PER UNA POSTURA RELATIVISTA
Oltre il dualismo natura/cultura
di ANNAMARIA RIVERA *
1. Una premessa quasi-politica
Le controversie pubbliche sono figlie del loro tempo. Lo e’ anche la polemica contro il relativismo culturale, che negli anni piu’ recenti e’ ritornata in voga sull’onda del "nuovo ordine mondiale", delle dottrine e delle guerre volte a consolidarlo. E’ indubbio che oggi le relazioni delle potenze egemoni e dei loro apparati ideologici con le aree e i paesi subalterni o dominati siano tornate ad essere marcate da una crescente, se non radicale, asimmetria, che si riflette, anche e pesantemente, nella dialettica interna ai paesi occidentali fra le maggioranze e le minoranze sociali e culturali: la polemica contro il relativismo serve, fra l’altro, a colmare lo smarrimento e il vuoto concettuale e progettuale di fronte all’eterogeneita’ e alla complessita’ culturali delle societa’ occidentali odierne. Non e’ casuale, quindi, che proprio oggi il relativismo sia divenuto il bersaglio di assolutisti d’ogni genere: clericali e neoconservatori, ma anche universalisti e razionalisti dogmatici.
Il ritorno del tema antirelativista nelle polemiche pubbliche sembra essere, almeno in Italia, l’effetto della convergenza di due filoni principali: la condanna del relativismo morale da parte di alte gerarchie cattoliche - un motivo vetusto, che riemerge periodicamente - e l’offensiva contro il relativismo culturale mutuata dalla nuova destra americana e dalla sua dottrina della superiorita’ della "civilta’ occidentale", da difendere ideologicamente e praticamente con ogni mezzo.
Nel lessico neoconservatore statunitense, infatti, il rifiuto del relativismo equivale all’asserita indiscutibilita’ del fondamentalismo cristiano e della dottrina, per alcuni versi correlata, della guerra preventiva e globale. Infine, una matrice secondaria e’ costituita dal vecchio etnocentrismo di marca evoluzionista e positivista, che permane fra i nostalgici, anche di sinistra, delle grandi narrazioni. La variante francese di questo genere di querelle da’ un altro nome al medesimo bersaglio, definendolo "comunitarismo".
La polemica anticomunitarista - piu’ diffusa, costante e martellante di quanto non sia in Italia quella antirelativista - assolve una funzione analoga: stabilisce il discrimine fra le identita’ inaccettabili e l’identita’ accettabile se non obbligatoria, quella "repubblicana" (v. Levy 2005); connota in senso peggiorativo manifestazioni identitarie e rivendicazioni di minoranze svantaggiate o discriminate, implicitamente affermando che la sola comunita’ legittima e’ quella nazionale; stigmatizza come degenerazione comunitarista ogni istanza di riconoscimento che si sottragga allo "spirito francese" e al linguaggio dominante.
Uno dei temi che caratterizzano entrambe le polemiche e’ il riferimento negativo al multiculturalismo all’anglosassone, rappresentato, soprattutto in Francia, come la sentina di ogni deviazione particolarista e "tribalista". La finalita’ e’ difendere ed esaltare la superiorita’ del modello d’integrazione "repubblicano", che, com’e’ noto, poggia su una concezione della cittadinanza che postula, in sostanza, un cittadino astratto, atomizzato, spogliato da ogni particolarita’.
Il riferimento polemico ad una formula, "relativismo culturale", che fino a tempi recenti era confinata nei lessici specialistici si colloca nel solco di un’esaltazione dell’universalismo che da alcuni decenni si manifesta tanto piu’ sfrenatamente quanto piu’ esso va rivelandosi come una maschera del dominio.
La pretesa di esportare i valori universali sulla punta dei missili a lunga gittata e la reazione nei termini di una controffensiva, di segno islamista, ugualmente e simmetricamente fondata su verita’ assolute e indiscutibili, hanno creato un ambiente internazionale del tutto ostile alle piccole verita’ esitanti e provvisorie, perseguite attraverso l’impervia strada del dubbio, del ripensamento critico, del confronto con altri punti di vista.
Le guerre postmoderne, asimmetriche e non-convenzionali per eccellenza, piu’ che mai prive di legittimita’ normativa e d’ogni prospettiva di riconoscimento dell’avversario, quindi di negoziato, non possono che accompagnarsi con l’enfatica enunciazione di assoluti totalitari. Nella guerra preventiva, totale e infinita, l’avversario diviene Nemico, a tal punto destoricizzato da assumere le sembianze di un fantasma ontologico: e’ il male assoluto, l’avversario dell’umanita’, se non una sorta di catastrofe naturale endemica che va combattuta con ogni mezzo. Correlativamente anche l’altro interno assume sfumature da nemico ed entrambi sono spesso definiti secondo categorizzazioni di tipo metafisico o naturalistico (1).
2. Contro le dicotomie artificiose, per una postura dubbiosa e relativista
In questo trionfo di fondamenti e di assoluti, e’ davvero esiguo lo spazio riservato alle ontologie minori, alle epistemologie dubbiose, ai processi di conoscenza che privilegiano vissuti e biografie, contesti locali e memorie soggettive, mediante una riflessivita’ guadagnata lasciandosi umilmente attraversare dagli sguardi altrui. Percio’ questo spazio va saggiamente amministrato, come fosse un orticello prezioso da ripulire e coltivare ogni giorno, e da lasciare ai posteri a testimonianza di un microcosmo che seppe resistere all’assedio di fondamentalismi e assolutismi.
Lo spazio del relativismo culturale, divenuto l’etichetta spregiativa di cio’ che tenta di sfuggire alle ingiunzioni assolutistiche del nuovo ordine globale, deve essere esso stesso sottratto alla nicchia senza storia e senza spessore problematico in cui e’ stato relegato. E forse e’ bene che sia liberato dal peso del proprio stesso nome, che non gli appartiene piu’, pervertito come e’ dalle ingiurie del tempo e da polemiche pubbliche strumentali e grossolane. Queste, fra l’altro, caricano l’espressione "relativismo culturale" di un significato pesantemente etico, nel migliore dei casi con l’intento di criticare concezioni del mondo reputate deboli o addirittura scettiche, nel peggiore, allo scopo di screditare tutto cio’ che cerca di sfuggire all’ordine del discorso dominante.
Per sottrarre il relativismo alla cappa ideologica e alle connotazioni sommarie e grossolane che gli sono polemicamente attribuite, e’ opportuno ricordare - per cominciare - che l’orientamento filosofico che gli e’ opposto non e’ l’universalismo ne’ il razionalismo, ma la convinzione della superiorita’ e del valore di modello della propria forma di vita, la concezione della conoscenza come sistema di verita’ assolute, definitive, astoriche, la credenza in principi altrettanto assoluti e immutabili in campo morale.
Il dispositivo retorico del quale si serve la polemica antirelativista, infatti, mira ad insinuare l’idea che dubitare che la propria forma di vita particolare possa essere assunta a metro di misura universale significhi svendere i propri modelli, principi e valori, dichiarare che essi sono infondati o intercambiabili, disconoscere le conquiste della razionalita’ occidentale, rifiutare ogni principio universale, assumere un atteggiamento scettico o nichilista in campo morale.
D’altra parte, non si puo’ negare che posizioni radicalmente relativiste corrono il rischio di vedere differenze ove vi sono ineguaglianze sociali o addirittura di produrre ineguaglianze sociali attribuendo differenze. Esse, inoltre, possono scivolare verso una concezione statica e deterministica delle culture ed occultare il dato di fatto che qualsiasi cultura e’ attraversata da relazioni di potere, asimmetrie e conflitti fra le classi, le caste, i generi, le generazioni.
Ma questi sono gli esiti possibili, non ineluttabili, del relativismo che, come qualsiasi orientamento, puo’ irrigidirsi, divenire dogmatico, trasformarsi da disposizione epistemica, in posizione dottrinale. Sarebbe forse necessario inventare un altro termine per nominare quella pratica, quello sguardo, quella postura - postura, non posizione, come precisa saggiamente Francois Jullien (2006) - che ha permesso a generazioni di ricercatori di cogliere e di restituire qualche frammento dell’infinita varieta’ delle forme di vita; che ha fatto si’ che la cultura europea fosse attraversata, nel corso di tutta la sua storia, dalla linea feconda del dubbio, dell’incertezza di se’, del senso della propria limitatezza, della critica del proprio particolare, del desiderio e del riconoscimento dell’altro: una vena che, scorrendo da Protagora a Montaigne, da Rousseau a Levi-Strauss, continua tuttora a fluire, benche’ da sempre minacciata da guerre di religione, ordini totalitari, scontri di civilta’.
Inventare un altro nome da dare a quella postura potrebbe servire a liberare cio’ che finora abbiamo chiamato "relativismo culturale" dalla gabbia delle dicotomie cui e’ stato incatenato: relativismo versus universalismo, razionalismo, oggettivismo, "continuismo" e costruttivismo culturali, come recita una retorica diffusa anche in ambienti specialistici.
Soffermiamoci su qualcuna di tali artificiose dicotomie. Benche’ il relativismo culturale sia storicamente legato ad una filiazione culturalista - quella boasiana - che in effetti ha finito, in alcuni casi, per intendere le culture come totalita’ autonome, compatte, autosufficienti, incomunicanti, perfino incommensurabili, sul piano concettuale e’ alquanto arbitrario sostenere che esso ineluttabilmente si leghi ad una concezione tipicamente culturalista, dunque essenzialista, discontinuista e determinista.
Infatti, si puo’ far valere una postura relativista e nondimeno intendere le culture come entita’ storiche fluide, mutevoli, collocate in un continuum. Per contro, si puo’ sostenere assolutismo e primatismo occidentale e nel contempo concepire le culture come universi autonomi, separati, non comunicanti (il teorema dello "scontro di civilta’" ne e’ un esempio).
D’altra parte, si puo’ propugnare l’universalismo e al tempo stesso ritenere che i "nostri principi e valori universali" debbano essere imposti con la forza a societa’ e culture altre, intese come monadi immutabili, sottratte alla storia, irriducibilmente differenti dalla "nostra cultura". Gia’ quel "nostri" rivela l’impostura: se l’universale e’ proprieta’ esclusiva del noi, che puo’ esportarlo ed imporlo agli altri, e’ dubbio il suo carattere di universalita’. Peraltro, alcuni principi e valori sono si’ universalizzabili, ma nella misura in cui si riconoscono gli altri e si ammette che la loro capacita’ di enunciare delle verita’, per quanto parziali, sia equivalente alla nostra, e se si concede che anch’essi siano portatori di qualche principio o valore degno d’essere universalizzato.
Come ha scritto Charles Taylor, "e’ ragionevole supporre che quelle culture che hanno dato un orizzonte di significato a un gran numero di esseri umani, dai caratteri e dai temperamenti piu’ diversi, per un lungo periodo di tempo - che hanno, in altre parole, dato espressione al loro senso del buono, del santo, del degno di ammirazione - possiedano quasi certamente qualcosa che merita da parte nostra ammirazione e rispetto, anche se e’ accompagnato da molte cose che dobbiamo aborrire e respingere. Ma forse possiamo dirlo anche in un altro modo: ci vuole una suprema arroganza per scartare a priori questa possibilita’" (in Habermas e Taylor 1998, p. 62).
3. L’etnocentrismo critico di Ernesto De Martino
Nel tempo in cui l’universalismo rivela sempre piu’ il suo carattere formale, astratto, in fondo particolarista "poiche’ si riassume nell’affermazione (...) dell’assoluta superiorita’ etica e razionale dell’Occidente su tutte le altre culture" (Caille’ 1995, p. 196), l’enunciazione a sua volta convenzionale del relativismo culturale potrebbe essere una trappola o una scappatoia illusoria. Alcuni hanno provato ad articolare diversamente, in modo non dicotomico, i termini universalismo/relativismo, cercando nel contempo di sfuggire alla secca e sterile alternativa fra etnocentrismo e relativismo culturale.
Fra i contemporanei che hanno tentato l’impresa e’ d’obbligo citare Ernesto De Martino e la sua proposta di un "etnocentrismo critico". Conviene premettere che a connotare l’opera demartiniana sono, anzitutto, il pathos col quale egli vive la "pungente esperienza dello scandalo sollevato dall’incontro con umanita’ cifrate" (1977, p. 393), e l’ammissione esplicita del proprio disagio, del senso di colpa e del rimorso "davanti al ’fratello separato’ e alla dispersione irrelata delle culture sul nostro pianeta" (ibidem).
Tutto cio’ si riflette nella sua ricerca di campo, nei resoconti etnografici, nella scrittura, conferendo loro un peculiare stile "autobiografico" (Gallini 1977), che anticipa di molti anni il tema e la pratica della riflessivita’ (e dell’impegno politico) nella ricerca etnografica: "l’oggettivita’ per l’etnografo non consiste nel fingersi sin dall’inizio della ricerca al riparo da qualsiasi passione, col rischio di restar preda di passioni mediocri e volgari e di lasciarle inconsapevolmente operare nel discorso etnografico (...) ma si fonda nell’impegno di legare il proprio viaggio all’esplicito riconoscimento di una passione attuale (...)" (De Martino 1994, p. 20).
