Il profeta di strada, profeta dei nostri tempi
di Moni Ovadia *
Don Andrea Gallo, mio fratello, ci ha lasciato. Io che non credo ma che conoscevo la sua forte fibra e resistenza, pure fino all’ultimo ho sperato che il suo sorriso potesse fare il miracolo. Prete da marciapiede come si è sempre definito, è stato uno dei sacerdoti più noti e più amati del nostro sempre più disastrato Paese. Non solo per me, siamo in centinaia di migliaia di persone che da sempre lo abbiamo sentito come un fratello, una guida, un maestro, un compagno. Ma il «Gallo» è stato prima di tutto e soprattutto un essere umano autentico. Che in yiddish si dice «a mentsch».
La nostra nascita nel mondo come donne e uomini, è un evento deciso da altri anche se la costruzione in noi del capolavoro che è un essere umano autentico, dipende in gran parte dalle nostre scelte. Il tratto saliente di questo percorso, è l’apertura all’altro laddove si manifesta nella sua più intima e lancinante verità ovvero nella sua dimensione di ultimo, sia egli l’oppresso, il relitto, il povero, l’emarginato, il disprezzato, l’escluso, il segregato, il diverso.
L’apertura all’altro, sia chiaro, non si manifesta nel melenso atto caritativo che sazia la falsa coscienza e lascia l’ingiustizia integra e perversamente operante, ma si esprime nella lotta contro le ingiustizie, nell’impegno diuturno per la costruzione di una società di uguaglianza, di giustizia sociale in una vibrante interazione di pensiero e prassi con una prospettiva tanto laicamente rivoluzionaria, quanto spiritualmente evangelica.
Il «Gallo» è stato radicalmente cristiano, sapendo che il messaggio di Gesù è un messaggio rivoluzionario, radicale e non moderato ed è per questo che l’hanno messo in croce, per la destabilizzante radicalità del cammino che indicava. «Beati gli ultimi perché saranno i primi» non è un invito a bearsi in una permanente condizione di minorità per il compiacimento delle classi dominanti, ma è un’incitazione a mettersi in cammino per liberare l’umanità dalla violenza del potere, per redimerla con l’uguaglianza.
La parola ebraica ashrei, tradotta correntemente con beato, si traduce meno proditoriamente con in marcia come propone il grandissimo traduttore delle scritture André Chouraqui.
È questa consapevolezza che ha fatto di don Gallo un profeta e non nell’accezione volgare e stereotipata con cui spesso si vuole sminuire o sbeffeggiare il ruolo di questa figura, ma nel senso più profondo di uomo che ha incarnato la verità dei grandi pensieri ripetutamente e capziosamente pervertiti dai funzionari del potere, siano essi i soloni del regno terreno, siano essi i chierici del cosiddetto regno celeste.
Questa è la ragione per la quale il profeta trasmette la parola del divino e il divino del monoteismo ha eletto come suo popolo lo schiavo e lo straniero, l’esule, lo sbandato, il fuoriuscito, il diverso, il meticcio avventizio perché tali erano gli ebrei e non un popolo etnicamente omogeneo come oggi vorrebbe uno sconcio delirio nazionalista.
Nella sua fondamentale opera «Se non ora adesso» (pubblicata da Chiarelettere) che deve essere letta da chiunque voglia capire le parole illuminate di questo prete da marciapiede, Gallo ci ha ricordato che l’etica è più importante della fede, come il filosofo e grande pensatore dell’ebraismo Emmanuel Lévinas suggerisce nel suo saggio «Amare la Torah più di Dio».
Come già il profeta
d’Israele Isaia dichiara con parole infiammate, il Santo Benedetto stesso chiede agli uomini di
praticare etica e giustizia perché disprezza la fede vuota e ipocrita dei baciapile:
«Che mi importa
dei vostri sacrifici senza numero. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso dei giovenchi.
Il sangue di tori, di capri e di agnelli Io non lo gradisco...
Smettete di presentare offerte inutili,
l’incenso è un abominio, noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità.
I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso, sono stanco di sopportarli.
Quando stendete le mani, Io allontano gli occhi da voi. -Anche se moltiplicate le preghiere, Io non
ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni
dalla mia vista.
Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete
l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova».
Il profeta autentico non predice il futuro, non è una vox clamans nel deserto, è l’appassionata coscienza critica di una gente, di una comunità, di un’intera società, ed è questa coscienza che si incide nella prole perché le parole diventino fatti, azioni militanti ad ogni livello della relazione interumana e per riconfluire in parole ancora più gravide di quella coscienza trasformatrice.
Questo è a mio parere il senso che don Gallo attribuisce al Primato della Coscienza espresso mirabilmente nel documento conciliare «Nostra Aetate» uscito dal Concilio Vaticano Secondo voluto da Giovanni XXIII, il «papa buono», ma buono perché giusto.
Con il poderoso strumento della sua coscienza cristiana, antifascista, critica, militante, laica ed evangelicamente rivoluzionaria, il prete cattolico Gallo, è riuscito a confrontarsi con i temi socialmente più urgenti ed eticamente più scabrosi smascherando i moralismi, le rigidità dottrinarie, le ipocrisie che maldestramente travestono le intolleranze per indicare il cammino forte della fragilità umana come via per la liberazione.
Quest’ultima e intima verità dell’uomo, Andrea Gallo la sapeva, la sentiva e la riconosceva nelle parole più impegnative delle scritture perché istituiscono l’umanesimo monoteista ma anche l’umanesimo tout court nella sua dirompente radicalità: «Ama il prossimo tuo come te stesso, ama lo straniero come te stesso, ciò che fai allo straniero lo fai a Me».
La passione per l’uomo, per la vita e per l’accoglienza dell’altro, si sono così coniugate in questo specialissimo uomo di fede con un folgorante humor che dissìpa ogni esemplarità predicatoria per aprire la porta del dialogo fra pari a chiunque voglia entrare, cristiano o mussulmano, ebreo o buddista, credente o ateo.
In don Gallo si è compiuto il miracolo dell’ubiquità: lui è stato radicalmente cristiano e anche irriducibilmente cattolico, ma potrebbe anche essere ricordato come uno tzaddik chassidico, così come è stato un militante antifascista ed un laicissimo libero pensatore.
Per me il Gallo resta un fratello, un amico, una guida certa, un imprescindibile e costante riferimento.
Per me personalmente, la speranza tiene fra le labbra un immancabile sigaro e ha il volto scanzonato di questo prete ribelle.
* il manifesto, 23 maggio 2013
Ha saputo unire cielo e terra
di Luigi Ciotti (La Stampa, 23 maggio 2013)
Don Andrea Gallo ha rappresentato - anzi incarnato - la Chiesa che non dimentica la dottrina, ma non permette che diventi più importante dell’attenzione per gli indifesi, per i fragili, per i dimenticati.
Mi piace ricordarlo così: come un prete che ha dato un nome a chi non lo aveva o se lo era visto negare. Ma il suo dare un nome alle persone nelle strade, nelle carceri, nei luoghi dei bisogni e della fatica, è andato di pari passo con un chiamare per nome le cose.
Andrea non è mai stato reticente, diplomatico, opportunista. Non ha mai mancato di denunciare che la povertà e l’emarginazione non sono fatalità, ma il prodotto di precise scelte politiche ed economiche.
Ha sempre voluto saldare il Cielo e la Terra, la sfera spirituale con l’impegno civile, la solidarietà e i diritti, il messaggio del Vangelo con le pagine della Costituzione. Le sue parole pungenti, a volte sferzanti, nascevano da un grande desiderio di giustizia, da un grande amore per le persone.
Ci mancherai tanto, Andrea, e ti dico grazie. Grazie per i tratti di cammino percorsi insieme. Grazie per le porte che hai aperto e che hai lasciato aperte. Grazie per aver testimoniato una Chiesa capace davvero di stare dalla parte degli ultimi, dalla parte della dignità inviolabile della persona umana.
“Non temeva di sporcarsi l’anima la sua era una carità militante”
intervista a Vinicio Capossela,
a cura di Carlo Moretti (la Repubblica, 23 maggio 2013)
Fino a qualche settimana fa il cantautore Vinicio Capossela non aveva ancora mai incontrato Don Gallo.
Quando l’ha conosciuto?
«L’ho incontrato a Genova il 18 aprile scorso per un concerto organizzato con i ragazzi della sua associazione. Esprimeva molta forza, sembrava una sinfonia in movimento in un corpo ossuto. Continuava a ripetere: “Abbiamo così tanto lottato per vedere nascere la democrazia, ora me ne dovrò forse andare vedendola morire? Sta a voi, a tutti voi tenerla viva».
Qual è la cosa che l’ha colpita di più?
«Mi ha colpito la fermezza con la quale trattava i ragazzi della sua comunità, che pure erano sempre nei suoi pensieri. Era una carità militante, la sua, che non faceva sconti e non tollerava scuse».
Cosa perdiamo con la sua scomparsa?
«Don Gallo si preoccupava degli ultimi e gli ultimi sono sempre di più, si allarga il bisogno e diminuiscono le persone che l’hanno a cuore. Lui mi ha dato l’impressione di non avere paura di sporcarsi con la vita. Ora abbiamo tutti un motivo in più per fare qualcosa. Il messaggio cristiano è stata la più grande rivoluzione della storia e Don Gallo l’ha portato nelle strade, riuscendo ad unire laici e cattolici. Non per umanizzare Dio, ma per divinizzare gli uomini. Avendo cura del divino che c’è in ognuno: la dignità».
Addio a don Gallo il prete dei dimenticati
di Vito Mancuso (la Repubblica, 23 maggio 2013)
Don Andrea Gallo vivrà nell’immaginario degli italiani con il suo sigaro, il cappello nero e l’immancabile colletto da prete, i segni più caratteristici della doppia appartenenza che ha contraddistinto la sua lunga e felice vita: l’appartenenza al mondo e alla chiesa, alla terra e al cielo. Termini tutti ugualmente importanti per uno che vi ha dedicato la vita.
Ma il primo posto per don Gallo spettava al mondo e alla terra, perché era solo in funzione di essi che per lui aveva senso poi parlare di chiesa e di cielo. La stola sacerdotale, che egli amava e a cui è sempre stato fedele, veniva dopo la sciarpa arcobaleno con i colori della pace che spesso indossava, e veniva dopo la sciarpa rossa spesso parimenti indossata per l’ideale di giustizia e di uguaglianza che a lui richiamava.
È stato questo primato del mondo e della terra che ha condotto don Gallo a essere un prete ribelle, contestatore, mai allineato con i dettami della gerarchia, soprattutto in campo etico e sociale. Un ribelle per amore, per amore del mondo e della sua gente, mai invece contro la sua Chiesa solo per il fatto di essere contro.
