A DON ANDREA GALLO E A TUTTA LA COMUNITA’ DI SAN BENEDETTO AL PORTO (GENOVA)

A DON ANDREA GALLO, PER SEMPRE. Note di Moni Ovadia, don Luigi Ciotti, Vinicio Capossela, Vito Mancuso, Oreste Pivetta, Gian Guido Vecchi.

In don Gallo si è compiuto il miracolo dell’ubiquità: lui è stato radicalmente cristiano e anche irriducibilmente cattolico, ma potrebbe anche essere ricordato come uno tzaddik chassidico, così come è stato un militante antifascista ed un laicissimo libero pensatore (Moni Ovadia).
lunedì 27 maggio 2013.
 

Il profeta di strada, profeta dei nostri tempi

di Moni Ovadia *

Don Andrea Gallo, mio fratello, ci ha lasciato. Io che non credo ma che conoscevo la sua forte fibra e resistenza, pure fino all’ultimo ho sperato che il suo sorriso potesse fare il miracolo. Prete da marciapiede come si è sempre definito, è stato uno dei sacerdoti più noti e più amati del nostro sempre più disastrato Paese. Non solo per me, siamo in centinaia di migliaia di persone che da sempre lo abbiamo sentito come un fratello, una guida, un maestro, un compagno. Ma il «Gallo» è stato prima di tutto e soprattutto un essere umano autentico. Che in yiddish si dice «a mentsch».

La nostra nascita nel mondo come donne e uomini, è un evento deciso da altri anche se la costruzione in noi del capolavoro che è un essere umano autentico, dipende in gran parte dalle nostre scelte. Il tratto saliente di questo percorso, è l’apertura all’altro laddove si manifesta nella sua più intima e lancinante verità ovvero nella sua dimensione di ultimo, sia egli l’oppresso, il relitto, il povero, l’emarginato, il disprezzato, l’escluso, il segregato, il diverso.

L’apertura all’altro, sia chiaro, non si manifesta nel melenso atto caritativo che sazia la falsa coscienza e lascia l’ingiustizia integra e perversamente operante, ma si esprime nella lotta contro le ingiustizie, nell’impegno diuturno per la costruzione di una società di uguaglianza, di giustizia sociale in una vibrante interazione di pensiero e prassi con una prospettiva tanto laicamente rivoluzionaria, quanto spiritualmente evangelica.

Il «Gallo» è stato radicalmente cristiano, sapendo che il messaggio di Gesù è un messaggio rivoluzionario, radicale e non moderato ed è per questo che l’hanno messo in croce, per la destabilizzante radicalità del cammino che indicava. «Beati gli ultimi perché saranno i primi» non è un invito a bearsi in una permanente condizione di minorità per il compiacimento delle classi dominanti, ma è un’incitazione a mettersi in cammino per liberare l’umanità dalla violenza del potere, per redimerla con l’uguaglianza.

La parola ebraica ashrei, tradotta correntemente con beato, si traduce meno proditoriamente con in marcia come propone il grandissimo traduttore delle scritture André Chouraqui.

È questa consapevolezza che ha fatto di don Gallo un profeta e non nell’accezione volgare e stereotipata con cui spesso si vuole sminuire o sbeffeggiare il ruolo di questa figura, ma nel senso più profondo di uomo che ha incarnato la verità dei grandi pensieri ripetutamente e capziosamente pervertiti dai funzionari del potere, siano essi i soloni del regno terreno, siano essi i chierici del cosiddetto regno celeste.

Questa è la ragione per la quale il profeta trasmette la parola del divino e il divino del monoteismo ha eletto come suo popolo lo schiavo e lo straniero, l’esule, lo sbandato, il fuoriuscito, il diverso, il meticcio avventizio perché tali erano gli ebrei e non un popolo etnicamente omogeneo come oggi vorrebbe uno sconcio delirio nazionalista.

Nella sua fondamentale opera «Se non ora adesso» (pubblicata da Chiarelettere) che deve essere letta da chiunque voglia capire le parole illuminate di questo prete da marciapiede, Gallo ci ha ricordato che l’etica è più importante della fede, come il filosofo e grande pensatore dell’ebraismo Emmanuel Lévinas suggerisce nel suo saggio «Amare la Torah più di Dio».

