di migliaia di anni fa. Ci sarà stata un’altra entrata che non abbiamo ancora trovato, suggerisce un grande paleontologo, Richard Leakey.
Ma il dubbio principale non è nemmeno questo: riguarda piuttosto quando, da quella o da un’altra entrata, sia passato Homo naledi. Per rispondere, non servono le tecniche di datazione più comuni: Homo naledi è troppo vecchio per il carbonio 14, e non è immerso nelle ceneri vulcaniche che permetterebbero di usare metodi più potenti, come quello del potassio-argon, che ha permesso di dare un’età a Lucy. In un modo o nell’altro, però, Berger e i suoi hanno trovato qualcosa di straordinario. Se Homo naledi fosse molto antico, diciamo sui tre milioni di anni fa, avrebbero scoperto una specie che sta alla radice del nostro albero evolutivo, la cui parentela con noi sarebbe molto interessante da stabilire. Se invece fosse più recente, diciamo sul mezzo milione di anni fa, vorrebbe dire che quando i nostri antenati africani erano già piuttosto simili a noi e magari cominciavano a pensare se farsi una passeggiatina fuori dal continente, viveva insieme a loro gente molto diversa, dal cervello molto più piccolo. Tante domande, poche risposte: abbiamo ancora molto da imparare.
http://www.profleeberger.com
http://elifesciences.org/content/4/e09560)
Homo Naledi
Gli «anelli mancanti» non mancano affatto
La scoperta. Circa 1.500 reperti di una specie umana ignota ritrovata di recente in Sudafrica, aprono nuovi scenari di ricerca
di Edoardo Boncinelli (La Lettura - Corriere della Sera, 8.11.2015)
Divenire uomini. Come questo sia potuto accadere rappresenta un interrogativo fondamentale, riferito a un processo temporale che più di tutti ci interessa comprendere, accanto a quelli di come sia nato il mondo e di come si sia originata la vita, questa sorta di improbabile «folle volo» di dantesca memoria, che alcuni aggregati di molecole hanno affrontato e continuano ogni giorno ad affrontare.
Da quando Darwin nel 1859 ci ha istillato il concetto di evoluzione, anzi di «trasmutazione delle specie» come diceva lui, e ha indicato come un lungo e lento processo temporale può aver condotto all’esistenza delle innumerevoli specie esistenti, «tutte straordinariamente belle e degne della più grande ammirazione», abbiamo riflettuto sull’origine di questa o quella specie, ma anche di questa o quella caratteristica biologica.
Dodici anni dopo Darwin si è anche interrogato sulla discendenza dell’uomo, incontrando grandissima opposizione e sovrano scetticismo da parte dei credenti e dei finti laici, che puntano il dito verso la mancanza di un «anello mancante» che possa ragionevolmente spiegare il passaggio da un essere più simile alle scimmie antropomorfe a uno più simile a noi.
Per parte loro, gli scienziati si sono interrogati sugli eventi biologici che possono aver portato ai primi uomini partendo dai loro antenati scimmioidi. Si può pensare a una coppia di scimmioidi che si trovano al cospetto di un figlio molto diverso da quelli delle altre coppie, o di un figlio solo un poco diverso dalla norma, e che questo, incrociandosi a sua volta con uno normale o con uno uguale a lui, abbia dato vita a un individuo molto diverso, pieno di problemi, ma anche di nuovi talenti. In un caso come nell’altro, si devono essere verificate una o più mutazioni nella linea germinale che ha portato ai gameti del babbo o della mamma, o magari di entrambi, e che danno luogo a un figlio assai diverso dai coetanei. Oppure infine, da due individui scimmioidi è nato un figlio che non mostrava niente di particolare, ma crescendo si è rivelato piuttosto diverso.
Insomma, è nato prima il gamete «umano» che ha dato luogo a un uomo o un uomo che ha dato vita a un gamete umano? Un ragionamento del genere contiene, però, almeno due vizi logici, cioè due assunzioni di partenza parimenti indebite. La prima riguarda il fatto che si debba trattare di un processo lineare e sequenziale. Questo non è accaduto per nessun essere vivente, e sappiamo oggi con certezza che non è stato così neppure per l’uomo. Ci si trova davanti a una serie di tentativi di cambiamento evolutivo più o meno indipendenti - un cespuglio piuttosto che un albero - che possano avere esiti molto diversi e poi, diciamo così, vinca il migliore, o meglio il più adatto, o il meno disadatto, dal momento che la vita non è un processo troppo naturale, sostenuto, ma anche pesantemente zavorrato dalle leggi della fisica e della chimica. Nel caso della specie umana sappiamo che ci sono stati almeno quattro diversi tentativi, alcuni abortiti molto presto, altri più tardi, fino alla sopravvivenza di una sola linea evolutiva, quella che porta all’uomo d’oggi. I membri di ciascuna di queste linee evolutive avevano pregi e difetti che stiamo cominciando a comprendere.
