Per il Ventennale della morte di Elvio Fachinelli (1928-1989)
sull’impossibile formazione degli analisti
Conversazione di Sergio Benvenuto con Elvio Fachinelli - <- cliccare sulle parole evidenziate , per andare sul sito di PSYCHOMEDIA).
LETTERA SULLA CONVERSAZIONE CON FACHINELLI
di Federico La Sala
Milano, 29 Giugno 2009
Caro Sergio Benvenuto
Hai fatto benissimo a riproporre, “Per il Ventennale della morte di Elvio Fachinelli (1928-1989)”, questa “intervista alla quale teneva in modo particolare”. Senza alcun dubbio, essa è un capitolo fondamentale della sua biografia e del suo lavoro. Ciò che egli dice nell’intervista si colloca dopo il 1985, dopo il densissimo breve testo “Sulla spiaggia” (pubblicato proprio nella Rivista di cui eri redattore, “Lettera Internazionale”, 6, 1985), e prima di “La mente estatica” del 1989, che parte proprio da tale testo.
L’intervista del 1987 è un passaggio fondamentale del suo percorso di vita e di ricerca, e una brillante (puntuale e vivacissima) testimonianza del suo spirito: “Ho fatto un’analisi con Cesare Musatti che probabilmente, con i criteri attuali, sarebbe giudicata un’analisi «selvaggia» - come del resto le analisi fatte dalle prime generazioni di psicoanalisti. Eppure secondo me è stata una buona analisi: ho ricevuto sorprese, e questo per me è fondamentale in ogni analisi. Ho imparato e mi sono anche divertito. (...) . Si era nel periodo in cui la Spi non aveva assolutamente la posizione centrale che ha attualmente: era il centro di se stessa, non il centro della vasta nebulosa psicoterapeutica che si è formata negli ultimi anni. La società somigliava più alle prime baracchette freudiane che alla fortezza burocratica che è diventata in seguito”.
Il suo lavoro dentro-fuori la tradizione psicoanalitica è, fin dall’inizio, libera e ‘giocosa’. In buona compagnia di se stesso, di Freud, di Musatti, di Lacan (e di molti altri e di molte altre), egli ha vissuto e camminato nel mondo ponendo domande alla sfinge, non dando “risposte”!!! La sua originalità, la sua creatività, e la sua lezione (psicoanalitica, antropologica, e filosofica - tutta ancora da capire!!!) sta in un inedito e originario “sàpere aude”, nel sapere accogliere le “sorprese”, nell’“accogliere: femminile” (già in “Sulla spiaggia” e, poi, in “La mente estatica”). E’ una indicazione carica di teoria, ancora tutta da declinare e che annuncia (con Kant e, dopo Freud e Lacan) una “seconda rivoluzione copernicana” (Th. W. Adorno).
Ho visto Fachinelli (ci conoscemmo nel 1972, poco dopo l’uscita del primo numero della rivista “L’erba voglio”) tre o quattro volte nel maggio del 1989. In uno di questi incontri, mentre a Roma si stava svolgendo il Congresso Internazionale della SPI, parlando delle grandi acquisizioni e indicazioni del suo lavoro (gli avevo dato da leggere un mio breve saggio), gli dissi: “Fachinelli For President”. Il suo sorriso, saggio e luminoso, fu, ed era già e di nuovo, di chi sta in una baracchetta, sulla spiaggia, dinanzi al mare.... sorpreso! E, anche, compiaciuto e consapevole di aver “dato il senso al lavoro di tutta una vita”. Con Giuditta e “Per Giuditta” (a Lei è dedicata “La mente estatica”), egli era sceso all’inferno e aveva tagliato la testa di Oloferne, e ne era fiero. Felicemente fiero - a tutti i livelli ...
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CI PENSERO’ SU’". Pier Aldo Rovatti, Elvio Fachinelli, e l’immaturità nei confronti della dimensione dell’altro. Una “seduta” lunga vent’anni, ma felicemente terminata.
di Federico La Sala (Milano, 17.07.2009)
E’ stata solo una questione di tempo - di tempo vissuto - ma, alla fine, Pier Aldo Rovatti ce l’ha fatta e, con onestà e coraggio, lo ha ammesso - pubblicamente. A Luserna, nel paese natale di Elvio Fachinelli, “ne ho parlato come di un pensatore inattuale. Inattuale proprio perché è rimasto scomodo, come era allora, e perché non siamo ancora riusciti ad ascoltarlo davvero” (la Repubblica, 03.04.2009).
Evidentemente, l’ultimo incontro con Fachinelli, - una vera e propria “seduta analitica”, a ben vedere - è stato decisivo: “quando proprio nel 1989, alla vigilia della sua prematura scomparsa, accettò l’invito della redazione di aut aut a venire a discutere il suo ultimo libro [La mente estatica], se ne rimase zitto in un angolo quasi tutto il tempo e alla fine ci liquidò con un secco Ci penserò sù”, ha posto Rovatti di fronte al suo “aut aut”, lo ha svegliato e sollecitato a un personale e teorico “ci penserò sù”, di conoscenza di sé e dell’altro - di “sé come un altro” (P. Ricoeur, ricordiamo - ed Enzo Paci) - di lunga durata.
Vicino/lontano - in un circolo vizioso, sull’orlo della follia. "Abitare la distanza" è la condizione dell’uomo, caratterizzata dal paradosso: egli è dentro e fuori, vicino e lontano, ha bisogno di un luogo, di una casa dove "stare" ma poi, quando cerca questo luogo, scopre il fuori, la distanza. Per Rovatti, che cerca di trovare la strada “per una pratica della filosofia”, non sembrano esserci più speranze; e si rassegna a indicare un modo, un atteggiamento, un "come" stare nel paradosso. (Rovatti sembra aver dimenticato definitivamente la lezione di Paci e di Ricoeur - insieme nel Lager di Wietzendorf, in Polonia, nel 1944).
Ma la lingua continua a battere dove il dente duole: “Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi - come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno, trovare? (...) Restiamo appunto necessariamente estranei a noi stessi, non ci comprendiamo, non possiamo fare a meno di confonderci con altri, per noi vale in eterno la frase: Ognuno è a se stesso il più lontano - non siamo, per noi, uomini della conoscenza" (F. Nietzsche, Genealogia della morale, Prefazione,Opere, VI, t. II, p. 213).
“Vicino/lontano”. Un’Associazione culturale. Un’altra inziativa: un’altra “aut aut”? Si riprende il lavoro, pratico e teorico. La Forum Editrice Universitaria Udinese apre le porte: “la collana vicino/lontano è diretta da Marco Pacini con la consulenza scientifica di Stefano Allievi, Giovanni Leghissa, Giangiorgio Pasqualotto, Pier Aldo Rovatti e Davide Zuletto”.
La ripetizione non è ripetizione, è ripresa - come in questo caso. Pier Aldo Rovatti scrive un’agile e veloce riflessione: “Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale” (Forum 2007). Il tema è ancora, sempre, e di nuovo (qualcuno, Slavoj Zizek - in questo caso, lo sollecita), la “nostra immaturità nei confronti della dimensione dell’altro” (p. 32) - e, ovviamente, di sé.
Così il sommario: Aspettando i barbari, Turisti per forza, Il gioco di verità in cui siamo, Una porta aperta. E, così, l’avvio del discorso, di ogni capitoletto:
Immaginiamoci sul confine (...)
Possiamo immaginarci di stare sul confine, contro ogni apparenza (...)
Più precisamente, nella sua monografia su Foucault (...), Deleuze ipotizza un ‘dentro come piega
del fuori’. La metafora (...) ci aiuta, ma noi abbiamo forse bisogno di immagini più direttamente
traducibili. Come, per esempio, quella di soglia adoperata da Derrida per descrive l’aporia
dell’ospite. Si tratta, come ho cercato di dire altrove, di abitare la distanza (...) Di accettare la sfida di
una identità senza luogo, disegnando i contorni di una prossimità esposta al fuori e all’alterità ma
non cancellata da questa esposizione (...)
Abitiamo in una casa che dovremmo cercare di descrivere. (...).
E questa la chiusura: “Mi ritorna in mente quello stupefacente racconto di Franz Kafka che si intitola La tana. E’ una descrizione perfetta della nostra condizione ansiosa, di soggetti snervati dalla paura che la casa non sia sicura e che l’estraneo, nonostante tutto, possa penetrarvi. Ci sembra di poterci rassicurare barricandoci (...) Ma subito, in preda all’angoscia, per la nostra vulnerabilità, corriamo su per i cunicoli fino all’ingresso, il punto più debole. E non ci limitiamo a spiare se qualcuno fuori si aggiri minacciosamente, ma apriamo la porta stessa, usciamo fuori e ci acquattiamo all’esterno perché da lì pensiamo di vedere meglio e prima l’eventuale aggressore. Poi ci accorgiamo dell’errore (...) e con altrettanta precipitazione torniamo dentro la casa e barrichiamo l’entrata. L’inquietudine non si calma: ancora una volta usciremo e ancora una volta rientreremo precipitosamente
(...) Se possibile, la nostra condizione attuale è peggiore di quella dello strano animale che abita la tana (...) Ma il problema è lo stesso. Non riusciamo a vivere né dentro né fuori mentre ci illudiamo di stare sempre in un interno, dentro la ‘serra’. In realtà siamo collocati su sottilissime pareti, e l’esercizio che dovremmo riuscire a fare sarebbe quello di trasformare ogni volta queste pareti sottilissime in una soglia, in un luogo di passaggio ed di scambio, nella de-soggettivazione di un incessante dentro-fuori come luogo del nostro abitare. L’inquilino della tana di Kafka non ci riesce, ma forse ci suggerisce, nel suo fallimento, quale potrebbe essere il movimento giusto” (pp. 47-48).
Immaginiamoci su un confine. Una porta aperta. Pur senza mai citarlo, si sente che Fachinelli è presente (“zitto in un angolo”), in questa veloce riflessione sulla "condizione globale". Rovatti comincia a intravedere e a capire il senso della ‘risposta’ che Fachinelli gli aveva dato - quasi vent’anni prima.
Vicino/lontano - in un circolo virtuoso, sulla spiaggia, dinanzi al mare. Nel 2009, sostenuto dalla volontà e dal coraggio di mettersi in gioco e di entrare nel gioco (pp. 36-7), Rovatti è giunto “Sulla spiaggia” (E. Fachinelli. La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989, pp. 13-25) e, finalmente, ha capito il senso del lavoro di Fachinelli ed è capace di riconoscerne tutto il valore: Fachinelli è “un pensatore inattuale”, il suo “dialogo con la psicoanalisi freudiana ma anche lacaniana, si trasforma in una filosofia che indaga - lungo il filo della temporalità vissuta - che cosa significa pensare. E che risponde (si veda il bellissimo incipit di La mente estatica): per pensare dobbiamo sospendere il tempo e aprirci all’ascolto del nostro ospite interno” (P. A. Rovatti, Un pensatore inattuale, cit.).
Non Enzo Paci né Fachinelli si sbagliava. Rovatti ce l’ha fatta: è uscito dalla ‘serra’, sano e salvo!
Federico La Sala (Milano, 17.07.2009)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DEMOCRAZIA: ABBI IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA E DI PARLARE DA CITTADINO SOVRANO.
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
FLS
Soltanto meraviglia.
Gli stati estatici nel pensiero dell’ultimo Fachinelli
di Valeria Egidi Morpurgo *
Fin dal 1966, (nello scritto Freud) Elvio Fachinelli segnalava come tema cruciale il contrasto tra intellettualismo e riconoscimento dell’area dell’accoglimento, ovvero del femminile-materno nel pensiero di Freud. D’altra parte Freud indagava aree mentali al di là dei confini dell’Io: sia quelle che danno luogo a fenomeni inquietanti che vanno sotto il nome del perturbante (Unheimlich) (1919) cui è sottesa l’immagine della madre arcaica, sia esperienze serene di tipo estatico, come il sentimento oceanico di fusione con il tutto (1929)
Il contrasto tra impostazione intellettualistica e richiamo dell’area materna prende forma più precisa nel 1983 quando Fachinelli conia un termine originale: claustrofilia, che indica gli stati mentali propri dei soggetti che si fondono con la figura materna. L’area claustrofilica può essere considerata in psicoanalisi come fattore di difesa, perturbamento, blocco, o al contrario come fattore di integrazione interna all’Io, e di comunicazione e unione tra soggetti. Dando attenzione all’area perinatale e al parto-nascita Fachinelli si scosta criticamente dal “pregiudizio scientifico” di Freud sull’esperienza psichica prenatale e perinatale e lo oltrepassa, pur senza idealizzare il rapporto con la madre.
Dopo la “liberazione” da quel conflitto, nel libro La mente estatica (1989), Fachinelli riprende il tema della fusionalità e il vissuto del tempo che l’ accompagna utilizzando il concetto freudiano di Einfuhlung (empatia) fenomeno inconscio e per alcuni aspetti enigmatico. Nelle esperienze empatiche, in circostanze specifiche collegate all’area claustrofilica, nota Fachinelli, non solo si attenuano i confini tra un Io e l’altro, ma sembra che un soggetto “ possa sapere, non a livello conscio, qualcosa dell’altro soggetto. Che quest’ultimo non sa, o non sa ancora”. A questo proposito Fachinelli racconta un episodio inquietante, che lo riguarda molto da vicino: una paziente sogna nei particolari una vicenda cruciale per l’analista e gli racconta il sogno prima che lui sia informato di quel fatto angoscioso. Cosa che presuppone “un’inaudita penetranza dell’inconscio altrui, qualcosa che la ragione scientifica non è certo disposta da ammettere” (p.89). L’ipotesi esplicativa di Fachinelli è che questo tipo di fenomeno compaia quando un rapporto di tipo claustrofilico è minacciato di interruzione.
D’altra parte negli stati di fusione di un soggetto con un oggetto l’Io conscio si disorienta e si perde:
“Un movimento di svuotamento, azzeramento, distacco. Frana lentissima o improvvisa. In ogni situazione creativa c’è un momento in cui ciò che vale, per l’individuo, precipita verso il proprio annullamento (...)”
Perchè ci si difende dagli stati estatici? Quel che fa paura dell’esperienza mistico-estatica cosa è? Fachinelli osserva che la difesa intellettualistica, o la negazione, non si dà per paura del dolore, ma per paura della gioia eccessiva
“E allora esso comporta il senso di un prodigio, di un evento incommensurabile rispetto alle sue premesse - come nell’estasi mistica” (p.29)
Si può vedere qui un avvicinamento tacito, non esplicitato, al pensiero dei mistici? Come nota Martin Buber, studioso dei mistici di ogni tempo e cultura, nell’esperienza estatica vi è una fusione tra soggetto e oggetto in cui il soggetto “si fa” oggetto. Ecco una testimonianza diretta di Fachinelli di questo lasciarsi andare al libero flusso di pensieri e immagini: “Io come sguardo che impara non un paesaggio, o più paesaggi, ma se stesso paesaggio. Sguardo-mare” (p.19)
Nel tempo sospeso si gode un’esperienza di fusione estatica con il tutto.
“Ora il rombo del mare è un respiro calmo, profondo. Chiudo gli occhi. I suoni, scollegati dal loro aggancio visivo, hanno più spazio; diventano voci singole, con timbro e grana diversa. Di fronte a ciascuna, non attesa né timore. Soltanto meraviglia (pp.24-25)
Se si vive lo stato fusionale non si è con contatto solo con se stessi, con un Io allargato, ma si è aperti all’incontro con l’altro da sé:
“Accogliere chi? Un ospite-interno. Accoglierlo prima di esaminarlo ed eventualmente respingerlo”. E’ un’ esperienza felice:
“Come scrivere tutto questo? Vento sulla fronte, rombo del mare, luce, torpore, pensiero dell’accettazione, gioia, gioia con senso di gratitudine, verso chi?” (18)
Verso chi? Verso una presenza. Nell’esperienza estatica allora, sia del mistico sia dell’artista sia di uno qualsiasi di noi, c’è una tensione verso l’altro lato dell’esperienza:
“Ciò che si genera nel vuoto, nell’estrema rarefazione, è ciò che si è cercato. Si trova ciò che in noi qualcuno, al di là dell’io, cercava: Dio, l’arte, la scienza; o anche, immediatamente, semplicemente, la sospensione del tempo della caducità (p.30)
Grottesco fachinelliano
di Dario Borso (Sinistra in rete, 14 agosto 2020).
Appena laureatosi in Medicina a Pavia, Elvio Fachinelli si trasferì nel 1953 a Milano, dove lavorò per qualche anno come microbiologo in una grossa industria farmaceutica. Di sera, frequentava una compagnia così descritta quasi mezzo secolo dopo dal poeta Elio Pagliarani, allora giornalista del quotidiano socialista “L’Avanti!”:
In un dibattito riportato su “Il Tempo” del 19 dicembre 1976, Fachinelli aveva ironicamente specificato le dinamiche del gruppetto, dichiarando che nel 1955
E un appunto sparso datato 20 dicembre 1954 (il primo in assoluto conservatoci) fotografa la posizione di Fachinelli stesso, ironica e disincantata:
II. Entriamo nella seconda metà degli anni Cinquanta: nel mondo, crisi del modello sovietico dopo la morte di Stalin e rivolta d’Ungheria; in Italia, inizio del boom economico con Milano apripista. E nel nostro gruppetto di area socialista, due ali che si divaricheranno col tempo sempre più, per forma mentis ancor prima che per idee politiche: Fortini e Amodio da un lato, Pagliarani e Majorino dall’altro4.
Coetanei questi ultimi di Fachinelli, poeti d’avanguardia entrambi con interessi sociali preminenti: Majorino esordì nel 1959 per l’editore Arturo Schwarz con La capitale del Nord, un poemetto sulla Milano industriale5; Pagliarani si affermò nel 1960 su “Il Menabò” di Vittorini con La ragazza Carla, poemetto che ha a protagonista una dattilografa milanese.
Pagliarani aveva iniziato a comporlo nel 1954, e l’idea primigenia era stata di farne un soggetto cinematografico da presentare a Zavattini e De Sica6.
In quello stesso anno Fachinelli iniziò come inviato speciale al Festival di Venezia una collaborazione a “Cinema nuovo”, rivista di area marxista che si batteva per un rinnovamento critico del neorealismo; e sempre nel 1954 pubblicò sotto pseudonimo in vari settimanali racconti brevi di vita moderna che sono interpretabili a tutti gli effetti come soggetti cinematografici.