Come già il profeta d’Israele Isaia dichiara con parole infiammate, il Santo Benedetto stesso chiede agli uomini di praticare etica e giustizia perché disprezza la fede vuota e ipocrita dei baciapile:
-  «Che mi importa dei vostri sacrifici senza numero. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso dei giovenchi. Il sangue di tori, di capri e di agnelli Io non lo gradisco...
-  Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio, noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità.
-  I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso, sono stanco di sopportarli.
-  Quando stendete le mani, Io allontano gli occhi da voi. -Anche se moltiplicate le preghiere, Io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista.
-  Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova».

Il profeta autentico non predice il futuro, non è una vox clamans nel deserto, è l’appassionata coscienza critica di una gente, di una comunità, di un’intera società, ed è questa coscienza che si incide nella prole perché le parole diventino fatti, azioni militanti ad ogni livello della relazione interumana e per riconfluire in parole ancora più gravide di quella coscienza trasformatrice.

Questo è a mio parere il senso che don Gallo attribuisce al Primato della Coscienza espresso mirabilmente nel documento conciliare «Nostra Aetate» uscito dal Concilio Vaticano Secondo voluto da Giovanni XXIII, il «papa buono», ma buono perché giusto.

Con il poderoso strumento della sua coscienza cristiana, antifascista, critica, militante, laica ed evangelicamente rivoluzionaria, il prete cattolico Gallo, è riuscito a confrontarsi con i temi socialmente più urgenti ed eticamente più scabrosi smascherando i moralismi, le rigidità dottrinarie, le ipocrisie che maldestramente travestono le intolleranze per indicare il cammino forte della fragilità umana come via per la liberazione.

Quest’ultima e intima verità dell’uomo, Andrea Gallo la sapeva, la sentiva e la riconosceva nelle parole più impegnative delle scritture perché istituiscono l’umanesimo monoteista ma anche l’umanesimo tout court nella sua dirompente radicalità: «Ama il prossimo tuo come te stesso, ama lo straniero come te stesso, ciò che fai allo straniero lo fai a Me».

La passione per l’uomo, per la vita e per l’accoglienza dell’altro, si sono così coniugate in questo specialissimo uomo di fede con un folgorante humor che dissìpa ogni esemplarità predicatoria per aprire la porta del dialogo fra pari a chiunque voglia entrare, cristiano o mussulmano, ebreo o buddista, credente o ateo.

In don Gallo si è compiuto il miracolo dell’ubiquità: lui è stato radicalmente cristiano e anche irriducibilmente cattolico, ma potrebbe anche essere ricordato come uno tzaddik chassidico, così come è stato un militante antifascista ed un laicissimo libero pensatore.

Per me il Gallo resta un fratello, un amico, una guida certa, un imprescindibile e costante riferimento.

Per me personalmente, la speranza tiene fra le labbra un immancabile sigaro e ha il volto scanzonato di questo prete ribelle.

* il manifesto, 23 maggio 2013


Ha saputo unire cielo e terra

di Luigi Ciotti (La Stampa, 23 maggio 2013)

Don Andrea Gallo ha rappresentato - anzi incarnato - la Chiesa che non dimentica la dottrina, ma non permette che diventi più importante dell’attenzione per gli indifesi, per i fragili, per i dimenticati.

Mi piace ricordarlo così: come un prete che ha dato un nome a chi non lo aveva o se lo era visto negare. Ma il suo dare un nome alle persone nelle strade, nelle carceri, nei luoghi dei bisogni e della fatica, è andato di pari passo con un chiamare per nome le cose.

Andrea non è mai stato reticente, diplomatico, opportunista. Non ha mai mancato di denunciare che la povertà e l’emarginazione non sono fatalità, ma il prodotto di precise scelte politiche ed economiche.

Ha sempre voluto saldare il Cielo e la Terra, la sfera spirituale con l’impegno civile, la solidarietà e i diritti, il messaggio del Vangelo con le pagine della Costituzione. Le sue parole pungenti, a volte sferzanti, nascevano da un grande desiderio di giustizia, da un grande amore per le persone.

Ci mancherai tanto, Andrea, e ti dico grazie. Grazie per i tratti di cammino percorsi insieme. Grazie per le porte che hai aperto e che hai lasciato aperte. Grazie per aver testimoniato una Chiesa capace davvero di stare dalla parte degli ultimi, dalla parte della dignità inviolabile della persona umana.


“Non temeva di sporcarsi l’anima la sua era una carità militante”

intervista a Vinicio Capossela,

a cura di Carlo Moretti (la Repubblica, 23 maggio 2013)

Fino a qualche settimana fa il cantautore Vinicio Capossela non aveva ancora mai incontrato Don Gallo.