Se don Gallo è giunto spesso a essere contro, lo ha fatto solo perché era la condizione per essere per, per essere al fianco dei più emarginati, dei più umili, dei più bisognosi, e per non tradire mai la sua coscienza con il dover ripetere precetti o divieti di cui non vedeva il senso o che riteneva ingiusti.
Una volta gli chiesero che cosa pensasse della Trinità, come riuscisse a conciliare il rebus di questo Dio unico in tre persone, con tutte le processioni, le missioni e gli altri complessi concetti speculativi che il dogma trinitario porta con sé. Egli rispose che non si curava di queste sottigliezze dogmatiche perché gli importava solo una cosa: che Dio fosse antifascista!
Al di là della brillante battuta che gli servì per uscire indenne dalle insidie della teologia trinitaria, l’espressione “Dio antifascista” racchiude al meglio il messaggio spirituale che la vita di don Gallo ha rappresentato e continuerà a rappresentare per tutti coloro che l’hanno amato, l’hanno applaudito e hanno letto i suoi libri: intendo riferirmi alla cultura della pace, della solidarietà e della giustizia; alla lotta contro l’arroganza del potere e del denaro; al rifiuto di ogni forma di violenza, anche solo verbale, per ricorrere invece all’arma sempre più efficace dell’ironia e dell’umorismo.
Quello che mi colpiva e mi piaceva di don Gallo era che in lui, a differenza di altri cristiani contestatori e di una certa musoneria risentita abbastanza diffusa nella sua parte politica, mancavano del tutto il risentimento e l’astio, per lasciare spazio invece a un’allegria di fondo, una bonarietà, uno sguardo pulito, un accordo armonioso con il ritmo della vita, come si percepiva anche dalla musicalità grave della sua bellissima voce.
L’ultima volta che l’ho visto è stato due mesi fa, all’indomani dell’elezione del nuovo Papa, quando Fabio Fazio ci chiamò nel suo programma per commentarla.
Don Gallo fu brillantissimo, ogni sua parola suscitava un lungo applauso del pubblico, era felice come un bambino per la speranza che il Papa venuto dalla fine del mondo stava riaprendo ai credenti come lui, quelli che sono nella chiesa non a dispetto del mondo, ma per servirne al meglio la vita, cioè cercando di dare agli uomini ciò che il mondo costitutivamente non può dare loro, vale a dire la speranza che i sacri ideali dell’umanità (il bene, la giustizia, l’amore) non sono illusioni destinate a cadere “all’apparir del vero”, ma la dimensione più vera dell’essere da cui ognuno di noi proviene e nella quale ritornerà.
Era proprio per questa speranza che don Gallo credeva in Dio e nel messaggio di Gesù. Egli vedeva in questa fede uno dei più nobili gesti d’amore verso la vita e verso gli uomini che l’attraversano spesso soffrendo.
La fede di don Gallo era un profetico atto di fedeltà al mondo e di amore per gli uomini. In un cattolicesimo quale quello del nostro Paese, spesso privo di schiettezza e di libertà di parola, calcolatore, politico, amico del potere, caratterizzato da un conformismo che fa allineare pubblicamente tutti alla voce del padrone, compresi coloro che privatamente fanno i profeti e gli innovatori, in questo cattolicesimo cortigiano e privo di coraggio, la figura di don Gallo con il suo sigaro e il suo cappello ha svettato e svetterà per onestà intellettuale e libertà di spirito, perché egli non temeva di ripetere dovunque (in tv o davanti al suo vescovo non aveva importanza) i concetti sostenuti tra nuvole di fumo nelle lunghe nottate genovesi con gli amici della sua comunità.
Don Gallo, un prete dalla parte degli ultimi
di Oreste Pivetta (l’Unità, 23 maggio 2013)
Come ricordare don Gallo a distanza di ore soltanto dalla sua morte?
In mezzo alle «tute bianche» davanti a uno stadio, quando il corteo stava incamminandosi verso Brignole, una mattina, dodici anni fa, poche ore prima che la polizia caricasse, poche ore prima che Carletto Giuliani venisse ucciso, l’indimenticabile G8 genovese e berlusconiano. In chiesa a sentirlo cantare Bella ciao . Davanti a una telecamera, quando invitò Berlusconi, «malato», a ritirarsi nella «sua comunità».
Oppure in testa alla sfilata per un Gay Pride, accusando la sua Chiesa di incertezze, di ambiguità, di doppiezza, di poco amore insomma. Un prete in mezzo ai poveri, ai detenuti, alle prostitute dei vicoli, ai vecchi abbandonati, agli ultimi, a predicare più che la dottrina la necessità di fare, di operare, di costruire qualcosa di utile e presto, subito, perché così reclamavano e reclamano tante condizioni di disperazione, di ingiustizia, di miseria materiale e morale.
Viene in mente una bellissima frase di don Milani, il prete di Barbiana: vi è un tempo per le opere e vi è un tempo per la preghiera; ma se vi è urgenza di operare, allora si deve operare; quando tutti avranno capito che bisogna fare, per noi (per noi cristiani) verrà il momento della preghiera.
Don Andrea Gallo era così, preso dall’ansia, dalla volontà di costruire concretamente, alle prese con la vita, con le sue difficoltà, con le sue contraddizioni, con i suoi errori, con i suoi difetti, senza mai rimandare l’impegno ad apocalittiche resurrezioni.
Era un prete di chiesa e di strada come in Italia ce ne sono stati tanti, come nel mondo ce ne sono stati tanti, operatori prima che predicatori, nemici del pregiudizio e dell’ideologia, preti antimafia e preti operai, preti antifascisti e partigiani, preti delle periferie e preti di scuole di montagna.
Come don Milani, appunto, al quale richiama un’altra bella espressione don Gallo, un’espressione che fece scandalo, quando alla fine degli anni sessanta era diventato vice parroco nella chiesa del Carmine. Pare che nel quartiere fosse stata scoperta una fumeria di hashish. I cittadini si mostrarono indignati. Don Gallo, durante l’omelia domenicale, ricordò che ben più profonda indignazione avrebbe dovuto suscitare certo linguaggio, in virtù del quale, ad esempio, un ragazzo poteva diventare «inadatto agli studi», se figlio di povera gente.
Come don Milani che diceva rivolgendosi ai suoi professori e alle sue professoresse: «Voi dite che bocciate i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. E’ più facile che i dispettosi siate voi».
Don Gallo cominciò dai giovani. Era nato a Genova il 18 luglio 1928. Ventenne entrò nel seminario salesiano di Varazze, continuò gli studi a Roma, chiese nel 1953 di partire per le missioni e venne destinato ad una comunità di San Paolo del Brasile. Tornò in Italia e venne ordinato sacerdote nel 1959. La sua prima esperienza fu come cappellano alla nave scuola della Garaventa, riformatorio per minori. Cercò di educare quei giovani, richiamandoli alla loro responsabilità, attraverso una pedagogia fondata sulla fiducia e sulla libertà, consentendo loro di uscire, di andare al cinema, di vivere momenti di autogestione, smantellando a poco a poco le condizioni brutali della detenzione.
Si era appunto al principio degli anni sessanta, quando una cultura di ispirazione libertaria cominciava a mettere in discussione le cosiddette «istituzioni totali», dalla famiglia al carcere, al manicomio, dalla scuola alla caserma, in America come più tardi in Europa e in Italia.
Don Gallo si trovò da quella parte, anti istituzionale, anti repressiva. Lo definirono, presto, un comunista, ma comunista poteva esserlo come allora poteva essere un prete, nel senso del ripristino o della esaltazione di valori comunitari, che la società consumistica, scegliendo la strada dell’individualismo, andava smantellando.
Don Gallo entrò presto in conflitto con i suoi superiori, nel 1964 lasciò la congregazione salesiana. La definì «istituzionalizzata». Entrò nella diocesi di Genova, allora diretta dal cardinal Siri, che gli affidò l’incarico di cappellano del carcere della Capraia. Rimase poco alla Capraia. Gli toccò la parrocchia del Carmine, che divenne presto luogo di diseredati e di emarginati e di quanti concepivano come primo dovere di un fedele l’aiuto ai poveri. Fu allontanato anche dal Carmine.
Siri gli indicò la via della Capraia, ancora. Don Gallo rifiutò, trovò ospitalità nella parrocchia di San Benedetto al Porto e con don Federico Rebora fondò la sua Comunità. Da lì, da quella chiesa, da quella comunità, cercò di continuare la sua opera, instancabile, generosa, sorprendente, guidato da una vocazione limpida a sostenere sempre la parte delle minoranze deboli, oppresse, costruendo alleanze, senza mai paura di dichiararsi.
Anche politicamente: magari per il candidato sindaco Marco Doria o per il leader di Sel, Nichi Vendola. Gli toccò il premio «Fabrizio De Andrè» (del cantautore era stato grande amico). Gli toccò il titolo di «Personaggio dell’anno Gay», nel 2011, quando sostenne le rivendicazioni del Gay Pride.
Gli toccarono infinite sfilate televisive, dove cercò sempre di rappresentare il suo mondo di poveri, di deboli, di emarginati, sconfinando nella politica che praticava a braccio, che probabilmente non poteva sentire sua, troppo distante nei suoi meccanismi dalla materialità dei problemi che la sua «città» viveva, la faccia opposta di un altro celeberrimo prete genovese, quel don Gianni Baget Bozzo, coltissimo, raffinatissimo nei suoi esercizi politici, alla fine precipitato tra gli ispiratori di Berlusconi, vicinissimo invece don Gallo a quella città disperata e insieme ricca di vincoli e di umanità come può essere Genova, nelle stradine antiche, nel porto, nelle periferie che furono operaie, tra i viali e i portici di un manicomio, nei ghetti sconosciuti della povertà. Di questa città Don Gallo, cappellaccio in testa, sigaro in mano, parlata roca e intonazione dialettale, era protagonista e portavoce, intatto nella sua semplicità e nella sua determinazione operosa.
Addio a don Gallo prete a fianco dei poveri
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 23 maggio 2013)
La cosa più divertente era sentirlo raccontare dei suoi rapporti con il cardinale Giuseppe Siri, grande arcivescovo conservatore di Genova, difficile immaginare due uomini più diversi «ma non ha mai chiesto che fossi sospeso, mai!». Certo, ogni tanto lo chiamava in arcivescovado per la canonica lavata di capo - ne aveva combinata un’altra delle sue - e alla fine gli ringhiava: «E la comunità, don Andrea, come va?». «Eh, si tira avanti, eminenza...».