Inoltre, fin dalle prime opere (almeno da Naturalismo e storicismo nell’etnologia), De Martino aveva condotto una serrata polemica contro il positivismo, il naturalismo, il "realismo ingenuo", rigettando esplicitamente ogni forma di etnocentrismo dogmatico, e i corollari del pregiudizio e del razzismo; a tal punto che alcuni commentatori hanno visto nel libro del 1948, Il mondo magico, un documento relativista, benche’ non in contrasto con quella che poi si andra’ definendo come la linea principale del suo pensiero: "rigorosamente razionalista e programmaticamente fedele ai valori della civilta’ occidentale" (Dei 1987, p. 2). Altri, al contrario, hanno denegato perfino le tracce di un relativismo di tipo gnoseologico e metodologico (2).
In ogni caso, con il relativismo culturale di matrice statunitense egli intrattiene un rapporto complesso, ambivalente, perfino tormentato, si potrebbe dire, come emerge soprattutto dalle note raccolte nell’opera postuma, La fine del mondo. In una di queste, per esempio, riprendendo un tema piu’ volte visitato, egli riconosce "l’istanza positiva rappresentata dal relativismo e dalla etnopsichiatria proprio come raccomandazione di giudicare integrazione e disintegrazione all’interno di una cultura, e non in base ad un modello astratto della ’natura umana’ ricavato dalla civilta’ occidentale contemporanea e fatto valere dogmaticamente per tutte le altre possibili culture" (1977, p. 16).
In un’altra nota della stessa opera, De Martino si mostra a tal punto critico da additare il relativismo come "il pericolo dell’umanesimo etnografico" (ivi, p. 396). Solo l’occidente, egli argomenta, "ha prodotto un vero e proprio interesse etnologico, nel senso di una esigenza di confrontare sistematicamente la propria cultura con le altre sincroniche e aliene" (ibidem); solo la civilta’ occidentale ha "portato alla coscienza il principio conoscitivo e operativo di una origine e di una destinazione integralmente umana dei beni culturali, di una determinazione storica di questi beni, di un ethos specificamente e universalmente umano" (ivi, p. 397). Di conseguenza: "Per un verso (...) e’ impossibile dire qualche cosa sul significato delle culture degli etne se non ci si impegna sul senso della civilta’ occidentale; per un altro verso proprio questo senso, una volta dichiarato e giustificato, apre al dialogo con il significato delle altre culture in quanto fondato sul postulato della comune umanita’" (ivi, p. 395).
Nondimeno, egli assume acutamente il dilemma costituito dalla dialettica soggetto/oggetto e dal tema delle categorie e delle passioni del soggetto osservante. E si chiede come sia possibile sciogliere l’alternativa paradossale che ogni incontro etnografico impone al ricercatore: prescindere totalmente dalla propria storia culturale, rinunciando alle proprie categorie conoscitive e tradendo cosi’ la vocazione specialistica, oppure esporsi al rischio di valutazioni etnocentriche. Nell’elaborazione piu’ matura della sua proposta, egli risponde che "L’unico modo di risolvere questo paradosso e’ racchiuso nello stesso concetto dell’incontro etnografico come duplice tematizzazione, del ’proprio’ e dell’’alieno’.
L’etnografo e’ chiamato cioe’ ad esercitare una epoche’ etnografica che consiste nell’inaugurare, sotto lo stimolo dell’incontro con determinati comportamenti culturali alieni, un confronto sistematico ed esplicito fra la storia di cui questi comportamenti sono documento e la storia culturale occidentale che e’ sedimentata nelle categorie dell’etnografo (...): questa duplice tematizzazione della storia propria e della storia aliena e’ condotta nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui il ’proprio’ e l’’alieno’ sono sorpresi come due possibilita’ storiche di essere uomo (...). In questo senso l’incontro etnografico costituisce l’occasione per il piu’ radicale esame di coscienza che sia possibile all’uomo occidentale (...)" (ivi, p. 391).
Ma il "radicale esame di coscienza" dei limiti della razionalita’ e dell’umanesimo occidentali per De Martino non puo’ condurre oltre i confini della nostra civilta’. Esso deve mirare tanto alla ridefinizione delle categorie, all’allargamento della nostra razionalita’ e autocoscienza cosi’ da ricomprendervi l’alterita’; quanto ad un rinnovamento dello stesso umanesimo, tale da conferire un "nuovo possibile senso" al "processo di occidentalizzazione in un’epoca in cui l’occidentalizzazione borghese, coloniale, missionaria" e’ drammaticamente rifiutata (De Martino 1980, p. 140).
Pur posto di fronte alla travolgente critica pratica espressa dai movimenti anticolonialisti, pur acutamente consapevole che la razionalita’ strumentale occidentale ha gia’ prodotto un’immane sciagura - lo sterminio nazista - e continua a covare in se’ i germi della catastrofe (3) - "quella di cui il fungo di Hiroshima ha offerto in scala ridottissima l’immagine reale" (1977, p. 470) - De Martino resta fedele, in fondo, all’idea del primato, razionale e morale, dell’occidente. Rintracciare le ragioni, molteplici e complesse, della sua fedelta’ a questa idea esula dal nostro sintetico excursus: possiamo solo alludere frettolosamente allo spettro dell’irrazionalismo, che egli paventa come esito del relativismo, all’incapacita’ di trascendere in modo netto la matrice crociana della sua formazione, all’impossibilita’ storica d’immaginare una teoria dell’emancipazione dei subalterni e della liberazione dei colonizzati che nasca dal seno della "storia aliena" e che rinnovi la stessa tradizione europea.
4. Oltre il dualismo e l’universalismo particolare, per un’antropologia simmetrica
Altri studiosi hanno egualmente proposto formule volte a liberare il "relativismo" dalle sue concrezioni ideologiche e dalle false dicotomie nelle quali e’ stato imprigionato: da chi, come Raimon Panikkar, preferisce adoperare "relativita’ culturale", intendendola come la capacita’ di pronunciare enunciati che hanno un senso e una pretesa di verita’ in relazione ad un contesto definito; a Tzvetan Todorov (1989, p. 513), il quale indica la prospettiva di un umanesimo critico, entro il cui orizzonte l’universalita’, sempre soggetta a revisione, sia lo strumento d’analisi, il principio regolatore che permette il confronto fecondo fra particolari; per arrivare ad Alain Caille’, Philippe Descola e altri ancora, i quali ricorrono alla formula di universalismo "relativista" o "relativo".
Dal canto suo, Bruno Latour (1997), il cui ragionamento si muove su un terreno piu’ squisitamente epistemologico, propone l’espressione relativismo "relativo" o "relativista", onde prendere le distanze dal relativismo assoluto e nel contempo rimarcare che la pratica del relativismo mira anzitutto a stabilire relazioni e rendere commensurabili le forme di vita.
Quanto a Descola, antropologo specialista delle societa’ amazzoniche, la sua opera del 2005, Par-dela’ nature et culture, e’ attraversata da un’importante riflessione intorno al regime epistemologico, fondatore di tutti gli sviluppi dell’antropologia, che lo stesso Latour ha definito "universalismo particolare".
Secondo Descola, per superarlo, l’antropologia deve riconoscere, mettere a distanza ed abbandonare la dicotomia natura/cultura e il paradigma naturalistico moderno che la ha costituita. Ammettere che questo e’ solo "l’une des expressions possible des schemes plus generaux gouvernant l’objectivation du monde et d’autrui" (ivi, p. 13) le permettera’ d’includere fra i suoi oggetti non solo l’anthropos, ma anche ogni "collettivita’ degli esistenti" che gli e’ legata e che finora l’antropologia ha sempre considerato solo come parte dell’entourage degli umani (ivi, p. 15).
Descola si chiede come sia possibile sottrarsi al dilemma del naturalismo, piu’ precisamente, all’oscillazione fra la speranza monista dell’universalismo naturale e la tentazione pluralista del relativismo culturale. E propone di sperimentare una prospettiva che conduca a conciliare le esigenze dell’inchiesta scientifica con "le respect de la diversite’ des etats du monde" (ivi, p. 418). A questa prospettiva egli da’ il nome di universalismo relativo, precisando, anch’egli, che intende l’aggettivo nel senso di cio’ che fa riferimento ad una relazione:
"L’universalisme relatif ne part pas de la nature et des cultures, des substances et des esprits, des discriminations entre qualites premieres et qualites secondes, mais des relations de continuite’ et de discontinuite’, d’identite’ et de difference, de ressemblance et de dissimilitude que les humains etablissent partout entre les existants au moyen des outils herites de leur philogenese. (...)
L’universalisme relatif n’exige pas que soient donnees au prealable une materialite’ egale pour tous et des significations contingentes, il lui suffit de reconnaitre la saillance du discontinu, dans les choses comme dans les mecanismes de leur apprehension, et d’admettre, au moins par hypothese, qu’il existe un nombre reduit de formules pour en tirer parti, soit en ratifiant une discontinuite’ phenomenale, soit en l’invalidant dans une continuite’" (ivi, p. 419).
Mi sembra che il ragionamento dell’antropologo francese, sorprendentemente affine, nella critica del paradigma naturalistico, al primo De Martino, vada al cuore della questione piu’ di altri. Se in apparenza il suo intento principale e’ dimostrare che il dualismo natura/cultura, costitutivo anche dell’antropologia, e’ relativo ad un contesto del tutto particolare - la modernita’ occidentale - ed e’ privo di senso per la maggior parte delle culture, in realta’ egli tocca, piu’ in generale, un nodo decisivo della questione universalismo/etnocentrismo/relativismo.
Il pensiero occidentale moderno ha collocato in due sfere ontologiche nettamente distinte il mondo degli umani e quello dei non umani. Cosi’ facendo, si e’ precluso la possibilita’ di compiere un’opera di traduzione e di mediazione, privilegiando cio’ che Latour (1997, p. 21) ha definito opera di purificazione.
Come gia’ aveva rimarcato Levi-Strauss (1978, pp. 69-79) nel discorso in commemorazione di Rousseau pronunciato nel 1962, e’ attraverso la separazione radicale fra umanita’ e animalita’ che l’uomo occidentale inaugura quel "ciclo maledetto" che in seguito sara’ la base per escludere dalla sfera dell’umanita’ un gruppo umano dopo l’altro e costruire un umanesimo riservato a minoranze sempre piu’ ristrette. Piu’ tardi egli avrebbe ripreso lo stesso tema nella famosa conferenza presentata all’Unesco nel 1971 ("Race et culture"), e ripubblicata in Le regard eloigne’ (1983), affermando che questa radicale separazione "ha consentito che fossero respinte, al di fuori di frontiere arbitrariamente tracciate, frazioni sempre piu’ vicine di umanita’" (1984, p. 46).
Anche Levi-Strauss, come De Martino ed altri, auspica la costruzione di un umanesimo "saggiamente concepito", consapevole che nessuna prospettiva davvero universalista puo’ nascere dalla radicale messa a distanza e reificazione della natura e da un rapporto con gli altri viventi fatto di violenza e sfruttamento.
E’ una riflessione che non riguarda solo l’alternativa etnocentrismo/relativismo ma che impone una radicale revisione dello stesso concetto di cultura ed una ridefinizione dello stesso relativismo. La nozione antropologica di cultura si e’ modellata, infatti, secondo una logica contrastiva che oppone natura a cultura; e questa a sua volta e’ il prodotto di un pensiero dualistico, storicamente assai circoscritto, essendo apparso tardivamente nel corso della stessa storia europea.
Se dal piano concettuale passiamo a quello epistemologico, dobbiamo constatare che una postura relativista coerente richiederebbe uno sguardo piu’ critico e attento sia verso la pluralita’ dei sistemi simbolici per mezzo dei quali le diverse culture umane concettualizzano la continuita’ o la discontinuita’ fra i viventi, sia verso il fatto che specie diverse dalla nostra conoscono - come gia’ trent’anni fa scriveva Edmund Leach - "costumi" e "abitudini", in definitiva, attitudini ed elaborazioni culturali: "(...) probabilmente e’ valido per tutte le creature viventi, non semplicemente per l’uomo, il principio secondo cui la comprensione dell’ambiente si ottiene solo attraverso l’esperienza, cioe’ passando per la cultura, e non e’ qualcosa di insito nella natura biologica dell’animale" (Leach 1980, p. 788).
Seguendo questa linea di pensiero, possiamo ipotizzare che lo specismo sia il padre dell’etnocentrismo e che per guadagnare un’efficace postura relativista si debba accettare di mettere in discussione la linea di demarcazione istituita dal pensiero occidentale moderno, che lo si connoti come umanesimo occidentale (Levi-Strauss), che lo si definisca come marcato dal paradigma naturalistico (Descola), che se ne individui la matrice fondante nella Grande Partizione (Latour) fra natura e societa’, fra oggettivita’ e soggettivita’.