Quando l’ha conosciuto?

«L’ho incontrato a Genova il 18 aprile scorso per un concerto organizzato con i ragazzi della sua associazione. Esprimeva molta forza, sembrava una sinfonia in movimento in un corpo ossuto. Continuava a ripetere: “Abbiamo così tanto lottato per vedere nascere la democrazia, ora me ne dovrò forse andare vedendola morire? Sta a voi, a tutti voi tenerla viva».

Qual è la cosa che l’ha colpita di più?

«Mi ha colpito la fermezza con la quale trattava i ragazzi della sua comunità, che pure erano sempre nei suoi pensieri. Era una carità militante, la sua, che non faceva sconti e non tollerava scuse».

Cosa perdiamo con la sua scomparsa?

«Don Gallo si preoccupava degli ultimi e gli ultimi sono sempre di più, si allarga il bisogno e diminuiscono le persone che l’hanno a cuore. Lui mi ha dato l’impressione di non avere paura di sporcarsi con la vita. Ora abbiamo tutti un motivo in più per fare qualcosa. Il messaggio cristiano è stata la più grande rivoluzione della storia e Don Gallo l’ha portato nelle strade, riuscendo ad unire laici e cattolici. Non per umanizzare Dio, ma per divinizzare gli uomini. Avendo cura del divino che c’è in ognuno: la dignità».


Addio a don Gallo il prete dei dimenticati

di Vito Mancuso (la Repubblica, 23 maggio 2013)

Don Andrea Gallo vivrà nell’immaginario degli italiani con il suo sigaro, il cappello nero e l’immancabile colletto da prete, i segni più caratteristici della doppia appartenenza che ha contraddistinto la sua lunga e felice vita: l’appartenenza al mondo e alla chiesa, alla terra e al cielo. Termini tutti ugualmente importanti per uno che vi ha dedicato la vita.

Ma il primo posto per don Gallo spettava al mondo e alla terra, perché era solo in funzione di essi che per lui aveva senso poi parlare di chiesa e di cielo. La stola sacerdotale, che egli amava e a cui è sempre stato fedele, veniva dopo la sciarpa arcobaleno con i colori della pace che spesso indossava, e veniva dopo la sciarpa rossa spesso parimenti indossata per l’ideale di giustizia e di uguaglianza che a lui richiamava.

È stato questo primato del mondo e della terra che ha condotto don Gallo a essere un prete ribelle, contestatore, mai allineato con i dettami della gerarchia, soprattutto in campo etico e sociale. Un ribelle per amore, per amore del mondo e della sua gente, mai invece contro la sua Chiesa solo per il fatto di essere contro.

Se don Gallo è giunto spesso a essere contro, lo ha fatto solo perché era la condizione per essere per, per essere al fianco dei più emarginati, dei più umili, dei più bisognosi, e per non tradire mai la sua coscienza con il dover ripetere precetti o divieti di cui non vedeva il senso o che riteneva ingiusti.

Una volta gli chiesero che cosa pensasse della Trinità, come riuscisse a conciliare il rebus di questo Dio unico in tre persone, con tutte le processioni, le missioni e gli altri complessi concetti speculativi che il dogma trinitario porta con sé. Egli rispose che non si curava di queste sottigliezze dogmatiche perché gli importava solo una cosa: che Dio fosse antifascista!

Al di là della brillante battuta che gli servì per uscire indenne dalle insidie della teologia trinitaria, l’espressione “Dio antifascista” racchiude al meglio il messaggio spirituale che la vita di don Gallo ha rappresentato e continuerà a rappresentare per tutti coloro che l’hanno amato, l’hanno applaudito e hanno letto i suoi libri: intendo riferirmi alla cultura della pace, della solidarietà e della giustizia; alla lotta contro l’arroganza del potere e del denaro; al rifiuto di ogni forma di violenza, anche solo verbale, per ricorrere invece all’arma sempre più efficace dell’ironia e dell’umorismo.

Quello che mi colpiva e mi piaceva di don Gallo era che in lui, a differenza di altri cristiani contestatori e di una certa musoneria risentita abbastanza diffusa nella sua parte politica, mancavano del tutto il risentimento e l’astio, per lasciare spazio invece a un’allegria di fondo, una bonarietà, uno sguardo pulito, un accordo armonioso con il ritmo della vita, come si percepiva anche dalla musicalità grave della sua bellissima voce.