Don Andrea Gallo ridacchiava masticando l’immancabile mezzo toscano quando descriveva Siri che «si voltava sospirando, apriva una piccola cassaforte e prendeva un po’ di soldi, i suoi soldi, per aiutare i miei poveri...».
Sarà che un albero, evangelicamente, si vede dai frutti. La sua comunità, l’ondata di affetto che ieri, dopo giorni di agonia, ha accompagnato la notizia della morte, alle 17.45, di don Andrea. Un affetto riassunto dalle parole del cardinale Angelo Bagnasco, «addolorato per un lutto che colpisce tutta Genova», il suo arcivescovo che sta a Roma per l’assemblea della Cei e ieri sospirava: «Tornerò venerdì, spero di poter essere io a celebrare il funerale di don Andrea».
Anche il presidente Giorgio Napolitano ha espresso «tristezza e rammarico», ricordando il «sacerdote amato per la sua forza spirituale e il suo impegno sui temi della povertà, dell’emarginazione e dell’esclusione sociale».
Ieri sera c’era la coda, davanti alla camera ardente nella chiesa della comunità di San Benedetto al Porto, sul feretro una bandiera della pace. Prete «contro», magari «comunista»: le etichette non lo sfioravano. Ma quando una volta, in curia, lo accusarono di «atteggiamenti antievangelici» lui, col suo mezzo toscano e il cappellaccio, era una furia: «Sono offeso, lo scriva: of-fe-so! Se vogliono darmi dell’arteriosclerotico facciano pure, non me la prendo, ma dell’antievangelico no!».
Classe ’28, orgoglioso della sua esperienza partigiana, era un salesiano e missionario, ma lasciò la congregazione per la diocesi della sua Genova. Dopo il Concilio si moltiplicavano le «comunità di base» e lui aveva fondato la comunità di San Benedetto al Porto a metà degli anni Settanta. Sul muro di fronte, verso il mare, un verso del suo amico Fabrizio De André: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».
Ha passato quarant’anni della sua vita tra tossici, prostitute, malati, miserabili. Gente che non avrebbe mai messo piede in una chiesa e anzi ne sarebbe scappata a gambe levate, non fosse stato per don Andrea. Raggiungerlo nella canonica di San Benedetto, un vecchio edificio giallo e scrostato, significava scavalcare pile di scatoloni colmi di cibo e vestiti, «martedì e venerdì c’è la distribuzione per chi bussa, la porta è aperta a tutti». Gli altri, quelli che non arrivavano, andava a prenderli per strada.
Molto più colto di quanto non desse a vedere, amico di artisti e intellettuali (fu lui a celebrare i funerali di Fernanda Pivano), spesso le sue posizioni facevano raggelare le gerarchie, ma lui non ci faceva troppo caso. Le prostitute accompagnate al consultorio: «Avrei dovuto lasciare che i magnaccia le facessero abortire a calci in pancia?». O la contraccezione: «Vede, il mese scorso mi sono morti quattro ragazzi di Aids. E allora io continuerò a proporre la morale cattolica, la preparazione al matrimonio e tutto quanto, ma se vado in mezzo alla strada dico di usarli, i preservativi, come faccio ad aspettare?».
Tra tante opere, libri e dichiarazioni «scandalose», resta l’ultimo libro, In cammino con Francesco, una raccolta delle sue omelie (con un esergo per De André: «Caro Faber, da tanti anni canto con te, per dare voce agli ultimi, ai vinti, ai fragili, ai perdenti...») dedicata all’elezione di Bergoglio. Perché magari cantava «Bella ciao» in Chiesa, ma nell’essenziale è sempre rimasto saldo, don Gallo. «In direzione ostinata e contraria», cantava Faber.
Chi lo ha conosciuto lo sa: «La mia non è una scelta ideologica, altro che comunista, la mia Bibbia è qui, vede? Io ho scelto i poveri, ho scelto di camminare con il popolo di Dio verso cieli nuovi e terre nuove, nella centralità di Cristo. Perché chi sceglie una ideologia può sbagliare, ma chi sceglie i poveri non sbaglia mai».
COSTITUZIONE, EVANGELO, E AUTODETERMINAZIONE. Una questione antropologica e politica....
Tutta la mia piena solidarietà personale a don Gallo
L’obbedienza non è più una virtù’ (don Lorenzo Milani)
L’OMELIA DI NATALE
DI DON GALLO (25 dicembre 2008)
Ecco qui che penso che possiamo dire stasera...che siamo anche molto numerosi è proprio che Dio che ama...questo amore cosmico che inonda tutti...
Per me il compito come tanti anni e dopo tanti anni di riflettere con voi sui testi che abbiamo qui. Quest’anno i politici lasciamoli un po’ perdere...proprio non meritano granché insomma!
Fermiamoci un po’ prima di tutto al Vangelo. Il primo nome che viene, guardate voi, in questo racconto così semplice, è niente meno che il nome dell’imperatore. Viene anche citato. Questa storia assomiglia poi alla storia che si è distesa lungo i secoli a noi e che è messa in correlazione con l’episodio che è proprio all’inizio, all’opposto....: cosa potete pensare di più lontano dal palazzo dell’imperatore, dal palazzo del potere, che è una mangiatoia in una stalla fuori città! dove una coppia di pellegrini, Maria e Giuseppe, per i quali non c’è posto in città, si rifugia....e dove avviene il parto? L’atto più semplice con cui la specie umana pensava a se stessa, provvede alla propria continuazione...dove avviene questo parto?
In una mangiatoia! Abbandonata, tra l’altro... Quindi il bambino neonato Gesù in una mangiatoia. E’ la storia a quota zero...è l’anti-storia... a mio avviso è quello che succede ancora all’inizio del terzo millennio nel caso di milioni di casupole e baracche disseminate nel mondo. C’era qui padre Zanotelli. E fino, mi ricordo, ai tempi del G8, diceva: il 20%, per farsi comprendere lui dopo tanti anni in Africa, adesso sta da quattro anni al quartiere della Sanità di Napoli. Fino a qualche anno fa diceva: il 20% si pappa l’80% delle risorse... l’ho sentito a Firenze, due domeniche fa, e diceva che adesso è l’11% di abitanti di questa terra si pappa....fate voi la percentuale....siamo addirittura ad oltre l’80% delle risorse mondiali.
Ancora stasera ho visto un pezzo di Rai2: ho sentito parlare autorità, vescovi....tutti dicono la crisi, la crisi quindi a solidarietà, la solidarietà....una solidarietà che continua a rimanere assistenziale... i nomi e i cognomi dei responsabili della crisi sono noti con indirizzo, non li sento....E allora, vi rendete conto che la nascita è l’emblema di quella condizione umana a cui non giunge nemmeno un occhio di giornalista, di cui nessun cronista tiene nel giusto conto...è il simbolo di una immensa moltitudine di persone oggi...si, è vero, fanno tante statistiche, mostre fotografiche, filmati...
Allora? il senso del Natale è che Dio entra nella storia. Ma come ci entra? Non nel punto più alto, ma nel punto basso. Cosa vuol dire? Allora, nei palazzi Dio non c’è ! lì non c’è posto per l’uomo povero... per la donna, per i bambini, per i trans, per i rom, per i gay, per tutti coloro che non seguono la legge del branco...e per quelli che vivono e sopravvivono allo sbaraglio... Pensate solo alla situazioni delle carceri italiane, alle torture, senza protezione alcuna...
Quindi a questo punto qualcuno stasera pensa che don Andrea dia la spiegazione dell’esistenza di Dio....No! io non lo so...come faccio? C’è in S.Pietro il Santo Padre... A noi importa dire: hai speranza? in un cambiamento strutturale, cioè in un nuovo mondo possibile? E allora, secondo me Dio esiste! Il nostro tempo, è vero, è un tempo di iniquità! Ma quante esperienze ci sono...? Guardate queste, anche minuscole, ci fanno sentire il futuro...Ma pensa alla resistenza indioafro-popolare, alla selva lacandona, ai sem terra, alle migliaia di cooperative indigene che ci sono...e via via fino alle nostre parti....quante, quante strette di mano con la gente africana, sudamericana e asiatica...o dell’Est, che parlano con confidenza della fraternità... si aspettano da noi! E noi che dovremmo essere la civiltà occidentale cristiana?!
Io ho fatto più di 60000 km quest’anno...e ne ho viste... il 31 sera sarò in Trentino per una marcia della pace.... Quelli del Dal Molin mi hanno detto di scrivere ad Obama perché la base non si faccia.... Il microcredito a Firenze... Quindi migliaia e migliaia ovunque!
La paura è un sentimento che non si può rimuovere.... Forse noi siamo qui stasera per la paura...è un sentimento reale... e Gesù bambino ci stimola proprio con la sua mitezza e umiltà al dialogo, con chiunque... E soprattutto vorrei che rimanesse impresso nell’orecchio quel grido di Papa Giovanni...non ascoltate i profeti di sventura!
Ma siamo cristiani? Ma siete pazienti ricercatori di spazi di incontri? Il cristiano deve essere un sognatore...c’è bisogno di sognatori! È chiaro che se si sogna da soli il sogno non si avvera mai...sognando insieme, il sogno si realizza... Chi vuole seguire Gesù, dalla sua culla fino alla croce e resurrezione, deve avere molta disponibilità ad ascoltare e comprendere, ad accogliere, questo altro che è e che ha tante risorse....Una fermezza nei principi, unita alla compassione...ecco il cristiano. Al sapere condividere con l’altro...e a volte in questi tempi, a fare silenzio insieme...
Il cristianesimo è un’offerta... il cristiano non pretende di avere il monopolio della verità e della felicità!! Ai cristiani tocca il compito di vivere e testimoniare l’annuncio del Vangelo. E qui aggiungo: in direzione ostinata e contraria! L’annuncio cristiano non deve avere forme arroganti, né un’ostentazione di privilegi...trovare il tempo opportuno per il dialogo e non giudicare mai...!! Non giudicate se non volete essere giudicati... è un’opera di grande costanza e testimonianza...anche di persecuzione, così dicono le beatitudini, non di persuasione forzata... il cristiano non è fatto per vincere! È fatto per convincere ! equità, gratuità, libertà, giustizia, condivisione, pace....
A un certo momento Isaia nella prima lettura dice che Gesù verrà con diritto e giustizia ed è principe della pace!! E quindi questa pace con quattro colonne. Ecco è fuori dai palazzi, da tutti i poteri, dall’informazione menzognera...prima colonna. Seconda colonna che sostiene la pace, le cause dell’ingiustizia. Allora la terza colonna è l’amore, come sentirsi parte dell’intera famiglia umana, come Gesù ne è stato parte ed è stato il salvatore... e fatica sostenuta dalla speranza di un cambiamento strutturale, di una rivoluzione... con speranza e tenerezza.