E’ su questa medesima linea che si muove il ragionamento di Latour (1987) che, per quanto non sempre limpido (e talvolta condotto con uno stile formale influenzato dal vituperato scientismo), ha il merito di affrontare in modo non convenzionale la questione relativismo/universalismo, muovendo da una premessa affine: la partizione, egli scrive, fra Noi, gli occidentali, e tutti gli altri, fra la Civilta’ e le culture, e’ stata possibile perche’ si e’ istituita una netta partizione fra gli umanie i non umani (ivi, p. 132), e questa, a sua volta, ha permesso la creazione artificiale dello scandalo degli altri (ivi, p. 140).
Il relativismo assoluto, continua Latour, mette la natura fra parentesi e presuppone culture separate, incommensurabili, non gerarchizzabili. Con il relativismo culturale la natura entra in scena, ma le culture sono considerate punti di vista piu’ o meno precisi su una natura unica e universale. Per l’universalismo particolare e’ una sola societa’, la nostra, a definire il quadro generale della natura e a collocare le altre societa’ in rapporto a questo quadro. Al contrario, il relativismo "relativo" o "relativista" non mette fra parentesi la natura, rende commensurabili i "collettivi natural-culturali" e in tal modo permette la traduzione-mediazione e la negoziazione intorno a degli universali relativi (4). E’ praticando quest’ultima forma di relativismo, piu’ modesto ma piu’ empirista (ivi, p. 153), che l’antropologia puo’ diventare simmetrica.
Finora gli antropologi - che pure quando studiano gli altri analizzano la totalita’ della loro esistenza - allorche’ hanno cercato d’indagare sul "noi", si sono limitati ad analizzare gli aspetti sociali e culturali piu’ marginali della societa’ alla quale appartengono. Per aspirare a divenire davvero simmetrica, l’antropologia dovrebbe, invece, acquisire la capacita’ di affrontare non solo le credenze che ci sono estranee, ma soprattutto le conoscenze, anche scientifiche, alle quali noi aderiamo totalmente (ivi, p. 125).
5. Riflessivita’, universali transculturali e nozioni-ponte
Tutto cio’ rimanda al tema della riflessivita’, che, se e’ stato ampiamente accolto dall’antropologia, non sempre e’ problematizzato a sufficienza, talvolta e’ semplicemente enunciato, con il rischio che anch’esso si trasformi in una retorica. Nondimeno, aver messo in discussione l’oggettivita’ dello sguardo antropologico e la neutralita’ dell’interpretazione e della traduzione, relativizzando le stesse pratiche della disciplina, e’ stato un grande passo in avanti verso un’antropologia simmetrica o meno asimmetrica.
Almeno da Clifford Geertz in poi, per la gran parte degli antropologi e’ ormai scontato che non si tratta piu’ di riferire il punto di vista nativo, come sostenevano i primi teorici del relativismo, ma d’interpretarlo, traducendolo in funzione delle concezioni locali e sulla base di una "descrizione densa" delle pratiche, tale da incorporare l’universale nel particolare (v. Ambrosi 2005).
L’antropologia ha mostrato che esistono universali - o invarianti - transculturali e translinguistici: tutte le culture cercano di conferire ordine e senso alla natura, alla realta’ empirica, alla societa’, al cosmo e per questo hanno elaborato sistemi di classificazione e di rappresentazione intelligenti e coerenti.
La ricerca e la valorizzazione di tali universali non e’ incompatibile con una postura relativista, tutto il contrario: la possibilita’ di far emergere degli universali e d’inventare dei dispositivi universalizzanti che rendano possibile la comunicazione e la traduzione fra mondi culturali differenti e’ data precisamente dalla capacita’ di sospendere le proprie categorie, evitando di proiettarle su quella cultura; o almeno di farne un uso cauto e flessibile, dubbioso e critico, accettando l’ipotesi di rimetterle in discussione, di allargarle o perfino di abbandonarle.
Il problema non e’ solo che in quelle categorie "e’ sedimentata la storia culturale occidentale", per riprendere De Martino, ma che vi si sono depositati impensati o non-ancora-pensati, proprio perche’ esse risentono della Grande Partizione, del paradigma naturalistico, e si sono definite senza gli altri o addirittura per opposizione agli altri.
Per esempio, non tutte le tradizioni culturali condividono nozioni o concetti quali "dio", "anima", "anima/corpo", "spirito", "persona", "felicita’", "religione". Scoprirne la non universalita’, relativizzarli, coglierne la parzialita’ e particolarita’ permette non solo di decentrarsi e di allargare la propria coscienza, ma e’ anche una condizione per la comprensione e l’analisi antropologica.
Per esempio, se, di fronte ad un certo sistema di credenze e di pratiche rituali, adopero la categoria "chiusa" di religione, com’e’ convenzionalmente definita nell’ambito di studi specialistici, e’ possibile che neppure riesca a riconoscere la rilevanza ed a comprendere l’insieme di certe credenze-pratiche che dovrei analizzare. Se invece assumo una postura relativista, insieme a un atteggiamento volto all’empatia, e’ probabile che riesca ad elaborare nozioni-ponte, necessarie a tradurre ed a negoziare significati, al fine di comprendere insieme agli altri. Per dirla con Francois Jullien (2006), non si tratta semplicemente di abbandonare le mie categorie per provare a pensare con la mente dell’altro, ma di compiere l’esercizio di de-categorizzare per ri-categorizzare.
Facciamo un esempio, partendo da una premessa. Uno degli argomenti preferiti da certi detrattori del relativismo non troppo rozzi consiste nel porre la domanda retorica: "Si deve essere relativisti anche nei confronti di pratiche come le mutilazioni dei genitali femminili?" (5). Per accettare la sfida di una domanda simile, conviene intanto premettere che cercare di rendere intelligibili un certo sistema simbolico, un certo costume, una pratica sociale differenti dai nostri non equivale a condividerli, ad approvarli, ad accettarli, ma a decifrarne le logiche concettuali, simboliche, sociali ed a ricostruirne la genesi e i mutamenti storici.
Per procedere con cautela ed intelligenza, conviene interrogarsi sulla stessa sigla Mgf: l’etichetta "mutilazioni dei genitali femminili", legittimata dagli organismi internazionali, che vi comprendono gradi e forme le piu’ varie d’intervento, nella sua fredda, apparente oggettivita’ allude ad una deturpazione, ad una deformazione. Al contrario, per chi guardi dal punto di vista della tradizione somala, per esempio, la circoncisione o cucitura (com’e’ denominata nelle lingue locali) - che e’ parte di un cerimoniale di passaggio - e’ volta a rimodellare i corpi femminili secondo un ideale socialmente condiviso di bellezza e di purezza.
Infatti, le stesse idee di mutilazione e di integrita’/non-integrita’ dei corpi sono relative ai diversi contesti sociali e culturali. In un buon numero di societa’ occidentali, per esempio, sottoporsi a mutilazioni chirurgiche, anche assai gravi, al fine di correggere o mutare il proprio sesso anatomico, e’ socialmente accettato e/o legittimato come un diritto personale. Quest’opera di decentramento e quindi di relativizzazione delle diverse forme di modellizzazione dei corpi, comprese le proprie, e’ preliminare ad ogni tentativo di comprensione e di analisi, ma non e’ affatto sufficiente.
Limitarsi ad evocare la tradizione locale, rifugiarsi nel guscio della descrizione e del riferimento al contesto, quando si tratta degli altri, puo’ essere l’indizio di una forma piu’ sottile di etnocentrismo o almeno un’espressione di benevolenza venata da implicita presunzione della propria superiorita’ culturale e morale; in ogni caso, puo’ essere un espediente per sfuggire ai dilemmi conoscitivi e morali di fronte a valori, costumi e comportamenti collettivi diversi dai nostri, perfino perturbanti.
La pratica delle modificazioni dei genitali femminili, dunque, andrebbe descritta e analizzata tenendo conto non solo delle tradizioni locali e delle loro implicazioni socio-culturali, ma anche dei mutamenti, in alcuni casi drammatici e sconvolgenti, che investono le aree in cui un tempo essa era ampiamente diffusa, socialmente accettata e legittimata, con l’attivo consenso delle donne. Insomma, sarebbe d’obbligo analizzarne gli sfrangiamenti, la parziale perdita di legittimita’, il rifiuto attivo da parte di gruppi di donne che, in vari paesi africani, si organizzano per persuadere altre donne ad abbandonarla e a contrastarla. E non solo: come ho scritto altrove (Rivera 2005, pp. 81-85), sarebbe opportuno assumere, rendere espliciti, mantenere aperti, come parte della stessa ricerca, i dilemmi epistemologici e morali che questa pratica, come altre, ci impone.
Una volta compresa, per approssimazione, la logica concettuale, simbolica e sociale di questo costume, una volta indagate le dinamiche attuali e il punto di vista dei vari attori/attrici sociali, in primo luogo le donne, potremmo proporne un’interpretazione negoziata. Potremmo perfino azzardarci a valutare, insieme ai soggetti direttamente interessati, se, in contesti d’immigrazione, il tentativo di "ridurre il danno" delle Mgf, favorendone un’estrema stilizzazione, anche con il sostegno - consapevole, discreto, rispettoso - di strutture sanitarie pubbliche, costituisca un compromesso accettabile fra etnocentrismo e relativismo, fra rispetto dei diritti umani e riconoscimento di peculiarita’ culturali.
L’ipotetico antirelativista potrebbe obiettare polemicamente che io stessa ho adoperato finora categorie che, pur pretendendo d’essere neutre, puramente descrittive, recano l’impronta di una tradizione intellettuale particolare: "sistema simbolico", "credenze", "costume", "sistema cerimoniale", "rito di passaggio"...; e che probabilmente sono estranee ai contesti locali cui appartengono le cosiddette Mgf. Sarebbe un’obiezione fondata: se, infatti, volessi intraprendere una con-ricerca sulla pratica delle Mgf in situazioni d’immigrazione dovrei predispormi a negoziare con le mie interlocutrici aggiustamenti, correzioni, revisioni di quelle categorie che ci permettano di intenderci, di dialogare e di elaborare un’interpretazione condivisa. Tutto cio’ senza pretendere una traduzione reciproca perfetta: i malintesi, le contraddizioni, le smagliature, i dilemmi morali ed epistemologici, come ho detto, vanno integrati, resi espliciti, tematizzati all’interno della stessa ricerca.
6. A parziale conclusione (politica ed epistemologica)
In una frase folgorante, a conclusione del suo intervento su "Razzismo e cultura", pronunciato al primo Congresso degli scrittori e degli artisti neri (Parigi, 1956), Frantz Fanon indica una strada per la soluzione del dilemma universale/particolare: "Per concludere, l’universalita’ risiede in questa decisione di accettare la reciproca relativita’ di culture diverse, una volta abolito irreversibilmente lo statuto coloniale" (Fanon 2006, p. 55).
A giusta ragione, egli parla non di universalismo ma di universalita’, non di relativismo ma di relativita’, e subordina la possibilita’ del mutuo riconoscimento della relativita’ della propria cultura ad una condizione politica: l’abolizione dello statuto coloniale. Sarebbe scorretto astrarre il ragionamento di Fanon dalle condizioni storiche nelle quali fu prodotto - la rivoluzione anticoloniale algerina.
Eppure quello scritto contiene un nucleo di verita’ (una verita’ parziale, se volete) non solo politica ma anche epistemologica: ammettere la relativita’ della propria cultura e’ l’esito di una decisione reciproca, che presuppone una certa simmetria fra i soggetti che la assumono; questa simmetria e’ possibile in virtu’ di un processo politico: il superamento del rapporto di dominazione.
Oggi difendere cio’ che ho definito postura relativista e’ anzitutto un atto politico, non solo perche’ e’ il tentativo di resistere ad una polemica pubblica di segno autoritario ed etnocentrico, ma soprattutto perche’ e’ il frutto di una consapevolezza guadagnata nella pratica di campo: le condizioni storiche per sviluppare un’antropologia simmetrica e riflessiva risiedono, in definitiva, nella prospettiva - che in gran parte trascende la volonta’ e la facolta’ dell’antropologo/a - di stabilire relazioni umane, sociali, politiche, quindi epistemologiche, connotate da relativa uguaglianza e simmetria.
La difesa del relativismo da parte degli antropologi puo’ ben poco di fronte al disordine mondiale, all’assolutismo imperiale ed ai loro riflessi in ogni nicchia del vivere sociale, quindi in ogni ambito della pratica etnografica; cosi’ poco da correre in ogni momento il rischio di tramutarsi in vana declamazione retorica. Per evitare questo rischio, non si puo’ che tenere sempre aperta la dialettica fra empatia e conoscenza, fra relativizzazione e riconoscimento reciproci, e sempre viva la tensione performativa fra la comprensione del particolare-singolare-locale e la coscienza del non-realizzato dell’universale.