L’ultima volta che l’ho visto è stato due mesi fa, all’indomani dell’elezione del nuovo Papa, quando Fabio Fazio ci chiamò nel suo programma per commentarla.

Don Gallo fu brillantissimo, ogni sua parola suscitava un lungo applauso del pubblico, era felice come un bambino per la speranza che il Papa venuto dalla fine del mondo stava riaprendo ai credenti come lui, quelli che sono nella chiesa non a dispetto del mondo, ma per servirne al meglio la vita, cioè cercando di dare agli uomini ciò che il mondo costitutivamente non può dare loro, vale a dire la speranza che i sacri ideali dell’umanità (il bene, la giustizia, l’amore) non sono illusioni destinate a cadere “all’apparir del vero”, ma la dimensione più vera dell’essere da cui ognuno di noi proviene e nella quale ritornerà.

Era proprio per questa speranza che don Gallo credeva in Dio e nel messaggio di Gesù. Egli vedeva in questa fede uno dei più nobili gesti d’amore verso la vita e verso gli uomini che l’attraversano spesso soffrendo.

La fede di don Gallo era un profetico atto di fedeltà al mondo e di amore per gli uomini. In un cattolicesimo quale quello del nostro Paese, spesso privo di schiettezza e di libertà di parola, calcolatore, politico, amico del potere, caratterizzato da un conformismo che fa allineare pubblicamente tutti alla voce del padrone, compresi coloro che privatamente fanno i profeti e gli innovatori, in questo cattolicesimo cortigiano e privo di coraggio, la figura di don Gallo con il suo sigaro e il suo cappello ha svettato e svetterà per onestà intellettuale e libertà di spirito, perché egli non temeva di ripetere dovunque (in tv o davanti al suo vescovo non aveva importanza) i concetti sostenuti tra nuvole di fumo nelle lunghe nottate genovesi con gli amici della sua comunità.


Don Gallo, un prete dalla parte degli ultimi

di Oreste Pivetta (l’Unità, 23 maggio 2013)

Come ricordare don Gallo a distanza di ore soltanto dalla sua morte?

In mezzo alle «tute bianche» davanti a uno stadio, quando il corteo stava incamminandosi verso Brignole, una mattina, dodici anni fa, poche ore prima che la polizia caricasse, poche ore prima che Carletto Giuliani venisse ucciso, l’indimenticabile G8 genovese e berlusconiano. In chiesa a sentirlo cantare Bella ciao . Davanti a una telecamera, quando invitò Berlusconi, «malato», a ritirarsi nella «sua comunità».

Oppure in testa alla sfilata per un Gay Pride, accusando la sua Chiesa di incertezze, di ambiguità, di doppiezza, di poco amore insomma. Un prete in mezzo ai poveri, ai detenuti, alle prostitute dei vicoli, ai vecchi abbandonati, agli ultimi, a predicare più che la dottrina la necessità di fare, di operare, di costruire qualcosa di utile e presto, subito, perché così reclamavano e reclamano tante condizioni di disperazione, di ingiustizia, di miseria materiale e morale.

Viene in mente una bellissima frase di don Milani, il prete di Barbiana: vi è un tempo per le opere e vi è un tempo per la preghiera; ma se vi è urgenza di operare, allora si deve operare; quando tutti avranno capito che bisogna fare, per noi (per noi cristiani) verrà il momento della preghiera.

Don Andrea Gallo era così, preso dall’ansia, dalla volontà di costruire concretamente, alle prese con la vita, con le sue difficoltà, con le sue contraddizioni, con i suoi errori, con i suoi difetti, senza mai rimandare l’impegno ad apocalittiche resurrezioni.

Era un prete di chiesa e di strada come in Italia ce ne sono stati tanti, come nel mondo ce ne sono stati tanti, operatori prima che predicatori, nemici del pregiudizio e dell’ideologia, preti antimafia e preti operai, preti antifascisti e partigiani, preti delle periferie e preti di scuole di montagna.

Come don Milani, appunto, al quale richiama un’altra bella espressione don Gallo, un’espressione che fece scandalo, quando alla fine degli anni sessanta era diventato vice parroco nella chiesa del Carmine. Pare che nel quartiere fosse stata scoperta una fumeria di hashish. I cittadini si mostrarono indignati. Don Gallo, durante l’omelia domenicale, ricordò che ben più profonda indignazione avrebbe dovuto suscitare certo linguaggio, in virtù del quale, ad esempio, un ragazzo poteva diventare «inadatto agli studi», se figlio di povera gente.