La seconda assunzione erronea si riferisce al fatto che un uomo, come qualsiasi altro animale, nasca da un uomo o, meglio da due, il padre e la madre. La verità è che un uomo deriva da un bambino, che deriva a sua volta da un embrione. Questo sì deriva da un uomo o, meglio da due, il padre e la madre.
L’evoluzione non è una successione di adulti, ma una discendenza di processi di sviluppo, embrionale e postembrionale. Ciò viene spesso trascurato, un po’ perché l’uomo non ama il tempo «che tutto consuma con i suoi denti aguzzi», come dice il greco Simonide, e un po’ per scarsa capacità di riflessione, anche se le evidenze sperimentali sull’importanza primaria dei processi di sviluppo non sono state mai tanto chiare come oggi, che è l’era del cosiddetto «evo-devo», che sta per evolutionary developmental biology (biologia evolutiva dello sviluppo) . Sono i processi di sviluppo che evolvono, e non il loro risultato, che pure è soggetto all’azione della selezione naturale.
In ogni caso si tratta di individuare un passaggio biologico, accompagnato da uno culturale. Quest’ultimo appare un compito più abbordabile. Sappiamo infatti che un nostro antenato ha cominciato a usare ciottoli scheggiati già tre milioni e 300 mila anni fa. Accanto a questi rudimentali strumenti non sono stati trovati però resti fossili, per cui non sappiamo con certezza di che specie si poteva trattare. Più di recente, sono stati trovati molti resti fossili di una nuova specie, Homo naledi , che ha attratto immediatamente l’attenzione degli studiosi.
Ora la rivista «Nature Communications» pubblica un paio di articoli che hanno a che fare, direttamente o indirettamente, con alcune sue caratteristiche biologiche. Nel primo si analizzano le ossa della sua mano. Questa presenta un pollice abbastanza lungo e robusto. Tale caratteristica della mano, unita alla morfologia del polso, molto simile a quella dei Neanderthal e degli uomini d’oggi, suggerisce che fosse adatta a una efficiente manipolazione, di strumenti o di altro. Le ossa delle altre dita, tuttavia, sono lunghe e ricurve, adatte cioè ad afferrare rami di albero per sospendersi e muoversi in un ambiente arboricolo. Si doveva trattare quindi di un nostro antenato, se diretto non sappiamo, adatto sia alla vita arboricola che alla manipolazione e al maneggiamento di strumenti. Per quanto riguarda il piede, il secondo articolo rivela caratteristiche di un camminatore, ma che doveva avere un’andatura abbastanza diversa dalla nostra e da quella di altri primati superiori, un’andatura comunque sufficientemente adatta a non sprecare troppa energia durante la locomozione.
Altro che anello mancante, insomma! Ci troviamo oggi al cospetto di un vero manipolo di «anelli mancanti» diversi, uno per ogni linea evolutiva, e Homo naledi è il più serio candidato che conosciamo ad essere uno di questi. Con buona pace degli scettici e dei pigri. Intellettualmente, voglio dire. Pur dichiarandosi orgogliosamente umani.
“Nuova specie di ominidi”
Quindici piccoli antenati riemergono dal Sud Africa
L’Homo naledi è stato scoperto in una caverna ed è subito mistero
“Forse una camera sepolcrale di 2 milioni e mezzo di anni fa”
di Gabriele Beccaria (La Stampa, 11.09.2015)
Quindici antenati. Anziani, donne e bambini. Sigillati in una caverna claustrofobica del Sud Africa, come in una perfetta capsula temporale, riemergono da un oblio durato 2 milioni e mezzo di anni, forse 3, e - sostiene lo scopritore, Lee Berger - potrebbero riscrivere l’idea che abbiamo delle nostre origini.
L’evento annunciato sulla rivista «Elife» è il più grande ritrovamento di fossili mai avvenuto in Africa. E il più enigmatico: che cosa ci facevano 15 creature stipate a 40 metri sottoterra, in una grotta a cui si accede dopo 20 minuti di marcia ansimante, a volte strisciando, e dove l’entrata è un buco di una ventina di centimetri? Dal volto scimmiesco, ma con mani e piedi già sorprendentemente simili ai nostri, appartengono - ha annunciato Berger - a una nuova specie di ominidi. Specie battezzata Homo naledi, dal termine che in lingua Sesotho significa «stella»: il luogo, infatti, è noto come «Rising Star Cave» ed è a un’ora d’auto da Johannesburg.
Un’ipotesi è che siano rimasti intrappolati, da un crollo o da un’alluvione. Un’altra - la più intrigante - è che si tratti di una camera sepolcrale, il che suggerirebbe che l’Homo naledi fosse in grado di elaborare un pensiero simbolico, capacità che finora si attribuiva a ominidi molto più recenti. Uno scenario, questo, audace, ma tutt’altro che impossibile: mentre si susseguono le scoperte di nuove specie, l’idea che abbiamo dei nostri progenitori - paradossalmente - si fa più complessa. E a tratti confusa.