Note
1. Conviene ricordare, a tal proposito, che la naturalizzazione del sociale e del culturale e’ uno dei dispositivi basilari del razzismo.
2. E’ la posizione di Placido Cherchi (1997), il quale rifiuta anche "la distinzione tra un De Martino relativista sul piano gnoseologico e un De Martino relativista sul piano etico-deontologico" (p. 24, nota 9).
3. De Martino non sembra, pero’, sfiorato dall’idea che la catastrofe del nazismo, della persecuzione e dello sterminio sia stata precisamente la figlia legittima della razionalita’ strumentale, delle norme e degli strumenti messi a disposizione dallo sviluppo della modernita’, come efficacemente ha ricordato Zygmunt Bauman (1992). Egli sembra condividere l’idea, corrente al suo tempo, del nazismo come "barbarie", come irruzione di pulsioni arcaiche e idee irrazionaliste.
4. Egli scrive: "Etablir des relations; rendre commensurable; regler des instruments de mesure; instituer des chaines metrologiques; rediger des dictionnaires de correspondances ; discuter de la compatibilite’ des normes et des standards; etendre des reseaux calibres; monter et negotier les valorimetres, voila’ quelque-uns des sens du mot relativisme (Latour 1997, p. 153).
5. Scelgo non per caso questo esempio. A riproporre la polemica antirelativista e’ stata, fra le altre, la controversia pubblica che si accese nel 2004 intorno alla proposta del medico dell’ospedale fiorentino di Careggi, Omar Abdulcadir, direttore del "Centro per la prevenzione e la cura delle complicanze legate alle Mgf": egli aveva suggerito di sperimentare nelle strutture sanitarie pubbliche un’estrema stilizzazione dell’infibulazione - una puntura di spillo - come male minore di fronte al rischio del perdurare delle forme piu’ estreme di quella pratica. La proposta di Abdulcadir, che aveva ricevuto sostegni istituzionali autorevoli, una volta rimbalzata sulla scena mediatica divenne oggetto di una querelle dai toni molto accesi ed infine fu sconfitta. Per una ricostruzione critica della controversia, si veda Pasquinelli 2007. Piu’ in generale, per un’analisi antropologica delle modificazioni dei genitali femminili, si vedano la stessa Pasquinelli e Fusaschi 2003.
Riferimenti bibliografici
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA Numero 256 del 4 novembre 2008
Supplemento settimanale del martedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada
S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it
[Ringraziamo di cuore Annamaria Rivera (per contatti: annamariarivera@libero.it) per averci messo a disposizione il seguente saggio "Per una postura relativista. Oltre il dualismo natura/cultura" pubblicato in Bruno Barba (a cura di), Tutto e’ relativo. La prospettiva in antropologia, Seid, Firenze 2008, pp. 19-34.
Annamaria Rivera, antropologa, vive a Roma e insegna etnologia all’Universita’ di Bari. Fortemente impegnata nella difesa dei diritti umani di tutti gli esseri umani, ha sempre cercato di coniugare lo studio e la ricerca con l’impegno sociale e politico.
Attiva nei movimenti femminista, antirazzista e per la pace, si occupa, anche professionalmente, di temi attinenti. Al centro della sua ricerca, infatti, sono l’analisi delle molteplici forme di razzismo, l’indagine sui nodi e i problemi della societa’ pluriculturale, la ricerca di modelli, strategie e pratiche di concittadinanza e convivenza fra eguali e diversi.
Fra le opere di Annamaria Rivera piu’ recenti:
(con Gallissot e Kilani), L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001;
(a cura di), L’inquietudine dell’Islam, Dedalo, Bari 2002;
Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia, DeriveApprodi, Roma 2003;
La guerra dei simboli. Veli postcoloniali e retoriche sull’alterita’, Dedalo, Bari 2005]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Antropologia.
De Martino, il tarantismo e ciò che la ragione occidentale non ha capito
di Franco Cardini (Avvenire, mercoledì 30 agosto 2023)
I grandi libri sono come gli esami secondo il grande Eduardo: non finiscono mai: E rileggerli è sempre un’avventura, sempre una scoperta: perché è vero ch’essi non cambiano, ma altresì che in realtà cambiamo noi. L’editore Einaudi procede nel suo benemerito impegno di restituirci, per mezzo di nuove edizioni, l’intera storia di Ernesto De Martino (La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, a cura di Marcello Massenzio. Pagine LII-407, euro 27,00).
Lo conosciamo bene, direte voi; e magari molti aggiungeranno di avere tanti suoi libri in casa. è qui che vi sbagliate. Ne conoscete le edizioni precedenti, e magari ne avrete letto - e ne avete presente - il contenuto, esaminato però alla luce di considerazioni critiche sia pur eccellenti, ma ormai sorpassate: perché studiare, e capire, significa anzitutto aggiornarsi.
De Martino è stato un idolo, o magari l’oggetto di critiche durissime, comunque un “mostro sacro” della nostra cultura accademica del terzo quarto del secolo scorso, un venticinquennio circa attraversato da enormi novità. Ne conoscevamo il pensiero ispirato a una visione storicistica di segno liberamente marxiano e d’impegno meridionalista, certo non dimentica dell’originaria lezione crociana e profondamente toccata da una passione civica socialista, sulla quale tuttavia la lettura di Antonio Gramsci era stata determinante; e chi ad esempio ha letto le pagine gramsciane dedicate a Giacomo Matteotti (che magari non sono le sue migliori) sa bene come nel pensiero “di sinistra”, che pur sapppiamo non omogeneo, si possa essere lontanissimi da quel crepuscolo nel quale tutte le vacche sono bigie. Ma a De Martino dobbiamo scritti davvero incontournables, che a tutt’oggi continuano ad esserlo: pensiamo a Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, del 1948 (riedito da Einaudi nel 2022); al commovente e sconvolgente Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, del 1958 (riedito nel 2021); all’ancor oggi fondamentale Magia e civiltà, del 1962; e ai molti saggi suoi e di altri, taluno epocale, contenuti nelle raccolte Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro edito nel 1995, Furore simbolo valore edito nel 2002, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, edito nel 2019.
Uno studioso così non lo si cataloga: certo, fu storico delle religioni, etnologo, filosofo della storia aperto precocemente a ogni sorta di esperimento interdisciplinare, pioniere della ricerca sul campo nel “suo” Meridione e perfino - com’è stato arditamente ma non arbitrariamente definito - etnopsichiatra orientato a una conoscenza della historia rerum gestarum sicura e definitiva in sé ma tesa alla conoscenza di un’historia condenda, una realtà futura possibile che consenta di far rivivere il passato angosciante trasformandolo in un futuro migliore.
La terra del rimorso, dedicata al mito diffuso nell’àmbito dell’area di Taranto del morso della tarantola che provocherebbe nelle vittime una danza frenetica, e al rinnovato morso di essa (il “rimorso”, appunto), che darebbe luogo a un rituale di liberazione dall’angoscia frenetica grazie al sapiente uso da parte di esperti locali di un apparato di musiche, di danza (tutti conoscono la “tarantella”...) e di colori, aveva e nei rituali a tutt’oggi praticati ad esempio a Galatina conserva un suo valore testimoniale preciso.
Si tratta basicamente di uno studio sugli usi magico-religiosi folklorici del Mezzogiorno, che fu preceduto da una larga inchiesta (“sul campo” nel 1959) e che, uscendo nel 1961, venne messo in rapporto - com’era indicato dallo stesso De Martino - col capolavoro dell’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss, Tristes tropiques, edito nel 1955 e tradotto in italiano nel 1960. E grande era il debito di entrambi gli studiosi nei confronti di Sigmund Freud e in particolare della sua monografia dedicata nel 1920 al tema Al di là del principio del piacere, con le pagine assolutamente rivoluzionarie su quel che la psicanalisi definisce “abreazione”, cioè «il momento decisivo della cura - come appunto spiegava Lévi-Strauss in Anthropologie structurale - in cui il malato rivive la situazione all’origine del suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente». Ed esistono gli “abreatori professionali”: sciamani o psicanalisti che siano.
Ed ecco il punto. Studiando le “tarantate” sul campo e rileggendo tutta la letteratura a ciò connessa, a cominciare dal trattato che nel Quattrocento dedicò loro l’umanista Giovanni Pontano e nel Seicento il gesuita Athanasius Kircher, il nostro Ernesto De Martino ci ricondusse alle radici dell’arretratezza e del disagio del Meridione italico, abbandonato, illuso e tradito dalle classi dirigenti italiane dall’Ottocento a oggi. Su ciò, s’innestò una polemica durissima e vivacissima.
Oggi però il “rimorso” di una falsa partenza critica deve cedere il passo al disincanto. A guidarci è proprio il curatore della nuova edizione einaudiana della Terra del rimorso, Marcello Massenzio, storico delle religioni tanto severo e appartato quanto critico “da sempre” delle mode intellettuali; con un coraggio che in certi momenti gli ha procurato qualche difficoltà, non ha esitato a servirsi di autori sempre autorevoli ma non sempre “graditi”, quali Mircea Eliade.
Il vero disagio provato da De Martino dinanzi al mito e al rito della taranta era il medesimo provato da Lévi-Strauss dinanzi ai miti e ai riti da lui studiati nell’America tropicale: quello della coscienza di una cultura occidentale moderna dotata d’una capacità violentissima di distruzione di qualunque altra civiltà e di un’immensa superbia che per circa quattro secoli l’ha autorizzata non solo a cancellare, ma anche a condannare come “false”, “arcaiche”, “illusorie”, “superate” tutte le altre civiltà che l’avevano preceduta; e addirittura a parlare anche indiscriminatamente, delle loro “pseudoscienze”. Lo aveva già notato nel 1960, un giovane studioso peraltro simpatizzante della sinistra socialista, Sergio Moravia, che all’ancora non troppo conosciuto Lévi-Strauss dedicava un breve saggio che fu sottovalutato, La ragione nascosta, che indagava sul valore delle culture “altre” rispetto a quella che sentiamo “nostra” e nel nome della quale ci sentiamo sempre e comunque “nel vero”.
Ecco la nostra “nuova Terra del Rimorso”. In questi anni di matura globalizzazione, mentre il mondo sembra avviato a una nuova fase multipolarista nel suo assetto politico, si profilano all’orizzonte anche nuove infauste forme di occidentocentrismo, nuovi suprematismi a loro volta suscettibili di provocare risposte di segno contrario ma di pari violenza antagonista. Riflettere non già sugli errori delle culture del passato o residuali del presente, bensì sul dogmatismo delle nostre pretese suprematiste di oggi, sarà necessario e salutare: se non lo faremo, andremo incontro a pericoli davvero seri. Anche in questo senso la rilettura del capolavoro demartiniano sarà salutare.
Quanto ci manca Clara Gallini
di Annamaria Rivera *
Ben prima dell’antropologia riflessiva proposta da Clifford Geertz e da talune correnti post-moderniste, per così dire, la storia della disciplina è stata attraversata da un sia pur minoritario filone che include ed esplicita la soggettività dell’antropologo/a e i motivi autobiografici nel testo e nella struttura del discorso (nella narrazione, se si vuol dirlo con un termine abusato e alla moda).
Per tutte è opportuno citare l’opera, illustre quanto controversa, di Michel Leiris, in particolare L’Afrique fantôme, apparsa nel lontano 1934. In quest’opera l’autore realizza una sorta di pratica autobiografica dell’etnografia. E afferma apertamente che è proprio tramite la soggettività che si può raggiungere l’oggettività. In tal modo Leiris mette in crisi il presupposto epistemologico fondamentale dell’approccio scientifico di un tempo (o forse si dovrebbe dire scientista, erede del positivismo): quello che obbligava a nascondere il soggetto dell’enunciazione dietro l’oggetto dell’enunciato. E che aspirava alla neutralità per mezzo di un testo che mai sfumasse nel personale e nel soggettivo.
Di quest’obbligo Clara Gallini spesso si è fatta beffe, in particolare in alcune sue opere, raggiungendo, nondimeno, risultati eccellenti. Non mi riferisco solo alla sua coraggiosa opera ultima, Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia (Nottetempo, Roma 2016). Anche altri suoi scritti sono disseminati di spunti autobiografici, che niente sottraggono al loro pregio antropologico e che, anzi, rendono la sua scrittura e il suo stile originali e accattivanti.
Anche perché, nel momento in cui si racconta con l’abituale ironia e auto-ironia, niente concede al narcisismo; anzi, in qualche misura si fa antropologa di sé stessa, per dirlo con un’espressione paradossale.