Come don Milani che diceva rivolgendosi ai suoi professori e alle sue professoresse: «Voi dite che bocciate i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. E’ più facile che i dispettosi siate voi».

Don Gallo cominciò dai giovani. Era nato a Genova il 18 luglio 1928. Ventenne entrò nel seminario salesiano di Varazze, continuò gli studi a Roma, chiese nel 1953 di partire per le missioni e venne destinato ad una comunità di San Paolo del Brasile. Tornò in Italia e venne ordinato sacerdote nel 1959. La sua prima esperienza fu come cappellano alla nave scuola della Garaventa, riformatorio per minori. Cercò di educare quei giovani, richiamandoli alla loro responsabilità, attraverso una pedagogia fondata sulla fiducia e sulla libertà, consentendo loro di uscire, di andare al cinema, di vivere momenti di autogestione, smantellando a poco a poco le condizioni brutali della detenzione.

Si era appunto al principio degli anni sessanta, quando una cultura di ispirazione libertaria cominciava a mettere in discussione le cosiddette «istituzioni totali», dalla famiglia al carcere, al manicomio, dalla scuola alla caserma, in America come più tardi in Europa e in Italia.

Don Gallo si trovò da quella parte, anti istituzionale, anti repressiva. Lo definirono, presto, un comunista, ma comunista poteva esserlo come allora poteva essere un prete, nel senso del ripristino o della esaltazione di valori comunitari, che la società consumistica, scegliendo la strada dell’individualismo, andava smantellando.

Don Gallo entrò presto in conflitto con i suoi superiori, nel 1964 lasciò la congregazione salesiana. La definì «istituzionalizzata». Entrò nella diocesi di Genova, allora diretta dal cardinal Siri, che gli affidò l’incarico di cappellano del carcere della Capraia. Rimase poco alla Capraia. Gli toccò la parrocchia del Carmine, che divenne presto luogo di diseredati e di emarginati e di quanti concepivano come primo dovere di un fedele l’aiuto ai poveri. Fu allontanato anche dal Carmine.

Siri gli indicò la via della Capraia, ancora. Don Gallo rifiutò, trovò ospitalità nella parrocchia di San Benedetto al Porto e con don Federico Rebora fondò la sua Comunità. Da lì, da quella chiesa, da quella comunità, cercò di continuare la sua opera, instancabile, generosa, sorprendente, guidato da una vocazione limpida a sostenere sempre la parte delle minoranze deboli, oppresse, costruendo alleanze, senza mai paura di dichiararsi.

Anche politicamente: magari per il candidato sindaco Marco Doria o per il leader di Sel, Nichi Vendola. Gli toccò il premio «Fabrizio De Andrè» (del cantautore era stato grande amico). Gli toccò il titolo di «Personaggio dell’anno Gay», nel 2011, quando sostenne le rivendicazioni del Gay Pride.

Gli toccarono infinite sfilate televisive, dove cercò sempre di rappresentare il suo mondo di poveri, di deboli, di emarginati, sconfinando nella politica che praticava a braccio, che probabilmente non poteva sentire sua, troppo distante nei suoi meccanismi dalla materialità dei problemi che la sua «città» viveva, la faccia opposta di un altro celeberrimo prete genovese, quel don Gianni Baget Bozzo, coltissimo, raffinatissimo nei suoi esercizi politici, alla fine precipitato tra gli ispiratori di Berlusconi, vicinissimo invece don Gallo a quella città disperata e insieme ricca di vincoli e di umanità come può essere Genova, nelle stradine antiche, nel porto, nelle periferie che furono operaie, tra i viali e i portici di un manicomio, nei ghetti sconosciuti della povertà. Di questa città Don Gallo, cappellaccio in testa, sigaro in mano, parlata roca e intonazione dialettale, era protagonista e portavoce, intatto nella sua semplicità e nella sua determinazione operosa.


Addio a don Gallo prete a fianco dei poveri

di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 23 maggio 2013)

La cosa più divertente era sentirlo raccontare dei suoi rapporti con il cardinale Giuseppe Siri, grande arcivescovo conservatore di Genova, difficile immaginare due uomini più diversi «ma non ha mai chiesto che fossi sospeso, mai!». Certo, ogni tanto lo chiamava in arcivescovado per la canonica lavata di capo - ne aveva combinata un’altra delle sue - e alla fine gli ringhiava: «E la comunità, don Andrea, come va?». «Eh, si tira avanti, eminenza...».