Interessante infine, sempre a proposito di Pagliarani, l’esergo dubitativo che l’autore pose alla riedizione mondadoriana del 1962 de La ragazza Carla e altre poesie:
L’amico è Fachinelli, e l’aneddoto è perfettamente in linea con quelli riportati qui in Grottesche, come il lettore avrà modo di constatare.
III. In effetti il 1962 fu un anno decisivo per Fachinelli: neospecializzato in neuropsichiatria, inizia a lavorare sotto la direzione di Gaddo Treves alla casa di cura “Villa Turro”. Enzo Morpurgo, psichiatra e psicanalista amico di entrambi, così descrive quel particolare rapporto lavorativo:
Quando Gaddo morì, troppo presto, di malattia cardiaca, Elvio gli dedicò un necrologio che cominciava con le parole: “A Gaddo Treves, mio ironico maestro”. Certamente l’ironia apparteneva più a Elvio, che era di temperamento controllato e distaccato, come si conviene a chi è ironico, che non a Gaddo che era passionale anche nella sua vis comica.7
Ad accomunare i due fu pure la passione per il cinema, che spinse il più anziano a partecipare come esperto in materia al telequiz “Lascia o raddoppia?” oltreché a recitare, diretto da De Sica, nel film del 1961 Il giudizio universale8.
Sempre nel 1962 Fachinelli inizia un’analisi didattica con lo psicanalista Cesare Musatti e in contemporanea traduce con la moglie Herma Trettl L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud9.
Aprendosi al campo psicanalitico, avrà certo incrociato o ripreso Psicopatologia della vita quotidiana e Il motto di spirito, due classici freudiani strettamente imparentati anche dal punto di vista formale, in quanto sono gli unici a presentare una serie nutrita di aneddoti gustosi - che in fondo è la struttura di Grottesche.
E un altro spunto può averlo fornito il Diario fenomenologico di Enzo Paci, uscito per Il Saggiatore verso la fine del 1961: ugualmente alieno da connotazioni strettamente private, rispetto al diario di Paci quello di Fachinelli, da cui provengono le Grottesche, si sarebbe tentati di chiamarlo un diario psicosociologico, nel cui primo quaderno a risaltare è il valore emblematico che singoli aneddoti assumono riguardo al passaggio epocale da una realtà agricola a una industriale - una fenomenologia del miracolo economico insomma, con un’attenzione particolare per le tensioni paradossali che esso immette nei costumi degli italiani10.
IV. Sta di fatto che a metà 1963 Fachinelli inizia a redigere il suo diario a spron battuto, tant’è che a fine 1964 ha già collezionato circa duecento annotazioni.
Come vedrà il lettore dalle mie note al testo, le annotazioni hanno tutte una rispondenza reale, si riferiscono cioè a fatti realmente accaduti.
Da ciò la ricerca di uno stile piano, zavattiniano potremmo dire, che si avvale di metariferimenti al margine sporadici ma precisi: Baudelaire (“Trouver la frénésie journalière”)11; Jules Renard (“La creazione vera, cioè povera”)12; Montaigne (“Je n’ay pas plus faict mon livre que mon livre m’a faict, livre consubstantiel à son autheur, d’une occupation propre, membre de ma vie”)13.
E decisivo comunque, come messa a punto stilistica, è un appunto sparso del 18 marzo 1964:
V. Il diario rallenta nel decennio 1965-74, ma non si arresta e anzi guadagna in qualità. Complice l’affinamento dell’approccio psicanalitico, la scelta dei fatti si orienta sul loro carattere paradossale, e ciò ha effetto sullo stile, che volge più decisamente all’aforisma, con una sensibilità particolare per la pointe.
Anche qui traspaiono abbastanza nette due sollecitazioni “estreme”, proprie cioè di territori estranei alla letteratura canonica: da una parte la frequentazione di raccolte kōan della tradizione zen, da cui Fachinelli trascrive lietamente sorpreso14; dall’altra la fonte inesauribile dell’infanzia.
Come noto, all’inizio degli anni Settanta Fachinelli fu tra gli animatori di un asilo nido autogestito, ma anche dopo fu sempre ricettivo agli echi che venivano dalla scuola primaria, come dimostra appunto una raccolta di temini delle elementari che comparve sul numero di marzo-aprile 1975 de “L’erba voglio” con titolo redazionale L’occhio storto - storto appunto, capace cioè di scoperchiare la realtà da un’angolatura eretica, come questi due “pensierini” di Lucia e Bernardo che riporto perché del tutto assonanti con gli aforismi di Grottesche:
Per tutti gli anni Ottanta infine prende corpo nel diario una vena epigrammatica spesso e volentieri caustica, che prende a bersaglio la figura dell’intellettuale in tempo di riflusso.
VI. Verso la fine del 1985 Fachinelli riprende in mano i quaderni del diario e inizia a trascrivere gli aforismi più significativi lì contenuti in un nuovo quaderno recante a titolo Grottesche. La scelta del titolo, a metà tra il letterale sostantivato delle decorazioni antico-romane e il metaforico aggettivato del genere letterario ottocentesco16, si capisce da sé; ma è interessante notare come nel corpus freudiano la categoria di grottesco, pur così imparentata con l’altra fondamentale di unheimlich, sia del tutto assente17.
Assai lunga, in ambito critico, la sfilza di sinonimi o limitrofi per circostanziarlo: il comico, il paradossale, il parodico, il caricaturale, il bizzarro, il macabro... o, a tentare una dinamica: quando il comico diviene inquietante, e il paradossale assurdo...
Ma vale forse restare all’instar omnium ovvero al dato bruto, riprendendo l’esempio segnalato da Pagliarani nel suo esergo: cosa rende grottesca la giovane impiegata? Prendere un sonnifero che la inchioda in catalessi al letto da sabato sera a lunedì mattina, ossia che annulla il tempo libero, di svago, del piacere. Grottesca è l’assenza totale del Lustprinzip, grottesco il dominio assoluto del principio di realtà, che riduce la ragazza a un automa. Il grottesco insomma è iperrealismo puro, realizzato (iperrealizzato, verrebbe da dire, se non rasentassimo così anche noi il grottesco), un raddoppiamento della realtà che è poi un altro modo per definire la ripetizione col suo Zwang.
Jean Paul, il primo e forse massimo teorico-pratico del grottesco, dette una definizione icastica del tema: “Antropoliti: uomini impietriti”18.
Ma per tornare a Fachinelli: che in questo senso andasse anch’egli, lo possiamo desumere dal fatto che la categoria di grottesco gli si presenta a metà anni Ottanta in contemporanea con l’altra di estatico19.
E pure questa seconda categoria fuoriesce dal dizionario freudiano, in direzione opposta al grottesco, quasi a formare due condizioni-limite dell’umano: da una parte l’iperrealtà orrida della pietra, dall’altra l’irrealtà sublime della brezza marina20.
RICORDANDO ELVIO FACHINELLI
di Francesco Marchioro (Altoadige.it, 22.12.2019)
Psicanalisi. Il grande analista “non ortodosso”, traduttore di Freud, era nato a Luserna ma aveva studiato ed era vissuto tra Bolzano e Merano. A riportare i riflettori sulla sua figura è la pubblicazione di un libro, “Grottesche”, che verrà presentato il 28 dicembre, presente la figlia Giuditta.
Ricorrono in questi giorni i trent’anni dalla morte di Elvio Fachinelli (21 dicembre 1989), uno psicoanalista che ha mosso i suoi primi passi (1928) a Luserna, un paesino cimbro in provincia di Trento non lontano dal comune di Lavarone, a cui per affezione lascerà in eredità l’intera sua biblioteca.
Dopo un breve periodo passato in Francia, la sua famiglia si stabilisce a Bolzano. Il giovane Elvio frequenta il liceo classico di Merano e poi intraprende gli studi di medicina a Pavia per specializzarsi in psichiatria. Nel 1962 sposa Herma Trettl, bolzanina di solida cultura mitteleuropea, ed inizia un’analisi didattica con Cesare Musatti, divenendo analista della società psicoanalitica italiana.
Bilingue di nascita, Fachinelli traduce una trentina di saggi dell’Opera omnia di Freud, per i tipi della Boringhieri, firmandosi curiosamente con lo pseudonimo di Elvio Luserna ed in particolare si dedica alla traduzione de “l’Interpretazione dei sogni”, in collaborazione con la moglie, Herma Trettl, la quale un giorno mi raccontò un particolare di quel lavoro: mancando a volte le occasioni di discutere e lavorare insieme, la mattina avevano l’abitudine di lasciare l’uno per l’altra sul tavolo di casa dei “telegrammini”, appunti con cui si scambiavano suggerimenti, soluzioni e approfondimenti sulla traduzione di Freud.
Attento ai fermenti intellettuali del suo tempo, intesse una fitta rete di relazioni con personalità italiane ed internazionali della scienza e della cultura.
Partecipa alla vivacità del sociale, come il movimento giovanile, la rivolta studentesca del ‘68, la riorganizzazione basagliana dell’assistenza psichiatrica e indaga a fondo il rapporto tra salute e malattia, individuo e società.
Si tratta di cogliere quel “desiderio dissidente” che emerge dalla ricerca di superamento del capitalismo, della società repressiva, come recita il titolo di un suo contributo presentato nella “calda” primavera del 1968 alla facoltà di Sociologia di Trento, ed ora disponibile in un libro curato da Marco Conci e da me, Elvio Fachinelli, “Intorno al ’68”.
Spirito curioso, ironico, indipendente e analista non ortodosso denuncia con forza una sorta di “freudolente” uso della terapia e accusa la sua stessa istituzione di praticare una “psicoanalisi della risposta”, nel senso che si limita a «dare ragione all’esistente, razionalizzare le irrazionalità, tamponare i conflitti», offrire una terapia dell’adattamento invece di essere una psicoanalisi interrogante, capace di sollevare domande radicali sullo statuto del soggetto e la sua relazione alla Lebenswelt, al mondo della vita.
Fachinelli pubblica saggi che sono tutt’oggi dei classici: “Il bambino dalle uova d’oro” (un viaggio nel pensiero psicoanalitico), “La freccia ferma” (sul tempo, il sacro, la morte), “Claustrofilia” (una critica all’immobilità di molte analisi interminabili), “La mente estatica”, un’esperienza di spogliazione dell’Io e di incontro con l’indistinto originario.
Nello scrivere, ha una modalità molto personale di elaborare il pensiero, nel senso che sa unire tra loro registri diversi, saggistico, narrativo, critico, clinico, e affida al lettore una riflessione non concludente ma aperta alla molteplicità dei piani osservati, assecondando la varietà degli ambiti di ricerca, che vanno dalla psicoanalisi all’educazione, dalla società all’antropologia, alla cultura in tutta la sua ampiezza.
Questa apertura è confermata da uno straordinario libro di Fachinelli che esce in questi giorni: “Grottesche. Notizie, racconti apparizioni” in un’elegante veste editoriale per la casa editrice Italo Svevo di Trieste, con l’attenta cura e l’aggiunta di preziose note di Dario Borso.
A partire dal 1963 l’Autore, in una sorte di caleidoscopio fluido, quasi un diario psico-sociologico, annota una serie di emozioni, pensieri, fantasie, traendo dalla policroma vita quotidiana e dall’esperienza disincantata di medico e analista, con una scrittura libera, non didattica ma autoironica, come mostra il seguente aforisma: « Rileggendo appunti, l’analisi appare al limite una conversazione tra un cieco, che descrive qualcosa che non vede, e un sordo che non sente quello che l’altro dice, eppure risponde.»
C’è poi una annotazione che richiama da vicino le nostre montagne: « Altopiano dolomitico dell’Alto Adige. Fine agosto sull’Alpe di Siusi; con il gusto del travestimento (stivali di gomma, giacca a vento)». A Castelrotto, infatti, Elvio Fachinelli aveva un appartamento in cui trascorreva parte delle sue vacanze.
Troviamo qui un tratto del suo spirito giocoso (“travestimento”), dove il piacere (“gusto”) allude ad un tempo altro, un contro-tempo (qui, è agosto ma anche inverno; c’è il sole ma anche la pioggia, il vento).
Vi ascoltiamo una eco non solo del grottesco enunciato nel titolo ma anche del perturbante freudiano, quella coscienza esplosa che costituisce il tema del saggio scritto nell’ultimo anno della sua vita, dedicato alla figlia Giuditta, “La mente estatica”: un’esperienza di spaesamento, irrealtà ed insieme di gioia assoluta, esaltazione, libertà, dove l’Unheimliche segna il crinale della gioia eccessiva e della pulsione di morte, della nostalgia e della ripetizione.
È rinvenibile in questo sentimento di pienezza anche la gioia per la nascita di Giuditta, dono sorprendente di una paternità felice.
Pochi mesi prima del dicembre 1989, nel mio ultimo incontro con Elvio Fachinelli, parlando di psicoanalisi e religione, avverto nel suo discorso un sentimento di «non meditazione né raccoglimento, ma di accoglimento». Le sue parole hanno non solo la vibrazione della prognosi infausta (cancro) e la consapevolezza della caducità, ma anche l’incanto di una condizione dove i significati opposti evocano un altrove, la lingua fluttua e non definisce, la mente apre al silenzio, forse all’estasi.
A Luserna, nella sala Bacher, il 28 dicembre alle ore 17 Giuditta Fachinelli e Dario Borso presenteranno il libro di Elvio Fachinelli: “Grottesche” editrice Italo Svevo, Trieste, un appuntamento da non perdere.
IL LATO GROTTESCO DELLA PSICOANALISI
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 08/01/2020)
Nei giorni scorsi ricorreva il trentennale della morte di Elvio Fachinelli, psicoanalista e intellettuale tra i più significativi in Italia negli anni Settanta-Ottanta, avvenuta a Milano il 21 dicembre del 1989. A commemorarne la scomparsa è appena stata pubblicata per i tipi di ITALO SVEVO e alla cura dedita e filologicamente attenta di Dario Borso, rigoroso studioso di Hegel e Kierkegaard, parte dei diari che Fachinelli ha tenuto con regolarità dai primi anni Sessanta sino ai suoi ultimi giorni con il titolo: Grottesche. Notizie, racconti, apparizioni. Si tratta di una serie di aforismi di natura psicosociale che scandagliano un tema centrale di tutta la sua ricerca: la difficoltà dell’essere umano di abitare generativamente la contingenza illimitata dell’esistenza, di stare nell’aperto della vita, di affidarsi alla pulsazione estatica dell’inconscio.
Erede della lezione freudiana, per Fachinelli la psicologia individuale è già da sempre psicologia sociale; lo sguardo dell’analista attraversa obliquamente - secondo un movimento più topologico che topico - le vicissitudini della vita individuale e della vita collettiva. Il suo metodo è laico nel senso anch’esso freudiano del termine: ignora le verità assolute, incontrovertibili; sottopone al vaglio ininterrotto del pensiero critico i suoi oggetti.
Ma cosa indica la categoria del grottesco? Grottesca appare innanzitutto la vita che rinuncia alla sua fondamentale apertura, che si separa dalla trascendenza interna dell’inconscio per chiudersi nell’adattamento conformistico al principio di realtà. Questa vita si difende grottescamente dalla vita stessa. Essa preferisce il chiuso all’aperto, l’adattamento alla creazione, l’irrigidimento del confine alla "brezza marina". È la tendenza della psicoanalisi ortodossa che nella sua istituzionalizzazione ha finito per tradire la sua stessa invenzione, quella dell’inconscio come apertura illimitata, luogo "femminile" di una "gioia eccessiva".
La prima faccia del grottesco risulta dal rigetto fobico di questa apertura e dallo schiacciamento - "iperrealistico" lo definisce Borso nella sua introduzione della vita che si riduce a quella di un automa senza desideri preda di una ripetizione sterile. È la vita del paziente nevrotico ossessivo protagonista della parte iniziale de La freccia ferma per il quale «il tempo è segmentato in una serie di tempuscoli, ognuno dei quali è chiuso e delimitato in sé». Ne abbiamo una descrizione efficace: «solo e sicuro nella sua auto come un mollusco nella sua valva. Si mette le dita nel naso, scorreggia, prega, eccetera». È questo il primo volto del grottesco; la vita che smarrisce la sua trascendenza per compattarsi con l’esistente. Declinazione quotidiana della pulsione securitaria: meglio il chiuso, l’ottundimento identitario, dell’estasi che spalanca pericolosamente la vita verso l’infinito come piega interna e ingovernabile del finito.
Esiste però un secondo volto del grottesco; esso si palesa quando l’Ideale vorrebbe esercitare un dominio assoluto sull’esistenza singolare. Grottesca appare allora la rimozione della vita individuale nel nome del carattere universale dell’Idea. È un punto di chiave di tutto il pensiero di Fachinelli. La psicoanalisi ha elevato l’infimo, il dettaglio, il particolare ad una dignità sconfessata dalla ragione filosofica e politica classica. Viceversa il dominio dell’Idea è una malattia endemica del fanatismo rivoluzionario e del tono fondamentalistico e settaristico della sua predicazione. Fachinelli, intellettuale di sinistra, la squaderna con ironia amara davanti ai nostri occhi: «è paradossale - scrive - il destino di molti rivoluzionari. Lavorano sul serio a una cosa che, per essere fatta, per diventare realmente popolare, implica l’entusiasmo, il senso di avventura, la novità - e sono spietati nell’ucciderla».
Si tratta di un fantasma rigoristico, sacrificale ed eroico insieme: «attesa della palingenesi, mito della purezza e della violenza». La distinzione è severa e rigida; da una parte il bene dall’altra il male, da una parte i puri dall’altra gli impuri. È l’”ossatura paranoica" di ogni ideologia che esclude la laicità del pensiero. È la tentazione di tutti coloro che, identificandosi ad una Causa che annichilisce il particolare, vorrebbero farsi maestri e padroni della Causa stessa. Ma questo inno esaltato dell’Ideale non può evitare il continuo inciampo nel particolare che crede di rimuovere. L’oratore di estrema sinistra che arringa il suo popolo ad agire nel nome dell’Ideale di purezza, osserva Fachinelli, «cade in continui lapsus di date e di nomi»; un noto scrittore di estrema sinistra non riesce a dormire perché pensa continuamente ai soldi; «la sinistra ha sostituito il sorriso con il ghigno».
Il grottesco sarebbe suscitato dal ritorno del rimosso del particolare nelle maglie anonime della predicazione purista dell’universale. Ma tutte le critiche che lo spirito laico di Fachinelli muove al settarismo della sinistra sono le stesse che rivolge alla psicoanalisi ortodossa. La malattia è comune; il senso del grottesco anche. Fantasma di purezza, attitudine paranoica a concepire la differenza come deformità minacciosa, sclerotizzazione del linguaggio in codici morti, lontananza siderale dall’esperienza dell’apertura illimitata della vita: «trionfo dell’esegesi psicoanalitica; malore della psicoanalisi».