Vi dicevo prima: basterebbe vedere le beatitudini. Il discorso della montagna... all’aperto, non in un palazzo! Dove va a fare questo grande discorso questo re dei re? Su una montagna... non ce l’ha il palazzo! Beati gli operatori di pace, beati i puri di cuore, beati i perseguitati a causa della giustizia... beati coloro che sono perseguitati nel mio nome...
Ed ecco che Gesù nella sua crescita, ci dice continuamente che è venuto per servire, non per essere servito. Voglio ripetere che non serve a nulla la paura! Dell’altro, del diverso, dello straniero o anche del vicino di casa...cessa di essere estraneo quando lo ascoltiamo... ascoltare non è semplicemente un atteggiamento d’orecchio, ma è soprattutto un atteggiamento interiore. Ciò richiede vigilanza, attenta riflessione, disponibilità a cambiare, una saldezza di convinzioni, a ricominciare da capo ogni giorno...
Vogliamo finalmente fondare la quinta internazionale?! Internazionale della speranza, del cambiamento...! Ma lasciatemi infine fare gli auguri. Mi sono ispirato al grande vescovo don Tonino Bello, vescovo durante la tragedia della Bosnia Erzegovina. Andò a Sarajevo, con 500 persone...in piena battaglia...raccolse musulmani, raccolse cristiani, ortodossi, cattolici ma non una riga sui giornali...ed era già molto ammalato.
Partiamo da Gesù, che nasce per amore. Che dia a tutti noi la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali, senza saper perdere... Ci conceda di inventarci una vita carica di donazioni, di preghiera, di silenzio, di coraggio, di gioia, di bellezza...!
E allora che questo bambino ci tolga qualche volta il sonno e ci faccia sentire il guanciale del letto duro come un macigno! Finché non avremo dato quella che è l’accoglienza...
Questo bambino che diventa uomo ci faccia sentire dei vermi...! Ogni volta che la nostra superbia e indifferenza diventa titolo della nostra vita... lei non sa chi sono io...io pago le tasse... superbia, insolenza, arroganza...
Passiamo a Maria. Che trova solo nella paglia degli animali la culla dove porre con tenerezza il frutto del suo grembo. E allora che ci costringa a svegliarci per la partecipazione alla costruzione di una vita umana!
Giuseppe. E Giuseppe che andrà incontro a mille porte chiuse... chissà quante porte ha bussato...?! Nelle porte chiuse c’è il simbolo di tutte le emarginazioni. E allora che anche Giuseppe disturbi le nostre sbornie ideologiche, partitiche....che ci possano mettere in crisi dalla sofferenza i tanti genitori che versano lacrime... quanti ne vedo qui in ufficio, da tanti anni, tanti genitori che versano lacrime in segreto per i loro figli... senza fortuna, senza salute, senza lavoro...uccisi da trenta anni di proibizionismo sugli stupefacenti...una strage mafiosa!
Gli angeli. Gli angeli annunciano la pace. E allora anche loro che ci disturbino....ci facciano vedere che a un palmo dal nostro naso, spesso con l’aggravante del nostro silenzio complice, del nostro mutismo, indifferenza, si compiono ingiustizie, si sfratta la gente...
Quindi pensate, si fabbricano armi...sapete l’Italia ha più di cento bombe atomiche... si militarizza la terra degli umili!! Non crediamo alle “missioni di pace”! Anche Papa Giovanni nella sua enciclica “pacem in terris” ci dice esplicitamente che è impensabile portare la democrazia con le armi, che ciò è “alienum a ratione”...vuol dire che chi fa quelle missioni è un pazzo!! Quindi la terra è degli umili e si condannano i popoli allo sterminio della fame.
E veniamo ai pastori. Che sono i più poveri. I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità, nel loro disfacimento del sistema finanziario. E allora questa città sonnolenta, dell’indifferenza....pensate: ci stanno privatizzando l’acqua! Dio ha dato l’acqua per tutti!! E allora ci facciano capire questi pastori, che se anche noi vogliamo vedere una gran luce dobbiamo ripartire dagli ultimi, dalla stalla, da Gesù....bisogna uscire! Andare e rendere protagonisti i poveri! Una solidarietà assistenziale si deve trasformare in una solidarietà liberatrice. L’elemosina di chi gioca sulla pelle della gente è grave!!
Vorrei ancora dire con i pastori che i ricatti dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio... se provocati da speculazioni corporative. E i pastori vegliano nella notte e fanno la guardia al gregge. E allora noi diventiamo guardiani della nostra comunità, dei nostri gruppi...
Buon Natale, su questo vecchio mondo che muore... è nata la speranza.
La quarta colonna della pace è di una profonda inquietudine ed una grande aspirazione alla libertà...!!
Sia lodato Gesù bambino.
Servizio Pubblico, Alba Parietti: “Don Gallo, partigiano e servo degli ultimi”
“Mi chiamo Alba perché Alba è stata la prima città liberata dal nazifascismo”. Così Alba Parietti esordisce nel suo intervento nell’ultima puntata di Servizio Pubblico. E rende un commosso tributo al padre: “Dopo di lui, ho conosciuto un uomo che fumava il sigaro e aveva una faccia da attore. Anche lui era stato partigiano, come mio padre, nome in codice Nan. La sua voce e il suo modo di fare erano seducenti. Con lui potevi parlare di qualsiasi cosa, non ti sentivi mai giudicata. La sua vita era piena di prostitute, di trans, di drogati. Viveva immerso nel popolo della notte. E anche io sentivo il bisogno di chiamarlo e gli parlavo al telefono per ore. Il giorno del suo funerale, fuori dalla chiesa, mentre si celebrava la messa, arrivava il coro di “Bella ciao”. Quell’uomo si chiamava don Andrea Gallo. Lui è stato un servo, un servo degli ultimi”
* Cliccare qui, di seguito, per il video dell’intervento completo: Il Fatto, 19 giugno 2015
La città si ferma e canta “Bella ciao”
di Ferruccio Sansa (il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2013)
Le città sono fatte di persone. A volte ce ne dimentichiamo. Forse è stato questo l’ultimo messaggio di don Gallo, quello lasciato al suo funerale: decine di migliaia di persone a sfilare per le strade di Genova, a cantare “Bella ciao”, a suonare i tamburi, a sventolare bandiere e a pregare. A volte tutte le cose insieme. “Non sembra nemmeno un funerale”, diceva qualcuno. Invece sì che lo sembrava, ancora più straziante proprio per quel tentativo di tutti, della città intera, di negare il distacco. Ma poi la chiesa si svuota, sulla strada scende il silenzio. E ognuno resta solo.
Già, le città sono fatte di persone. Alcune, come don Gallo, hanno la sorte e la forza di diventarne simbolo. Quasi dei padri. Così a Genova, quando ci si sentiva minacciati, disorientati, capitava di gettare un occhio a quella minuscola finestra affacciata sul porto. Era successo per il terribile G8, quando Genova medaglia d’oro della Resistenza fu tradita dallo Stato che aveva contribuito a realizzare. E, appena quindici giorni prima della morte di don Gallo, quel 7 maggio che la Jolly Nero ha tirato giù la torre dei piloti del porto: nove morti. A ricordare quanto può essere pericoloso il lavoro. Ancora di più quello in porto, con gli uomini ridotti a minuscole figure in un mondo di giganti, dove si maneggiano senza sosta carichi colossali.
La finestra di don Andrea, affacciata sul quel porto, di notte era sempre accesa. Per illuminare chi stava dentro, ma anche chi passava fuori. Quasi un faro per le nostre umane navigazioni. Se bussavi sapevi che ti sarebbe stato aperto. Sempre. Giorno e notte, estate e inverno. “Ricordo anni che ogni notte moriva un ragazzo con una siringa nel braccio. Nelle strade, nei bagni delle stazioni, ovunque.
Quando le strutture pubbliche, le comunità chiudevano le loro porte allora chiamavo don Gallo. Lui ha sempre trovato posto, spesso in camera sua, nel letto accanto al suo”, racconta un magistrato amico di Andrea. Una branda, un tavolo, una sedia e i suoi libri. Non c’era niente di più, non ne aveva bisogno.
Quando ci entravi dentro ti sembrava impossibile che un uomo dopo ottantacinque anni tanto pieni e intensi avesse potuto raccogliere oggetti che stavano nello zaino di un bambino delle elementari. Ma, come dice Paolo Rumiz, un buon viaggiatore si riconosce da quello che lascia a casa, non da quello che porta con sé. Oggi nelle stanze sgangherate e accoglienti di San Benedetto al Porto, su quelle panche consumate dalle chiappe della gente, sono rimasti gli amici di Gallo, dalla Lilli a Megu. Sanno che devono continuare anche per don Andrea.
Ma Genova, dopo Fabrizio de Andrè, ha perso un’altra figura in cui riusciva a riconoscersi. Proprio in un momento di estrema crisi, tra i gruppi di potere (che non risparmiano la Curia) che si addentano per conquistare la banca Carige, la ‘ndrangheta che mette radici nella politica e nell’economia, soprattutto nel mattone che trionfa.
Già, le città sono fatte di persone. Ma gli uomini si fermano, anche i migliori. Bisogna che altri si facciano avanti. Bisogna che la città li sappia riconoscere
Io, ebreo, suo capo spirituale marxista
di Moni Ovadia (il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2013)
Quando certi alti prelati lo apostrofavano dicendogli: “Un buon sacerdote deve avere un direttore spirituale!”, allora lui rispondeva: “Ma io ce l’ho, è un ebreo, si chiama Moni Ovadia!”. (...) Il messaggio di Cristo è un messaggio radicale. E la radicalità sta proprio nell’annunciare che “gli ultimi saranno i primi”.
Attenzione, però, solitamente la più celebre delle beatitudini viene tradotta dal greco così: “Beati gli ultimi perché saranno i primi”. Ricordandovi che Gesù parlava e predicava in aramaico, ma pregava in ebraico, desidero soffermarmi sulla parola ashrey’, tradotta nell’italiano con “beato” o anche “felice”.
La radice ebraica ashrey’ contiene in sé un significato di felicità dinamico più che statico. Prendendola un po’ alla larga provo a spiegare questa interpretazione con un’idea di felicità che apparteneva a Karl Marx.