Non è un caso che nella piccola ma agguerrita comunità dei paleoantropologi, in cui Berger scintilla per impatto mediatico, si sia scatenato il dibattito. Dall’entusiasmo di Chris Stinger, curatore al Museo di Storia Naturale di Londra, ai dubbi di Christoph Zollikofer, antropologo dell’Università di Zurigo. Se - dichiara Berger - questo Homo è da considerarsi un «ponte» tra i primati in grado di spostarsi su due zampe (o quasi gambe) e i primi esemplari di umani, l’epoca appartiene a una fase-chiave della nostra ancora controversa comparsa ed evoluzione. Ma il futuro fa ben sperare. Quei 15 piccoli antenati - da vivi non superavano il metro e mezzo - rappresentano una miniera di informazioni e ci vorrà tempo per strappare ai 1500 pezzi in cui si sono frantumati i loro scheletri tutto ciò che racchiudono. Dalla crescita all’alimentazione, fino alle cause della morte.
Ora le ossa sono conservate in una camera blindata della Witwatersrand University, a Johannesburg. Come un tesoro, quale in effetti è. Se l’assemblaggio del primo scheletro è stata una sfida, un puzzle biologico, il recupero non è stato meno impegnativo. I resti erano ammassati in una grotta - la «Dinaledi chamber» - così piccola che riportarli alla luce ha richiesto un lampo di genio: il lavoro di scavo di sei donne, scelte non solo per la bravura, ma per la corporatura. Dovevano essere abbastanza piccole e magre da muoversi in scioltezza.
Adesso le immagini di uno degli scheletri stanno facendo il giro del mondo. E la «posa» ricorda tantissimo quella di Lucy, l’Australopithecus di circa 3 milioni e mezzo di anni fa scoperto da Donald Johanson negli Anni 70 e diventato l’icona dei nostri progenitori. Almeno fino all’arrivo di 15 temibili concorrenti.
“Lontani cugini che cambiano le idee sull’evoluzione”
Parla il paleoantropologo Berger che ha guidato il team
“Si credeva che le sepolture fossero un’invenzione dei Sapiens”
di Lorenzo Simoncelli (La Stampa, 11.09.2015)
«Signore e signori, vi presento l’Homo naledi. Una nuova specie umana, un nostro lontano cugino. Una scoperta senza precedenti, che lascerà un segno nello studio della paleontologia». Esordisce così il professor Lee Berger, paleoantropologo e ricercatore della Wits University di Johannesburg, davanti a giornalisti e personalità politiche arrivate in massa a Maropeng, sito archeologico patrimonio dell’Unesco, a 50 km da Johannesburg, in Sud Africa.
Americano, 49 anni, Berger sa di avere ben più di 15 minuti di celebrità, e tutti gli occhi addosso dopo anni di studio e di scavi. Dal 2013 dirige un team internazionale di oltre 50 scienziati, incluso l’italiano Damiano Marchi, ricercatore dell’Università di Pisa. Un gruppo selezionato per concorso, che ha lavorato nel sito «Cradle of humankind» - tradotto: culla del genere umano - per scoprire se davvero le origini dell’uomo risalgono proprio a una zona molto specifica, vale a dire l’Africa australe.
«Quello che abbiamo trovato, in una grotta a 40 metri di profondità - racconta Berger - è un vero e proprio mosaico fossile, composto da oltre 1.500 ossa. Risalgono probabilmente ad ominidi vissuti all’incirca due milioni e mezzo di anni fa. Bambini, giovani e anche adulti. Hanno caratteristiche abbastanza simili a quelle di alcune specie più primitive del genere Homo, come l’Homo habilis. A cominciare dal cranio: molto piccolo, ma molto simile a specie più arcaiche, dell’australopiteco».
Ma non siamo di fronte a qualcosa di simile a Lucy, spiega Berger: «Sono soprattutto i denti, le mani, le gambe e i piedi, quasi identici a quelli dell’uomo moderno, che lasciano credere che si tratti di ominidi del genere Homo».
Un ritrovamento strabiliante anche per le difficoltà affrontate dal gruppo di ricerca. «La scoperta dei resti - ha raccontato il capo della spedizione - è avvenuta trovando una fessura all’interno di una serie di grotte. Dopo accurate analisi, abbiamo capito che solo donne molto longilinee si sarebbero potute addentrare. E così ho pubblicato un bando internazionale. Con il finanziamento del “National Geographic” abbiamo reclutato sei giovani ricercatrici che sono entrate dentro l’anfratto». Le scienziate hanno posizionato un cavo ottico lungo 3,5 km e da quel momento in poi le operazioni di scavo sono state coordinate insieme con un altro gruppo di scienziati rimasto in superficie.