Psicanalisi e politica: due volti, una sola voce
“Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989)” di Elvio Fachinelli a cura di Dario Borso, una raccolta di testi che offrono una chiave inedita per affrontare le questioni politiche
di Delia Vaccarello (l’Unità, 1 giugno 2016)
Psicanalisi e politica: due volti per un solo “cuore”. C’è un nesso stretto tra la psicanalisi che considera l’inconscio un “ospite interno”, straniero eppure intimo, e una visione secondo la quale «il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Due volti e una voce, quella di Elvio Fachinelli nella veste di giornalista che giunge a noi grazie alla raccolta Al cuore delle cose.
Scritti politici (1967-1989) a cura di Dario Borso (DeriveApprodi). Pagine attraversate da uno slancio che vede il pensiero, la clinica e la pratica politica in grado di lavorare per azzerare barriere ed esclusioni. Fachinelli crea, anticipa, interroga con quel coraggio che al contrario di Don Abbondio «uno se lo può dare». La sua politica, che vuole uscire dai problemi «tutti insieme», trova radici nelle innovazioni da lui proposte in psicanalisi. Ed è legata all’uso di una parola che è atto in grado di cambiare la realtà sia nelle stanze di analisi (quando il setting funziona) che nella politica degna di questo nome.
Nelle riflessioni “Sulla spiaggia”(“la mente estatica”, Adelphi) Fachinelli abbandona la psicanalisi come difesa pignola da un presunto pericolo interno, come fabbrica di armi ben appuntite e di corazze, per volgersi all’accoglimento dell’inconscio, a un modo «femminile» di andare al cuore delle cose. L’inconscio, ancora prima di esaminarlo, diventa un «ospite» da accogliere. Ma se il sistema di vigilanza-difesa è collegato con la impostazione virile, «allora accogliere: femminile? Il femminile sarebbe allora nel cuore, il cuore di molte e diverse esperienze». Sarebbe esporsi all’estasi laica e alla gioia, rinunciando all’illusione di padronanza. Tematica ripresa dalla «fachinelliana» Cristiana Cimino nel suo Il discorso amoroso (manifestolibri, del quale abbiamo parlato in queste pagine) dove proprio a partire dalla «posizione femminile», che implica l’accantonamento del primato della coscienza ed è strada praticabile da maschi e femmine senza prerogative di genere, c’è una possibilità di uscire da sé per intrecciare un legame intimo.
Con Fachinelli giornalista è come se ci trovassimo alla radice di un doppio registro: se non mi difendo dall’Altro che mi abita dentro, cioè dall’inconscio, ma lo accolgo, posso aprire gli occhi anche sull’Altro fuori di me e prendermi cura del legame sociale. Il cambiamento rispetto all’inconscio diventa «visione». Così una psicanalisi che è atto etico nei confronti dell’Altro può ispirare una politica che si muova nella stessa direzione. Messaggio attualissimo.
Pensiamo alla necessità di rapportarci agli esclusi di oggi, i migranti, che sono in mezzo a noi ma “estranei”, in cerca di casa e lavoro, ma sempre di passaggio. Ospiti. Specchio di una precarietà esistenziale che suscita inquietudine e angoscia. Sarebbe vitale una politica dell’immigrazione ispirata dall’etica di una vulnerabilità che riguarda tutti. I migranti di oggi sono, negli scritti politici di Fachinelli, i ragazzi che scrivono Lettera a una professoressa con Don Milani, e saranno tra le urgenze che lo spingeranno a immergersi nel ’68. «Trovai in quel libro», dice, «un richiamo alla eguaglianza delle condizioni e una prima denuncia delle deficienze della istituzione scolastica».
Di 56 alunni, dopo gli anni dell’obbligo, ne erano rimasti 16. Richiamo che lo portò nell’asilo autogestito di porta Ticinese ad analizzare il sorgere della società fascista o mafiosa: se manca la figura dell’adulto, a fare legge è la prepotenza, dice Fachinelli, o meglio “Elvio cacato”, come per un periodo fu chiamato da quei bimbi molti dei quali immigrati del nostro Sud. Articolo dopo articolo vediamo la psicanalisi offrire chiavi alla politica. Così ne Il desiderio dissidente, scritto comparso in Quaderni piacentini proprio nel ’68, «la società che soddisfa il bisogno ruba l’identità».
Allora, essenziale per i gruppi di giovani che si stavano formando proprio in quel momento è alimentare uno stato nascente: «il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio ma lo stato di desiderio», laddove il desiderio appagato muore trascinando con sé il gruppo. Occhio ad incarnare il desidero nella figura del leader - che sia persona o valore -perché altrimenti si entra nella fissità del bisogno. Osservazioni fertili anche oggi se pensiamo alla trasformazione dei movimenti nati grazie al web in nome di una modalità orizzontale di rappresentanza e gestiti poi dalle logiche del leaderismo. Anni dopo, nel 1988, in “estasi metropolitane” la condizione estrema della mente, nella sua accezione laica diviene accessibile a tutti grazie al gusto della «velocità per la velocità» che attrae in quanto stravolgimento del tempo.
Una metropoli come New York permette l’estasi della promiscuità, l’appartenenza a una dimensione più vasta e la gioia. Se la voce di Fachinelli si fa graffiante e interrogante dinanzi al «suo paziente più complicato» che fu l’Italia, come sottolinea l’ottimo curatore , non è priva dei toni dell’indignazione e dello scacco. Una delle chiavi va trovata nell’uso del termine «prudenza», cioé viltà. Con i ragazzi di Barbiana Fachinelli concorda: si accettano consigli «purché siano per la chiarezza, si rifiutano i consigli di prudenza». Nel ’75 analizzando il nuovo rapporto tra operai e imprenditori, gli uni “pro tetti” gli altri “assistiti”anticipa la fisionomia della futura classe dirigente: «ne deriva un nuovo potere costretto a concentrare politica, economia e controllo sociale».
Così come una società frenata, immobile, che taccia di “imprudenza” i piccoli gruppi capaci di cambiamento: le femministe, i radicali per l’aborto. Toccante, infine, l’ultimo scritto della raccolta, Don Abbondio, “il vittorioso”. Fachinelli nota che Manzoni, mostrando il cuore nero (e avaro) dell’universo umano, ha cancellato dal lessico del curato viltà e coraggio, e «al posto della prima troviamo la prudenza». E’ il 1989, Fachinelli sta per morire, lasciandoci un buon itinerario per andare al «cuore delle cose» . E tutto il suo coraggio.
Fachinelli: il ’68 senza paraocchi
di Goffredo Fofi (Avvenire, 06/05/2016)
Nel non piccolo numero dei nostri miti intellettuali il nome di Elvio Fachinelli, noto ormai a pochi, meriterebbe un posto d’onore. Ho avuto la fortuna di esserne amico, trovandomi vicino a lui in molte convinzioni e battaglie ma leggendo con più passione i suoi interventi pedagogici e politici che non i suoi, per me ostici, saggi di psicoanalisi (tentò una volta di convincermi a tradurre con lui i saggi di Lacan, ma dopo un mese di accanito lavoro ero riuscito a metterne a punto solo tre o quattro pagine...)
Ci si rende nuovamente conto della solidità del suo pensiero leggendo Al cuore delle cose. Scritti politici 1967-1989, raccolti con scrupolo e amore per Derive Approdi da Dario Borso, cui devo, anni fa, anche un’ottima traduzione dell’«intraducibile» Arno Schmidt. Sono interventi anche lunghi, articoli veloci e veri e propri saggi legati all’attualità intensissima degli anni in cui furono scritti. Uscirono soprattutto sui Quaderni piacentini e su L’erba voglio, la rivista che fondò e diresse insieme all’omonima casa editrice anche in reazione alla piega che prendeva il ’68 fossilizzatosi in gruppi e gruppetti d’impronta neo-leninista.
Fachinelli si interroga sui comportamenti umani dentro la società del tempo e sui grandi conflitti in atto (erano gli anni del Vietnam, della delusione maoista, della violenza terrorista, dei disorientamenti intellettuali). I suoi scritti più nuovi restano quelli su infanzia e giovinezza: quanta forza troviamo in questa raccolta, che si confronta con il presente storico dei suoi anni senza paraocchi, in ostinato sforzo di capire e interpretare, e anche pacatamente giudicare, esprimendo con decisione i dubbi più motivati sui comportamenti generazionali e sui modelli di potere.
Al centro c’è sempre un interesse non solo scientifico, soprattutto «politico» per un’idea di maturità ben diversa da quella d’allora e ovviamente di oggi. Confrontandosi con la cronaca ma anche con le opere che hanno segnato quegli anni (da Salò a L’albero degli zoccoli, per esempio), Fachinelli cercava ostinatamente una verità a partire dall’uomo e non dalle ideologie. Per questo ha ancora tanto da insegnare rispetto ai simil-profeti che proliferano oggi nel vasto mare dell’opportunismo mediatico.
Elvio Fachinelli. Al cuore delle cose
di Enzo d’Antonio (Satisfiction, 15.04.2016)
Interrogare in profondità la realtà, l’attualità, la storia collettiva e le storie individuali con lo sguardo attento a coglierne i momenti di discontinuità, le cesure irriducibili a spiegazioni rassicuranti, indisponibili a rientrare nei vari recinti ideologici che l’epoca mette a disposizione, unendo alla perspicacia dell’analisi la partecipazione e l’empatia di chi si colloca dentro le cose, per cambiarle. Il titolo della raccolta di scritti politici di Elvio Fachinelli, Al cuore delle cose, allude a questa duplice attitudine dello psicanalista di Luserna, che come scrive il curatore Dario Borso nella sua breve quanto esauriente introduzione al libro, “di Musatti, ergo di Freud, adottò lo sguardo obliquo, lo scarto del cavallo che spiazzato sa spiazzare”,e lo utilizzò nella sua attività di “analista” della società italiana dagli anni Sessanta fino alla morte, nel 1989.
La raccolta comprende la totalità dell’attività pubblicistica di Fachinelli, vale a dire gli articoli (oggi introvabili) comparsi su settimanali e quotidiani, dall’Espresso al Corriere e Repubblica, e testi più complessi composti per riviste come, tra le altre, i Quaderni Piacentini e L’erba voglio, da lui fondata con Luisa Muraro e Lea Melandri. Ma che gli scritti si concentrino sul commento dell’attualità o affrontino questioni teoriche, lo stile del pensiero appare sempre volto ad allargare lo spettro della comprensione per cogliere i nessi tra i fenomeni, “macro” o “micro” che siano; per arrivarne al “cuore”, ovvero per salvarli anche e soprattutto nel loro sottrarsi alle spiegazioni consolidate.
Così, in un intervento a caldo sul movimento del ’68 Fachinelli sgombra il campo dall’assimilazione della lotta contro la repressione e l’autoritarismo alla ribellione alla figura paterna (già al tramonto), e sulla scorta della distinzione lacaniana tra desiderio e bisogno coglie la novità del movimento nella dialettica del desiderio all’interno dei gruppi che attuano la rivolta; mantenersi in stato di desiderio dissidente, mai appagabile, paritario per tutti, eliminando la figura del leader, spostare sempre in avanti gli obiettivi: ecco la condizione necessaria di sopravvivenza nel tempo del gruppo, del suo costituirsi come movimento politico, e della sua discontinuità e novità rispetto ai movimenti precedenti, che l’ortodossia marxista non comprende. Un’interpretazione nuova e appunto spiazzante, come lo è la conclusione, affidata a un’intervista rilasciata vent’anni dopo, nel 1988: il gruppo chiuso, spiega Fachinelli ripercorrendo la sua esperienza, ha prevalso su quello aperto, il processo di accomunamento è stato soffocato dal bisogno di sicurezza interna. Da qui la frammentazione e debolezza del movimento, che rinvia la rivoluzione futura.
Ma, avverte Borso, questo libro è come “un mosaico, o più ancora un puzzle”, e così vediamo in vari luoghi riaffacciarsi, assieme a molti altri temi che si rincorrono per variazioni e rimandi da un articolo all’altro, questo del desiderio dissidente, o meglio dei “resti notturni della vita dell’uomo, quella parte di scarto che, partendo dal sogno, dalla fantasia, dal desiderio, tende la realtà e risulta irriducibile all’esistente” nella sua relazione creativa con la vita politica e la produzione culturale, di cui Fachinelli è l’appassionato cronista.
Così, da un rimando all’altro scorrono le pagine del libro e trent’anni di realtà italiana, finché arriviamo all’ultimo articolo, scritto nell’anno della morte: un apparentemente enigmatico ritratto di don Abbondio, anzi della sua ben nota mancanza di coraggio, che poiché non può darsi da sé né ricevere dall’esterno (Dio), non complicherà mai la tranquillità e continuità della sua esistenza terrena. All’ombra di questo paradosso riposano inerti pensiero e azione. Per Don Abbondio la viltà è “prudenza” e il coraggio nient’altro che “imprudenza”, utopia, un “voler raddrizzare le gambe ai cani”. Insomma, estremismo politico.
A questo punto, giunti alla fine, tornano in mente le riflessioni di metà anni Settanta sulla situazione di stallo della politica italiana, che solo “piccoli gruppi animati soprattutto da ciò che a tutti gli altri sembra straordinaria imprudenza” possono aiutare a modificare. Come quel piccolo gruppo che avvia l’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, esperienza di cui Fachinelli è protagonista e che racconta in una densa forma diaristica (Elvio cacato); o l’altro di via Ciovassino, col quale avvia una riflessione inedita sul diffondersi tra i giovani dell’eroina. E capiamo allora il senso etico del coraggioso tentativo di Elvio Fachinelli di combattere i narcotici effetti della “prudenza” sul pensiero e la vita dei suoi simili.
Enzo d’Antonio
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anche in queste cose quanto ristretta, impaurita, e alla fine irrazionale, la tesi razionalistica del sogno come elemento “marginale”, separato dalla realtà. Il sogno invece come elemento permanente su cui si costruisce, e contro cui si costruisce, la realtà E quindi: sempre obbligato; sempre pertinente alla situazione data.”
di Pietro Barbetta ("doppiozero", 2 settembre 2015)
La biografia culturale di Elvio Fachinelli (1928-1989) sembra una genealogia Biblica. Il suo analista fu Cesare Musatti (1897-1989), il quale - considerato uno dei Padri della psicoanalisi italiana - si formò con Edoardo Weiss (1889-1970), il primo psicoanalista italiano. Weiss era, a sua volta, in supervisione dallo stesso Sigmund Freud. Nonostante le sue origini nobili e ortodosse, Fachinelli fu tra gli psicoanalisti che più cambiarono la psicoterapia in Italia.
In primo luogo rifiutò l’idea di “resistenza del paziente” a favore dell’accoglienza della “persona che frequenta l’analisi”, spostando la responsabilità della terapia sull’"esperto”. Negli anni Settanta nacque e si diffuse la strana idea che se c’è fallimento nella relazione tra il professionista e il suo utente, la responsabilità è del professionista, non dell’utente. Per esempio, se un tempo una persona moriva legata a un letto, si attribuiva la morte alla furia della persona. Basaglia per primo ebbe l’idea di invertire l’ordine delle responsabilità nei manicomi. Don Milani invertì l’ordine delle responsabilità nelle scuole. Lo stesso Fachinelli contribuì, con altri autori, a fondare una scuola libera, nell’epoca in cui veniva messo in discussione il ruolo dell’insegnamento. C’erano assonanze tra queste imprese. Quel che si ricorda meno di Fachinelli è il suo modo di ripensare il settting clinico, i limiti discorsivi e le pratiche inscritte in quel setting, la sua parte oscena.
Lo fece prima di quando Foucault pubblicò La volontà di sapere, nel novembre 1976. Foucault aveva indicato la psicoanalisi come luogo dove il desiderio incestuoso si trasforma in discorso, trattamento riservato alle élite borghesi, costantemente occupate a gestire perversioni e sentimenti di colpevolezza. Fachinelli aveva posto la medesima questione in modo ancor più radicale. A una conferenza nel 1975, parlando del Denaro dello psicoanalista, aveva contrapposto il contratto terapeutico classico - che vede il paziente nevrotico parlare di avversioni sessuali, ossessioni, manie e fissazioni - a un contesto sociale ampio, dove i soggetti possono raccontare storie di vita, di salari, politica, religione, lavoro, famiglia.
Più tardi, in Claustrofilia, Fachinelli tornò su questi argomenti sviluppando nuove critiche al setting clinico. Una ricerca intorno ai termini “onorario” e “salario” gli aveva fatto scrivere che il termine “onorario” è, nell’uso tradizionale, somma una tantum, pagata dal soggetto che riceve il servizio, al professionista che onora l’impegno. “Salario” - che deriva dalla rata di sale ricevuta dal soldato durante l’Impero Romano - è una quota fissa di denaro pagata ai lavoratori nella moderna civiltà delle macchine. Con l’introduzione su larga scala delle prime generazioni di macchine, le “mansioni” dell’operaio addetto si modificarono rispetto all’attuazione di un compito preciso e ben definito. Si spostarono verso la sorveglianza del lavoro fatto dalle macchine, che a sua volta era ripetitivo, sempre uguale, con pochi “tempi morti” e così via. Ora, è del tutto notevole che Freud, passando al tipo definitivo di psicoterapia, sia andato incontro, senza esserne consapevole, a modificazioni analoghe della sua attività [...] In questo senso l’attività psicoterapeutica [...] diventa per la prima volta nella storia un lavoro proto-industriale, dove il “lavoro” è formalmente separato dalla “vita”, ma dove la “vita” è inglobata dal “lavoro” [...] la costanza del tempo macchinico si riflette in una durata programmaticamente indefinita del “trattamento”. Eliminando i “tempi morti” viene eliminata tendenzialmente anche la morte (cfr. pp. 24-25).
Gravi colpi, questi, inferti al setting clinico, di cui nessuno sembra ricordare: 1. critica radicale al concetto di “resistenza” e conseguente uso dell’accoglienza come responsabilità del terapeuta; 2. critica a un setting che paragona a quello della prostituta: scambio di denaro, nell’ordine del lavoro, in cambio di discorsività relegata all’ordine dell’eros; 3. critica alla posizione dell’analista che inverte, nel contratto, l’onorario con il salario: il salario si presenta nella forma di onorario ripetuto.