Il grande filosofo di Treviri era un uomo che amava stare in famiglia. Nel corso delle riunioni con amici, in casa Marx, si faceva solitamente un gioco di società che consisteva in dieci domande rivolte a ciascuno degli astanti. Una delle domande era: “Che cosa è per te la felicità?”. Quando essa veniva rivolta a Marx, magari da una delle sue figlie, il celebre rivoluzionario rispondeva convinto: “Felicità per me è lottare”.
Ecco allora che un traduttore geniale delle Scritture, André Chouraqui, primo ebreo che abbia mai tradotto i Vangeli, traduce la celebre beatitudine non “beati gli ultimi”, ma “in marcia gli ultimi che saranno i primi”. Questa traduzione porta a far emergere il senso rivoluzionario della predicazione cristica.
La felicità è movimento, è lotta. Proprio collocandosi in questo orizzonte, il Gallo riusciva a essere uno e trino - e scusate se mi permetto l’irriverenza, ma essa è privilegio del saltimbanco - era cioè in continua tensione dialettica fra la pienezza del suo essere umano in carne e ossa, il “compagno” partigiano, militante per l’uguaglianza e la giustizia sociale, e il suo essere cristiano-cattolico, cioè luminosamente credente e uomo di chiesa.
La sua radicalità umana e cristiana - e in suo onore voglio usare anch’io una radicalità di linguaggio, contro la melassa conformista sparsa a profusione di questi tempi - lo rese “divisivo”! Proprio come Gesù Cristo! Se Gesù fosse stato “unitivo”, non sarebbe finito su una croce, ma avrebbe avuto un posto d’onore nel Parlamento italiano.
Don Andrea mi ha insegnato cosa vuol dire essere compagno, prima di lui non lo sapevo. Compagno è parola da tempo bandita, come fosse una parola infame della burocrazia stalinista. Non è così. Ha una radice cristiana: cum panis. Il compagno è colui con cui spezzi il pane. Solo in seguito il movimento operaio ha proiettato il termine nella sua grandezza fino all’orizzonte di quella giustizia sociale che promana dal lavoro come status di nobiltà. Ebbene, qual è il pane che si spezza come cristiani, come ebrei, come compagni, come democratici? È il pane della giustizia sociale! È questo il pane che dobbiamo spezzare, perché senza giustizia sociale, il tanto parlare di equità è solo un raggiro, uno strumento di confusione e perversione.
L’unica volta che ho pregato in una chiesa è stato con lui. Sì, io, ebreo agnostico, ho pregato col Gallo. (...) Una domenica dovevo andare a pranzo da lui, come facevo spesso. Andrea stava terminando di celebrare la messa, entrai in chiesa restandomene in fondo, ma lui mi vide con la coda dell’occhio e mi chiamò: “Stiamo per dire il Padre nostro”. Lui e tutti i suoi parrocchiani si tenevano per mano stando in cerchio, e allora m’invitò: “Vieni qua, che tanto questa preghiera ha radici ebraiche e va bene anche per te”.
Quando don Andrea non era ancora don Gallo
di Luca Rolandi
in “Vino Nuovo” (www.vinonuovo.it) del 25 maggio 2013
Don Andrea Gallo ora è partito per il viaggio più lungo, verso quella Meta che ha costruito sulla terra. Penso sia giusto ricordare la sua figura e anima, adesso che naturalmente i riflettori della ribalta mediatica si spegneranno e non avremo più notizia del prete genovese. Ci mancheranno le sue provocazioni di "bene" e ne avvertiremo la mancanza. La sua "fama" di bene e amore, il suo essere segno di contraddizione erano già vive nella comunità ecclesiale e civile genovese e non, ben prima che don Andrea, diventasse il "famoso" don Gallo di Genova. Nell’era della comunicazione ci hanno pensato dalla fine degli anni Ottanta i salotti di Costanzo e Fabio Fazio, i libri e le interviste, una serie di incontri con personaggi importanti del mondo della politica, della cultura e dello spettacolo, che hanno trasformato don Andrea in una "icona".
Ma i primi cinquanta-sessant’anni della sua vita, sono stati fondamentali forse più di quelli più noti. La sua genovesità era un marchio indelebile nel mondo con il quale aveva scelto la strada del sacerdozio, un modo di dire eccomi al vangelo di Gesù Cristo, intenso nella sua radicale dimensione di dono totale all’umanità, che è immagine di Dio. Il fratello Dino, partigiano e memoria storica della Democrazia Cristiana, antifascista e repubblicana, ha avuto grande influenza, soprattutto nella scelta di indirizzarsi verso la formazione salesiana: i giovani, l’oratorio, la strada nelle sua dimensione positiva e anche negativa e pericolosa.
Gli anni della formazione sono decisivi: la Resistenza e la ricostruzione, lo scontro ideologico tra comunisti e cattolici, la miseria e la fame che mordono la città e la popolazione che vive nella zona bassa: i carruggi, le vie strette e scure del centro storico. Gli "ultimi" sono lì: i primi tossicodipendenti, le prostitute, cantate da Fabrizio De Andrè, gli immigrati dell’Italia meridionale, i portuali e i marinai senza fissa dimora.
Il giovane Andrea è attratto dal modello di un cristianesimo radicale, senza retorica e intellettualismi. Don Zeno di Nomadelfia, don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari a loro è debitore. Vive il Concilio Vaticano II nella sua dimensione di ritorno alla radice del cristianesimo: amare il prossimo sempre e comunque. Don Andrea è prete della Chiesa cattolica senza se e senza ma. A modo suo fedele, molte volte in contrasto, obbediente, ma con la schiena dritta.
Andrea Gallo deve all’insegnamento di don Bosco la sua dedizione a vivere a tempo pieno "con" gli ultimi, i poveri, gli emarginati, per sviluppare un metodo educativo che ritroveremo simile all’esperienza di Don Milani, lontano da ogni forma di coercizione e regola definita. Attratto dalla vita salesiana, inizia il noviziato nel 1948 a Varazze, proseguendo poi a Roma il Liceo e gli studi filosofici.
Nel 1953 chiede di partire per le missioni e viene mandato in Brasile a San Paolo dove compie studi teologici: la dittatura che vigeva in Brasile, lo costringe, in un clima per lui insopportabile, a ritornare in Italia l’anno dopo. A Genova è accolto dal cardinale Siri. Con lui sarà sempre un rapporto di amore filiale e contrasto nell’interpretare la visione del messaggio. Per Andrea meno rigido e dottrinale, più misericordioso e aperto a tutti, in particolare i "peccatori".
Prosegue gli studi ad Ivrea ed è ordinato sacerdote il 1 luglio 1959. Il suo amico Baget, giovane compagno partigiano, diventerà sacerdote solo nel 1967, diventando per molti anni uno dei più fedeli collaboratori del cardinale Siri.
Quando a Genova, operano tanti religiosi, preti e suore anonimi, schivi, operatori del bene, in situazioni estreme, ma fecondi nella loro visione evangelica della carità, irrompe la personalità di don Gallo.
Dopo l’allontanamento dalla chiesa del Carmine, negli anni della contestazione forte alle istituzioni ecclesiastiche, con la Comunità di Oregina di don Zerbinati, i giovani che escono dalle associazioni cattoliche tradizionali, la ventata di trasformazione che porta effetti positivi, ma anche derive pericolose e violente, don Gallo riparte dal porto, dalla Comunità di San Benedetto, accolto dal parroco, don Federico Rebora, ed insieme ad un piccolo gruppo nasce la comunità di base.
I confratelli lo guardano sospettosi, qualcuno lo aiuta e lo sostiene, cercando di non dare troppi fastidi al cardinale. Inizia un lavoro sulla strada unico: quanti giovani strappati alla droga, le ragazze e le donne che sono costrette alla prostituzione, per tutti c’è un aiuto. La condivisione di tutto, del pane e dei beni, della vita e della sofferenza è il motto di don Gallo.
Tanti uomini e donne molto lontani nella fede e nel modo di intendere la vita si avvicinano a don Andrea. Istituzioni anche civili e benpensanti non vedono di buon occhio l’azione di don Andrea. I giornali ne parlano con un certo distacco. La messa di condivisione delle 12 nella Parrocchia di San Benedetto al Porto, è un’Eucarestia nella quale al centro c’è il sacrificio di Gesù, impresso nei volti segnati dei compagni di strada di don Andrea. Che però parla con tutti, è tollerante a 360 gradi. La pace prima di tutto, le battaglie contro le armi e per la non violenza, la Mostra Navale Bellica, i missili a Comiso, il G8 del 2001. Le sue sfide sono state sempre estreme. La sua fede salda.
Nonostante le "sbandate" e i richiami e i distinguo di coloro che, comodi nelle tranquille e tragiche sicurezze pensano di poter giudicare, senza agire, senza condividere, gioie e dolori dell’umana miseria umana. In don Andrea la contraddizione era nel quotidiano. L’assurdo del vivere, che premia alcuni a svantaggio di altri, un tarlo che ha consumato il suo pensiero che è quello di Cristo.
Tutti gli uomini sono uguali di fronte a Dio. Ha agito sui fronti "minati" per la dottrina cattolica: diritti, libertà andando contro il magistero, ma senza mai abbandonare la Chiesa, popolo di Dio. A Siri, si succedono i cardinali, Canestri, Tettamanzi, Bertone e Bagnasco, don Gallo c’è sempre, con le sue verità, le mani sporche e le contraddizioni della vita. Poi arrivano le telecamere e le luci dei talk, le interviste e la voglia, anche legittima di emergere non per se stesso, ma per le battaglie ideali promosse. Don Gallo diventa pubblico e noto. Non perde la sua coerenza, ma il rischio della strumentalizzazione è stato sempre presente.
Tutti hanno parlato di don Gallo, fiumi di inchiostro e servizi televisivi, agenzie e web, social network impazziti per lodare o denigrare il prete degli ultimi. Un episodio mi ha colpito e penso di interpretare la sensibilità di molti. Nel corso delle esequie, Lilly, una anziana, malata e forte signora genovese, da quarant’anni custode insieme a don Gallo dei progetti della Comunità di San Benedetto, si è alzata per zittire i fischi partiti nella chiesa del Carmine dai contestatori che non avevano apprezzato alcune espressioni del cardinale Bagnasco. L’intervento di Lilly le sue parole, più d’ogni altra analisi ci hanno ricordato chi è stato ed è ancora don Andrea Gallo.
Tu sei chi escludi
intervista a don Andrea Gallo
a cura di Fulvio Renzi (il manifesto, 28 maggio 2013)
«Restiamo Umani»: per me è diventato proprio un motto, vuol dire riconoscere la nazionalità unica di tutti gli esseri umani: noi abbiamo tutti nazionalità umana. Questo è fondamentale. Ormai per me è una specie di deformazione professionale, è la mia prima giaculatoria, come prete cattolico (sai che i preti usano molto le giaculatorie....) Ovunque io vada, e ormai giro l’Italia, e non solo, mi invitano e io incomincio e dico: «Vi dò intanto la mia giaculatoria: Restiamo Umani!».