Ed è proprio il contesto in cui sono stati ritrovati i fossili a far emergere uno degli aspetti più straordinario del ritrovamento. «All’interno della grotta - ha spiegato Berger - c’erano praticamente soltanto resti di Homo naledi. Non c’erano invece fossili appartenenti ad altri animali e, dopo aver analizzato tutti gli scenari possibili, siamo arrivati alla conclusione che sia stata questa specie a voler intenzionalmente seppellire i corpi dei propri defunti. Che quindi fossero dediti al rito della sepoltura. Molto prima dell’Homo sapiens, considerato fino ad oggi l’iniziatore di questa pratica».
Dopo un anno di lavoro frenetico, è presto per dirlo. Ma sarebbe proprio questa la conferma che fissa l’origine del genere umano nell’Africa australe. Su questo tema Berger resta ancora cauto. «Il ritrovamento - ha concluso - è un segnale forte. Dimostra come in passato siano stati commessi errori, che non hanno permesso di far venire alla luce un passaggio fondamentale nella storia dell’evoluzione. E tuttavia: non possiamo escludere che esistano altre zone del mondo dove, in futuro, si scoprano nuove specie. Ancora più antiche».
Lucy e gli altri progenitori
Una sfida nell’Africa primordiale
Come la Natura realizzò una serie di clamorosi “esperimenti biologici”
Un’eredità che va dalla camminata bipede fino all’intelligenza
di Nicla Panciera (La Stampa, 11.09.2015)
La scoperta di Lucy, l’icona dell’evoluzione umana, avvenne nel 1974. Subito si pensò che così si sarebbero chiarite le nostre origini. Ma oggi, dopo 40 anni di ricerche, è chiaro che non di «albero evolutivo» si deve parlare quanto di un folto cespuglio, dal quale solo pochi rami si sono spinti fino al presente.
Siamo in viaggio da oltre 2 milioni di anni, da quando i primi esemplari del genere Homo si diffusero dal continente africano nell’Eurasia e oltre. Un viaggio geografico e cronologico di cui conosciamo molti dettagli grazie a studi paleantropologici, archeologici e genetici. La nostra solitudine come specie è abbastanza recente: abbiamo avuto molti avi, fratelli e sorelle e cugini, soprattutto tra 4 e 2 milioni di anni fa, quando specie differenti popolavano l’Africa, come spiega Luca Bondioli, paleoantropologo al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma.
«I Vecchi»: Ardi
L’epoca è 4,4 milioni di anni fa. Protagonista è l’Ardipithecus ramidus. Il più antico e più probabile antenato dell’uomo aveva un cervello piccolo, pesava 50 kg e visse nell’attuale Etiopia. «Bacino, piedi, gambe e mani - spiega Bondioli - suggeriscono che si spostasse come un bipede sul terreno e come un bipede-quadrupede sugli alberi». Fu considerato come una scoperta altrettanto importante di quella di Lucy. I ricercatori ritengono che sia proprio Ardipithecus il primo genere di ominide apparso dopo la differenziazione fra umani e scimmie, ma esistono anche altri candidati: Toumai (Sahelanthropus tchadensis, di 7 milioni) e Orrorin tugenensis (detto anche Millenium Man, di 5-6 milioni). Tutto dipende anche da quando si colloca la separazione tra noi e gli scimpanzé che probabilmente avvenne tra i 9 e i 5 milioni di anni fa.
Lucy e il «parente»
Se Lucy è la più nota, l’australopiteco femmina risalente a circa 3,2 milioni di anni fa, risale invece a 3.5-3.3 milioni di anni fa l’Australopithecus deyiremeda, che coabitava con Lucy stessa, ma aveva dieta diversa. Scoperto da pochissimo, aumenta ancora di più la «confusione» del cespuglio e mostra - dice il professore - come la nostra storia naturale sia stata più complessa di quanto ritenessimo.
L’enigmatico A. gahri
La scena si sposta a 2,5 milioni di anni fa: questo è un altro Australopithecus, ma non è molto ben documentato e le recenti scoperte di un frammento fossile, di 2,8 milioni di anni, fa vacillare la sua candidatura a nostro progenitore.
L’ibrido sediba
Risale a 1.9 milioni di anni. Scoperto nel 2010, nel sito di Malapa vicino a Johannesburg, questo Australopithecus visse in contemporanea con i primi Homo. Da alcuni - dice Bondioli - è considerato «un mosaico di caratteristiche australopitecoidi e di altre più simili a Homo. Probabilmente aveva una vita con una forte componente arboricola». È comunque chiaro che, nella complessa articolazione del «cespuglio», si ritrovano sempre di più specie con caratteristiche a mosaico: alcune primitive e altre moderne. È un fenomeno che si è osservato ora anche con l’Homo naledi.