In un saggio che oggi appartiene alla raccolta Su Freud (Adelphi), Fachinelli ricorda che già il fondatore della psicoanalisi aveva affrontato la questione dell’assistenza psicologica gratuita agli indigenti, cambiando parere - da negativo a positivo - a proposito dell’impegno dell’Imperatore d’Austria a fornire consulenza psicologica gratuita ai poveri. Insomma, critica radicale all’invenzione americana di fare degli psicoanalisti dei signorotti con lo studio al ventesimo piano di un grattacielo di New York e delle assistenti sociali delle antipatiche signore che rubano i bambini ai poveri, insegnano loro come tenere un’agenda e a smettere di bere, i cosiddetti social skills.
Nel 1977 l’Erba voglio pubblicò L’uomo col magnetofono di Jean-Jacques Abrahams. Di questo Abrahams poco si conosce, un po’ come di Louis Wolfson, caso analogo e compresente sulla scena intellettuale francese di quegli anni. Abrahams accese l’attenzione degli intellettuali parigini, in particolare di Jean-Paul Sartre, inviandogli un nastro registrato, che il filosofo pubblicò nel 1969 su Les Temps Modernes, contro il parere di Pontalis e Pingaud. L’homme au magnetophone, questo il titolo della registrazione, si trasformò in una pièce teatrale e poi in un libro. Audace trascrizione di una conversazione tra Abraham e il suo psicoanalista che, dopo anni di terapia, lo fece internare. Secondo alcune leggende, non si sa quanto attendibili, Abraham evase dal manicomio di Brugman e fuggì negli Stati Uniti, ove pubblicò un testo dallo stesso titolo, L’homme au magnetophone, per le Sagittaire, un anno prima della pubblicazione italiana dell’Erba voglio. Alcune voci sostengono addirittura che lo psichiatra in questione fosse Jaques Lacan, altre smentiscono.
Di fronte allo scandalo Abraham, molti intellettuali e psicoanalisti reagirono con sdegno, primi fra tutti Pontalis e Pingaud, condannando l’invasione dello studio clinico come oscenità e molestia. Fachinelli, in modo altrettanto osceno, individuò invece nel magnetofono di Abraham un nuovo strumento democratico e l’opera di Abraham come ribellione contro l’asimmetria del potere psicoanalitico e il tradimento di un clinico che, durante la psicoterapia, ti fa internare in manicomio. Non molti anni dopo a Milano, altri psicoanalisti - Selvini, Boscolo, Cecchin - useranno la videoregistrazione come strumento costitutivo del setting terapeutico familiare. Fachinelli si era preoccupato di trasformare l’alienazione, nascosta dietro l’asimmetrica relazione tra terapeuta e paziente, in reciprocità e accoglienza. Ripartì dalle critiche di Ferenczi, insabbiate per anni dalle associazioni psicoanalitiche.
Il suo punto di vista si mostra oggi come decostruzione sociale del setting, come se la psicoanalisi avesse bisogno di essere liberata da un rigore che rasenta l’ossessione e il paziente diventasse un libero “soggetto che frequenta la terapia”. Il ruolo delle due parti va trasformato, per Fachinelli, da asimmetrico in reciproco. Il giovane paziente anancastico, proveniente dalla famiglia della classe dominante milanese, che obbliga la sorella a coprirsi le orecchie coi capelli, affinché non gli provochi crisi di angoscia, viene sostituito dal giovane povero, che vive nelle case popolari di Quarto Cagnino. Quest’ultimo semplicemente molesta la sorella perché costretto a dormire nella stessa camera con lei in uno spazio di 4 metri quadri. Che il primo continui a frequentare il suo analista imperialregio, a Fachinelli interessava poco. Assai di più il secondo. Forse è arrivato il momento di smettere di trattare Elvio Fachinelli “come un cane morto” e riscoprire davvero le sue posizioni radicali.
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Mario Porro, Elvio Fachinelli. Su Freud
Raccontare il discontinuo
ELVIO FACHINELLI. Psicoanalista di formazione freudiana, lo scrittore trentino è stato un interprete critico della società, contribuendo all’esperienza dell’educazione non-autoritaria di Porta Ticinese
di Marco Dotti (il manifesto, 05.03.2016)
Il 21 dicembre 1989, un giovedì, a Milano, moriva Elvio Fachinelli. In quelle ore, in un altrove che credevamo non ci riguardasse troppo ma coglieva forse meglio e certo più di tanti scenari il cuore infinitamente nero del nostro tempo che proprio Fachinelli aveva saputo indagare con il rigore eccentrico del flâneur, Nicolae Ceausescu, uno di quei piccoli uomini senza rigore e senza smalto che talvolta fanno la storia, si affacciava dal suo palazzo presidenziale e ripeteva una menzogna di lungo corso.
Nelle parole pronunciate in quello che fu il suo ultimo discorso pubblico, il conducător mostrava un misto di incredulità e disprezzo. Incredulità rispetto ai fatti di Timişoara, alle rivolte, ai minatori, allo sgomento per la «necessaria» repressione. Disprezzo per una una realtà che non solo gli era sfuggita di mano, ma proprio non vedeva più, continuando imperterrito a parlare di «società plurilateralmente sviluppata» e di «splendore del socialismo romeno». Il giorno dopo, di quello splendore e di quello «sviluppo onnilaterale» sarebbe rimasta solo la polvere. Il ritorno all’ordine non aveva avuto luogo. E noi, scomparso Fachinelli, avevamo uno sguardo in meno per cogliere ciò che davvero stava mutando fuori, dentro e persino oltre di noi.
Elvio Fachinelli era nato a Luserna, in Trentino, nel dicembre di sessantun anni prima. Aveva trascorso gli anni dell’infanzia a Melun, una cinquantina di chilometri da Parigi, dove si erano trasferiti i genitori - il padre era impegnato nel settore edile -, si era laureato in medicina a Pavia, specializzato all’Ospedale Maggiore di Milano dove conobbe Enzo Morpurgo, cominciò a lavorare presso una casa di cura, tra i suoi colleghi figurava anche Franco Fornari, e infine fu avviato all’analisi da Cesare Musatti. «Probabilmente, con i criteri attuali», osserverà Fachinelli, «sarebbe giudicata un’analisi selvaggia - come del resto le analisi fatte dalle prime generazioni di psicoanalisti. Eppure secondo me è stata una buona analisi: ho ricevuto sorprese, e questo per me è fondamentale in ogni analisi. Ho imparato e mi sono anche divertito».
Servirebbe tutta un’archeologia di quegli incontri e di quei - topologicamente parlando - «divertimenti» per capire il «dopo» di una delle teste più lucide e attive dell’altra cultura, quella né contro per posa, né dentro per vocazione. Semplicemente diretta al cuore delle cose. Confliggere - ma su questo si è detto e scritto tanto - non sarebbe mai stato «il» problema per Fachinelli che, editore, redattore, parte attiva di imprese al limite dell’utopia - ricordiamo l’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, aperto il 12 gennaio del 1970 - non è stata figura di second’ordine nel panorama culturale italiano. Né apocalittico, né integrato Fachinelli mostrava una modalità atipica ma non esclusiva di venire ai ferri corti con le cose. Toccare il loro cuore era ben più necessario che colpire retoricamente al cuore un Moloch di per sé senza cuore.
Il «dopo», a partire dal 1967 ci consegna un Fachinelli già co-curatore della Traumdeutung freudiana per il primo volume delle Opere edite da Boringhieri. Ma a Fachinelli, nel 1965 divenuto membro della Società Psicoanalitica italiana e avviatosi alla professione di analista, non bastava l’interpretazione dei sogni. Bisognava muovere anche da un’altra urgenza: interpretare i segni. Soprattutto quando scendono in strada. Soprattutto quando più che i sogni, sono gli incubi a coprire con la loro ombra con quella cosa che - dopo il diluvio lacaniano - abbiamo persino timore di pronunciare: il reale. All’inizio del suo lavoro, Freud pose non a caso un esergo virgiliano tratto dall’Eneide, esergo che sarà sempre molto caro a Elvio Fachinelli che lo riprenderà in una memorabile puntata di Fuori Orario dove, nonostante la malattia avanzasse, continuò a tenere una rubrica fissa: «Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo». Se non posso smuovere i fiumi del cielo, muoverò quelli dell’inferno. In qualche modo, il rapporto col concreto e con la realtà fantasma che troppi, con l’alibi di Lacan hanno teso a ridicolizzare, era tenuto in massimo conto da Fachinelli, che al corteggiatissimo Lacan conosciuto a Roma e frequentato a Milano oppose un gran rifiuto, quando il 30 marzo del 1974 rifiutò l’investitura a presiedere la sezione italiana dell’École freudienne.
«L’incubo è reale, questa volta, ed è qui la sua importanza collettiva», scriveva Fachinelli in un testo pubblicato su L’Espresso il 7 novembre del 1971 con il titolo «Ritorno all’ordine». Parlava di un caso di cronaca, uno di quei faits divers che di lì a poco avrebbero invaso spazio e campo del sociale tutto, per non parlare del politico allora ritenuto autonomo da quel sociale. Parlava Fachinelli - ma senza la fredda anatomia del semiologo - della scomparsa di tre bambine a Marsala. Una di essere venne ritrovata morta alcuni giorni dopo, uccisa dallo zio. Ma questo si seppe solo fuori tempo massimo, dopo l’ennesima caccia al mostro. Dentro quel testo - ma si potrebbe dire in quasi tutti i sessantun articoli, interventi e microsaggi raccolti in volume - c’è già tutto. Quante volte l’abbiamo sentito dire?
Eppure è così e c’è da rabbrividire se confrontiamo i predicozzi deglj psicotutto da tastiera con i testi raccolti in Al cuore delle cose. Scritti politici(1967-1989) (DeriveApprodi, pp. 192, euro 17), per la cura minuziosa di Dario Borso, che in tre pagine tre di introduzione riesce a spiegarci Fachinelli più e meglio di tanto inchiostro e parole spesi in forma agiografica su di lui. Articoli brevi e lunghi, interventi e interviste spesso introvabili. Ritagli di giornale che si rianimano in un’inedita e attuale cornice di senso, ben oltre l’esperienza della rivista «L’Erba voglio», fondamentale certo ma non esclusiva del suo lavoro.
Il lavoro di collazione di Dario Borso è discreto, non straripante come si conviene al filologo e alla vecchia talpa che riaffiora a prender aria solo dopo tanto scavo, e proprio per questo ancora più utile se, come si spera, finirà tra le mani anche di lettori che di quei «formidabili anni» non sono reduci ma, tutt’al più, «prodotti». Se accogliamo l’intuizione del curatore secondo cui il paziente più complicato dell’analista Fachinelli «fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana», dobbiamo anche aggiungere che Fachinelli fugge sempre dalla boria sociologica e si concentra su fatti «grandi» ma con attenzione al minuto, al linguaggio, alle piccole crepe nella grande muraglia.
Borso parla non a caso di una psicoanalisi della domanda, invece che della risposta e di uno sguardo obliquo, appreso da Musatti e da Freud. Dell’Italia, «quasi fosse un quadro, seppe cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti da esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi: tre decenni tondi, che nella sua attività giornalistica sezionò e ricompose con sapiente tempestività». Un’attività giornalistica, disseminata non solo sulle riviste ma su quotidiani - Il Corriere della Sera, Il Giorno - su temi «caldi» come il terrorismo, Mao, le nuove droghe, la vita nelle metropoli, la mutazione dei cristianismi. Memorabile un suo ritratto, datato 1985, di Roberto Formigoni dove coglie sul nascere il «nuovo che avanza» e, dopo il 1989, si sarebbe affermato a pieno titolo nelle coscienze e in un immaginario antropologicamente mutato e sradicato persino nelle dinamiche del suo perenne mutamento.
Torniamo all’articolo pubblicato dall’Espresso. Fachinelli parla di un fenomeno che potrebbe essere dell’oggi, perché sempre l’oggi è la risultante di un processo di media o lunga durata. Se nella sfera pubblica ha spazio solo “chi lacrima e chi sanguina” come ebbe a dire un noto impresario brianzolo che di lì a poco sarebbe passato dalla speculazione edilizia a quella sull’immaginario e infine a una politica degna di Ubu, i nostri incubi privatissimi rischiano di assumere importanza collettiva e diventare tragicamente reale. Fatti su fatti, ma che cosa accade se ogni fatto - è questa la cronaca? - si inserisce «in una serie di altri fatti (politici, sociali, morali) che hanno in comune una sola cosa, ma essenziale: la circostanza di non avere soluzione, di non trovare sbocco? ». Viviamo - e non da ora - «tragedie in cui manca sempre l’ultimo atto». Incubi dove l’intensità della partecipazione collettiva consuma ogni desiderio.
Che fare? Siamo a un bivio. Oggi più di ieri, e sono passaro 45 anni. Da una parte, scriveva Fachinelli a proposito dei fattacci di Marsala, «ci si libera dall’incubo e si va verso una realtà accettabile. Questo vuol dire, per esempio, affrontare di petto quella serie di problemi collegati che si chiamano educazione sessuale, controllo delle nascite, liber zione della donna, critica pratica dell’istituzione familiare. È la strada meno probabile. L’altra è stare nell’incubo e vederlo progressivamente crescere e proliferare dentro la vita collettiva e dentro ogni individuo». Diagnosi impeccabile sul corpo di un’Italia malata. La cronicità del suo male, i tempi lunghi dello snervamento nulla tolgono alla ludicità attualissima delle diagnosi di Fachinelli. Nella miseria di chierici asserviti al selfie, tutt’al più la confermano.
PSICOANALISI E FILOSOFIA. DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE....
Nel tempo accelerato e precipitoso, che ci prende tutti, la sospensione estatica del tempo, riconosciuta o no, è un fenomeno di massa. Non lo era anche nel Medioevo? Da religiosa che era è diventata profana, politeista, portatile. Distinguere le situazioni estatiche è l’ ultima risorsa della Ragione?
ANDIAMO IN ESTASI
di Alfredo Giuliani *
PER ANNI ho letto trattati e saggi di psicoanalisi come fossero romanzi, zibaldoni poetici, peripezie antropologiche e terapeutiche di nuovi intrigantissimi sciamani. Sono stato toccato nel vivo della fantasia, nell’ ombelico dei sogni, nel cocuzzolo mitologico-filosofico. La letteratura psicoanalitica ha finito con l’ occupare uno spazio cospicuo della mia biblioteca.
A un certo punto della vita ho fatto una soddisfacente esperienza, né troppo breve né troppo lunga, del confessionale junghiano. Che tutto questo mi sia servito per conoscere un po’ meglio me stesso e gli altri, a percepire la forza e le deformazioni degli impulsi, per congetturare la presenza di campi e confini invisibili, mi sembra ovvio.
Per me il fascino principale dell’ analisi risiede nel metodo e nell’ idea che lo muove: che si possa riuscire a conoscere (o riconoscere) ciò che non sappiamo di sapere, ossia la nostra distorta ignoranza o sepolta sapienza. Infatti, c’ è un’ altra cosa ovvia che troppo spesso viene dimenticata: gli oggetti di cui discorre la psicoanalisi sono tanto arcaici e lontani quanto i modi della nostra vita emozionale, affettiva e mentale.
La psicoanalisi è un’ arte maieutica, è un teatro alchemico e manierista, è l’ avventura psichica, come aveva intuito lo Zeno di Italo Svevo; e l’ operatore, lo sciamano, lo esercita a proprio rischio, modificandosi continuamente. Certo, esistono anche sciamani mediocri o cialtroni; ma questo è un altro problema. Nel fascino esercitato dall’ analisi c’ è un fondamentale elemento critico. Io devo supporre che il nostro sciamano possieda i criteri della Ragione e della patologia psichica; e insieme con lui, grazie alla delicata e penetrante manovra di tali criteri, mi avventurerò nel mio sepolto e confuso sapere.
E’ vero che per l’ analisi non esiste la malattia, esiste il malato. Eppure, oggigiorno la relazione terapeutica (che dovrebbe configurarsi come una trasfusione di ritrovamenti e ideazioni dall’ analista al paziente e viceversa) corre due pericoli perfino grotteschi. In sostanza, che sia l’ analista sia il paziente si abbarbichino al già noto. L’ uno per l’ accumulo di conoscenze e interpretazioni trasmesse e collaudate. L’ altro perché subisce la frammentazione temporale delle sedute e perché tende a incanalarsi nella prevedibilità delle cose da dire. Prevedibilità che non finisce mai, attirata dal miraggio di comunicare tutto.
In un libro uscito presso Adelphi nel 1983, Elvio Fachinelli ha indagato con molta finezza questi meccanismi; ma il fatto curioso è che il suo Claustrofilia individua un’ area psicologica che circoscrive diversi fenomeni, tutti individuati dalla ricerca del chiuso (immagine o modello: l’ utero materno). Sicché dalle considerazioni sui limiti e il tempo dell’ analisi si arriva ai sogni di soggiorno intrauterino e al tempo stagnante, estatico, vissuto dal feto nella sua unità duale con la madre (relazione contraddittoria di co-identità).
Se si tiene conto che esperienze di tipo protonirico sembrano presenti nel feto negli ultimi mesi della gravidanza, mentre maturano le funzioni del suo sistema nervoso centrale, e quindi un inizio di vita mentale e sensoriale si sviluppa prima della nascita, ecco che ci si può azzardare a supporre che il bambino non ancora nato avverta nella sua estatica dimora l’ oscura e terrorizzante intrusione di un terzo! La claustrofilia sarebbe dunque un sentimento naturale, acquisito nel soggiorno intrauterino (casa-fortezza, bellissimo giardino, buia piscina ondulante).
L’ avventura psichica comincia assai prima del trauma della nascita; ma, in fondo, le madri sensibili non l’ avranno sempre sospettato? E proprio riflettendo sul tempo stagnante del soggiorno intrauterino, su quel tempo estatico fuori del tempo che a volte ritorna nei sogni dei pazienti, e che si lascia plausibilmente ipotizzare come protoattività mentale secondo le recenti acquisizioni della neurofisiologia, Fachinelli è arrivato al suo appassionante nuovo libro, La mente estatica (Adelphi, pagg. 202, lire 20.000).
Scrittore lucido, sobrio ma vibrante, dotato di un bel garbo stilistico insolito tra i suoi colleghi, Fachinelli non ricorre pressoché mai al formulario gergale della psicoanalisi. Rigoroso nel pensiero e nello stile, non si adatta però completamente alla forma del resoconto scientifico; non lo appagano del tutto neppure le flessibili maniere del saggio.
Per lui un libro deve argomentare una sequenza di sorprese. Così La mente estatica presenta alla rovescia i capitoli d’ una intrepida peregrinazione esplorativa. Prima i risultati: l’ affiorare della percezione estatica, la scoperta che la nostra civiltà si è difesa dalla nozione di estasi attribuendola soltanto a stati di rapimento mistico o religioso, oppure confinandola nel patologico.