E ne faccio seguire un’altra, imparata per strada, sostituendo quel vecchio proverbio molto noto, «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei», con quello che mi è stato suggerito per strada: «Dimmi chi escludi e ti dirò chi sei». Ecco quindi il mio motto, è fondamentale. Se ciascuno di noi riconosce la sua appartenenza a questa umanità, senza nessuna distinzione di razza, di religione, di sesso, superando tutte le discriminazioni, allora diventiamo veramente «uomini» e camminiamo insieme verso l’obiettivo comune di una civiltà che, grazie all’impegno personale, rendiamo a misura d’uomo.
Intanto vorrei fare una piccola premessa: quando io parlo di Vittorio Arrigoni, rivedo la mia storia, perché io a 16 anni, al termine della tragica seconda guerra mondiale, grazie a mio fratello maggiore, tenente del Genio Pontieri, disertore che aveva formato una brigata partigiana, io divento partigiano, cioè entro nella Resistenza. Ti dirò che allora la nostra era una resistenza armata, e approvata addirittura dalle gerarchie cattoliche; ma dopo gli anni ’50 ho incontrato i partigiani della Selva Lacandona, i Sem Terra, le cooperative indiane, in Africa il Burkina Faso, il Frelimo... Tutti han fatto la loro resistenza e io mi inchino... Pensa alla rivoluzione cubana! Ma la svolta epocale - e questo è Vittorio - è la scelta della non violenza. Altrimenti si andrebbe in contraddizione anche con il grande grido «Restiamo Umani».
La scelta della non violenza è la svolta fondamentale dell’umanità, ma una non violenza che vuol dire pacifismo attivo; ripercorrendo le antiche radici dell’uomo, via via nei secoli, ecco che arriva Gesù di Nazareth, arrivano altri profeti, arriva Gandhi... E arriva anche la scelta dell’autentica non violenza.
Il potere ormai è onnipresente, il potere è di per sé crudele, i poteri sono diventati così (crudeli) per difendere il loro modello di sviluppo imperialistico - basato sull’assenza e sulla brama del lucro, quindi le uccisioni, gli esuberi... È chiaro che ormai il potere schiaccia tutti e poi oggi il monopolio dei mass media ha causato una perdita di coscienza, ed ecco che si accentuano le divisioni. E allora qual è l’unico valore,la sola speranza di questo nuovo terzo millennio? È la non violenza. L’umanità stessa. Però dev’essere contagiosa, cioè si deve allargare.
La democrazia è l’unico limite per un sistema economico ancora così - come dire? - da genocidio, che ricorre a tutti i mezzi, comprese le armi, per far prevalere l’imperialismo occidentale (ma il discorso vale anche per altre forme di imperialismo che si potrebbero creare); l’imperialismo si sconfigge con la democrazia partecipata, la partecipazione democratica - e pertanto anche libera, indipendente e pacifica. È un cammino duro, difficile, è un cammino faticoso, ma è questa secondo me la strada.
Qui devo citare il mio Papa Giovanni XXIII, che lascia l’ultima sua lettera del ’63, e dice: «Chi sostiene di portare la democrazia con le armi è pazzo!». Il testo latino dell’enciclica papale dice alienum est a ratione: è pazzo! Quindi la non violenza è proprio guarire da tutte le nostre malattie mentali. È chiaro che per diventare come Vittorio, e come tantissimi altri in tutto il mondo, è necessario, alla greca, una metànoia, cioè bisogna non solo migliorare, approfondire, avere sempre altre motivazioni, no: bisogna tagliare la nostra testa e metterne una nuova... Il termine greco intende proprio questo.
Devo ricordare il mio incontro con i Sem Terra del Brasile. Essi, per sopravvivere, decidono di coltivare gli immensi campi abbandonati dai padroni terrieri, e lo fanno, restando fedeli alla non violenza. Il succo di questo incontro qual è stato? «Vedi Don Gallo, noi in questi anni abbiamo avuto già 3000 morti tra i nostri ragazzi, uccisi dagli squadroni paramilitari» e, qui in questa stanzetta, ho visto brillare gli occhi di questi Sem Terra, orgogliosamente... Sì, era vero. «...almeno 3000 ce ne hanno uccisi, però noi abbiamo già 3000 iscritti alle università brasiliane, il futuro del Brasile!»
Vedi, questa fiducia immensa, come dire, quasi una certezza che la non violenza è l’unica strada per vincere... Cioè praticamente dice: «Il male grida forte e tutti si accorgono della realtà, ma la speranza in un mondo migliore è ancora più forte e proprio attraverso l’umano, donando la propria vita. Perché si rischia...»
Donare la vita: io la chiamerei proprio - se così si può dire - una religione universale, che racchiude tutte le altre, nel senso che a un certo momento uno si alza la mattina, è uscito fuori dalla società dello spettacolo, dove tutto è dovuto e allora nascono nuovi consumismi e garantismi. No! Il pacifista umano si alza la mattina e dice: «Cosa posso fare per gli altri?». A cominciare dalla propria famiglia fino ad allargare lo sguardo al mondo intero.
Don Puglisi e don Gallo, due pesi due misure
di Elisabetta Reguitti *
Perché Papa Francesco stamattina nel tuo Angelus non ti sei ricordato anche di don Gallo? Le tue parole di condanna contro gli sfruttatori, le mafiose e i mafiosi, contro quanti rendono schiavi donne e uomini di questo tempo mi avevano fatto sperare. Il ricordo di don Puglisi ucciso dalla mafia nel 1993 e da ieri Beato, come un esempio da seguire. Tu stesso visitando la parrocchia romana dei santi Elisabetta e Zaccaria hai sottolineato con la tua autenticità come: “La realtà si capisce meglio dalle periferie” proprio come aveva scelto di fare don Andrea Gallo che così come don Puglisi ha vissuto immerso nella realtà di chi sfrutta con violenza animale ogni debolezza o fragilità umana.
Don Ciotti riferendosi al prete della minuscola chiesa di San Benedetto al Porto ha affermato: “Andrea ha incarnato la Chiesa che non dimentica la dottrina”. E ancora: “Era innamorato di Dio, era innamorato dei poveri e saldava la terra con il cielo. Ha sempre inteso saldare la dimensione spirituale con l’impegno civile”. Proprio come ripeti sempre tu, Papa Francesco: “No ai cristiani da salotto”. Don Gallo era uno di questi, sono certa ti sarebbe piaciuto. Sarebbe stato bello sentirti ricordarlo nella tua preghiera domenicale.
Bagnasco, i fischi e la trans. Il miracolo di don Gallo
di Gad Lerner (la Repubblica, 26 maggio 2013)
Poteva succedere solo a Genova, città collerica ma giusta. E ci sarebbe voluto Fabrizio De Andrè per raccontare i due minuti in cui la folla dei devoti riunita nella chiesa del Carmine ha zittito il suo porporato arcivescovo per regalare subito dopo un applauso che sembrava un abbraccio al transessuale, succedutogli al medesimo pulpito.
A tutti noi, in quel momento, è parso di sentirla scendere di lassù la risata così familiare del defunto, don Andrea Gallo, disteso nella bara ornata dai paramenti del sacerdozio e da una sciarpa rossa.
Così il cardinale Angelo Bagnasco, che è anche il presidente dei vescovi italiani, il cui giornale Avvenire aveva relegato tra le notizie minori la morte di uno dei preti più amati della penisola, ha dovuto misurare in prima persona quanto aspro possa diventare il contrasto fra le due Chiese in cui sta dividendosi il popolo dei fedeli. Perché ieri, sia detto a suo merito, Bagnasco s’è concesso a una di quelle rarissime occasioni in cui tale confronto non viene eluso ma vissuto pubblicamente. E non ci si venga a dire che i contestatori appartenevano all’area dell’estremismo politico dei NoTav o dei centri sociali, rimasti fuori sulla piazza. Perché dentro al Carmine era riunito il popolo cristiano dell’angiporto che aveva partecipato con commossa devozione alla liturgia, fino a che l’omelia di Bagnasco l’ha spazientito. Dando luogo a uno di quei moti proverbiali dell’animo genovese cui sarebbe impossibile negare rilevanza nazionale.
Dove è inciampato il cardinale Bagnasco? Nel suo riflesso d’ordine che l’ha indotto a edulcorare l’asperità dei contrasti fra la gerarchia e l’altra Chiesa testimoniata da don Gallo, compartecipe delle devianze che insorgono dentro la vita sofferente degli ultimi, e perciò anche prete ribelle.
Col suo discorso scritto Bagnasco stava riducendo don Gallo a quella indubbia appartenenza ecclesiale che però gli era stata fatta pagare duramente. Accettata per fede, certo, ma per fede anche strattonata, con coraggio, lungo la sua intera esistenza. Come la volta che il prete di strada, nel suo candore, aveva ammesso di aver accompagnato una prostituta disperata a interrompere la gravidanza. Come le tante volte in cui la gerarchia aveva tentato di ghettizzarlo lontano dai fedeli.
Non stava dicendo il falso, Angelo Bagnasco, quando ricordava i rapporti affettuosi mantenuti dal cardinale Giuseppe Siri, principe della Chiesa più conservatrice, col sacerdote rosso. Ma lo ha fatto censurando il prezzo fatto pagare a don Gallo dai suoi superiori, e allora dai banchi si sono cominciati a udire dei colpi di tosse - singolare forma di contestazione - fino a che tutto il Carmine s’è messo a tossire. Qualcuno ha gridato «ipocrita », altri mormoravano e uscivano.
Sinché dalla piazza s’è levato il canto “Bella ciao” e in chiesa i fedeli si sono messi ad applaudire tanto a lungo, ostentatamente, da fargli capire che era meglio farla finita lì.
Protetto da Lilli, l’anziana segretaria della Comunità di San Benedetto al Porto - «Ragazzi, basta, se volete bene a Andrea!» - l’arcivescovo ha avuto il buon senso di cedere la parola a Vladimir Luxuria. Che contrasto, quando la chiesa ha acclamato il transessuale che ringraziava don Gallo per la sua evangelica accoglienza. E che sorpresa quando lo stesso Bagnasco ha dato la comunione proprio a Luxuria.