Erectus ed ergaster
Vissero da 2 milioni a circa 100 mila anni fa in Asia: sono le prime forme di Homo diffuse su tutta la Terra, le più simili a noi, nel fisico e forse nella socialità.
La galleria del tempo
Ecco, così, tracciata una galleria di antenati, naturalmente per sommi capi: è il risultato di rapide occhiate dal buco della serratura dei ritrovamenti rispetto ad una storia di molti milioni di anni. Sono come i fotogrammi sparsi di un mondo infinitamente più vasto e più ricco. «Quello a cui ambiamo, nell’incompletezza delle nostre conoscenze e dei dati a nostra disposizione, è di arrivare ad un quadro finalmente coerente dell’evoluzione umana», spiega Bondioli. E ora l’Homo naledi apre nuovi scenari.
Il nodo della datazione
«Questa scoperta inattesa e ancora da valutare - aggiunge - ci dà la speranza di allargare quel piccolo buco nella porta del tempo, dal quale spiamo la nostra storia. I resti dei 15 individui rinvenuti nella grotta di “Rising Star” e le aree ancora da scavare costituiscono, da soli, una quantità di materiale fossile umano più abbondante di quanto ne abbiamo scoperto in tutta l’Africa dal 1924 ad oggi: lo commentavo proprio con John Hawks della University of Wisconsin-Madison, uno degli autori della scoperta in Sud Africa».
Gli studiosi nel mondo
Una datazione certa al 100% avrebbe di sicuro reso l’annuncio rivoluzionario, conclude il professore italiano. Ma, comunque, «in queste ore i 500 paleoantropologi di tutto il mondo che stanno leggendo gli articoli scientifici sulla scoperta sanno che c’è un aspetto più che significativo e che, forse, ci costringe ad attribuire un pensiero simbolico e capacità cognitive complesse a ominini con un cervello non più grande di quello di un gorilla».
________________________________________________________________
Quei fossili pieni di mistero si riveleranno una Stele di Rosetta
di Marco Cattaneo (la Repubblica, 11.09.2015)
LA scoperta è di quelle da togliere il fiato, per chi è abituato a navigare nella comunità dei paleoantropologi. Capaci di dibattere fino allo sfinimento intorno a una falange o a un microscopico pezzetto di mandibola, si sono trovati sotto il naso un tesoro di valore inestimabile. E tutto in una volta: oltre 1500 tra ossa e denti appartenenti a 15 individui diversi sono un evento senza precedenti nella storia dello studio dell’evoluzione umana. E a partire da questa immane messe di fossili e dai molti misteri che li circondano ci sarà materia di studio per molti anni a venire.
Tanto per cominciare c’è la questione della datazione. I sedimenti della grotta in cui è stato trovato Homo naledi non sono stratificati, e questo rende complessa la datazione dei resti. Soprattutto perché la nuova specie presenta caratteri sia primitivi, a cominciare dalle dimensioni del cervello, sia caratteri moderni, soprattutto negli arti inferiori.
Così al momento si possono fare solo ipotesi. La più accreditata, proprio per le caratteristiche promiscue di H. naledi, è che si collochi tra 2,5 e 2 milioni di ani fa, tra le prime specie del genere Homo.
Ma potrebbe anche risalire a 3-4 milioni di anni fa, scalzando Lucy, l’australopiteco scoperto negli anni settanta in Etiopia da Donald Johanson, dalla lista dei nostri diretti antenati. Oppure potrebbe essere molto più recente, degli ultimi 500.000 anni, e avere convissuto con la nostra specie fino a poco tempo fa. Un po’ come i Neanderthal e l’uomo di Flores, con tutte le differenze del caso.
Tutte queste incertezze hanno contribuito a ritardare la pubblicazione della scoperta, come racconta Jamie Shreeve su National Geographic di ottobre. E finché Berger non troverà un modo per attribuire un’età ai suoi fossili c’è da scommettere che ci sarà grande fermento intorno a questo nostro bizzarro parente.
Ma c’è un interrogativo forse ancora più interessante. Come ci sono arrivati fin lì quei resti? La grotta dove sono stati scoperti è praticamente inaccessibile, e forse in passato c’era un’altra entrata, che finora i ricercatori non hanno individuato. Di sicuro non sono stati lasciati da carnivori, perché le ossa non recano segni di denti. E probabilmente non sono stati portati dall’acqua, che avrebbe depositato anche altri sedimenti. Ma difficilmente un essere dal cervello così piccolo, riconosce lo stesso Berger, poteva mettere in atto un comportamento così complesso come liberarsi deliberatamente dei corpi, magari facendo uso addirittura del fuoco per raggiungere un luogo buio e impervio. Ancora più arduo ipotizzare che fosse una forma di cura dei defunti: le prime sepolture umane conosciute risalgono a circa 100.000 anni fa, e forse, oltre a noi, le praticavano solo i Neanderthal.