Poi la ricognizione storica di esperienze estatiche, per exempla: Meister Eckhart, Dante, il matematico Poincaré, Proust, Bataille e l’ inaspettato Moses Herzog, protagonista dell’ omonimo romanzo di Saul Bellox. Quindi: resoconti di varie esperienze, letture, note ai margini del tema, sondaggi rapsodici del tempo estatico. Segue un approfondimento e ampliamento del motivo già trattato in Claustrofilia: la disponibilità del feto, e qui soprattutto del neonato, alla percezione estatica (unità sublime con la madre). E infine: un sottilissimo esame di alcuni scritti di Freud (e di Lacan), che a detta dell’ autore costituisce l’ antecedente di quanto abbiamo letto nei primi due terzi del libro.
La struttura anomala della Mente estatica è in questo capovolgimento, che fa risaltare l’ assemblaggio delle parti. I capitoli, tanto diversi tra loro, sono scorci, passaggi, giri, percorsi a volte tortuosi, oppure misteriosamente rettilinei, di uno stesso labirinto. Come capita spesso quando si consultano i nostri sciamani, i loro discorsi sembrano inoltrarsi in zone dove le frontiere si annullano. Ma l’ oggetto che quei discorsi evocano con cauta suggestione lo riconosciamo sùbito. Ma s, l’ estasi! Chi può dubitare della sua diffusione profana? Non si dice comunemente: mi ha mandato in estasi, era in estasi, e così via? Lo si dice magari con una sfumatura di enfasi comica, ma anche in quella forma impoverita la parola attesta una parvenza di specialissima condizione esperibile da chiunque. Specialissima e banale! Quale portentosa contraddizione.
Ma l’ opinione di Fachinelli è che non sia più lecito separare dogmaticamente considerandoli incompatibili come si fa ora i differenti livelli dell’ esperienza estatica. Nell’ estasi di qualsivoglia natura si è come fuori di sé, fuori dal sé abituale, secondo il significato originale della parola greca ékstasis, e in questo stato si prova una contentezza, una gioia anch’ essa non abituale, un reale rapimento dell’ animo.
Tale excessus mentis, descritto dai mistici medioevali, è di fatto disponibile in ciascuno di noi. Lo si ammette generalmente nell’ ambito dei sentimenti, nell’ artista e in coloro che godono interiormente l’ opera d’ arte, quale essa sia. Ma come stacco rapinoso dal tempo, sospensione totale del vivere, quasi perdita del respiro, come attimo vuoto che ti accoglie e ti perde (campo di tensioni da attraversare), la situazione estatica viene misconosciuta o cancellata. Si vuole interrompere, perché fa paura, quel movimento verso il nulla, che è familiare al mistico, ma non gli è peculiare.
Il profano teme l’ abolizione dell’ io, per angoscia arretra prima che la smisurata gioia del rapimento invada il vuoto. Peccato, non sa quello che perde. Ma una spiegazione c’ è: si ha terrore della gioia eccessiva (stato che si pone al di là del piacere comunemente inteso) poiché essa è contigua alla pulsione di morte (il vecchio Freud l’ aveva intuito). Mi viene in mente la saggia e bella Porzia del Mercante di Venezia, quando nel terzo atto perora a se stessa: Mòderati, amore, reprimi la tua estasi, trattieni la tua gioia, frena questo eccesso!.
Lo sciamano, ancora una volta, ha attivato un vortice di pensieri che ci toccano nel cocuzzolo e nell’ ombelico. Alcuni di tali pensieri sono futili. L’ estasi degli antipatici sarà anch’ essa antipatica, o varrà la metà? E quella degli sciocchi, varrà poco più di niente? Fachinelli sembra dare la preferenza all’ estasi degli intelligenti. Ma l’ estasi, di per sé, sarà indifferente; cadrà dove vuole, come soffia il capriccioso Spirito biblico? Se è un tipo particolare di percezione, non si potrà attenderla e provocarla con un certo metodo? E chi si droga non è forse un estatico coatto?
Dice Fachinelli: l’ estasi non è soltanto nelle sue epifanie riconoscibili; è anche nella sua irradiazione al resto. Ma allora l’ attimo estatico avrebbe una inimmaginabile potenzialità trasformativa. Io credo che sia proprio così, ma ne traggo conseguenze personali e non saprei inferirne effetti teorici d’ interesse generale. Della gioia eccessiva non si può parlare. Il silenzio la custodisce, e tuttavia... essa parlava apertamente in certi romanzi che hanno segnato la nostra giovinezza.
Trovo strano che Fachinelli non si sia ricordato di Dostoevskij; nel suoi romanzi, penso principalmente a L’ idiota, c’ è un vero delirio di situazioni estatiche. Per alcuni dei suoi personaggi il cadere o il trovarsi fuori di sé, il provare una gioia smisurata, è una condanna, una frenesia ingovernabile che frantuma ogni convenienza, un segno grottesco-sublime del destino; potremmo dire che per loro l’ eccitazione estatica è il meglio dell’ incomprensibile. E può portare al peggio.
L’ argomento di Fachinelli ha mille risvolti, è vago e intenso e non vorrei abbandonarlo. La mente estatica è un libro di evidenze inquietanti, dove buio e luminosità, lontano e vicinoi accelerazione e immobilità, oggetti ancestrali e nuovissimi si proiettano in un misterioso deserto esistenziale popolato di sogni realizzati e di immani attese frustrate. Tempi e spazi percettivi hanno subìto un sommovimento, e anche l’ estasi brulica sulla terra in forme orripilanti.
Nel tempo accelerato e precipitoso, che ci prende tutti, la sospensione estatica del tempo, riconosciuta o no, è un fenomeno di massa. Non lo era anche nel Medioevo? Da religiosa che era è diventata profana, politeista, portatile. Distinguere le situazioni estatiche è l’ ultima risorsa della Ragione?
* di ALFREDO GIULIANI (la Repubblica, 04 aprile 1989).
ELVIO FACHINELLI E I TRUCCHI DELLA MENTE
di Alfredo Giuliani *
Circa tre anni fa in queste pagine (precisamente il 4 aprile 1989), segnalai all’ attenzione dei lettori un bellissimo saggio di Elvio Fachinelli, La mente estatica, notando che esso faceva seguito a un’ altra affascinante indagine, Claustrofilia, apparsa nel 1983. Claustrofilia è un termine coniato dall’ autore per circoscrivere diversi fenomeni psichici individuati dalla ricerca del "chiuso" (di cui l’ utero materno è il modello originario). Dalla ondulante dimora intrauterina, immagine di un sentirsi "fuori del tempo", Fachinelli era passato a studiare nelle varie modalità dell’ estasi (mistica o profana, eccezionale o comune) l’ esperienza del "fuori di sé", dello stacco rapinoso del tempo.
Quando parlai dei due libri qui sopra nominati non tenni presente un terzo saggio che li aveva preceduti e che era ormai introvabile (pubblicato da "L’ erba voglio" nel 1979). Si intitola, ed è un omaggio a Zenone di Elea, La freccia ferma e ora lo ristampa l’ editore Adelphi (pagg. 210, lire 16.000).
Perché avrei dovuto tenerlo presente? Perché i tre libri disegnano un percorso originale e avvincente dentro una dimensione paradossale che viviamo tutti. La freccia ferma ha un sottotitolo - Tre tentativi di annullare il tempo - che prefigura anche il tema dei due libri successivi. I trucchi escogitati dalla mente umana per denegare il tempo, segmentarlo, farlo girare in tondo e farlo tornare indietro, arrestarlo, annullarlo, questi trucchi, queste illusioni o ossessioni e ripetizioni incantate e parossistiche sono l’ inesauribile argomento di quella che ora possiamo chiamare la trilogia di Fachinelli.
Egli non era semplicemente uno psicoanalista. Aveva le attitudini dell’ antropologo e del filosofo. Percepiva gioiosamente il potere significante della poesia. Con rigore, e anche con prudenza, si avventurava in zone di confine, dove le risorse dell’ immaginazione sono altrettanto decisive dei sussidi tecnici. Ed era scrittore assai accattivante, lucido e calmo nel riferire le sorprese e le peregrinazioni del proprio indagare lo strano agire degli esseri umani. Dico aveva, era con profondo dispiacere: Fachinelli morì, appena sessantenne, pochi mesi dopo l’ uscita della Mente estatica.
Il libro che abbiamo sotto gli occhi prende spunto dal caso di un paziente ossessivo. Una storia clinica piuttosto banale: figlio unico di genitori modello, le cui immagini interne sono divenute talmente forti da renderlo incapace di distanziarli e affermare la propria identità. Come riuscirà a mantenere il loro amore e la loro stima? A stare alla loro altezza? Adolescente, viene mandato in un severo e prestigioso collegio di gesuiti, dove l’educazione religiosa impartita è di tipo precettistico.
"Ecco allora che con l’ osservanza dei comandamenti, richiesta dalla nuova autorità, gli si presenta la possibilità, così pare, di uscire dal dilemma. Osserverà scrupolosamente i comandamenti e questa osservanza impersonale gli varrà da garanzia, da pegno, da protezione magica, per ogni progetto di vita personale. In questo modo non è più direttamente in questione il problema delle sue scelte autonome; è in questione l’ obbedienza a un’ istanza superiore esterna".
Ora non è più esposto ai rischi di scelte personali (diventare colpevole di fronte all’ autorità interna, perdere amore e stima). L’ essenziale si sposta su un terreno ben definito, quello del "peccato", rispetto al quale esiste un sistema di regole altrettanto definite. Il ragazzo diventa il soggetto di una macchina morale che coincide con la vera religione, e ciò lo fa partecipe dell’ onnipotenza di Dio.
Il problema sembra risolto. La vita è comandata dal decalogo di Mosè. Solo che la legge è implacabile. Il peccato, il male, cacciato in ogni azione, parola, pensiero, risulta ovunque presente. Il decalogo si estende in maniera straordinaria, si ramifica al di là delle sue enunciazioni letterali.
Per esempio: pronunciare la parola giallo è atto impuro perché giallo rimanda a limone, e limone a limonare (pomiciare, flirtare). Se bisogna santificare la domenica, giorno del Signore, bisogna santificare anche il lunedì perché è contiguo alla domenica, e il martedì e così via. Si creano periodi di settimane e mesi nei quali è impossibile fare nulla perché dedicati al Signore. In ogni attimo c’ è un comportamento doveroso rispetto a un comportamento vietato. Certo vi è un residuo non eliminabile, vi sono azioni parole e pensieri inevitabili; allora intervengono ragionamenti "di sopravvivenza" (qualche masturbazione è necessaria: se mi vieto anche questo, tanto vale morire). Il senso di colpa acquista dimensioni gigantesche.
Il rimedio più semplice per non peccare sarebbe di sopprimere azioni, parole, pensieri. E così succede effettivamente, in gran parte. Col passare degli anni, diventato per così dire adulto, il paziente ha trovato il modo di controllare la minacciosa alternativa tra divieto e dovere, male e bene: "la segmentazione del tempo concreto, del tempo come flusso e forma individuale dell’ azione, in una serie di tempuscoli tendenzialmente sempre più piccoli. Ognuno di essi è separato e isolato dagli altri, allo scopo di effettuare nel modo giusto il segmento di azione corrispondente e per mantenerlo distinto dal tempuscolo successivo in cui si ripresenta l’ alternativa". L’ insieme di queste operazioni tende a stabilire un tempo seriale, senza storia, una collezione infinita di "ora".
Questo tempo segmentato, meccanico, è reversibile. Si può "annullare". Basterà compiere in senso inverso tutte le azioni cominciate con un atto "peccaminoso" (che, intendiamoci, ha la stessa rilevanza del limonare). Se il paziente, per portare certi documenti fiscali al suo avvocato ha dovuto rimuovere una rivista che li copriva (e che egli ritiene assurdamente "peccaminosa"), uscirà dallo studio dell’ avvocato scendendo le scale voltato all’ insù, farà retromarcia con la macchina fino a casa sua, salirà le scale di casa guardando all’ ingiù e finalmente riporrà i documenti nello scaffale nell’ esatta posizione in cui si trovavano. Così l’ azione impura sarà annullata.
La frammentazione e l’ annullamento del tempo da parte del paziente configurano un procedimento dialettico caricaturale finché si vuole, assai simile all’ immobilità della freccia di Zenone, la quale non si muove benché scoccata, perché essendo ogni distanza divisibile all’ infinito non può percorrere in un tempo finito infiniti tratti. Ovviamente non ci si può muovere nello spazio senza muoversi nel tempo. Le argomentazioni di Zenone comportano che anche il tempo, come irriflessivamente "sapeva" l’ ossessivo, è divisibile all’ infinito. E dunque immobilizzabile e percorribile alla rovescia.
Il "rendere non accaduto" (o "annullamento retroattivo") è un meccanismo di difesa descritto da Freud e considerato nell’ ambito del conflitto personale del nevrotico. Per Fachinelli, ciò che può apparire soltanto personale e derisorio (visto dall’ esterno) è il segno di una situazione, insieme tremenda e fascinosa, che rientra nel sacro.
Il tentativo di annullare il tempo vuol dire rendersi padrone del tempo. Si danno molti fenomeni che rivelano questa disposizione magica. Pensiamo al famoso bambino del rocchetto, raccontato da Freud in Al di là del principio di piacere. Quando la mamma lo lasciava solo per qualche tempo, invece di piangere, il bambino lanciava un rocchetto di legno (a cui era legato un filo) oltre la cortina del suo letto, lo faceva sparire, e contemporaneamente emetteva un suono forte e prolungato che significava "via"; poi tirava il filo e faceva ricomparire il rocchetto salutandolo con un allegro "qui".
Secondo Fachinelli, compiendo il rito di sparizione-riapparizione, il bambino padroneggiava il tempo dell’ abbandono significando "non ora" e "ora"; una modalità complessa, nella quale gesti e suoni vocali realizzavano un ritmo. Possiamo dire che la forma spazio-temporale implicita nel gioco rituale del bambino non è quella lineare, ma quella ciclica.
Il tempo ciclico, proprio di tutte le civiltà arcaiche, comporta l’ eterno ritorno dell’ effimero purché questo sia garantito dai pericoli emergenti dal caos. Per garantire il procedere dell’ universo è necessario il rituale, la ripetizione del comportamento degli eroi mitici. E’ necessaria la magia per ripristinare l’ ordine turbato, e bisogna intervenire sul tempo per ricostituire il ciclo cosmico e umano nei punti in cui è stato interrotto. L’ interruzione più radicale nel ciclo umano è la morte. Fachinelli fa un lungo e serrato esame del "culto degli antenati" nelle società arcaiche studiate dagli etnologi.
Se il morto è una persona che garantiva la sopravvivenza del gruppo, un re, un membro del consiglio degli anziani, o semplicemente un capo di famiglia, un componente autorevole della comunità, la sua riduzione a cadavere scompiglia il gruppo, elimina la garanzia. La soluzione obbligata è di rinnegare questa morte, perché se il morto non muore, anche il gruppo può continuare a vivere. Del resto, noi conosciamo benissimo tale atteggiamento. "Di fronte alla morte, di fronte a certe morti, siamo noi stessi internamente i nostri arcaici, e continuiamo a fare uso, più o meno forzato, di un comune processo di rinnegamento".
I complicati rituali degli arcaici non posso che riassumerli in poche parole. Il morto viene placato (giacché ha subito offesa, violenza), quindi assorbito in una vita trans-individuale che rimane in contatto col gruppo: egli diventa un antenato, entra a far parte del gruppo degli antenati. Gli antenati sono eterni, i viventi li incorporano ripetendone i comportamenti. Il tempo ciclico è costruito sull’ obbedienza radicale alle norme dettate dai morti.
I rituali arcaici (frazionamento e ripetizione di dettagliatissime procedure) somigliano parecchio ai rituali ossessivi. Lévi-Strauss parla di aspetti maniacali e disperati di taluni rituali. E Fachinelli avanza l’ ipotesi che il rituale diventi maniacale e disperato fino alla vera e propria ossessività soltanto là dove si è fatto problematico, difficile, il rapporto con l’ orizzonte mitico entro il quale si svolge la cerimonia.
Comunque sia, sembra che tre elementi fondamentali costituiscano l’ economia arcaica della morte: uno stato di notevole dipendenza rispetto alle figure-valore del gruppo; il rinnegamento della loro morte; la formazione di una comunità di antenati.
Ora, che cosa accade nell’ ossessivo? Al principio abbiamo una situazione di parziale appartenenza tra il bambino e una figura onnipotente, poi un rapporto strettissimo tra il soggetto concreto e un polo interno di onnipotenza magica, la Legge. Il soggetto vive le proprie aspirazioni a una identità personale come pericolo di morte o di messa a morte dell’ altro (che rappresenta l’ autorità). Ma il fatto è che anche la rinuncia a tali aspirazioni comporta il pericolo di morte.
Nell’impossibilità di uscire dal dilemma, egli effettua uno spostamento del rapporto su un piano magico. Insomma, i movimenti mentali di costituzione della comunità degli antenati, negli arcaici, sono gli stessi attraverso i quali, negli ossessivi, si costituisce l’ implacabile Legge.
La differenza è che il rituale ossessivo non sposta realmente la situazione. Nel gruppo arcaico la morte della persona garante è considerata una colpa, ma il gruppo purifica il morto e lo riassorbe nel mondo degli antenati. Nell’ ossessivo il lutto non può compiersi (e quindi deve ripetersi all’ infinito) perché la minaccia è interna; l’ ossessivo rispetta e al tempo stesso vorrebbe distruggere l’ autorità, il morto, che ha interiorizzato in posizione di onnipotenza. L’ ossessivo funziona come una microsocietà arcaica paralizzata perché tutti gli elementi stanno nello stesso individuo.
Arcaici e ossessivi si trovano ad affrontare, in condizioni totalmente diverse, un problema comune. Sulla base di queste analogie Fachinelli azzarda anche una interpretazione psicoanalitica del fascismo, cercando di comprendere le sue spinte antitetiche, la sua specifica "bivalenza" (così la chiamò Angelo Tasca).
Anche qui assistiamo a un disperato diniego della morte della patria, peraltro inconsciamente desiderata da tutti quei nazionalisti che avevano sofferto in modo inaudito, e in gran parte inutile, la guerra. "Se negli ossessivi il sacro pervade gli svolgimenti di una vicenda puerile,... col fascismo si è avuto un tentativo... di sacralizzare la storia di molti uomini... e di inserire la loro vita in un tempo altro". Il sacro fu presente soprattutto all’ inizio, come terribilità affascinante di un potere assoluto. "Il colore nero delle uniformi e delle bandiere, l’ uso di simboli mortuari come teschi e tibie intendevano affermare violentemente la minaccia di morte da parte di un potere che sovrastava e vinceva la stessa morte".