Lo fece perfino nel testo di una relazione su Gramsci, preparata per il Festival dell’Etnografia di Nuoro, che si svolse dal 23 al 26 giugno 2007. La cito, questa relazione, anche perché mi è particolarmente cara, essendo stata preceduta da una fitta discussione online tra alcuni colleghi e colleghe, me compresa. Perfino in questo testo Clara si racconta qua e là, e in modo niente affatto compiaciuto. Come in questo passo:
A proposito di spunti autobiografici, si potrebbero menzionare numerosi altri esempi. Io mi soffermerò solo su due: il già citato Incidenti di percorso e il saggio breve Divagazioni gattesche, contenuto in un libro collettaneo del 1991, Tra uomo e animale. Curato da Ernesta Cerulli e pubblicato dalla casa editrice Dedalo (Bari), raccoglieva i contributi di antropologi/ghe illustri: da Bernardi alla stessa Cerulli, da Faldini a Grottanelli, da Lanternari a Tullio Altan.
Perché io abbia prescelto quale esempio Incidenti di percorso è del tutto evidente. Con una scrittura lucida e coraggiosa, Clara qui dà prova della sua singolare capacità di farsi davvero osservatrice partecipante di sé stessa e della sua malattia, nonché del contesto umano, sociale, sanitario, simbolico nel quale era immersa dacché si era ammalata gravemente.
Mi soffermerò pure su Divagazioni gattesche non solo in quanto densissimo di spunti autobiografici, ma anche perché il tema mi sta particolarmente a cuore: tra le svariate cose, con Clara condividevo da lungo tempo una spiccata gattofilia. Uno dei miei libri più recenti s’intitola La città dei gatti. Ed è, come recita il sottotitolo, un’antropologia animalista (l’ossimoro è intenzionale) di Essaouira, città del Sud-Ovest del Marocco.
Ma v’è un’altra ragione che mi spinge a citare Divagazioni gattesche: il libro collettaneo che contiene il contributo di Clara risale a ben ventisette anni fa, quando l’animalismo e l’antispecismo erano ancora pressoché sconosciuti in Italia. Eppure lei spicca, tra gli altri/e autori/trici, per l’approccio animalista e, si potrebbe azzardare, perfino antispecista, se è vero che accenna anche alla storicità dello stesso concetto di specie (ivi: 102). Al tempo stesso, vanta, con l’ironia consueta, la sua «ormai pluriennale gattesca osservazione partecipante sulle trame storiche di cui si intesse il grande sapere degli antropologi» (ivi: 100) e lamenta che non vi sia un’antropologia che rimarchi come il gatto, al pari del vitello dei Nuer, possa servire (come fu in un tempo lontano) a pensare il mondo (ivi: 101).
Ritornando a Incidenti di percorso, conviene dire che, in realtà, quest’opera è non solo «la storia di un viaggio in un corpo malato» (ivi: 11), per citare le sue parole, ma anche una vera e propria autobiografia. Clara, infatti, si racconta a partire dall’infanzia, con una narrazione venata d’ironia un po’ malinconica - come ho detto, uno dei tratti del suo carattere - e per niente indulgente verso sé stessa.
Per esempio, non nasconde affatto i suoi punti deboli né l’inflessibilità educativa di una famiglia borghese e classista, che fu anche acquiescente verso il regime mussoliniano. Ammette anche d’aver conosciuto Marx e Gramsci «con un certo ritardo» e solo grazie al suo trasferimento a Cagliari, invitata, nel 1959, da Ernesto de Martino. A quel tempo - scrive - di de Martino aveva letto solo Il Mondo Magico. «Non ci avevo capito niente», ammette onestamente, se non che «lì dentro c’era qualcosa di forte, dirompente, un pensiero vivo e attivo, che coniugava la nostra vita con quella degli altri» (ivi: 245).
Com’è ben noto, la sua formazione antropologica avvenne lì, a contatto con de Martino e in quell’università che «fu per alcuni anni un’isola felice di saperi»: vi si raccoglieva un’intellighenzia, costituita soprattutto da studiosi provenienti da varie parti del continente, che veniva «considerata comunista» (ivi: 251).
«Quando si è vecchi e dolenti - scrive ancora nell’opera estrema - si rimane soli e le relazioni si riducono a quelle che abbiamo col nostro corpo e coi vari medici» (ivi: 58). In realtà, mai Clara è stata sola, neanche nel periodo più arduo della sua lunga malattia. Non lo era grazie alla presenza abituale della gatta Mirina, sua interlocutrice ventennale, ma anche di colei che la ha assistita negli ultimi tempi con massima cura e devozione: una donna di origine peruviana, «molto acuta e molto attenta alle cose» (ivi: 277), che nella sua opera estrema cita più volte, sotto lo pseudonimo di Abilia, dedicandole anche il capitolo conclusivo.
La loro convivenza era divenuta a tal punto simbiotica che Abilia - racconta Clara - proiettava nei suoi propri incubi notturni uno degli assilli che erano di Clara: il timore della scomparsa degli oggetti, soprattutto degli “inutili”, di cui la sua casa era strapiena. «Indispensabili per la mia esistenza, ti aiutano a guardare in faccia la paura e il dolore. Insomma, ti aiutano a vivere» (ivi: 262).
Non era sola, anche perché fino alla fine ha ricevuto amicizia e attenzione da Adelina Talamonti nonché da Vittoria De Palma, personificazione, quest’ultima, di parte cospicua della sua biografia intellettuale. Nell’opera estrema, Clara rende omaggio a entrambe, così definendo Vittoria:
E più avanti:
Ma ritorniamo al saggio breve del 1991. Per rendersi conto dell’originalità dell’approccio e della scelta testuale di Clara, basterebbe mettere a confronto gli esordi dei diversi contributi che compongono il volume. Ne cito alcuni:
«Nelle culture akan, da me frequentate in loco... » (Ernesta Cerulli); «Feroce e solitario, il casuario, che vive nelle foreste della Nuova Guinea... » (Gilda della Ragione); «Dall’alba del Paleolitico inferiore ad oggi, i rapporti uomo-animali... » (Vinigi Grottanelli); «L’effigie dell’elefante, assurta al ruolo d’immagine-simbolo della Costa D’Avorio» (Giovanna Parodi da Passano).
Clara Gallini, invece, osa esordire così:
Da questo registro passa poi, con disinvoltura ed eleganza, a una dotta critica del Marshall Sahlins di Culture and Practical Reasons (1976) per «l’imperdonabile», «sconvolgente» omissione del gatto dal novero degli animali presi in considerazione al fine d’illustrare la sua teoria. Secondo la quale, com’è ben noto, la gerarchizzazione dei non umani da parte degli umani sarebbe basata sui criteri oppositivi della commestibilità e della prossimità.
Parlare di gatti - sostiene Clara - avrebbe introdotto qualche elemento di disturbo in questa teoria apparentemente ineccepibile. Perché il gatto è «un animale di margine», collocato com’è «tra un dentro e un fuori domestico» (ivi: 103), tra non commestibilità come regola e commestibilità come eccezione, nondimeno praticata (e a tal proposito fa l’esempio dei vicentini “mangiagatti”). E, a proposito di commestibilità, osserva con amaro realismo:
Dopo una dotta e sottile analisi dei luoghi comuni che oppongono il gatto al cane, tra i quali quello, assai diffuso, che vuole «che il cane sia amico dell’uomo, il gatto invece della casa» (ivi: 106), Clara riprende il registro autobiografico scrivendo della sua relazione con Rosso, Grigia e Rosina, i felini con i quali conviveva in quel periodo. Che lei definisce persone: «Per me sono persone: persone gatti». Perciò, aggiunge, «mi appare sempre meno chiaro cosa distingua la mia umanità dall’animalità dei miei tre gatti» (ivi: 112).
Il saggio continua così, alternando pagine acute ed erudite sul Malleus Maleficarum, sullo spiritismo detto scientifico, sul saggio Il grande massacro dei gatti dello storico Robert Darnton (1984) con il racconto dettagliato dell’avvelenamento intenzionale di Minero, «inerme gatto parlante»: un gatticidio, come lo definisce, perpetrato per vendetta da qualcuna «del piccolo vicinato tranquillo e decoroso» (ivi: 120) di via dell’Esquilino.
Nonostante la brevità e la costante dialettica tra registro etnografico e stile autobiografico, le trenta pagine di Divagazioni gattesche sono perfettamente coerenti, al pari di Incidenti di percorso. E rappresentano un esempio luminoso di come conoscenza e sensibilità, rigore scientifico ed empatia possano aver ragione dell’apparente dicotomia tra soggettività e oggettività.
Oggi che va riemergendo la tendenza a ritenere che, per essere scientifica, un’opera nel campo delle scienze sociali debba essere fredda, anodina, oggettivista, nonché densa di locuzioni anglofone, la lezione di Clara appare in tutta la sua grandezza.
*
Sono i nazionalismi, la nefasta resistenza del patriarcato, la dimensione mitica della crescita dell’economia di mercato e l’idea della superiorità del genere umano sulla natura e gli altri esseri viventi le prime ragioni delle catastrofi del nostro tempo? Qualora ne fossimo convinti, insieme all’urgenza di dare un nuovo significato politico alle nostre esistenze partendo dalla vita di ogni giorno, quel che servirebbe subito non è la potenza di fuoco persuasiva dei milioni di follower di Chiara Ferragni ma un radicale cambiamento culturale in senso antropologico.
Il sacro, la morte e la storia: tra Eliade e de Martino
Scritto da Andreas Iacarella (Pandora Rivista, 03 Aprile 2021)
Sui rapporti e le distanze tra l’approccio storiografico dell’etnologo napoletano Ernesto de Martino (1908-1965) e dello storico delle religioni romeno Mircea Eliade (1907-1986) sono state spese molte e solidissime pagine[1]. La recente pubblicazione di due volumi spinge però a riproporre il discorso, provando ad offrire al lettore meno esperto alcuni spunti di riflessione, anche in una chiave di stretta attualità. Il demartiniano Morte e pianto rituale ha appena trovato una nuova veste editoriale, che in parte ne ha corretto il titolo[2]. Poco più di un anno fa è invece uscito, per Adelphi, il carteggio inedito tra Eliade ed Emil Cioran[3].
I due testi sono estremamente distanti per natura e composizione, ma la loro uscita quasi sincrona sembra suggerire un rinnovato, ma sarebbe meglio dire mai cessato, interesse per i temi trattati dai due autori. Nel dibattito accademico italiano, il confronto tra la concettualizzazione della storia delle religioni avanzata da de Martino e quella eliadiana si può dire un tema ormai classico. Siamo però convinti che di questo scontro culturale, portatore di due diverse e inconciliabili visioni della storia e dell’azione umana, poco o nulla sia giunto al lettore comune. È con questa convinzione che vorremmo riproporre alcuni termini della questione, con l’intento di mostrare come dietro quello che può apparire un dibattito squisitamente accademico, si celino in realtà le basi di uno scontro culturale dalle radici molto più profonde.
Due romeni della «giovane generazione», gettati dalla sorte in Occidente, elaborano simultaneamente, l’uno, la più precisa autopsia del cristianesimo, e l’altro, il tentativo più disperato di riattualizzarlo attraverso la «storia comparata delle religioni». Forse sarà così che entreremo tutt’e due nella Storia della Chiesa![4]
Con questa lettera, che Eliade scrive a Cioran il 19 maggio del 1969, possiamo cominciare a ragionare sul percorso intellettuale dello studioso romeno. In poche righe, egli dà il senso della sua intera opera intellettuale: la riattualizzazione della teologia cristiana, attraverso il recupero delle disperse e variegate «sopravvivenze di “religiosità cosmica”»[5] (in primis, lo yoga e lo sciamanesimo).
Quando scriveva questa lettera, lo studioso romeno conduceva da più di dieci anni una vita agiata negli Stati Uniti, lavorando come docente di storia delle religioni presso l’Università di Chicago e tenendo conferenze e convegni in giro per il mondo. Il momento più difficile della sua esistenza, quando era stato esule a Parigi dopo la Seconda guerra mondiale, era ormai alle spalle. A partire dagli anni Cinquanta, Eliade era andato conquistando un pubblico sempre più vasto, anche al di fuori degli ambienti universitari; le sue opere più importanti[6] erano tradotte e apprezzate in un numero crescente di paesi.
Stupisce, nello sfogliare le pagine dell’epistolario, l’esiguità dei riferimenti al movimento del ‘68 [7], sul quale pure Eliade doveva avere un punto di vista privilegiato. Stupisce in modo particolare se si considera che del ‘68 statunitense, o meglio delle controculture di cui questo si nutrì, Eliade era stato un fondamentale ispiratore. Ma procediamo con ordine.
Al centro, a fondamento, dell’intera riflessione eliadiana c’è lo sforzo inesausto di connotare l’essere umano non come homo faber, come aveva fatto il materialismo storico, ma come homo religiosus, affermando dunque il primato antropologico del sacro.
È difficile immaginare [...] come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato» [...] In altre parole, essere - o piuttosto divenire - un uomo significa essere “religioso”[8].