Si sono confrontate due Chiese ieri a Genova. E la Chiesa degli ultimi, impersonata da don Luigi Ciotti, si è premurosamente incaricata di proteggere la Chiesa titolare della dottrina. Inchinandosi a essa, ma non senza accenti burberi: «All’ extra omnes del conclave io e don Gallo rispondiamo con il “dentro tutti”, dentro i gay, dentro le lesbiche, dentro i divorziati».
Il fondatore del Gruppo Abele poteva farsi forza delle parole di Francesco contro «i cristiani da salotto». Perciò si è rivolto con ironia a Bagnasco ricordandoglielo: l’ha detto proprio il nuovo Papa! Prima però aveva rivolto una raccomandazione ai fedeli, a nome di don Gallo: «Se incontrate per la strada qualcuno che sostiene di avere capito tutto, girate al largo!».
Nei giorni scorsi lo stesso giornale cattolico Avvenire che minimizzava l’esperienza di don Gallo, giustamente ha reso onore al magistero di don Pino Puglisi assassinato dai mafiosi e proprio ieri beatificato a Palermo. Ma contrapporre l’uno all’altro questi due preti di strada significherebbe negare una vitalità del cristianesimo reale, vissuto nel mezzo del dolore degli uomini e dell’ingiustizia sociale da cui in larga misura scaturisce, che purtroppo la Chiesa ufficiale sembra vivere con timore.
Ricordo don Gallo a un comizio della Fiom in piazza del Duomo a Milano, quando ebbe l’ispirazione di mettersi a dialogare con la Madonnina raccontandole le ingiustizie subite dalle migliaia di operai là riuniti. Un predicatore formidabile del Vangelo, come in altri tempi fu Davide Maria Turoldo. Indimenticabile resta quella giornata del novembre 1991 in cui l’arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, sentì il bisogno di chiedere pubblicamente scusa al vecchio, morente frate dei Servi di Maria per i torti che la Chiesa gli aveva inflitto. Turoldo, incredulo, scoppiò a piangere.
Don Gallo non ha ricevuto questo bene. Ieri nella chiesa del Carmine avrebbe meritato un atto di riparazione da parte del suo vescovo. Glielo hanno tributato in vece sua, a migliaia, i portuali, gli operai, le parrocchiane, i tossicodipendenti, i transessuali, le prostitute, i militanti di un nuovo ordine sociale, il sindaco, gli amici. Con quei colpi di tosse e con lacrime di riconoscenza.
La sua vita nel nome del «Dio Straccione»
di don Vitaliano Della Sala (il manifesto, 26 maggio 2016)
Caro don Gallo, spesso dicevi che non avrebbero potuto mai farti papa, perché sarebbe suonato male papa-Gallo! In realtà suonerebbe male anche san Gallo, ma non so se ti faranno mai canonicamente santo. E nemmeno te lo auguro!
Ma in moltissimi potremo considerarci privilegiati. Per aver potuto vedere come sono gli occhi, il sorriso e la «sfrontatezza» di un santo per nulla canonico.
Temo, purtroppo, che saremo capaci di sciupare anche questo privilegio. Parlo di noi, gente comune, che abbiamo digerito la notizia della tua morte e la buona novella della tua esistenza, così come abbiamo ingoiato il cibo nel piatto mentre ai tg passavano immagini di te con i migranti, i no-global, le puttane (...). Ma penso anche ai politici e agli ecclesiastici, alcuni dei quali hanno sfilato al tuo funerale, quegli stessi che contribuiscono a causare quelle povertà su cui tu ti sei chinato.
Nel Vangelo è raccontata la parabola del «convito nuziale» (Matteo 22, 1-14) che mi ha sempre fatto pensare a te; di fronte al rifiuto degli invitati ufficiali al banchetto di nozze del figlio del re, questi dice ai servi: «Andate ai crocicchi delle strade e chiamate alle nozze tutti quelli che troverete».
Anche oggi, ci sono invitati che si rifiutano di prendere parte al banchetto nuziale imbandito per noi da Dio: sono quei credenti, quegli uomini di chiesa che vanno ostentando il proprio pedigree, quelli preoccupati solo della carriera e del potere, quelli sicuri di avere ormai la salvezza assicurata e che guardano con distacco e disprezzo a tutti gli altri; sono quelli pronti ad emettere condanne e a escludere gli altri, quelli talmente sicuri di avere Dio in tasca da essere poi incapaci di riconoscerlo quando si manifesta.
Sono quelli che credono che si possa imporre un crocifisso e farne la bandiera o il simbolo dei propri interessi e del proprio potere, sono quelli che plaudono alla legge razzista concepita da Bossi e Fini, quelli che non disdegnano di benedire la guerra.
A te, invece, è stato affidato il compito di andare ai «crocicchi delle strade», per invitare tutti ad entrare alle nozze, «buoni e cattivi». Perciò ti sei avvicinato agli emarginati, agli esclusi, agli impoveriti, ai calpestati, agli irregolari, ai clandestini, agli invisibili, ai tribolati, ai barboni, alle puttane, alle ultime tra le puttane, certamente non a quelle stipendiate dei festini di Arcore.
Non ti sei fatto scrupolo di invitare i peccatori e le prostitute, i gay e i travestiti, gli extracomunitari e i rom, i divorziati e i detenuti; e poi le minoranze, coloro che non si adeguano, coloro che vivono negli scantinati della storia e del mondo, e quelli relegati dalla Gerarchia nelle catacombe della Chiesa, coloro che subiscono ingiustizie, le voci fuori dal coro, i dissidenti, i perdenti, i perseguitati, i disobbedienti, gli scomunicati: in una parola, i crocifissi. (...) Tu e i tuoi della comunità di San Benedetto al Porto, sapete bene cosa vuol dire essere considerati marginali nella Chiesa. Perciò avete imparato ad accogliere i viandanti e a invitare gli ospiti dai «crocicchi delle strade», anzi, la tua Comunità è diventata essa stessa un «crocicchio di strada».
Caro don Gallo ci hai sempre invitato a pensare alla voglia oggi diffusa di non mescolarsi agli altri, a pensare al modo in cui trattiamo gli stranieri, gli zingari, i musulmani, i «negri», i diversi (...). Sembra di vivere in un mondo e in una chiesa dove c’è posto solo per escludere, separare, dividere, alzare steccati: alcuni egoisticamente in paradiso, gli altri inesorabilmente all’inferno.
Perciò ora tocca a noi raccogliere la tua eredità, è il momento di aprire bene le nostre orecchie all’annuncio che Dio ci ha fatto attraverso di te: ha avuto inizio un grande melting pot tra l’uomo e Dio, si è manifestato il meticciato di Dio. E tocca a noi stare con i tuoi ultimi, e, in loro, con il tuo e nostro Dio Straccione.
DIVERSI E UNITI
di don Aldo Antonelli
Ieri sono stato a Genova per il funerale di don Gallo.
Ho sudato sulla pelle la sofferenza di due mondi che non si incontrano: uno sfrego su una ferita sanguinante.
Mentre dentro la chiesa un cardinale, il card, Bagnasco, ingessato nel suo ruolo, balbettava di don Gallo non riuscendo a dire una parola "calda" a gente assetata di vita e affamata di sogni, fuori gli "Out" cantavano a scuarciagola "Bella ciao" e applaudivano. -Ad un certo punto l’applauso di contestazione è entrato dentro la chiesa ed il cardinale è stato costretto ad interrompere la sua fredda e scontata omelia.
Peccato.
Occasione persa!
Tra la gerarchia e la chiesa istituzionale da una parte e la genete sparsa ed i movimenti dall’altra c’è un muro diifficile da abbattere.
Don Gallo lo ha fatto.
Lui ha a abbattuto il muro della separazione.
Don Puglisi, di cui ieri è stata proclamata la beatificazione, ha invece risuscitato le parole morte restituendole alla loro vera funzione di denuncia e svelamento.
Due sacerdoti, diversi nella testimonianza, uniti dall’amore.
A noi continuare l’opera.
Buona domenica
Aldo [don Antonelli]
la cerimonia funebre
L’addio di Genova a don Gallo
Fischi per l’omelia di Bagnasco
Ai funerali le note di “Bella Ciao”,
applausi per Luxuria e don Ciotti *
Genova. Lacrime, qualche tensione, le note di “Bella Ciao” e bandiere anarchiche. Eccolo l’addio di Genova a don Andrea Gallo. L’omelia pronunciata dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e arcivescovo di Genova, è stata interrotta da forti fischi.
A provocare la protesta, dentro e fuori la Chiesa del Carmine, il passaggio in cui il porporato ha detto: «Don Gallo bussò alla porta del cardinale Siri, che Andrea ha sempre considerato un padre e un benefattore». Il cardinale Siri infatti allontanò don Gallo dalla Chiesa del Carmine e solo dopo il “prete di strada” venne accolto dal parroco di San Benedetto, don Federico Rebora, e iniziò la sua opera per la Comunità. Il cardinale Bagnasco ha poi proseguito l’omelia e ha detto: «Nei non rari incontri anche con me parlava con schiettezza e rispetto».
A queste parole il porporato è stato nuovamente interrotto dai fischi e fuori dalla chiesa è stata intonata “Bella ciao”.
Poco dopo è salita sul pulpito e ha preso la parola Lilli, una donna della comunità di San Benedetto che, rivolta alle persone presenti in chiesa ha detto: «Così non rispettate Andrea, che aveva un grande rispetto per il suo vescovo. Impariamo ad ascoltare tutte le voci, come faceva lui». La Messa è poi proseguita senza ulteriori interruzioni. Poco dopo ha preso la parola per una lettura Vladimir Luxuria che ha ringraziato don Gallo «per averci aperto le porte della chiesa e per averci dimostrato che una chiesa inclusiva che accoglie tutti è possibile. Grazie - ha aggiunto - di averci fatti sentire tutti, anche i transgender, figli di Dio, voluti da Dio. Ci auguriamo - ha concluso - che qualcuno ti chieda scusa». È quindi scoppiato un lungo applauso. Uno dei ragazzi della comunità ha poi affermato dal pulpito: «Preghiamo per don Gallo che a Dio avrà detto: ho amato i miei ragazzi più di te, ma ho speranza che tu non baderai a queste sottigliezze».
Almeno seimila persone hanno partecipato al corteo funebre di don Gallo che dalla Comunità di San Benedetto al Porto si è snodato fino alla Chiesa del Carmine, dove sono celebrati i funerali. Tra i tanti, presenti anche l’ex parlamentare Vladimir Luxuria insieme alla transessuale Regina, animatrice delle notti in Versilia, il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando, il sindaco Marco Doria vicino al portavoce della Comunità, Domenico Chionetti, Dori Ghezzi accanto al segretario della Fiom, Maurizio Landini, i giornalisti Antonio Padellaro e Gad Lerner, gli allenatori di ieri e di oggi del Genoa Davide Ballardini e Giampiero Gasperini, il segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero.