Insomma, come spesso accade con le scoperte di questa portata, per il momento i fossili di Rising Star offrono più domande che risposte. Ma negli anni a venire potrebbero diventare una specie di stele di Rosetta della nostra evoluzione.
Scoperto in Africa un nuovo antenato dell’uomo
E’ l’Homo naledi, una specie di ominide finora sconosciuta *
E’ stato scoperto in Africa un nuovo antenato dell’uomo. E’ una specie di ominide finora sconosciuta e dalle caratteristiche diverse rispetto a quelle degli altri ominidi scoperti finora. Si chiama Homo naledi ed è descritta sulla rivista eLife.
La nuova specie di ominide è stata scoperta in Sudafrica, all’interno della caverna chiamata Dinaledi Chamber, ed è stata studiata da un gruppo di ricerca internazionale coordinato dal paleontropologo Lee Berger, dell’università sudafricana di Witwatersrand, a Johannesburg. Allo studio ha partecipato anche l’italiano Damiano Marchi, dell’università di Pisa. E’ stato possibile ricostruire l’aspetto dell’Homo naledi grazie ad oltre 1.500 resti fossili, che si possono attribuire ad almeno 15 individui.
L’Homo naledi era piccolo, non più alto di un metro e mezzo e pesante circa 45 chilogrammi, aveva il cervello delle dimensioni di un’arancia, simile a quello degli scimpanzè. Come testimoniano le dita curve delle sue mani, sapeva arrampicarsi, e le lunghe gambe dimostrano che sapeva anche camminare e correre. E’ questo l’identikit dell’Homo naledi, uno dei più antichi progenitori dell’uomo, la cui scoperta è stata annunciata oggi dall’università sudafricana del Witwatersrand, della National Geographic Society e dalla National Research Foundation del Sudafrica.
I resti dell’Homo naledi sono stati scoperti in Sudafrica, a 30 metri di profondità, nel sistema di caverne chiamato Rising Star e costituiscono probabilmente il più ricco deposito di fossili di antenati dell’uomo mai venuto alla luce. Per studiarli, Berger ha indetto un concorso internazionale che ha chiamato a raccolta circa 40 fra gli esperti più qualificati per analizzare i reperti. Tra questi, Damiano Marchi.
Le analisi indicano che i resti sono sia ad adulti che a bambini. Nonostante appartengano al genere Homo, erano molto diversi dai moderni umani.
Uno degli aspetti finora misteriosi è che i corpi sembrano essere stati deposti nella caverna in modo intenzionale, una sorta di rituale che finora era stato considerato un’esclusiva dell’uomo. Scendere nella grotta non è stato affatto semplice ed i ricercatori sono convinti che al suo interno ci sia ancora molto da scoprire: non si esclude che possano esserci migliaia di resti. Si continua a lavorare anche per stabilire l’età del nuovo antenato dell’uomo, al momento fissata intorno a due milioni e mezzo di anni fa, al confine tra il Pliocene e il Pleistocene.
Il vero Hobbit abitava in Indonesia
di Telmo Pievani (Corriere della Sera/La Lettura, 07.10.2012)
I resti di un piccolo essere umano trovati sull’isola di Flores sconvolgono le teorie sull’evoluzione. È un esemplare di una specie estinta dal cranio minuscolo ma capace di cacciare e usare il fuoco. Le sue origini restano misteriose, eppure fino a 12 mila anni fa convisse con i nostri antenati
L’omino è dispettoso, di quelli che escono nottetempo dalla foresta a seminare scompiglio. Ne conosciamo tanti dalle favole di tutto il mondo, ma quella volta sbucò fuori, non in carne ma in ossa sì, da un sito preistorico dell’Estremo Oriente. E ad essere scompaginate furono le nostre conoscenze scientifiche sull’evoluzione umana. Nel 2003 scienziati australiani e indonesiani coordinati da Mike Morwood rinvennero, nella grotta di Liang Bua, sull’isola di Flores in Indonesia, i resti di un individuo bipede, probabilmente di sesso femminile, con caratteristiche eccezionali. Superava di poco il metro di altezza e il suo cervello era estremamente piccolo. Eppure, primo caso del genere, nonostante la capacità cranica così ridotta sembrava possedere una tecnologia avanzata, padroneggiare il fuoco ed essere un ottimo cacciatore. Che ci faceva un essere tanto particolare, e ben adattato, su un’isola sperduta?
A quel tempo alcuni scienziati sostenevano ancora la tesi secondo cui l’evoluzione di Homo sapiens sarebbe avvenuta progressivamente e in parallelo in diverse regioni del globo, e non a partire da un’origine unica, recente e africana. Con il filtro di questa visione «multiregionale», gli strani esemplari di Flores furono interpretati come una popolazione locale di Homo sapiens malati di microcefalia, di cretinismo congenito, o affetti da qualche altra malformazione. Ma le perplessità verso questa ipotesi ad hoc si fecero subito sentire: c’era ben poco della nostra specie, con o senza patologie, nell’aspetto degli antichi abitanti di Liang Bua.