Come ha ben sintetizzato in una recente intervista Leonardo Ambasciano, la metodologia eliadiana è «epistemologicamente fondata su assunti extra-scientifici (e perciò di facile presa)» e si fonda su un «modus operandi teologico e finalistico», basato «sul collasso dell’approccio etico su quello emico». Eliade propone dunque una sostanziale indistinzione tra il punto di vista dello studioso e quello dei soggetti studiati, legittimando di fatto in ambito accademico «credenze fideistiche ed ideologiche»[9].
Qui si consuma il salto, che Eliade compie, dal prodotto scientifico a quello letterario a larga diffusione, che però sottende un preciso progetto teologico-politico. «Mi piacerebbe che questo libro fosse letto dai poeti, dai drammaturghi, dai critici letterari»[10], scriveva il pensatore romeno nel giugno del 1949 a proposito di Le chamanisme. Come ha osservato Sergio Botta, la concettualizzazione eliadiana, generalizzante e decontestualizzante, di nozioni come quella di sciamanesimo «emergeva dunque anche nella sua qualità di prodotto letterario», ambendo di fatto a «tracciare una via estetica capace di rinnovare la funzione arcaica e originaria della poesia per riconsegnarla all’uomo contemporaneo»[11]. Questa creatività sciamanica avrebbe permesso anche all’uomo delle società industriali di nutrire la propria “nostalgia delle origini”[12], accarezzando il sogno di un ritorno a un tempo paradisiaco ormai perduto. Per Eliade, «la nostalgia del Paradiso non era [...] appannaggio esclusivo dei mistici, ma dell’umanità intera»: la sua proposta, politica e di studioso a un tempo, si nutriva del desiderio di offrire una strada per l’abolizione della «condizione umana attuale - il Tempo e la Storia - per ritrovare una beatitudine primordiale»[13].
Nessuno stupore che questa mistica ad uso dell’uomo contemporaneo, che aveva però tutti i crismi dall’accademia, facesse presa sui movimenti controculturali giovanili, statunitensi in modo particolare. Lo yoga, lo sciamanesimo, la nostalgia delle origini: «Le lezioni americane di Eliade [...] suscitarono [...] grande entusiasmo giacché fornivano un linguaggio scientifico fondato su una condivisa proposta antimoderna» e irrazionalista[14]. La sua aspirazione di essere letto da poeti e artisti poteva dirsi raggiunta.
Sebbene la messa in relazione dell’elaborazione teorica di un pensatore con le sue esperienze politiche e di vita sia sempre una questione problematica[15], nel caso di Eliade questo nesso sembra irrinunciabile per comprendere a fondo le basi della sua prospettiva. Nella sua militanza giovanile nella natìa Romania, lo studioso aveva abbracciato pienamente la proposta politica di Codreanu e della Guardia di ferro, organizzazione fascista e antisemita. A sedurlo, secondo Alexandra Laignel-Lavastine, era stato «il fatto che il fascismo si presenta[va] come “rinascita spirituale” e rivoluzione cristiana, una rivoluzione “ascetica e virile” dirà nel 1937»[16]. La studiosa ha accuratamente ricostruito la parabola giovanile dello storico delle religioni attraverso l’analisi di articoli, lettere, discorsi: ne emerge quella che l’autrice definisce una figura di un «tipico rappresentante» del «fascismo spirituale»[17]. Giudeofobico, profondamente razzista e nazionalista, antiparlamentarista, Eliade vedeva nell’affermazione di un regime totalitario di stampo cristiano l’unica possibile salvezza, in senso politico ed escatologico, della nazione romena e del mondo tutto. Questi ideali lo studioso continuerà a perseguirli apertamente, prima attraverso l’appoggio al regime di Ion Antonescu, e poi nella celebrazione della dittatura salazarista in Portogallo (dove fu impiegato come consigliere culturale dell’ambasciata durante il conflitto mondiale)[18].
Dopo la fine della guerra, Eliade dovrà faticare non poco per far “dimenticare” questo passato ma, come visto, il suo seguito di studioso fu infine estremamente ampio. Quello che appare non questionabile è, però, che anche in questa seconda fase della sua vita Eliade resterà profondamente legato alle sue convinzioni giovanili. Le traslerà, certo, su un piano altro, in apparenza puramente accademico. Ma l’«avversione [...] per la storia, considerata come una dimensione inessenziale»[19], e il tentativo di porre il sacro come apriori umano resteranno delle costanti del suo pensiero. Il suo antistoricismo militante prende la forma di un pessimismo «“esistenziale”» che si «sostanzia nella “nostalgia” del tempo perduto delle origini, nel dolore del ritorno che non ritorna elevato a categoria dello spirito, nell’anelito verso una irraggiungibile condizione aurorale impregnata di quella sacralità» ormai irrintracciabile nel mondo moderno[20]. Non una semplice storia delle religioni in ottica comparativa, dunque, ma un preciso progetto culturale e politico. Come ebbe a dire Pettazzoni in un appunto: «Eliade è un cripto-teologo cristiano (ortodosso)», «le sue teofanie implicano un destino trascendente che si rivela»[21]. Non stupisce che, essendosi nutriti di un tale antistoricismo, veicolato anche da altri autori, i giovani hippyes americani abbiano rinunciato a qualsiasi ipotesi di un’azione realmente trasformativa sul reale, limitandosi all’adozione di nuovi vangeli antimoderni (vedi le prospettive sciamaniche di personaggi come Michael Harner e Carlos Castaneda)[22].
Il sacro, la morte e la storia: tra Eliade e de Martino
Scritto da Andreas Iacarella (Pandora Rivista, 03 Aprile 2021)
Credo sia opportuno a questo punto introdurre il secondo protagonista della nostra trattazione, Ernesto de Martino, chiarendo le ragioni di questa opposizione tra le due figure. Come ha notato lo psichiatra Nicola Lalli, il sacro, che abbiamo visto essere la dimensione essenziale dell’essere umano per Eliade, è un meccanismo che «si è sviluppato nel corso dell’evoluzione dell’uomo come difesa contro l’angoscia dell’evento morte»[23]. Si tratterebbe però, per l’appunto, di un «meccanismo difensivo». In Morte e pianto rituale, de Martino sottopone ad analisi i processi culturalmente definiti di elaborazione del lutto, in particolare l’istituto del cosiddetto pianto rituale, ricollegando le forme residuali da lui studiate in Basilicata con il lamento funebre praticato nelle società agricole del Mediterraneo antico.
L’etnologo pone così come centrale non una dimensione del sacro aprioristica, connotata come negazione della morte, bensì l’esigenza umana di elaborazione del lutto, evidenziando le diverse declinazioni culturali che questa assume. Nella prospettiva demartiniana la dimensione essenziale e universale può essere allora indicata proprio nello sforzo di superamento del momento critico della morte attraverso l’attribuzione al defunto di una “seconda morte”, culturalmente connotata, che permetta al singolo di portare a compimento un processo di separazione.
Nella morte della persona cara siamo perentoriamente chiamati a farci procuratori di morte di quella stessa morte, sia destinando ad una nuova riplasmazione formale la somma di affetti, di comportamenti, di gratitudini, di speranze e di certezze che l’estinto mobilitò in noi finché fu in vita, sia facendo nostra e continuando ad accrescere nell’opera nostra la tradizione di valori che l’estinto rappresenta. Indipendentemente dalla situazione luttuosa come tale, è appunto questa la varia fatica che ci spetta in ogni momento critico dell’esistenza, che è sempre un attivo far passare nel valore, e quindi un rinunziare e un perdere, un distacco e una morte, e al tempo stesso una opzione per la vita[24].
Credo sia già evidente la distanza che intercorre tra la proposta demartiniana e quella eliadiana. La morte, come dato biologico inevitabile e ateisticamente riconosciuto, che esige però una risposta vitale umana, è al centro del pensiero dell’etnologo. Il sacro eliadiano opera invece una vera e propria rimozione del concetto.
Questa diversa prospettiva porta ovviamente i due autori all’edificazione di un’antropologia, e dunque a una concettualizzazione della storia, radicalmente opposta. Parlare di morte ha, seguendo la ricerca di de Martino, un senso più ampio: ha il valore di considerare a fondamento dell’esperienza umana lo sforzo di oltrepassamento di ogni momento critico, che impone all’uomo una separazione da quanto si è stato e una necessaria riproposizione in termini nuovi del proprio esserci. La presenza nel mondo come essere umano dotato di senso non è dunque un dato acquisito una volta per tutte, ma una sfida trasformativa continua.
Il rischio di non esserci è studiato da de Martino inizialmente nelle culture tradizionali, in cui erano operanti istituti magici, ma è da subito presentato in una dimensione più universale. La crisi della presenza si verifica in tutti quei «momenti critici» dell’esistenza in cui si manifesta il divenire: da quelli più legati al rapporto uomo-natura (le difficoltà incontrate dall’agricoltore o dal cacciatore), a quelli più squisitamente esistenziali, i «rapporti sessuali» e la «crisi della pubertà», il «rapporto con lo straniero», la «guerra alla malattia e alla morte»[25]. In tutti questi momenti, scrive l’etnologo, «la storicità sporge [...], il compito umano di “esserci” è direttamente e irrevocabilmente chiamato in causa, qualche cosa di decisivo accade o sta per accadere, costringendo la stessa presenza ad accadere, a sporgere a se stessa, a impegnarsi e a scegliere»[26].
La storia umana è dunque, per de Martino, storia di evoluzione e trasformazione. Non è e non può essere pensata come ritorno indietro, ciclico ripresentarsi di situazioni già date, né a livello collettivo, né tanto meno a livello individuale. Questo è invece quanto, di fondo, proponevano coloro che erano da lui criticati come irrazionalisti, da van der Leeuw a Eliade stesso. Essi erano definiti dall’etnologo come fautori della ripetizione e portatori di una «fobia della prima volta» e del nuovo[27]. Il pensiero demartiniano, fondendo altezze teoriche e consapevolezza politica, afferma che la storia è tale solo in quanto storia umana, incarnata e trasformativa. E l’uomo non è riproposizione di categorie spirituali o proiezioni extramondane, la lotta per la presenza lo qualifica interamente.
Di fronte ai canti popolari sulle nascite e infanzie miserande, de Martino avverte che sarebbe sbagliato ricollegarle al Geworfenheit heideggeriano, alla deiezione. Il problema non è quello esistenzialista, «di cercare dei complementi teologici al non starci nel mondo, ma - semplicemente - di trasformare il mondo per starci tutti da uomini»[28]. L’esserci nel mondo dunque non è puro negativo, come voleva Heidegger, ma non è neppure datità indiscutibile[29]: è una lotta continua di affermazione di sé. Nel fare questa scoperta, de Martino pone due principi alla base dell’umano: crisi della presenza come momento negativo, di labilità, del quale analizza la risoluzione che storicamente se ne è data in chiave mitico-rituale; ed ethos del trascendimento, come proposta di una prassi trasformativa e valorizzante connaturata all’uomo nel suo agire nel mondo e nei rapporti. Risulta quindi chiaro quando scrive che il «fondamento dell’umana esistenza non è l’essere ma il dover essere, cioè quello slancio valorizzatore intersoggettivo della vita»[30].
La riflessione ultima di de Martino, ha scritto Carla Pasquinelli, «segna la morte del sacro»: l’«ethos del trascendimento diventa la forma attraverso cui l’uomo accetta di stare nella storia in una maniera che non sia pura ripetizione e imitazione del passato»[31]. All’ethos spetta il compito di fondare la presenza, ma al tempo stesso di plasmare un mondo in cui essa possa darsi[32].
Com’è noto, de Martino provò a mettere a frutto questa sua concezione progressiva dell’essere umano e della società in una concreta azione politica: dopo la giovanile infatuazione per la “religione civile” fascista, si avvicinò al Partito d’azione e partecipò attivamente alla Resistenza, con il Partito italiano del lavoro, fu poi segretario di federazione, in Puglia, per il Psi e infine aderì al Pci[33]. Da queste esperienze politiche uscì sempre deluso, vivendo una profonda solitudine umana e di pensiero. Come ha scritto ancora Pasquinelli: «De Martino è solo, perché non c’è nessuno che capisca quello che dice, nessuno che riesca a interpretare il suo linguaggio cifrato, nessuno in grado di fargli da sponda e rimandargli un’immagine minimamente corrispondente allo stato della sua riflessione»[34].