Si pensa che questo è impossibile in una società moderna, eppure è accaduto. I rituali affondano nel mito, nella mentalità arcaica; nel caso del fascismo le masse si riunivano ritualmente intorno al Capo e alla parola del Capo, ricostituendo una unità totale dentro un tempo del ritorno (i "colli fatali", la romanità ai più ignota e insignificante).
L’ elaborazione del tempo, fenomenologia senza confini, di cui La freccia ferma argomenta alcuni sondaggi, è una sorprendente invenzione umana. Non esiste soltanto un tempo storico, esistono differenti tempi storici. Svolgimenti che intendono abolire radicalmente la storia, o sacralizzarla, per paradosso danno talvolta luogo a veri parossismi storici. Il mistero resta sempre questo: è più facile comprendere una società nel suo insieme che un individuo a sé stante. Perché?
Nella società troviamo dispiegate una serie discontinua o articolata di posizioni che l’ individuo necessariamente concentra in sé. Tale dispiegamento nella società consente di afferrare problemi che nell’ individuo, nel compenetrato groviglio che è l’ individuo, risultano spesso inafferrabili. L’ individuo è uno, e tuttavia è molti. Ampliando le parole dello storico Fernand Braudel, Fachinelli, verso la fine del libro, se ne esce con una bella e a mio parere incontrovertibile affermazione: la storia non è soltanto la "somma di tutte le storie possibili", è anche la somma delle storie impossibili.
di ALFREDO GIULIANI (la Repubblica, 15.03.1992)
L’IDEOLOGIA ITALIANA E il concetto di Ungleich-zeitigkeit (= non contemporaneità). L’analisi di Bloch vale a maggior ragione per l’Italia:
Critica del pasolinismo
L’ideologia italiana. “Pasolini” a quarant’anni dalla morte
di Rocco Ronchi (Sinistrainrete, 07.11.2015)
Non di Pier Paolo Pasolini vorrei parlare ma del pasolinismo, vale a dire di un’ideologia diffusasi a macchia d’olio nell’Italia dei quarant’anni successiva alla sua morte. Questa ideologia si è nutrita, ripetendola come un ritornello, della concettualità prodotta dal Pasolini “corsaro” in articoli e interventi pubblici che non hanno certo bisogno di essere qui ricordati. Se il poeta Pasolini, il cineasta Pasolini, lo scrittore Pasolini possano poi essere effettivamente ridotti al pasolinismo è questione aperta sulla quale è perlomeno prudente non pronunciarsi. Noto soltanto che in tempi non sospetti, siamo nel 1965, quando Pasolini era ancora bel lungi dal diventare la santa icona dell’intellettualità italiana, Alberto Asor Rosa, tenendo conto della produzione poetica, dei romanzi e delle primissime esperienza cinematografiche, aveva scritto pagine mirabili nelle quali aveva colto il tratto specifico della poetica pasoliniana in un certo populismo estetizzante e decadente, così coerente con l’italica tradizione. Ma non è questo il punto. Ciò che mi interessa - anche per ragioni autobiografiche, essendo io cresciuto nell’Italia post-Pasolini - sono le ragioni del consenso generalizzato, entusiasta, talvolta addirittura fideistico, che, come un’onda irresistibile, la proposta teorica e critica del Pasolini corsaro ha suscitato.
È un consenso che, caso quasi unico nella storia culturale italiana, trascende le appartenenze politiche come quelle religiose. Destra e sinistra (estrema destra ed estrema sinistra comprese), tradizionalisti cattolici e laici irriducibili, critici conservatori della cultura e aspiranti modernizzatori del paese, possono discutere e contrapporsi su tutto, ma su “Pasolini” - le virgolette sono d’obbligo - si riconoscono. Su quel “Pasolini”, teorico della “mutazione antropologica”, della “omologazione” e del “genocidio culturale” operata dal tardo-neo-post ecc. capitalismo, tutti giurano concordi. Tutti ne verificano la “straordinaria attualità”, tutti ne lodano le capacità “profetiche”, tutti ne lamentano la “mancanza” con accenti toccanti.
Presso i più ferventi è ormai invalsa la regola di rivolgersi, secondo lo stile della confessione di fede, con il “tu” all’“amico” scomparso. La cosa veramente stupefacente è che il consenso non è di facciata. Non è affatto vero che ognuno rende omaggio al suo Pasolini, piegandolo alle proprie particolarissime esigenze. È proprio lo stesso Pasolini quello che intendono tutti. A richiesta, sarà ora la (brutta) poesia sul ’68 ora la (splendida) tirata di Orson Welles nella Ricotta, ad essere citata come esempio di una radicalità che al presente farebbe difetto. L’unanimismo è tale da avvolgere in una sorta di “spirale del silenzio” chi volesse ancora problematizzare il pasolinismo: quando in una democrazia la pressione dell’opinione pubblica si fa asfissiante, spiegava la sociologa tedesca Noelle-Neumann, il dissenziente si auto-censura per l’umanissimo timore dello stigma sociale.
Ebbene, se mi è permesso un enunciato paradossale, il consenso generalizzato riservato alle analisi del Pasolini corsaro è un fenomeno che avrebbe attratto senz’altro l’attenzione del Pasolini “empirista eretico”. Perché gli intellettuali italiani si sono specchiati nel pasolinismo? Che cosa c’era di così seducente in quella diagnosi senza speranza? Certamente il Pasolini corsaro non aveva il pregio dell’originalità teorica. Il Marcuse dell’Uomo a una dimensione e l’Ivan Illich critico delle pseudo-liberazioni indotte dalla modernità, per citare solo due nomi già ben noti negli anni ’60, avevano affrontato la medesima questione e lo avevano fatto con maggiore finezza. La coeva microfisica del potere di Michel Foucault risulta poi infinitamente più articolata e complessa della concezione pasoliniana di un Potere, rigorosamente con la maiuscola a capolettera, che verrebbe dall’alto a schiacciare corpi assettati di vita - un Potere che è la prefigurazione di quella Casta che salirà agli onori della ribalta trent’anni dopo. E se si risale ancora più indietro nel tempo si ritrovano, senza difficoltà, tracce del pasolinismo in tutta la critica conservatrice della cultura di marca tedesca, dalla filosofia della storia di Spengler alla contrapposizione, formulata da Joseph Görres, di “anima” (cioè vita) e “spirito” (cioè tecnica). La cultura di destra non si deve, quindi, giustificare per aver fatto largo uso del pasolinismo: semplicemente si è riappropriata di qualcosa che apparteneva al suo DNA, almeno da quando la celebre sentenza nietzscheana le aveva offerto il destro per la denuncia di un mondo disertato da Dio, lasciato in balia di un puro calcolo e oggetto di una pianificazione incessante che fa astrazione da tutti i “valori” trascendenti (cioè “mutazione antropologica”, “omologazione” e “genocidio culturale”...).
E allora perché Pasolini ha infiammato i cuori di tutti, anche (e soprattutto) a sinistra, quasi che nel suo pessimismo vi fosse una risposta che si attendeva da lungo tempo e che nessuno aveva osato ancora fornire con tanta nettezza? Che cosa veniva restituito agli intellettuali italiani attraverso una voce che la morte, che molto assomigliava al martirio di un santo, aveva reso ancora più autorevole? Con le sue veementi denunce e con la testimonianza della sua esistenza, il Pasolini corsaro aveva, per così dire, consacrato quella che mi arrischierei di definire l’ideologia italiana e lo aveva fatto nel tempo della sua massima crisi, proprio quando sommovimenti politici, trasformazioni sociali, rivoluzioni epitemologiche, avevano più che mai messo in questione quella tradizione, lasciando l’intellettuale italiano (cioè il “letterato”) sguarnito, privato della sua specifica “aura”, in uno stato di disorientamento e sradicatezza, costretto a fare i conti, senza più ripari, con quella “modernità” copernicana che, da sempre, aveva osteggiato.
Della Germania del 1935 il filosofo comunista Ernst Bloch diceva che era “il paese classico della non-contemporaneità” perché aveva una quantità eccezionalmente rilevante di materiali pre-capitalistici. Accanto alla contraddizione classica capitale-lavoro, che, secondo la scienza marxiana, determina la storia, agisce un’altra contraddizione, la contraddizione non-contemporanea, che come protagonista non ha il cosiddetto soggetto della storia (il proletariato), ma coloro che “non esistono nello stesso presente”, che “portano con sé qualcosa di anteriore che viene a mescolarsi con il presente”: è il “popolo” nella sua dimensione mistica e mitica, una dimensione che al letterato è accessibile solo esteticamente, lasciandosi guidare dal “calore degli istinti” e dalle “buie viscere” (espressioni che traggo dalle Ceneri di Gramsci).
L’analisi di Bloch vale a maggior ragione per l’Italia, paese della non-contemporaneità per eccellenza, e non solo per quella che ha generato il fascismo e che non cessa di riprodurlo in tutte le sue infinite varianti post-moderne. Non pecco certo di originalità se affermo che l’intellettuale italiano, nella forma del “letterato”, è di questa non-contemporaneità l’“usignolo”. Ad essa è fedele perché da essa trae la sua autorità. La lotta con il moderno, l’ostilità al copernicanesimo e alle sue conseguenze etico e pratiche, lo definisce nel suo essere.
Tra le immediate conseguenze pratiche della rivoluzione copernicana vi è infatti l’intollerabile (per lui) affermazione dell’uguaglianza infinita di tutti gli enti, la fine della differenza antropologica in tutte le sue forme, la fine dalla differenza di genere, di ordini, di strati sociali, il collasso delle differenze linguistiche in una neo-lingua che non è la lingua di nessuno in particolare. Tale fine è metaforicamente espressa da quei capelli lunghi e da quei jeans uguali per tutti che impediscono al letterato-entomologo, flâneur delle borgate, di procedere a un immediato e rassicurante riconoscimento delle appartenenze di classe: in un impressionante documentario, risalente alla prima metà degli anni ’60, si vede Pasolini illustrare a un intervistatore francese, che lo accompagna in un viaggio etnologico tra le borgate romane, quali sono le “posture” ideologicamente corrette che un uomo del “popolo” deve tenere a tavola, per la strada ecc., per essere “autenticamente” quello che è e che non può non essere, vale a dire un “vero” sottoproletario oppure, se è “corrotto”, un “vero” piccolo-borghese... Ed è ancora a causa di questo irriducibile anticopernicanesimo che il letterato italiano, se è di sinistra, opterà per le soluzioni millenaristiche, escatologiche, massimaliste, a forte coloritura gnostica, guardando con il disprezzo di Orson Welles nella Ricotta il riformismo “borghese” e “illuminista”. Se è invece è di destra, cosa che capita assai più raramente, ha già la soluzione pronta in casa, anche se è innominabile... La politica diventa comunque cosa intrinsecamente cattiva (il “Palazzo” e, poi, la “Casta”) quando è giudicata con il metro di una contraddizione posta fuori dalla storia naturale degli uomini. La morale la sostituisce (l’“indignazione”).
Di tale ideologia, ben radicata nel nostro cattolico paese, Pasolini, dopo la sua morte, divenne l’alfiere. Non c’è dunque da stupirsi del consenso generalizzato ricevuto. Esso era espressione di una tradizione che, all’apice di una crisi che sembrava letale, si riconosceva e finalmente poteva ricompattarsi. Rispetto ad essa ben altre sono allora le figure eretiche. Sono disperse nel tempo, sepolte sotto tesori di erudizione che ne hanno però dissimulato la forza sovversiva. E sono tutte figure anti-pasoliniane, nel senso che abbiamo qui attribuito al lemma “Pasolini”. Penso al Leopardi materialista radicale, illuminista disincantato, irriducibilmente acattolico e politicamente riformista (cioè, in Italia, rivoluzionario). Penso soprattutto a Giordano Bruno, anche lui una vittima del potere e, forse, anche lui, a suo modo, un “santo”, che, nel momento in cui si decidevano i destini dei secoli a venire, aveva provato a trarre tutte le conseguenze metafisiche, etiche e pratiche del copernicanesimo. E vi aveva scorto una possibilità di uguaglianza (infinita) e di emancipazione di tutte le creature che resterà lettera morta nella tradizione letteraria italiana, “Pasolini” compreso.
Questo testo fa parte del contributo che doppiozero ha scelto di realizzare, articolato in tre parti - interviste, poesie, lettere - in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato.
IL PROBLEMA DELLA ILLUMINAZIONE, AL DI LA’ DELLA DUPLICE ORIGINE E DELLA DUPLICE NATURA *:
"Il problema dell’ispirazione o illuminazione o rivelazione - o in qualsiasi modo si voglia chiamarlo - non interessa soltanto qualche caso particolarmente notevole e raro. Le caratteristiche che comunemente sono considerate atte a stabilire la differenza tra rivelazione e prodotti ordinari e naturtali dell’attività mentale dell’uomo, appartengono in verità a ogni pensiero e a ogni azione.
Imprevedibilità, assenza di sforzo, passività (ed anche come vedremo più tardi, chiarezza e certezza) sono caratteri che possono essere applicati ugualmente a ciò che è grande e a ciò che è piccolo, a ciò che è vero e a ciò che è falso, a ciò che è religioso e a ciò che è laico.
Non è più il tempo in cui se ne faceva il criterio di una duplice origine e di una duplice natura dei pensieri e delle azioni umane, e se ne traeva argomento per imprimere agli uni il timbro di una provenienza umana, e agli altri quello di un dono disceso dall’alto.
Gli esempi straordinari e sorprendenti nei quali, dopo uno sforzo mentale e infruttuoso, appare bruscamente e all’improvviso la soluzione di un problema, non sono che i casi estremi del processo normale del pensiero cosciente e razionale. Solo che, in questi casi più impressionanti, i problemi sono tanto considerevoli e la fase di passività tanto lunga da colpire l’attenzione e provocare la sorpresa".
* James H. Leuba, La psicologia del misticismo religioso, Feltrinelli, Milano 1960, p. 265 (l’edizione originale, inglese, è del 1925).
Fachinelli
LA SUA ERA UNA GRAZIA RIVOLUZIONARIA
INTRAMONTABILE
di Paulo Barone (il manifesto, 18.12.2009)
A vent’anni dalla morte, la figura di un ineguagliabile protagonista della psicoanalisi, capace di tradurre il suo sapere teorico in una serie di distinzioni vitali tra ideologia e teoria, individuo e collettività, bisogno e desiderio
Quando se ne parla, raramente il nome di Fachinelli circola da solo, con il semplice, puntuale riferimento ai suoi scritti. Quasi sempre si avverte la necessità di farlo subito seguire da una specie di sottotitolo, da una ulteriore, lapidaria indicazione, da una sorta di avvertenza preliminare. Di solito questa nota di accompagnamento recita: una voce isolata, originale, «inattuale».
L’ambiguità di questa formula accattivante è palese. Mentre da un lato sembra celebrarla, dall’altro essa corre il rischio di estrometterla anticipatamente da ogni forma di ascolto, e, nei fatti, di zittirla. Difficile, tuttavia, stabilire con certezza se la sorte toccata al pensiero di Fachinelli - a venti anni dalla morte - sia stata effettivamente quella di una dorata sepoltura (alla odierna confusione generale, infatti, il laboratorio italiano aggiunge - come già nel fascismo - una quota di decomposizione tutta speciale). Comunque sia, la presunta eccentricità di Fachinelli è presto detta.
Elogio della frattura
Il suo primo libro, per esempio, Il bambino dalle uova d’oro, lascia ammirati tanta è la ricchezza dei temi, degli autori, degli incroci, presentati. Nato come raccolta di interventi pubblicati dal 1965 in varie sedi (tra cui Il corpo, Quaderni piacentini, L’erba voglio), ospita inediti d’eccezione, tradotti allora per la prima volta dallo stesso Fachinelli: La negazione di Freud, Materialismo dialettico e psicoanalisi di Reich, Programma per un teatro proletario di bambini di Benjamin. Vi compare un testo di una giovane psicotica, Rose Thé, il resoconto della partecipazione a un contro-corso universitario tenuto a Trento nel ’68 sul senso del «gruppo»; le riflessioni sull’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano; certe incursioni in Jung e Lacan. Ma che cos’è che - al di là di quella irripetibile stagione sociale, politica, culturale di cui il libro è di sicuro espressione - gli permette di intrecciare, in modo così inconsueto e per così dire naturale, sottili ragionamenti teorici e il testo di una psicotica, il fenomeno del travestitismo e l’osservazione dei bambini, il corpo e i movimenti di contestazione? Di condensare, insomma, così tanta aria, così tanto mondo? La risposta più convincente e promettente va rintracciata nella «premessa» del libro (sempre le «premesse» di Fachinelli anticipano, in modo fulmineo, la chiave operativa del lavoro poi svolto), laddove si parla di un «libro fratturato», «che non cela le proprie fratture».
È dunque l’idea di frattura, di interruzione, l’operatore segreto (e costante sino alla fine) che consente a Fachinelli di distinguere, per esempio, ideologia e teoria, individuo e collettivo, bisogno e desiderio, rompendo quel blocco tradizionale di sapere (e di potere) che tiene invece ogni coppia divisa in due, salvo poi saldare meccanicamente l’un termine all’altro e congelare così l’esperienza. Persino marxismo e psicoanalisi finiscono con l’alimentare un simile blocco. Il primo impigliato nell’idea di un «progressismo a vapore», secondo cui gli individui seguiranno il «Cammino della Storia» e l’uomo nuovo nascerà con l’avvento del socialismo; la seconda diventata una specie di «nebulosa in continua espansione», che penetra in ogni fessura della «società industriale avanzata», inaspettatamente chiamata a ricucirne gli strappi tramite «risposte» più o meno rassicuranti che assecondano la tendenza, già prevalente, alla passività e alla soggezione. Ma per Fachinelli, a caratterizzare davvero l’esperienza, a renderla vitale e degna di questo nome, è quel po’ di novità, di creatività, di grazia rivoluzionaria che essa contiene. Dunque qualcosa di precario, di fragile, che rischia velocemente di degenerare, di andare perduto. Qualcosa, perciò, che uno sguardo teorico autentico, orientato a una determinata pratica, riesce a cogliere solo di sfuggita, aporeticamente, come un elemento anomalo, marginale, «irregolare e aritmico», come un punto vuoto, un che di letteralmente incollocabile, utopico, «senza fissa dimora».