Don Andrea Gallo ridacchiava masticando l’immancabile mezzo toscano quando descriveva Siri che «si voltava sospirando, apriva una piccola cassaforte e prendeva un po’ di soldi, i suoi soldi, per aiutare i miei poveri...».

Sarà che un albero, evangelicamente, si vede dai frutti. La sua comunità, l’ondata di affetto che ieri, dopo giorni di agonia, ha accompagnato la notizia della morte, alle 17.45, di don Andrea. Un affetto riassunto dalle parole del cardinale Angelo Bagnasco, «addolorato per un lutto che colpisce tutta Genova», il suo arcivescovo che sta a Roma per l’assemblea della Cei e ieri sospirava: «Tornerò venerdì, spero di poter essere io a celebrare il funerale di don Andrea».

Anche il presidente Giorgio Napolitano ha espresso «tristezza e rammarico», ricordando il «sacerdote amato per la sua forza spirituale e il suo impegno sui temi della povertà, dell’emarginazione e dell’esclusione sociale».

Ieri sera c’era la coda, davanti alla camera ardente nella chiesa della comunità di San Benedetto al Porto, sul feretro una bandiera della pace. Prete «contro», magari «comunista»: le etichette non lo sfioravano. Ma quando una volta, in curia, lo accusarono di «atteggiamenti antievangelici» lui, col suo mezzo toscano e il cappellaccio, era una furia: «Sono offeso, lo scriva: of-fe-so! Se vogliono darmi dell’arteriosclerotico facciano pure, non me la prendo, ma dell’antievangelico no!».

Classe ’28, orgoglioso della sua esperienza partigiana, era un salesiano e missionario, ma lasciò la congregazione per la diocesi della sua Genova. Dopo il Concilio si moltiplicavano le «comunità di base» e lui aveva fondato la comunità di San Benedetto al Porto a metà degli anni Settanta. Sul muro di fronte, verso il mare, un verso del suo amico Fabrizio De André: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».

Ha passato quarant’anni della sua vita tra tossici, prostitute, malati, miserabili. Gente che non avrebbe mai messo piede in una chiesa e anzi ne sarebbe scappata a gambe levate, non fosse stato per don Andrea. Raggiungerlo nella canonica di San Benedetto, un vecchio edificio giallo e scrostato, significava scavalcare pile di scatoloni colmi di cibo e vestiti, «martedì e venerdì c’è la distribuzione per chi bussa, la porta è aperta a tutti». Gli altri, quelli che non arrivavano, andava a prenderli per strada.

Molto più colto di quanto non desse a vedere, amico di artisti e intellettuali (fu lui a celebrare i funerali di Fernanda Pivano), spesso le sue posizioni facevano raggelare le gerarchie, ma lui non ci faceva troppo caso. Le prostitute accompagnate al consultorio: «Avrei dovuto lasciare che i magnaccia le facessero abortire a calci in pancia?». O la contraccezione: «Vede, il mese scorso mi sono morti quattro ragazzi di Aids. E allora io continuerò a proporre la morale cattolica, la preparazione al matrimonio e tutto quanto, ma se vado in mezzo alla strada dico di usarli, i preservativi, come faccio ad aspettare?».

Tra tante opere, libri e dichiarazioni «scandalose», resta l’ultimo libro, In cammino con Francesco, una raccolta delle sue omelie (con un esergo per De André: «Caro Faber, da tanti anni canto con te, per dare voce agli ultimi, ai vinti, ai fragili, ai perdenti...») dedicata all’elezione di Bergoglio. Perché magari cantava «Bella ciao» in Chiesa, ma nell’essenziale è sempre rimasto saldo, don Gallo. «In direzione ostinata e contraria», cantava Faber.

Chi lo ha conosciuto lo sa: «La mia non è una scelta ideologica, altro che comunista, la mia Bibbia è qui, vede? Io ho scelto i poveri, ho scelto di camminare con il popolo di Dio verso cieli nuovi e terre nuove, nella centralità di Cristo. Perché chi sceglie una ideologia può sbagliare, ma chi sceglie i poveri non sbaglia mai».


-  COSTITUZIONE, EVANGELO, E AUTODETERMINAZIONE. Una questione antropologica e politica....
-  Tutta la mia piena solidarietà personale a don Gallo L’obbedienza non è più una virtù’ (don Lorenzo Milani)


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