La ripubblicazione, oggi, di Morte e pianto rituale può essere però occasione di un proficuo ripensamento. «È l’elaborazione del lutto [...] che permette, separandosi dal passato, di vivere il presente. È l’elaborazione del lutto che permette di vivere il presente come attimo vitale», di vivere il «tempo dell’uomo (come vissuto e come storia)»[35]. Quella che l’antropologia demartiniana propone è una storia in cui esserci tutti da uomini, una storia da plasmare e riplasmare attraverso l’ethos del trascendimento. La proposta eliadiana, al contrario, sembra riproporre la staticità di un tempo circolare al quale fare ritorno, l’impossibilità di un movimento di liberazione umana. Le due diverse prospettive sono fautrici, in chiave politica, di un opposto sguardo sull’uomo e sul mondo: il tempo sospeso del sacro, con le sue fantasticherie immortaliste, promuove un’abolizione della nozione di storia e, di conseguenza, invalida in partenza ogni opzione trasformativa sul reale. Che questa prospettiva, debitamente camuffata e riadattata, sia stata quella maggiormente adottata dalle controculture giovanili degli anni Sessanta può forse aiutare a comprendere le ragioni di un’azione che non ha saputo farsi concretamente politica, ma anzi ha consumato la sua parabola passando dalla contestazione dell’istituzione al farsi istituzione essa stessa. Ma se la battaglia culturale è stata vinta, nei decenni scorsi, dal pensiero di Eliade, forse oggi i tempi sono maturi per una riscoperta di quello di de Martino. Una nuova antropologia in cui la crisi e il suo creativo superamento siano posti come fondamento dell’umano agire nel mondo. Della riscoperta di un tale pensiero progressivo si sente, oggi, sempre più l’esigenza.
[1] Si vedano, tra gli altri: P. Angelini, L’uomo sul tetto. Mircea Eliade e la «storia delle religioni», Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 77-139; A. Testa, “Le destin tylorien. Considérations inactuelles sur la realité de la magie”, Etnographiques.org Revue en ligne de sciences humaines et sociales, 21 (2010).
[2] E. de Martino (1958), Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, a cura di M. Massenzio, Einaudi, Torino 2021.
[3] E. Cioran, M. Eliade, Una segreta complicità. Lettere 1933-1983, Adelphi, Milano 2019.
[4] Ivi, p. 131.
[5] P. Angelini, L’uomo sul tetto, cit., p. 102.
[6] Tra i suoi filoni di ricerca principali quello sullo yoga, che lo impegnò sin dalla tesi dottorale, e sullo sciamanesimo. Si vedano in particolare: M. Eliade, Technique du Yoga, Gallimard, Parigi 1948; Id., Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, Payot, Parigi 1950 (2° ed. 1968); Id., Le Yoga. Immortalité et liberté, Payot, Parigi 1954 (2° ed. 1968)
[7] E. Cioran, M. Eliade, Una segreta complicità, cit., pp. 117-120, 122-123, 127.
[8] M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. 1, Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, Sansoni, Firenze 1979, p.7.
[9] E. Manera, “L’eredità di Eliade. Intervista a Leonardo Ambasciano”, Doppiozero, 12 aprile 2017. Si veda, inoltre: L. Ambasciano, Sciamanesimo senza sciamanesimo. Le radici intellettuali del modello sciamanico di Mircea Eliade: evoluzionismo, psicoanalisi, te(le)ologia, Nuova cultura, Roma 2014.
[10] M. Eliade, Giornale, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 78.
[11] S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo. Discorsi, credenze, pratiche, Carocci, Roma 2018, p. 112.
[12] Vedi: M. Eliade, La nostalgia delle origini. Storia e significato nella religione, Morcelliana, Brescia 2000.
[13] S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo, cit., p. 112.
[14] Ivi, p. 118.
[15] Su questo, si vedano gli spunti in: P. Gramigni, “Prefazione”, in A. F. Iannaco, Hegel in viaggio da Atene a Berlino. La crisi di ipocondria e la sua soluzione, L’asino d’oro edizioni, Roma 2021, pp. XVII-XVIII.
[16] A. Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, Utet, Torino 2008, p. 150.
[17] Ivi, p. 178.
[18] Vedi: M. Eliade, Diario portoghese, Jaca Book, Milano 2009.
[19] M. Carloni, “L’archivista del sacro”, in E. Cioran, M. Eliade, Una segreta complicità, cit., p. 289
[20] A. Testa “Estasi e crisi. Note su sciamanesimo e pessimismo storico in Eliade, de Martino e Lévi-Strauss”, in L. Arcari, A. Saggioro, Sciamanesimo e sciamanesimi. Un problema storiografico, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2015, p. 109.
[21] Cit. in: L. Arcari, “Chamanisme di Mircea Eliade alla prova della comparazione. L’assenza del profetismo ebraico antico”, in L. Arcari, A. Saggioro, Sciamanesimo e sciamanesimi, cit., p. 81.
[22] Vedi, ancora: S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo, cit., pp. 119-135.
[23] N. Lalli, “Il sacro, l’homo religiosus e la morte”, Il sogno della farfalla, 2 (1993), p. 43
[24] E. de Martino, Morte e pianto rituale, cit., pp. 8-9 (corsivo mio).
[25] E. de Martino, “Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto”, Studi e materiali di storia delle religioni, 24-25 (1953-1954), pp. 18-19.
[26] Ivi, p. 19.
[27] Id., “Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni”, Società, n. 3 (1953), pp. 17-18.
[28] Ivi, p. 14.
[29] Id. (1977), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino 2002, pp. 639-640.
[30] Id., La fine del mondo, cit., p. 668.
[31] C. Pasquinelli, “Trascendenza ed ethos del lavoro. Note su La fine del mondo di Ernesto de Martino”, La ricerca folklorica, n. 9 (1984), p. 34.
[32] Ivi, p. 33.
[33] Su questi temi, vedi in particolare: E. Andri, Il giovane Ernesto de Martino. Storia di un dramma dimenticato, Transeuropa, Massa 2014; R. Ciavolella, L’etnologo e il popolo di questo mondo. Ernesto de Martino e la Resistenza in Romagna (1943-1945), Meltemi, Milano 2018; V. S. Severino, “Ernesto de Martino nel Pci degli anni Cinquanta tra religione e politica culturale”, Studi Storici, n. 2 (2003), pp. 527-553.
[34] C. Pasquinelli, “Solitudine e inattualità di Ernesto de Martino”, in C. Gallini, M. Massenzio (a cura di), Ernesto de Martino nella cultura europea, Liguori, Napoli 1997, p. 295.
[35] N. Lalli, “Il sacro, l’homo religiosus e la morte”, cit, p. 59.
NOTA (al testo su Fbook):
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#KANT, 1800) E #DISAGIODELLACIVILTA’ (#FREUD, 1929). Brillante accostamento di due linee di ricerca (finite in un vicolo cieco). La "nostalgia delle origini (l’amore per il remoto") e "l’ethos del trascendimento" (l’amore per il futuro) possono superare il loro scacco solo dando vita a "una nuova antropologia", come sollecitava già Kant e ha tentato #Nietzsche, #oltre la "umana, troppo umana"#cosmoteandria platonico-hegeliana!
A ROMA
Calabria, addio a Lombardi Satriani. L’antropologo dei "senza voce"
di Vincenzo Bonaventura (Gazzetta del Sud - 30 Maggio 2022)
E’ un lutto importante per l’antropologia italiana e non solo, ma ancor più, pur nella sua statura internazionale, Luigi Lombardi Satriani, morto ieri a 85 anni, ha avuto (e continuerà ad avere) un ruolo fondamentale, di riscatto culturale e di conferma dell’importante valore umano e culturale di tradizioni antiche che sono tutt’altro che una reliquia del passato, soprattutto per la sua Calabria. Basti pensare al titolo del suo primo libro, “Folklore come cultura di contestazione” (1966), per comprendere come la sua ricerca, d’impronta francamente marxista - lo chiamavano «il barone rosso» - , anche oltre l’originale impostazione gramsciana, abbia posto in primo piano l’essenza della cultura popolare, tanto più quella della sua regione, come «oppositiva», cioè - come aveva scritto - in grado di «ridare voce a chi storicamente ne è stato espropriato, ai “muti della storia”». Folklore e tradizioni non come sopravvivenze di un antico che non ha più posto nel mondo di oggi, ma come cultura viva e vitale, e capace come tale d’essere “altro”, opponendosi alla cultura dominante, al consumismo e alla società massificata.
Lombardi Satriani, nato a San Costantino di Briatico (Vibo Valentia) nel dicembre del 1936, cominciò la sua carriera universitaria a Messina, per poi proseguirla a Napoli e alla Sapienza di Roma, di cui era professore emerito. È stato anche preside della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria (dove nel 2016 ha ricevuto la laurea honoris causa in Filologia moderna) e presidente onorario dell’Associazione italiana per le Scienze etno-antropologiche. Ha insegnato anche negli atenei di Austin (Texas) e San Paolo (Brasile) ed è stato Senatore, eletto con L’Ulivo, dal 1996 al 2001. Nel 2016 ha ricevuto il premio “Cocchiara” dell’Università di Messina.
I temi della religiosità popolare (e i suoi collegamenti con il cibo), della cultura della morte (fondamentale il suo studio sul sangue, “De Sanguine”, edizioni Meltemi) come argomento esistenziale dimenticato dalla contemporaneità, della vita quotidiana nei campi o nei pascoli (suo, tra gli altri, un documentario Rai sui pastori della Sardegna), sono stati da lui valorizzati e resi centrali, senza mai prescindere da un profondo spirito di servizio. Soprattutto si ricorda il suo incontro (sfociato in un programma Rai e in un libro, nel 1985, a quattro mani con Maricla Baggio) con Natuzza Evolo, la mistica di Paravati, che rimane ancora adesso la più importante e intensa testimonianza su una donna che ha segnato in modo misteriosamente forte la società calabrese. La lunga intervista con Natuzza mette in luce la capacità di Lombardi Satriani, da lui dichiarata e voluta, di creare un rapporto paritetico ed empatico, pur nella diversità dei ruoli. Un documentario che oggi ci dà uno spaccato dell’epoca, «nel contesto - come è stato scritto - di un Meridione intriso di realismo magico, dove una forte componente religiosa e spirituale si fonde con elementi esoterici di grande rilievo sociologico e antropologico». E dove, possiamo aggiungere, emerge la grande sincerità d’accenti della cultura popolare.
In un’intervista al “Manifesto” aveva dichiarato che l’antropologo deve «confrontarsi con i fenomeni che la vita quotidiana ci pone dinanzi con drammatica evidenza: penso all’immigrazione di massa che vede fuggiaschi dall’Africa, che cercano nella nostra società riparo dalle violenze della guerra e delle persecuzioni», portando con sé la necessità di «una revisione radicale dei nostri strumenti metodologici. Oggi più che mai è tempo di mutamento, anche per il lavoro di antropologo». Una conclusione importante, un testamento di lavoro che ancora una volta può trovare nelle campagne spopolate della Calabria, e non solo, la sua naturale (e dolorosa) evoluzione.
I messaggi di cordoglio
“La Calabria perde una personalità di grande valore, che ha raccontato la nostra società attraverso lo studio del folklore, della religiosità popolare, e della cultura contadina. È venuto a mancare Luigi Maria Lombardi Satriani. Antropologo di rara intelligenza, fine accademico, già senatore della Repubblica. Era nato più di 85 anni fa a San Costantino, una frazione di Briatico, in provincia di Vibo Valentia. Aveva insegnato nelle Università di Messina, della Calabria, e a ‘La Sapienza’ di Roma. Sincero cordoglio da parte della Giunta regionale”. Così Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria.
È morto il grande antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani
Lo chiamavano il "barone rosso" per le sue idee progressiste. Ha rivoluzionato la scienza umana indagando il folklore e criticando una certa visione felice del consumismo, condivisa anche a sinistra. Ha conciliato rigore della ricerca e letterarietà della scrittura
di Marino Niola (la Repubblica, 30 MAGGIO 2022)
Il "barone rosso" ha preso congedo dalla vita. Con Luigi Maria Lombardi Satriani scompare uno degli antropologi più importanti del nostro paese. Lo chiamavano così per la sua origine aristocratica e per le sue idee politiche, sempre decisamente progressiste. Che lo portarono anche ad entrare in Senato nel 1996 con la maglia dell’Ulivo.
Grande visione scientifica e umanità generosa, addirittura straripante. La sua fame di vita gli ha sempre fatto da bussola. E il suo ago magnetico ha sempre puntato verso il Sud, dell’Italia e del mondo. Negli anni Sessanta, nel clima concitato e a tratti drammatico della contestazione, revocò in questione la rappresentazione dominante della cultura popolare. Divisa tra marxismo e crocianesimo, distanti ma concordi nel guardare al mondo contadino come ad un’umanità ferma su un binario morto dello sviluppo. Come un relitto folklorico. Una scheggia di storia non più nostra per dirla con il Pasolini de Le ceneri di Gramsci.
Ma lui rovesciò il tavolo facendo affiorare negli usi e costumi di un Mezzogiorno che sembrava più lontano nel tempo che nello spazio, una radicale contestazione della cultura dominante, sia di quella conservatrice, sia di quella progressista. Per lui quel quarto stato con i suoi riti e i suoi miti, con le sue idee di comunità e di società, per il solo fatto di esistere, costituiva una smentita della fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del consumismo incipiente. Negli anni Sessanta scrisse libri fondamentali come Il folklore come cultura di contestazione che sviluppa, in una fusione originale ed eterodossa, le linee portanti delle scienze sociali italiane, da Antonio Gramsci ad Ernesto de Martino.