Se c’è un magnete che attrae, e intorno a cui gravita, l’intera ricerca di Fachinelli, sino alle tesi più controverse dell’ultimo libro La mente estatica, esso è costituito proprio da questo elemento sfuggente, incontenibile. Per rivendicarne l’esistenza non occorre far ricorso a un ottimismo di maniera, che minimizza la spietata insensatezza delle cose. Sebbene tutto nella vita pare soggetto a ripetersi, a riprodurre con dolorosa monotonia certi traumi iniziali, Fachinelli - lavorando a fondo sul Freud dell’Al di là del principio di piacere - mostra come alla radice della ripetizione viga un paradosso irresolubile, in base al quale, accanto alle repliche cieche e alle versioni ridotte, sta anche l’opportunità - magari solo istantanea - di una ripresa, di un’alternativa, di una variazione del tema.
Si chiarisce così che tale nucleo incandescente dell’esperienza è sempre più una questione di tempo. Ma mentre da principio Fachinelli lascia intendere che a pregiudicarne il libero accesso sarebbero tutte quelle pratiche che si istituzionalizzano provando a inscriverlo in una serie e a organizzarlo in una trama, via via egli propenderà per l’idea di una sua ingestibilità, completa e radicale. Nella Freccia ferma egli ci indica vari modi di annullare - appunto - il tempo: quello contrappuntistico dell’individuo ossessivo, quello circolare della società arcaica, quello mortifero del fascismo; e, in Claustrofilia, quello interminabilmente allungato e sostanzialmente immobile della pratica psicoanalitica. Eppure, proprio dalla correlazione di queste differenti modalità temporali risulta non più sostenibile il proposito di ordinarle secondo una loro presunta gerarchia di valore (dal meno del tempo statico-regressivo del primitivo al più del tempo dinamico-progressivo del moderno) o secondo un loro puro avvicendamento storico. Queste opposte fisionomie temporali tendono piuttosto a concomitare in un apice intensivo, in una micro-oscillazione sacra ed estatica del tempo.
L’iperbole conclusiva
Per accedere a un simile tempuscolo può bastare una «teoria del discontinuo»? Quale vita potrebbe uscirne cambiata se è la vita stessa - una vita qualsiasi nella sua durata estensiva, nel suo ordinario tessuto narrativo - a perdere intrinsecamente la possibilità di questo contatto? Non è tutta la nostra cultura programmaticamente orientata a rafforzarci, a erigere delle difese nei confronti di ciò che estraneo e sconosciuto, a puntare sull’Io, a farci scambiare l’eccesso di gioia con il dolore e la paura? Una gioia in eccesso sganciata dalle religioni, dall’eternità, da qualunque forma di continuità.
Un’illuminazione profana collegata invece con l’effimero, con la recettività, l’accoglimento, la creatività. Fedele alle sue premesse, il tragitto di Fachinelli si conclude all’insù, come un’iperbole, con una sfida tanto impossibile quanto improrogabile. Bizzarro, in fondo, per un uomo del quale si può dire che fosse, al pari di Benjamin, «sensibile alle speranze come un reumatico alle correnti d’aria».
Uno psicoanalista a misura del mondo
Le passioni cliniche e politiche
di Franco Lolli (il manifesto, 18.12.2009)
Sono passati più di cent’anni dall’invenzione della psicoanalisi e una definizione stabile e condivisa del suo compito sembra ancora impossibile. Tanto la comunità analitica, infatti, è concorde nell’affermare la priorità della propria vocazione terapeutica quanto è radicalmente divisa sulla considerazione della dignità - se non, addirittura, della legittimità - dell’impegno e del coinvolgimento attivo degli psicoanalisti nelle macrovicende collettive all’interno delle quali prende forma il percorso individuale dell’essere umano. In gioco non c’è solo la domanda su quanto sia pertinente alla psicoanalisi il coinvolgimento nelle faccende del mondo. Né la questione è solo di natura ideologica, perché va oltre la dialettica classica tra due differenti visioni del mondo, una che afferma la priorità della Storia sull’individuo (e, dunque, la determinazione politico-economica dei suoi sintomi) e l’altra che sostiene la supremazia assoluta dei fattori pulsionali intrapsichici.
Detto altrimenti, in ballo non c’è solo l’opposizione tra l’ottica interventista del freudo-marxismo, che considera l’impossibilità di curare l’individuo - il quale tenderebbe a identificarsi con le repressioni sociali che lo ammalano - e dall’altro la prospettiva astensionista, più vicina all’ortodossia freudiana, che situa nell’analisi dell’economia libidica soggettiva il fulcro esclusivo del proprio lavoro. C’è in più un pregiudizio assai diffuso nel complesso arcipelago psicoanalitico italiano, ossia che la partecipazione militante alla vita politica e sociale metterebbe in pericolo il valore etico della professione e, in qualche misura, inquinerebbe la propria presunta purezza di intenti. Dunque, la questione del rapporto tra lo psicoanalista e la città resta quanto mai aperta, e urgente la sua risoluzione. Gli eredi di Freud (che non a caso si vantava di «aver portato la peste») quando si rivelano poco attenti alle risorse personali contenute nei sintomi psichici corrono il rischio di divenire inconsapevoli complici di un sistema che non tollera devianze, e che tende a riassorbire ogni differenza individuale nel prototipo del cittadino tanto più rispettabile quanto maggiore è la sua capacità di consumo.
Proprio questo è il contesto in cui cade il ventennale della morte prematura di Elvio Fachinelli, lo psicoanalista trentino che ha lasciato una traccia tra le più significative nella recente storia italiana grazie all’intreccio fecondo tra il suo impegno politico-sociale e la sua rigorosa applicazione teorica e clinica del sapere psicoanalitico. Indifferente alle lusinghe della carriera, Fachinelli scelse di mantenersi in una volontaria marginalità istituzionale, che potenziò il valore del suo insegnamento e il suo ruolo di «maestro» nella formazione di molti analisti italiani. Fu proprio questa sua posizione periferica rispetto all’estabilishment psicoanalitico a consentirgli di coinvolgersi in orbite culturali e in esperienze precluse a chi limita la propria professione nell’ambito del setting. E dunque Fachinelli si interessò al movimento del ’68, allo studio del fenomeno del terrorismo e, più in generale, alle nostre vicende politiche, mettendo a frutto la sua passione per progetti innovativi come il Controcorso all’Università di Trento o la creazione dell’asilo di Porta Ticinese, il coinvolgimento nella redazione di importanti riviste culturali dell’epoca, l’avventura nella fondazione della casa editrice L’erba voglio, l’assidua frequentazione di intellettuali e psicoanalisti dissidenti: fra tutti, Jacques Lacan, dal quale ebbe l’onore di ricevere l’invito (peraltro, non accettato) a fondare la sua Scuola in Italia. A tutto ciò si aggiunge, naturalmente, la sua straordinaria dedizione al testo freudiano (di cui fu anche traduttore) che ha contribuito a renderne assolutamente singolare l’opera, capace di contenere al proprio interno visioni e prospettive di un’ampiezza insolita.
Allarmato dai primi segnali di degenerazione della psicoanalisi in strumento pedagogico di correzione sociale, Fachinelli si trovò a richiamare la comunità analitica al suo mandato originario di ascolto «dell’irregolare, del negativo, dell’aritmico»; convinto della necessità di fare della psicoanalisi uno strumento di indagine sociale, vide nel movimento di protesta giovanile una discontinuità storico-culturale da interrogare e da comprendere. Che non si trattasse di una ingenua adesione ideologica lo si capisce leggendo gli scritti che ci ha lasciato su quella esperienza. La sua analisi del fenomeno del ’68, così come altre sue letture di diversi temi di attualità, lo portarono a individuare questioni teoriche che restano tuttora un nostro punto di riferimento indispensabile: per esempio, la minaccia che soffre l’identità di ogni persona quando la sua dimensione legata al desiderio e alla progettualità viene ridotta a quella dei bisogni e della loro semplice soddisfazione; o l’individuazione di uno «stato di desiderio permanente» come unica possibilità di sopravvivenza di un gruppo minacciato nella sua identità; o la tendenza alla chiusura e alla settarizzazione dei gruppi alla ricerca di una loro autonomia; o il progressivo sbiadirsi della figura e della funzione del padre in una società sempre più sbilanciata verso la creazione di legami di dipendenza, che replicano quelli caratteristici della relazione «bipolare» tra la madre e il bambino. E, particolarmente importante, la centralità del meccanismo di ripetizione che attraversa l’esperienza umana in ogni sua manifestazione, e in particolare nelle forme psicopatologiche; ma attiva anche e implacabilmente laddove il nuovo pretenderebbe di affermarsi, ad esempio all’interno del movimento psicoanalitico o nei movimenti rivoluzionari. Ed è proprio concentrandosi su queste dinamiche ripetitive, e sulla rivendicazione di un desiderio soggettivo che trovi realizzazione liberandosi dalla gabbia delle sue esperienze originarie, che si conclude l’opera di Fachinelli.
Nel suo ultimo libro, La mente estatica, recentemente ripubblicato da Adelphi, Fachinelli sembra, infatti, indicare la possibilità del genere umano di uscire dalle sue costruzioni difensive e coattive: attraverso un generoso squarcio autobiografico - il racconto di un’esperienza di profonda riflessione vissuta in un pomeriggio ventoso di settembre, sulla spiaggia di San Lorenzo - lo psicoanalista trentino conduce il lettore in un campo inesplorato del pensiero dove all’Io viene riconosciuta la facoltà di emanciparsi dalla Ragione e dalle pretese della ripetizione, per aprirsi a dimensioni inedite: per aprirsi - finalmente - al nuovo. È così che nelle pagine iniziali del libro - una sorta di testamento a cui affida il proprio congedo dal mondo - scrive: «Non inibizione, rimozione, negazione, eccetera: i diversi stratagemmi, le difese parziali di un’impostazione difensiva generale. Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all’orizzonte».
Quel diverso che ci fa paura. Perché la tolleranza non basta più
Così nelle società globalizzate la convivenza tra culture differenti è diventata una caratteristica ineliminabile
Nel passato la presenza dello "straniero" era sempre un dato temporaneo
È necessario comprendere che le differenze sono una ricchezza inestimabile.
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 16.11.2009)
Pubblichiamo una parte dell’intervento tenuto in videoconferenza da Zygmunt Bauman al convegno su "La qualità dell’integrazione scolastica" che si è tenuto a Rimini nei giorni scorsi
Vivere con gli stranieri, che è il fondamento demografico e sociale dell’esposizione alle differenze, a una qualche sorta di alterità, non è affatto nuova nella storia moderna. Ma l’idea era grosso modo che chiunque sia alieno, straniero, diverso da te perderà prima o poi il suo carattere di straniero. La politica dominante verso gli stranieri, per la maggior parte della storia moderna, è stata una politica di assimilazione: "Voi siete qui, siete fisicamente vicini; diventiamo quindi vicini anche spiritualmente, mentalmente, eticamente", che vuol dire accettare gli stessi valori universali dove però, per "universali", abbiamo sempre inteso i "nostri" valori. Quindi, con questa prospettiva dove l’essere stranieri era soltanto uno spiacevole fastidio temporaneo, non esisteva l’idea di dover imparare a vivere con il diverso.
Ora per la prima volta nella storia moderna siamo arrivati a renderci conto che le cose non stanno così. La modernità è sempre stata un periodo di migrazioni massive di persone da un continente all’altro, da un capo del mondo all’altro, da una cultura all’altra, e la migrazione è avvenuta per necessità nelle circostanze moderne in cui le persone cosiddette in soprannumero, persone per cui non si poteva trovare una sistemazione nella loro società d’origine, non c’era spazio per loro nel nuovo ordine, nel nuovo stato avanzato del progresso economico, erano costrette a viaggiare. Tuttavia c’è una differenza: le migrazioni contemporanee hanno un carattere diasporico, non assimilatorio. Le persone che vanno in un altro Paese non ci vanno con l’intenzione di diventare come la popolazione ospite. La popolazione ospite, nativa, non è particolarmente interessata ad assimilarle.
Ci sono circa 180 diaspore che convivono a Londra, 180 diverse lingue, culture, tradizioni, memorie collettive. E il problema è che se la politica di assimilazione non è più facilmente percorribile, come possiamo vivere giorno per giorno con gli stranieri? Come possiamo comunicare, cooperare, vivere in pace senza che noi perdiamo la nostra identità e che loro perdano la loro, quindi in una coabitazione che non porta all’uniformità? In altre parole la questione non è più quella di essere tolleranti verso le persone diverse. La tolleranza in realtà è molto spesso un altro volto della discriminazione. "Sono tollerante verso le tue abitudini e le tue usanze bizzarre. Sono una persona molto aperta, sono superiore a te. Capisco che il mio stile di vita è irricevibile per te. Tu non puoi raggiungere lo stesso livello. Quindi ti permetto di seguire il tuo stile di vita ma io non lo farei mai se fossi in te".
La sfida con cui ci dobbiamo confrontare oggi consiste nel passare da questo atteggiamento di tolleranza a un livello più alto, cioè a un atteggiamento di solidarietà. Dobbiamo rassegnarci al fatto che ci sono degli stranieri ma anche imparare a ricavarne dei vantaggi. La maggior parte di noi vive in grandi città. Le città sono sempre piene di stranieri e la loro presenza è inquietante perché non sai come si comporterebbero se non li tenesse a distanza, destano sospetto, fanno orrore semplicemente perché sono delle entità estranee. Gli stranieri fanno paura. Ho chiamato questa paura tipica delle città contemporanee mixofobia, la fobia di mescolarsi con altre persone, perché là dove ci mescoliamo ad altre persone in un ambiente poco familiare tutto può succedere.
Ma la stessa condizione di mescolanza con gli stranieri provoca anche un altro atteggiamento. Ci sono due reazioni contraddittorie al fenomeno, entrambe osservabili nelle città contemporanee. La seconda è la mixofilia, la gioia di essere in un ambiente diverso e stimolante. Hannah Arendt fu probabilmente la prima pensatrice moderna che ripensando a Gotthold Ephraim Lessing, uno dei pionieri dell’Illuminismo tedesco, vide in lui una delle figure più lungimiranti fra i filosofi della prima modernità.
Secondo Lessing non bisogna limitarsi ad accettare il fatto che la differenza sia destinata a perdurare ma bisogna effettivamente apprezzarla, riconoscere che in essa c’è un potenziale creativo senza precedenti. Il fatto di mettere insieme esperienze, ricordi, visioni del mondo molto diverse può portare a una prosperità di sviluppo culturale.
È troppo presto per dire quali potranno essere gli sviluppi perché le due tendenze contrapposte, la mixofobia e la mixofilia, hanno più o meno uguale forza. A volte prevale l’una, a volte l’altra. La questione è incerta, siamo ancora nel mezzo di un processo che non sappiamo bene come andrà a finire.
Quel che stiamo facendo nelle vie delle città, nelle scuole primarie e secondarie, nei luoghi pubblici dove stiamo accanto ad altre persone è di estrema importanza non soltanto per il futuro delle città in cui vogliamo trascorrere il resto della nostra vita, o perlomeno in cui viviamo al momento, ma è di somma importanza per il futuro dell’umanità. Viviamo in un mondo globalizzato.
La globalizzazione ha raggiunto un punto di non ritorno, non possiamo tornare indietro, siamo tutti interconnessi e interdipendenti. Ciò che avviene in luoghi remoti ha un impatto formidabile sulle prospettive di vita e sul futuro di ognuno di noi.
Quindi è giunto il momento di fare ciò che Lessing predisse che avremmo dovuto fare, cioè imparare ad apprezzare le opportunità create dalle nostre differenze, anziché temere le conseguenze morbose del convivere con le differenze. Ci confrontiamo con le conseguenze della globalizzazione in ogni strada delle città in cui viviamo, in ogni scuola in cui insegniamo, ma dal canto opposto per la stessa ragione, le città, le scuole sono il laboratorio in cui sviluppiamo i modi per imparare, trarre beneficio, tesaurizzare e rallegrarci per l’appunto della natura diasporica della realtà contemporanea.
Non sto dicendo che si tratti di un compito facile. Confrontarsi con una sfida che i nostri antenati non hanno mai raccolto, ci pone di fronte a un compito che mette a dura prova la nostra mente e le nostre emozioni e che dobbiamo riuscire ad affrontare nel suo dispiegarsi, in corso d’opera, senza disporre di soluzioni precostituite.
Vent’anni dopo
di Piero Stefani (Koinonia-Forum, n. 171, 08 novembre 2009)
Per ricordare il crollo del comunismo ci sia lecito percorrere, sia pure ingenuamente, un largo tratto del pensiero occidentale, confrontando tra loro Kant, Hegel e Marx.
Verso la fine della sua vita, Kant scrive un piccolo trattato dal titolo ambizioso: Per una pace perpetua. Quelle pagine non si limitano a individuare le modalità di tregue prolungate che possano garantire una tranquilla convivenza tra gli stati: esse prospettano un esito più alto in cui la pace sarà condizione permanente per tutta l’umanità. Il libretto non ha l’andamento del sogno, al contrario assume piuttosto la veste di progetto, fornendo regole per fondare un diritto cosmopolitico (noi diremmo internazionale) in grado di garantire a tutti una pacifica convivenza. Esse sono presentate come idee razionali e non già come fantasie, per questo possono diventare un modello.
Nelle ultime righe dell’opera Kant scrive: «Se è un dovere, ed anche una fondata speranza, realizzare uno stato di diritto pubblico [vale a dire attuare le condizioni che consentono di stabilire un effettivo diritto internazionale], anche se solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sono stati sino a ora falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota». Dovere e fondata speranza assumono l’aspetto di tangenza all’infinito: non li si raggiungerà mai, ma ci si può avvicinare sempre. La vera meta diviene così un continuo camminare. Proprio l’aver rinunciato a un definitivo congiungimento evidenzia il carattere laico e progettuale del pensare di Kant.
A molti pensatori del XIX sec., a cominciare da Hegel, questo modo di procedere non sembrò né razionale, né realistico e l’idea apparve davvero vuota. Il punto di incontro tra l’agire umano e quanto accade perché deve accadere non è la speranza: è la storia. Il grande bacino di raccolta di tutte le acque lo si trova lì. I rivoli delle azioni di individui, collettività e stati scorrono inevitabilmente verso il mare della storia che li rimescola facendone un tutt’uno. Ogni fiume perde la propria specificità per realizzare la sua destinazione più autentica: fornire il proprio contributo perché si realizzi l’immensa e unitaria distesa delle acque. Nella sua accezione più autentica il termine «storia» va sempre coniugato al singolare.