Così il mistero si infittì e da Flores arrivarono altre sorprese. Le dimensioni ridotte e le proporzioni del corpo analoghe a quelle di forme molto arcaiche del genere Homo, seppur rimpicciolite, fecero pensare che si trattasse di una popolazione asiatica, forse di Homo erectus, spintasi fino agli estremi del suo areale e rimasta bloccata sull’isola a causa delle oscillazioni del livello dei mari. Essendo un puzzle inedito di caratteri, gli scopritori ritennero che vi fossero tutti i crismi di particolarità per assegnare a questo unicum evolutivo un nuovo nome di specie. Era il 27 ottobre 2004 e su «Nature» il paleoantropologo Peter Brown, con Morwood e gli altri del gruppo, presentò al mondo una nuova specie umana: Homo floresiensis.
Fu un putiferio. Gli strascichi della dura contesa tra scienziati rivali, con accuse di manipolazione dei reperti e rivendicazioni nazionali, si trascinano ancora oggi. Per un certo periodo un influente paleoantropologo indonesiano, fervente sostenitore dell’ipotesi multiregionale, riuscì persino a sottrarre i fossili e a non farli studiare agli avversari. Ma le caratteristiche morfologiche di questo omino lo resero ben presto assai più interessante delle reciproche ostilità.
Tra il 2007 e il 2009 l’ipotesi della microcefalia venne esclusa da ripetuti studi comparati. Nel frattempo, il modello multiregionale tramontava sotto i colpi delle evidenze molecolari e paleontologiche. L’evoluzione umana appariva sempre più come un fitto mosaico di specie, spesso conviventi nello stesso periodo, con Homo sapiens arrivato buon ultimo dall’Africa.
Nel 2009 si scoprì che i nove individui portati alla luce a Liang Bua sono simili solo in parte a «Homo erectus nani»: posseggono infatti alcuni caratteri così primitivi (soprattutto nella forma del cranio e nei grandi piedi) da far supporre che possa trattarsi di discendenti di una forma africana più remota e già di piccole dimensioni. È possibile che siano discendenti della prima uscita dall’Africa di forme arcaiche del genere Homo, cominciata poco dopo i due milioni di anni fa.
Alcuni utensili, ridatati con precisione nel 2010, fecero risalire il primo popolamento di Flores, nel vicino sito di Mata Menge, a circa 900 mila anni fa. Ci sarebbe stato quindi il tempo sufficiente perché una forma umana antica - forse lo stesso antenato degli Homo erectus che sopravvissero sull’isola di Giava fino a tempi relativamente recenti nella valle del fiume Solo - sviluppasse un adattamento tipico di specie che si trovano a vivere sulle isole: il «nanismo insulare». Con scarsità di risorse e in assenza di predatori, il processo selettivo favorisce la riduzione della corporatura perché in tal modo si diminuisce il fabbisogno energetico e si accelerano le generazioni. Viceversa, come nel caso dell’enorme roditore che veniva cacciato proprio dall’Homo floresiensis, se si è prede talvolta conviene ingigantirsi. Nella grotta di Liang Bua è stata scoperta nel 2011 anche una cicogna alta un metro e 82 cm.
Un’isola del lontano Oriente, piccoli hobbit dai lunghi piedi, topi mostruosi, cicogne giganti: sembra una storia alla Jonathan Swift e invece è tutto scritto nei fossili. Che sia arrivato già piccolo o si sia rimpicciolito in loco, Homo floresiensis si è oggi conquistato un posto d’onore come il più curioso rappresentante della diversità del genere Homo. Ma i dispetti non sono finiti qui. Nonostante la provenienza antica, le datazioni dicono che su Flores questa straordinaria specie pigmea abitò fino a tempi recentissimi: addirittura fino a circa 12 mila anni fa. È una scoperta sorprendente. In pratica questi hobbit insulari, in miniatura come gli stegodonti nani di cui si cibavano o come gli elefanti nani della Sicilia, sono sopravvissuti fino a una manciata di millenni prima dell’invenzione dell’agricoltura e della scrittura da parte di Homo sapiens.
Purtroppo, a causa dell’umidità e dell’acidità del suolo, non è stato finora possibile estrarre il Dna antico dalle loro ossa. Non si riesce a studiare la sequenza del loro genoma, come invece è possibile per il nostro cugino più stretto, l’uomo di Neanderthal. Non sappiamo perché gli hobbit di Flores si siano estinti (forse un’eruzione vulcanica?) e non vi sono testimonianze dirette di incontri con Homo sapiens. Tuttavia, considerando che i primi rappresentanti della nostra specie sono giunti in Australia ben prima di 12 mila anni fa e che la catena di isole della Sonda era un passaggio pressoché obbligato insieme a quello di Celebes e delle Molucche, è probabile che sull’isola di Flores vi siano stati incontri ravvicinati tra queste due specie, come anche tra Homo sapiens e Neanderthal in Medio Oriente e in Europa.