I suoi corsi all’Università di Messina, della Calabria, alla Federico II di Napoli e in seguito alla Sapienza e al Suor Orsola Benincasa erano degli autentici happening dove ragione e rivoluzione si davano convegno. Il pensiero di Lombardi Satriani è di fatto all’origine del cosiddetto Folk revival, un movimento politico e poetico che ha rivelato al paese l’esistenza di un immenso giacimento culturale che una malintesa idea dello sviluppo rischiava di cancellare troppo in fretta, relegandolo nel retrobottega della storia.
Mentre Lombardi Satriani affermava risolutamente la contemporaneità di quelle schegge di passato. Per lui le tarantolate pugliesi, le veggenti calabresi, le devote di Padre Pio non erano il residuo imbarazzante di un mondo anacronistico, ma gli anelli deboli dello sviluppo, le sorelle di "Rocco e i suoi fratelli" che erano rimaste al paese a custodire lari e penati. E l’altra faccia del miracolo economico Lombardi Satriani la rivelò anche in libri pionieristici come Folklore e profitto del 1973 dove per la prima volta venivano analizzati antropologicamente parole e immagini degli spot televisivi.
Di fatto era l’antropologia di Carosello. La grande capacità di cogliere il legame nascosto fra l’arcaico e il postmoderno, in seguito condusse Lombardi Satriani a studiare il simbolismo del sangue sullo sfondo del flagello dell’Aids, il rapporto tra contaminazione e malattia, tra male fisico e stigma morale. E nei 1982 vinse il Premio Viareggio con Il ponte di San Giacomo, un bellissimo libro scritto con Mariano Meligrana sull’ideologia della morte nel mondo contadino italiano. Dove mostrava le conseguenze tragiche della rimozione della morte in una società come la nostra, sospesa o prigioniera di un eterno presente.
Ma in realtà la forza del pensiero di Lombardi Satriani stava nella capacità di coniugare il rigore della ricerca con la letterarietà della scrittura. Una sintesi che lui considerava indispensabile per non trasformare le scienze umane in un arido elenco statistico o in un inventario notarile di curiosità locali. In realtà Luigi Maria Lombardi Satriani è sempre stato in presa diretta su ciò che rende umani gli uomini. E l’unica consolazione quando si perde un maestro come lui è pensare che ha sempre preso la vita a piene mani. Per questo ha visto prima e più degli altri.
OPINIONI
Come affrontare l’apocalisse *
di Giuliano Milani, storico
La fama di Ernesto De Martino è legata soprattutto a libri come Sud e magia e La terra del rimorso, l’inchiesta sul fenomeno del tarantismo nel Salento, che influenzarono profondamente la cultura italiana del dopoguerra.
Quando morì, nel 1965, questo filosofo, antropologo e storico delle religioni stava lavorando a un grande progetto intitolato La fine del mondo, di cui questo libro raccoglie appunti e materiali preparatori. De Martino partiva dall’idea secondo cui, come in alcune malattie mentali come la schizofrenia entra in crisi la relazione tra l’io e il mondo ed è necessario ricostruirla attraverso un nuovo schema di rappresentazione del corpo e una nuova relazione con determinati oggetti, così anche le civiltà possono attraversare delle “apocalissi culturali” che generano disagio e che possono essere superate solamente attraverso una profonda riscrittura culturale.
Partendo dall’esame del vissuto degli schizofrenici, il libro prosegue dando conto di alcune apocalissi culturali che si sono verificate nella storia - quella cristiana, quella della decolonizzazione, quella marxista - e delle modalità della loro risoluzione, offrendo al lettore attraverso la discussione di testi storici, filosofici e letterari, una serie di riflessioni che si rivelano particolarmente utili in un momento in cui tutto sembra sul punto di finire e non si capisce bene cosa ci si debba aspettare.
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http://www.internazionale.it/opinione/giuliano-milani/2015/09/06/de-martino-fine-del-mondo-recensione
La violenza: un fatto complesso /
Vendetta e delirio
di Pietro Barbetta (Doppiozero, 07.08.2021).
Il libro di Arianna Barazzetti, Complessità della violenza, uscito da poco per Mimesis, è il risultato di una serie di percorsi di ricerca sulla violenza realizzati in Cile, in Brasile e in Italia: la violenza di un golpe, la violenza nelle miserie della favela a Rio de Janeiro, la violenza che emerge dal lavoro clinico nelle carceri del nostro paese. Si tratta di un testo teorico impegnativo, denso e ben articolato, di quasi quattrocento pagine. Dalla lettura emerge un primo nodo fondamentale: la violenza non riguarda i soggetti in quanto isolati, ma un clima; qualcosa che appartiene sempre a una comunità oppure a un’istituzione sociale. Nelle democrazie, la violenza dovrebbe essere vietata ai cittadini perché monopolio delle forze dell’ordine e delle forze armate, dovrebbe essere esercitata solo in caso di estrema necessità, ma questo non accade. Non c’è paese democratico in cui singoli o gruppi di esponenti della polizia non commettano abusi, o non vi siano gruppi, non riconosciuti o semi-riconosciuti, che non scorrazzino armati, come nelle mafie locali, negli squadroni fascisti della morte, tra le guardie della rivoluzione, nel ku-klux-klan o altre simili aberrazioni comunitarie.
Il tema “violenza” ha sempre a che fare con qualcosa che riguarda il soggetto collettivo: comunità, istituzioni, gruppi. Si tratta di analizzare la questione dell’inconscio come fenomeno sociale, di far uscire dal nucleo istintivo o pulsionale delle singole reazioni individuali, il contesto nel quale il fenomeno violenza diventa canone, ossia principio regolato. Inoltre l’evento violento è un oggetto visto da differenti punti di vista: un reato, una rivolta, una rivoluzione, un golpe, un abuso, ecc.
La logica dell’inconscio ci porta a parlare di classi simmetriche: se un albanese è violento, gli albanesi sono violenti; se un italiano è razzista, gli italiani sono razzisti. Quel che accade, a proposito dell’oggetto “violenza”, è il passaggio da un episodio, l’elemento di un insieme, a una conclusione generale: ogni elemento dell’insieme è attribuibile all’insieme. Questa logica dell’inconscio è stata osservata da Ignacio Matte Blanco e da Gregory Bateson: la violenza, da episodica, diventa sociale e si espande, almeno nell’immaginario delle parti tra loro in opposizione; reazionari-rivoluzionari, destra-sinistra, cattolici-protestanti, nazionalisti-universalisti, fedeli-infedeli, ecc.
Provo a sviluppare una provocazione; una generalizzazione ancora maggiore: “tutti gli uomini sono violenti”. Qualsiasi elemento appartenente alla classe “uomo” è violento, il che vuol dire anche: “io, che sono uomo, sono violento”. Confessione scomoda, ma perché?
La prima risposta potrebbe essere data da coloro che si sono occupati di Neurobiologia della violenza, come si intitola un testo di Jan Volavka scritto nel 1995. Il testo di Volavka scrive che i fattori sociali esistono, certo; in maniera generica e cronachistica parla della violenza negli Stati Uniti. Benché suggestivo, il suo lavoro tuttavia non aggiunge molto di nuovo, è privo di ricerca storico-sociale, come se la violenza si generasse nel vuoto del sistema nervoso, benché corroborato da fattori esterni che slatentizzano qualcosa di innato.
Questo tipo di ricerca, che riguarda l’attivazione neurologica della condotta violenta sotto determinate circostanze, è interessante. Se riguarda il regno animale, mostra che ci sono segnali che attivano nell’organismo un certo tipo di condotte. Per esempio, in un’aquila si può attivare una condotta feroce in relazione alla vista di un agnello, ma questo lo aveva già scritto da qualche parte un certo Nietzsche.
Tuttavia dobbiamo chiederci se nell’“uomo” si sia generato un tipo di violenza diversa, intraspecie. Quel che Nietzsche ha definito, usando un termine francese, ressentiment. Se il rapace dà la caccia al topolino, l’uomo dà la caccia a se stesso come un altro.
Perché ciò accada, ci vuole un codice suppletivo, un surplus, una consuetudine. La preda umana, si trasforma in sacrificio. Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo, Bataille in La parte maledetta e in Il limite dell’utile, Burkert, in Homo Necans, e molti altri, hanno descritto questo fenomeno. Il nodo cruciale che indagano questi autori è il passaggio dal sacrificio umano alla sostituzione, al posto dell’uomo, di un animale; conquista mai definitiva, che consiste nel sottrarre la persona designata alla morte.
Questo salto iperbolico - la dialettica dell’illuminismo - ha prodotto una discontinuità, ma reversibile. Se la sostituzione del capro all’uomo sottrae la vita umana alla potenza degli dei, non la sottrae alle relazioni umane.
Alla sottrazione si sostituisce il codice, che limita la violenza, ma, nel limitarla, la prescrive. Il rito segna un passaggio straordinario, da una condizione all’altra, il codice designa la normalità. Il codice non sottrae l’uomo alla violenza, perpetrata o subita, ma canonizza la violenza dentro pratiche regolate. La caccia intraspecie viene regolata, come le normali pratiche venatorie, ma permane. Barazzetti sonda questo fenomeno: la violenza come canone.
Passiamo alla storia clinica singolare. Si parte da un uomo che chiama Pjetër: versione albanese di Pierre, evocando l’opera, curata da Michel Foucault, su Pierre Rivière.
La storia di Pjetër riguarda un delirio che emerge a partire dalla trasgressione di un codice di vendetta, riapparso dopo la caduta della feroce dittatura comunista di Enver Hoxa: il Kanun, diffuso soprattutto nelle zone montane del nord Albania.
Che significa codice di vendetta? È possibile che la vendetta, gesto per noi tra i più aberranti, si possa sottoporre a codici? E quali potrebbero essere questi codici? Si tratta di codici che Pjetër ha trasgredito, producendo il delirio della fine del mondo.
Bisogna farsi un’idea del Kanun, inquadrarlo dentro consuetudini comunitarie, al di là del bene e del male, in vigore ovunque, in modo clandestino o semi-clandestino. Sono i codici dell’inconscio sociale. Pier Paolo Pasolini, per esempio, ha mostrato i moderni codici italiani nei rapporti stato-mafia. Sono quei codici che rendono leale un esercito al governo finché il governo è gradito all’esercito, i codici dei golpe, che hanno portato al potere Pinochet.
Il Kanun albanese, invece, è un antico codice consuetudinario patriarcale che prevede un assetto familiare di rigida sottomissione al maschio più anziano da parte del resto della famiglia; il dominio, alla morte del patriarca, passa di mano in mano al maschio più anziano che gli succede nel clan familiare. Per l’aspetto specifico della vendetta, leggiamo il testo di Barazzetti:
Le vicende di Pjetër sono complesse e singolari, tipiche dei casi di psicologia giuridica ai quali la razionalità classica non riesce a dare spiegazione: non c’è un movente, né una qualunque ragione colposa definibile. Pjetër, secondo il Kanun, avrebbe dovuto uccidere, sì, ma ha ucciso le persone sbagliate, ha esagerato, è deragliato. Perciò è stato condannato a morte dal capo del suo clan, suo fratello. Per non togliere al lettore il gusto dell’opera di Barazzetti, scriverò qui solo questo: Pjetër ha esagerato. Questa condanna riverbera in maniera talmente intensa nella vita del reo, da produrre un delirio: l’Apocalisse, la fine del Mondo.
In carcere, Pjetër delira, invoca l’Apocalisse e Barazzetti scrive, richiamandosi a Ernesto De Martino: “Il delirio apocalittico di Pjetër non distingue il proprio mondo da quello degli altri. La fine del mondo ... il tradimento del Kanun ... coincide con la fine di Pjetër” (P. 312). Da leggere.
NOTA:
INCONSCIO SOCIALE, CODICE DI VENDETTA E "FINE DEL MONDO". Considerato che il tema del libro di Arianna Barazzetti tocca il tema della "complessita della violenza" e della crisi dei "codici di vendetta", con i suoi deliri da fine del mondo (In carcere, Pjetër delira, invoca l’Apocalisse e Barazzetti scrive, richiamandosi a Ernesto De Martino: “Il delirio apocalittico di Pjetër non distingue il proprio mondo da quello degli altri. La fine del mondo ... il tradimento del Kanun ... coincide con la fine di Pjetër”) e, insieme, di fine del tempo (cfr. E. Fachinelli, "La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo"), come mostra la brillante recensione di Pietro Barbetta, forse, non è affatto da sottovalutare il legame (p. c. luisa maria sguazzi) evidenziato tra i vari livelli di realtà e accogliere l’invito a riprendere coraggiosamente le ricerche e portare avanti senza più indugi la critica della "razionalità classica".
Federico La Sala