Tenendo conto di ciò il pensoso sguardo di Hegel si rivolse dunque al presente e al passato (dal mare ai fiumi), non al futuro. I confini del mare non si possono tracciare, né conoscere in modo preventivo. La filosofia non può prevedere, il suo compito è di comprendere il presente e il passato. Assieme allo slancio utopico, in tal modo è riposto nel cassetto anche ogni senso forte legato al dover essere. Possiamo avere grandi ideali, ma essi da soli non ci garantiscono che diverranno realtà. A darci ragione deve essere in primis la storia. Tuttavia è regola aurea affermare che la storia ci dà ragione solo se noi diamo ragione ad essa.
Nel corso dell’Ottocento a qualcuno parve che la meta ultima della storia, più che come pace perpetua fondata su un diritto internazionale, dovesse essere pensata come l’avvento di una società giusta. È vano parlare di pace là dove vi sono ricchi che sono tali in virtù del loro sistematico sfruttamento del lavoro dei poveri. È ingannevole prospettare un’uguaglianza formale di diritti politici là dove la disuguaglianza sociale celebra i propri trionfi. L’affermarsi di una società giusta e ugualitaria va spogliata dall’aspetto, insoddisfacente, di tangenza all’infinito. Quell’esito doveva essere fondato solidamente sulla storia, la quale era dalla nostra parte appunto perché noi siamo dalla sua. Marx e il socialismo furono le punte di diamante di questa maniera di pensare e di agire.
Molte e non lievi furono le differenze di intendere i modi in cui la storia avrebbe confermato quella prospettiva. Per alcuni l’esito era a tal punto iscritto nell’ordine delle cose che bastava attendere che il sistema capitalista crollasse a motivo delle sue insanabili contraddizioni interne; per altri occorreva passare attraverso le doglie di una rivoluzione violenta. Per tutti la storia avrebbe comunque dato ragione a loro e torto agli altri. Milioni di persone hanno ritenuto che davanti a loro splendesse realmente il bel sol dell’avvenire. Per questo hanno vissuto e combattuto.
Nel XX sec. alcuni stati hanno sperimentato quello che si è definito il socialismo reale. Il potere è passato in quelle mani, ma la società giusta non si è realizzata. Per un certo periodo si è detto che si trattava di un’epoca di transizione e che a poco a poco le società socialiste avrebbero dimostrato la loro solidità e la loro superiorità storica. L’avvenire era ancora da quella parte. Verso lo scadere del secolo contraddizioni insanabili e collassi interni hanno travolto i sistemi socialisti e non quello capitalista. Il socialismo reale è crollato: la storia gli ha dato torto. Con esso sembra definitivamente tramontata anche la prospettiva di poter conseguire una società giusta. Tuttavia poiché il nesso tra giustizia e pace appare ancora inscritto nell’ordine delle cose, la mancanza del primo termine comporta anche quella del secondo: a essere perpetua è la guerra, non la pace.
Qualcuno però ancora si interroga se davvero la nascita, lo sviluppo e la scomparsa del socialismo reale abbiano costituito la fine senza rimedio di ogni speranza di conseguire una società giusta. A questa domanda si può rispondere in modo affermativo, aggiungendo però che ciò vale per quel tanto in cui il socialismo si è appoggiato sulla storia ed ha affidato a essa il compito dell’ultima conferma. Chi crede di avere ragione dalla storia non ha scampo quando essa gli dà invece torto. L’ideale è crollato per quel tanto che si è voluto presentare come reale.
Il nesso tra pace e giustizia e la volontà di non rassegnarsi a società profondamente e strutturalmente ingiuste è tuttora il fronte su cui si misura una politica alta, degna di questo nome. Si tratta, ai nostri giorni, di merce rarissima. È tale anche perché a essa è precluso di operare secondo i termini otto-novecenteschi di storia, progresso, sviluppo, crescita.
La politica internazionale deve assumersi a pieno titolo un compito inedito per le passate generazioni umane e alieno alla mentalità sia capitalistica sia socialista: salvaguardare, per quel che è ancora possibile, le condizioni nelle quali la terra possa essere un habitat confacente alla specie umana. Su questo fronte Hegel e Marx non hanno nulla da dirci; altro è il discorso per il significato del limite perno su cui ruota il pensiero kantiano.
Piero Stefani
La passione dell’Ottantanove
di Ida Dominijanni (il manifesto, 10.11.2009)
Vissuti diversi precipitano nel ventennale del crollo del Muro di Berlino, come diversi erano i vissuti che precipitarono vent’anni fa sull’evento, anche all’interno di quella sinistra radicale che respinse la conversione al verbo neoliberal adottata con la svolta della Bolognina dalla maggioranza del Pci. Il resoconto corrente delle posizioni, attestato sulla divisione fra «oltrepassatori» e «nostalgici» del comunismo, non ne rende conto. C’erano, per cominciare, differenze generazionali che pesavano non poco nella valutazione, e prim’ancora nella percezione emotiva, di quello che stava accadendo. Nella generazione che si era formata con la guerra, la Resistenza e poi la guerra fredda, il crollo del Muro significava il venir meno di un campo di appartenenza, per quanto già in precedenza criticato, e per qualcuno anche il tornare a galla di un incubo: raccontano le cronache postume che Alessandro Natta, ad esempio, reagì alle notizie che arrivavano da Berlino esclamando «Ha vinto Hitler», e non era certo l’unico, nel Pci e fuori dal Pci, a essere preoccupato dal ritorno della «Grande Germania».
Per la generazione che si era formata con il Sessantotto e contro i carri sovietici a Praga, il crollo del Muro significava invece la fine di un comunismo di stato e di partito con cui il «suo» comunismo libertario non si era mai identificato: crollava finalmente una gabbia che aveva resistito troppo a lungo. Vado con l’accetta naturalmente e me ne scuso, perché molte e variegate erano anche le linee di scorrimento fra queste differenze e infatti, fra differenze e linee di scorrimento, in quei mesi si discusse e si litigò, a sinistra, con una passione mai più ritrovata - se non, forse, su quell’altro evento decisivo che è stato l’11 settembre 2001. Il fatto è però che anche adesso che a sinistra ogni passione è spenta, molto di questo spegnimento ha ancora a che fare con i noccioli induriti o non sciolti di quell’anno.
Che infatti pare ieri, anche se è passato un ventennio densissimo di fatti e di misfatti per l’intera umanità, il mondo ha cambiato faccia con la globalizzzaione e tutti ragioniamo con categorie mutate. Bisognerebbe riponderare con pacatezza le ragioni e i torti di quella passione di allora, e filtrarli con la consapevolezza del dopo. Nella generazione della guerra fredda, ad esempio, l’incubo del ritorno della grande Germania era eccessivo; ma la percezione che col vento di libertà che spirava da Est sarebbe arrivata anche la tempesta di una nuova e durissima egemonia capitalistica da Ovest era giusta. Ed era viceversa sottovalutata dalla generazione successiva; che però aveva ragione a puntare sulle nuove contraddizioni, i nuovi conflitti e le nuove soggettività che si sarebbero dispiegati in un mondo solcato da fratture diverse da quelle geopolitiche e ideologiche novecentesche. Erano differenze che non avrebbero smesso, in seguito, di riflettersi in differenti letture della globalizzazione e differenti concezioni dell’agire politico.
Venti anni tuttavia non sono passati invano. A tutti, compresa la sinistra che allora scelse il verbo neoliberal, il ventennale che si celebra in questi giorni offrirebbe sul piatto un’agenda politico-culturale che invece tutti stentano a formulare con la necessaria convinzione. Come spesso capita, è un’agenda che si ricava facilmente, oltre che dall’analisi dei fatti, leggendo all’incontrario quella dell’ideologia dominante. Quest’ultima, in venti anni, non si è spostata di un millimetro, si è solo autoconfermata, fino a diventare un recitativo che non solo non rispecchia la realtà ma la contraddice. Il recitativo ripete che con il crollo del Muro ha vinto la democrazia, dando a questa parola la pienezza di un’autoevidenza che di evidente, invece, non ha più nulla.
E’ precisamente da quando ha vinto la guerra fredda che la democrazia ha cominciato infatti a svuotarsi, a deformarsi, a decostituzionalizzarsi. E’ precisamente da quando ha sconfitto il totalitarismo comunista che ha cominciato a far affiorare, come da un passato rimosso, rigurgiti del totalitarismo fascista che si insinuano nelle pieghe della passività politica, delle vocazioni plebiscitarie, dei culti del Capo. Ed è precisamente da quando ha vinto sullo stato sociale sovietico che la democrazia ha perso quel correttivo del welfare state che ne ha fatto nella seconda metà del 900 qualcosa di più credibile e più stabile dei regimi liberali d’inizio secolo. Nel corso di vent’anni, questa deformazione democratica ha percorso a Ovest il vecchio e il nuovo continernte, quasi un riflesso tellurico della scossa sistemica dell’89.
Metterla al primo posto dell’agenda politico-culturale è urgente, anzi indilazionabile. Per riparare i danni del fronte occidentale, ma non solo. Anche per decrittare il paradosso e la sorpresa di questo ventennale. Il paradosso è che la vera potenza vincente del ventennio non è l’America democratica ma la Cina non democratica. La sorpresa è che nell’America democratica una riforma sanitaria di valore epocale, con la sua iniezione di welfare sul liberismo sfrenato che fu, ha ottenuto il sì del congresso proprio allo scoccare del ventesimo compleanno del crollo del Muro.
«20 anni dopo il muro vi spiego il mio dissenso»
di Rossana Rossanda *
Non è un incidente se il manifesto, che si definisce ancora «quotidiano comunista», ha elegantemente glissato sul ventesimo anniversario del 1989; non per distrazione, ci strillano da vent’anni che la distruzione del muro di Berlino segnava la fine del comunismo, «utopia criminale». Noi su quella «utopia» ambiziosa eravamo nati, ed eravamo stati i primi a denunciare nella sinistra che con essa avevano chiuso da un pezzo i «socialismi reali». Li denunciavamo nell’avversione del partito comunista e nella scarsa attenzione delle cancellerie e della stampa democratiche. Il movimento del ’68 ne aveva avuto un’intuizione, ma non il tempo né la preparazione per andare oltre.
Avevamo aggiunto che almeno dalla crisi del 1974 l’egemonia dell’occidente non mirava più alla messa a morte del comunismo, ma a quella del compromesso socialdemocratico nella sua veste keynesiana. Questo ammetteva che il conflitto tra capitale e lavoro era intrinseco al sistema e per evitare involuzioni fasciste occorreva garantire il lavoro dipendente e una parte consistente di beni pubblici. Se no anche la società europea sarebbe andata, nell’ipotesi migliore, a quella che non Lenin ma Hannah Arendt aveva definito un’americanizzazione fondata sulla libertà politica e la schiavitù sociale. Non è fin risibile, tutt’al più dipietresco, battersi contro le derive autoritarie e presidenzialiste di Berlusconi, e non solo, quando dalla metà degli anni settanta sono tornate a risuonare come novità le trombe di Von Hajek, la correzione rooseveltiana è stata definita, anche dalla nuova sinistra, statalista dunque fascistizzante, e sul «meno stato più mercato» nonché «la crisi fiscale dello stato sociale» si divagava anche sulle nostre pagine, mentre l’Unione europea si avviava con una liberalizzazione dopo l’altra?
E come si poteva non chiedersi, alla luce di questo esito, perché il gigantesco tentativo del 1917 era finito così? L’errore era cominciato quando, perché, dove? Stava in Stalin, in Lenin, in Marx? Cioè nella ipotesi stessa che fosse possibile una società libera non sovradeterminata dalla proprietà e dal mercato? Eppure, dopo la prima rivista del manifesto, i primi anni del giornale e i convegni del 1978 e del 1981, non ce lo chiedemmo più.
Possiamo darci tutte le giustificazioni, per prima la difficoltà a sopravvivere come testata, ma era una resa non confessata all’egemonia della destra, del neoliberismo, dunque dei neocon negli Usa, e della Commissione in Europa. Malamente nascosta dall’esorcismo: sono problemi del novecento, oggi sono superati dalle nuove realtà e dalle soggettività delle nuove generazioni. Come se le une e le altre ne avessero risolta almeno una. Come se oggi il presidente degli Usa, Barack Obama, non vedesse dimezzata dalle lobbies e dai poteri sistemici che pesano sul suo stesso partito, la sua riforma sanitaria, non fosse inchiodato in Medioriente e riuscisse a eliminare una sola delle pratiche che hanno dato origine alla crisi finanziaria del 2008.
La sinistra è a pezzi e noi non stiamo meglio. Né come finanze, né come peso nell’opinione, né fra di noi. «Isoletta socialista», senza padroni, non ci troviamo di fronte a qualcosa che avevamo già intravisto nei socialismi reali: produttività scarsa, demotivazione, fine di un progetto comune, ciascuno per sé, insofferenza verso gli altri?
Quando ho lasciato la redazione nel 1993, battuta dall’assemblea la proposta di applicare una piccola dose di Marx anche a noi stessi, ho sperato che le cose ci avrebbero fatto crescere, che occorreva calma e pazienza. Il 10 novembre mi sono finite tutte e due. Datevi una mossa.
Rossanda, sul comunismo avete sbagliato anche voi
di Piero Sansonetti *
Come molte altre persone di sinistra della mia generazione - cioè di quella che ha iniziato a fare politica nel 1968 - ho per Rossana Rossanda una stima che sconfina nella venerazione. Quindi mi è molto difficile polemizzare con lei, sono intimidito e affetto da complesso di inferiorità. Però questo articolo che Rossanda ha scritto per il Manifesto subito dopo l’anniversario della caduta del muro di Berlino (articolo molto polemico con il suo giornale e con tutta la sinistra; articolo intitolato: "il mio dissenso") mi ha messo di fronte al"mio" dissenso da Rossana Rossanda e questa volta voglio esprimerlo. Anche perché non è solo un dissenso, e un disagio, verso il pensiero politico di Rossanda; ma è una cosa più ampia, che riguarda quasi tutti i padri nobili della sinistra italiana, cioè i miei maestri - da Ingrao, a Tronti e tanti altri - e una certa loro "pigrizia" - se posso usare questa parola un po’ aspra - che da tanto tempo vorrei rimproveragli ma no oso. Stavolta oso.
Riassumo tre dei concetti espressi da Rossanda nell’articolo che pubblichiamo qui sopra. Il primo è una affermazione presa a prestito da Hannah Arendt: finiremo con il ritrovarci in una società americanizzata, cioè in una condizione di libertà politica e schiavitù sociale. Il secondo è una domanda: dove è cominciato l’errore - si chiede Rossanda - con Stalin, con Lenin, con Marx? Il terzo è l’analisi dell’errore. Che in sostanza - schematizzo - consiste nel non aver saputo difendere lo Stato dal mercato, il lavoro dal capitale, e perciò essere rimasti senza un pensiero e una pratica anti-capitalistici.
Perché dissento? Provo a dirlo molto schematicamente. Io semplicemente credo che l’errore che ha fatto fallire la rivoluzione d’ottobre, e ha cancellato il comunismo, è un errore che sta nella rivoluzione d’ottobre e nel comunismo. E sta nel terzo concetto espresso da Rossanda: non penso che il problema della sinistra sia stata la sua incapacità di costruire una fortezza di idee anticapitaliste, credo che sia stato l’opposto: pensare che l’anticapitalismo fosse tutto - fosse esauriente - e che il sapersi battere eroicamente sulla trincea dove si scontrano capitale e lavoro salariato fosse risolutivo. Penso che nessuna delle due cose sia vera oggi, e penso - soprattutto - che non fosse vera nemmeno all’inizio del cammino. Il capitalismo è un aspetto, una fase, un versante della storia della sopraffazione: non è possibile separarlo da tutto il resto, consideralo l’unica fonte della sopraffazione e contentarsi di questo.
Se per caso ho ragione, vuol dire che l’errore non era marginale: era proprio uno sbaglio nelle fondamenta, nel presupposto. Così grande da andare anche molto oltre la nostra area. Perché penso che sia sbagliata anche la convinzione di Hannah Arendt. Non è vero che l’americanizzazione vuol dire schiavitù sociale e libertà politica. La libertà politica, da molto anni, è in fase di continuo ridimensionamento. In tutto l’occidente e in particolare negli Stati Uniti. La libertà politica oggi è poca cosa rispetto a quella degli anni sessanta, e così la libertà individuale, di pensiero, la libertà sessuale, la libertà sociale.
Come non era vero che si poteva costruire un mondo giusto sul piano sociale ma illiberale - l’illusione del comunismo - non era vero neppure il contrario: non si poteva realizzare una grande libertà fondandola sulla schiavitù economica. È un errore di giudizio che non ci riguarda? Ci riguarda eccome, è fondamentale. Io credo che aver pensato che i due campi - destra e sinistra, capitalismo e comunismo - si potessero dividere sui due Gradi Valori (uno per la libertà l’altro per l’uguaglianza) sia stato uno sbaglio. Non credo che sia possibile nemmeno pensare una lotta per l’uguaglianza che non parta dai grandi temi della libertà, e dunque della liberazione da sopraffazioni che - nella maggior parte dei casi - non dipendono solo dal sistema economico e dallo sfruttamento capitalistico.
E allora? Niente, non so andare avanti. Dico solo a Rossanda, a Ingrao, a Tronti, e tantissimi altri, che se continuano a restare prigionieri dell’idea che il problema della sinistra sia solo quello di rafforzare il suo radicamento nella classe operaia, è un guaio. Non perché il mondo sia cambiato (non solo perché il mondo è cambiato) ma perché neppure 50 o 90 anni fa le cose stavano così. Il leninismo è stata una rovina per la sinistra. E non credo che ce ne siamo liberati.
E allora, l’unica cosa che posso dire è che bisogna porsi di fronte a nuovi "pezzi" di pensiero politico - per esempio il femminismo, per esempio l’ambientalismo, per esempio il pensiero della nonviolenza - non come qualcosa da accogliere e sottomettere al proprio pensiero e alle proprie abitudini, ma come qualcosa che cambia noi stessi, come qualcosa non da annettere ma a cui sottomettersi.
Non mi pare, Rossanda, che nessuno di voi sia disposto a questo. Mi sbaglio? E credo che da quella data che tu indichi nel tuo articolo (1978-1981) voi - che avevate guidato grandi rotture culturali nella sinistra, fino a quel momento - non siate più riusciti a produrre molto di nuovo, in termini di pensiero.
E siccome tutta la generazione più giovane di intellettuali è subalterna al vostro pensiero e al vostro carisma, è l’intera sinistra ad essere rimasta senza capacità di pensare. Forse per questo è moribonda, o forse è morta.