Questo caso mostra come i motori fondamentali dell’evoluzione abbiano agito sulle specie degli ominini come su tutte le altre forme viventi. Spostamento sul territorio e isolamento geografico hanno prodotto convivenze e diversificazioni di specie, fino a tempi molto recenti. La storia del piccolo hobbit indonesiano è ancora in gran parte da scrivere. Dobbiamo abituarci all’idea che non più tardi di 50-40 mila anni fa, tra Africa ed Eurasia, fossero in circolazione almeno quattro forme umane (noi, i Neanderthal, Homo floresiensis nella sua piccola enclave protetta dal mare, e un’altra specie asiatica trovata sui Monti Altai e non ancora battezzata), ciascuna intelligente a modo suo. Poi siamo rimasti gli unici, per ragioni forse legate alla nostra loquace invasività. È importante però sapere che nel passato recente ci sono stati molti altri modi di essere umani, altri ramoscelli nell’intricato albero della discendenza umana. Il messaggio di Liang Bua, al quale non volevamo quasi credere, è che non eravamo soli.
L’Homo floresiensis sapeva modellare pietre. Prima di noi
Il luogo I ritrovamenti dei paleontologi sull’isola di Flores, in Indonesia
Un piccoletto insegnò al Sapiens a lavorare la pietra
di Pietro Greco (l’Unità, 27.04.2009)
L’Homo sapiens imparò a lavorare la pietra dall’Homo florensiesis, una sorta di ominide alto un metro e dal cervello grande come una pera? Dei ritrovamenti nell’isola di Flores, Indonesia, suggeriscono di sì.
E se il piccolo hobbit, l’ultimo degli erectus, avesse insegnato direttamente al grande ed encefalizzato Homo sapiens come si lavora la pietra, nell’isola di Flores almeno ventimila anni fa? L’ipotesi - avanzata di recente da Mark Moore della University of New England, in Australia - è tutta da confermare. Ma racchiude in sé due novità per molti versi sorprendenti.
Si fonda su quattro fatti. Il primo è che nel sito di Liang Bua sull’isola di Flores, in Indonesia, frequentato per circa 80.000 anni - da 100.000 fino a 17.000 anni fa - da Homo floresiensis, un omino alto non più di un metro e col cervello grande come una pera, Mark Moore ha trovato pietre di origine vulcanica sapientemente lavorate.
Il secondo fatto è che nello stesso sito il paleontologo australiano ha rinvenuto pietre lavorate molto più di recente, ma con la medesima tecnica. L’archeologo le ha studiate tutte, le più antiche e le più recenti. Ne ha prelevate 11.667 in cinque diversi livelli dello scavo. Osservandole a fondo, con le più moderne tecniche, una per una, per verificare come sono state lavorate.
Il terzo fatto è che Liang Bua è stata frequentata, a partire almeno da 11.000 anni fa, da gruppi di Homo sapiens.
Il quarto fatto è che i sapiens sono giunti in Indonesia 45.000 anni fa.
TECNICHE ELABORATE
Mark Moore ha provato a dare un’interpretazione coerente a questi quattro fatti. Le pietre ben lavorate non possono essere state realizzate tutte dai sapiens. Le più antiche, almeno, sono state lavorate certamente da Homo floresiensis, perché risalgono a un periodo in cui i sapiens in tutta l’Indonesia e persino in Asia non erano ancora arrivati. Di qui il primo rovello: come faceva quell’omino dal fisico e soprattutto dal cervello così piccolo ad aver sviluppato una cultura litica così avanzata?
Domanda davvero intrigante. Cui Moore risponde chiedendo aiuto a Nicholas Toth e a Kathy Shick, due antropologi americani della Indiana University, che hanno insegnato ai bonobo (i piccoli scimpanzé che sono stati gli ultimi primati ad aver avuto un antenato comune con l’uomo) a lavorare la pietra in maniera abbastanza sofisticata.
La seconda domanda non è meno intrigante. Le pietre più recenti e quelle più antiche sembrano essere state lavorate se non dalla stessa mano, certo allo stesso modo: perché i sapiens hanno lavorato la pietra con la stessa tecnica dei floresiensis? E qui Moore avanza la sua ipotesi innovativa: semplice, perché l’hanno appresa direttamente dagli «hobbit», con cui hanno evidentemente convissuto occupando la medesima area. Non è l’unica risposta possibile: potrebbe trattarsi di semplice convergenza evolutiva (nel medesimo ambiente, con la medesima materia, entrambe le specie umane hanno trovato il modo migliore per intagliare). Per saperne di più Moore sta per pubblicare il suo report sul prossimo numero del Journal of Human Evolution.