Esposti striscioni della Federazione Anarchica, della Fossa dei Grifoni, Il feretro è entrato in chiesa seguito dai “pulcini” del Genoa (leva calcistica 2004), che sono allenati da Paolo Gallo, nipote del sacerdote. Sul feretro di don Gallo, il suo cappello, la sua sciarpa rossa, la bandiera della pace. Molto ragazzi della comunità di san Benedetto che partecipano all’organizzazione della cerimonia, indossano magliette rosse con questa scritta: «Dimmi chi escludi e ti dirò chi sei». Una associazione della Val Brembana, giunta in pullman, ha affisso fuori della chiesa questo striscione: «Ciao Gallo, siamo rimasti orfani, ma continueremo a camminare con te».
Dopo una lettura, Valdimir Luxuria ha ricordato don Gallo: «Grazie di averci dimostrato che una chiesa che include, una chiesa che non caccia via nessuno è possibile. Grazie di averci fatto sentire, noi transgender, creature figlie di Dio e volute da Dio». Tra le navata è scoppiato un grande applauso. Luxuria ha poi ricevuto la comunione dal cardinale.
Il funerale in chiesa si è chiuso con Don Luigi Ciotti che ha ricordato la morte di Carlo Giuliani: «Don Andrea ha pianto per lui. Così come si è indignato davanti alla base americana di Vicenza: ma cosa ce ne facciamo di quelle cose lì quando non abbiamo i soldi per i servizi sociali?». Applausi scroscianti nella chiesa del Carmine per lui. «Ciao Andrea, non siamo con te - ha concluso il fondatore di Libera - . E che la tua comunità continui la tua opera». Poi l’uscita della bara portata, tra gli altri da Vladimir Luxuria.
All’uscita del feretro le persone presenti hanno cantato “Bella Ciao”.
Fra gli altri personaggi presenti al funerale Alba Parietti, Shell Sapiro, Dori Ghezzi, i sindaci No Tav della Valsusa, e il comitato Peppino Impastato. La compagna di De André ha detto di aver perso «un punto cardinale - con la morte di don Gallo -. Temo che ora dovrò tornare a navigare a vista». Durante il corteo funebre molti sacerdoti, tra cui don Vitaliano, hanno indossato la stola etnica con i colori della pace come quella che usava da Don Gallo.
* La Stampa, 25/05/2013
Don Gallo, messa al Carmine
con il cardinale e il trans
Il corteo e un funerale senza precedenti per salutare il "prete di strada"
di MASSIMO CALANDRI *
Non sarà un funerale come gli altri. Perché don Andrea Gallo non era un uomo, e nemmeno un prete, come gli altri. Al funerale del sacerdote degli ultimi, gli ultimi saliranno sull’altare. E mentre il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, celebrerà la Santa Messa, una trans dell’angiporto leggerà il salmo responsoriale.
Stamani è il giorno delle esequie per don Andrea Gallo, dicono che forse pioverà ma non importa. Sarà comunque un lunghissimo corteo, quello che intorno alle dieci muoverà dalla Comunità di San Benedetto al Porto - dove il sacerdote è mancato mercoledì scorso all’età di 84 anni - fino alla chiesa del Carmine, nei carruggi del centro storico. Se non viene giù un diluvio, lo porteranno a spalla per un chilometro e mezzo i ragazzi della comunità, i "camalli" delle banchine, gli operai della Fincantieri. Un arcobaleno di musica e bandiere.
"Una multitudine di umanità", spiega Domenico Chionetti, portavoce di San Benedetto al Porto. Con gli strumenti della banda di Piazza Caricamento e le grancasse della Murga dei vicoli ad aprire la strada. Una trentina di preti concelebranti, da un militante no-global come don Vitaliano Della Sala a don Alessandro Santoro, sospeso dai sacramenti e poi riammesso per aver celebrato il matrimonio tra un transessuale e il suo compagno. Quindi gli amici, i genovesi che fino a ieri sera erano in coda per la visita alla camera ardente. Quelli che con don Gallo hanno partecipato a tante manifestazioni per "un altro mondo possibile".
Ci saranno Gino Paoli, Piero Pelù, Christiano De André e Dori Ghezzi. Qualcuno parla di Roberto Saviano e dario Fo, ma chissà se è vero. Da fuori città verranno in tanti, difficile però fare una previsione. È attesa una decina di pullman, il consiglio per chi viene in auto è di posteggiare lontano e usare i mezzi pubblici, probabile che molti arrivino in treno anche perché la chiesa è a due passi dalla stazione Principe. Ci saranno anche i giovani dei centri sociali, le rappresentanze dei NoTav e NoDalMolin.
Niente fiori, si potrà rendere omaggio con un versamento sul conto corrente della Comunità. Il corteo da via San Benedetto passerà per via Doria, quindi piazza dell’Annunziata, via Polleri e via Brignole De Ferrari. Troppo piccola, per accogliere tutti: nella chiesa del Carmine troveranno posto i parenti di don Andrea, e tra di loro un nipote - Paolo - che porterà con sé tutta la squadra "pulcini" del Genoa, è il loro allenatore.
A proposito di rossoblù: ci saranno anche Davide Ballardini, che la settimana scorsa aveva preso un caffè con il prete, Giancarlo Gasperini e una rappresentanza del club. Con i parenti, gli ultimi: i disperati, gli esclusi, i diversi, quelli cui don Andrea aveva sempre teso una mano. "Ad un certo punto sarà impossibile entrare, ma la Messa continuerà per le strade del centro storico, tra la gente in attesa. Perché le persone che resteranno fuori saranno le pietre della vera chiesa di don Gallo: la comunità".
Chionetti anticipa i momenti più importanti della cerimonia, che dovrebbe iniziare alle 11.30. "Prima della benedizione del cardinal Bagnasco ci sarà l’omelia di don Ciotti. Ad una trans sarà affidata una lettura o il salmo responsoriale". Forse Valentina, che prima si chiamava Loris ed è ancora un portuale. Tra i presenti, anche Vladimir Luxuria.
"L’omosessualità è un dono di Dio, don Andrea lo diceva sempre ". Sempre dentro la chiesa, i gonfaloni delle istituzioni genovesi e liguri. Poi quello dell’Anpi. Qualcuno intonerà "Bella Ciao", è sicuro. "Lo hanno fatto anche appena abbiamo cominciato ad allestire la camera ardente. Non possiamo certo impedirlo, vi pare? ". No, ha ragione Chionetti: "Sarà una giornata triste. E bellissima ". Il feretro sosterà qualche minuto all’uscita della chiesa, quando parleranno il sindaco Marco Doria e poi Moni Ovadia. Quindi, la salma di don Andrea Gallo sarà trasporta a Campoligure. Una funzione per i familiari più stretti nella parrocchia di piazza Vittorio Emanuele, quindi la tumulazione nel cimitero locale.
* la Repubblica, 25 maggio 2013
Ciao, don Andrea, buon prete della cattiva strada
di Luigi Cancrini (l’Unità, 24 maggio 2013)
Ho conosciuto Don Gallo nel 1980. Aveva aperto un ristorante in cui lavoravano i suoi ragazzi. I «drogati» cui aveva aperto la sua parrocchia e di cui tutti avevano paura e di cui nessuno allora si voleva occupare.
Il lavoro è la prima risposta da dare, diceva, a drogarsi sono quelli che si sentono (e spesso sono) rifiutati da una società ingiusta che non li accetta. Gli emarginati. Gli ultimi. Quelli cui questo «prete di strada» ha dedicato tutta la sua vita. Centrando su di loro la sua passione di uomo e la sua missione di sacerdote. Capace, come forse Gesù, di condividere il sapore del cibo, il piacere del vino e della compagnia.
La vita potrebbe essere molto più bella, sembrava dire, con il sorriso arcigno e con l’ironia dei suoi grandi occhi malinconici, se gli uomini fossero un po’ meno stupidi. Se capissero che l’unico modo per essere felici è quello di esserlo con gli altri. Di ritrovare ciò che si ha in comune invece di dannarsi per sottolineare le differenze. Di potere e di ricchezza.
È una società stupida, diceva, quella in cui tutti si spingono e lottano per nulla e qualcuno cade e si fa male e a volte muore e a volte semplicemente non capisce più il senso di quella vita e gliene vorrebbe dare un altro.
Come lui ha fatto per tanti anni. Cercando le parole del Vangelo negli occhi e nelle mani dei ragazzi e dei non più ragazzi che si perdevano nelle strade di una città difficile e bella. Cantata tante volte con le sue stesse passioni da Fabrizio De André.
«Per lui la Chiesa userà poco inchiostro»
di Antonio Mazzi (Corriere della Sera, 24 maggio 2013)
Caro direttore,
si è consumato anche il cuore di don Gallo. Uno alla volta ce ne stiamo andando senza chiasso e senza gloria. Dico «stiamo andando» perché, nel bene e nel male, faccio parte anch’io di quei pochi preti stimati più dai laici che dai cattolici. Le loro disobbedienze, il loro fuori «testo» hanno pesato e pesano molto di più dei rischi apostolici, delle appassionate e squilibrate scelte di campo per la difesa scriteriata degli ultimi e dei perdenti.
Noi siamo nati per camminare con Caino, per aspettare sull’uscio di casa il figliol prodigo, per cercare giorno e notte la pecorella smarrita. Noi siamo diventati grandi supplicando il Dio, del settanta volte sette, di lasciare qualche mese di ferie anche a Giuda. Esiste una categoria di persone che, se giudicate con il codice, con il testo dei comandamenti, non avranno mai speranza e collocazione dignitosa. Al massimo, secondo alcuni studiosi, moralisti, sociologi, meriterebbero l’alternativa al carcere e qualche programmino in comunità.
Tanti parleranno di lui perché, negli ultimi tempi, sono uscite biografie dell’uomo con il cappello e il sigaro. Il mondo ecclesiastico consumerà poco inchiostro. Per i funerali, come accade sempre, l’epigrafe sarà generosa.
Il papa Francesco diceva, qualche settimana fa, che vorrebbe un clero «con gli odori del gregge». Don Gallo questo odore lo spargeva in abbondanza, incurante di coloro che avevano rancurato (l’odore) e furbescamente raccolto in micro boccette «di elisir di pecora». Se lo spargevano (e se lo spargono) nei momenti giusti, nelle quantità giuste e nei luoghi adatti. La «tenuta» di questi profumi è sempre meno apprezzata e meno frequente. Aumentano invece, con abbondanza, i paludamenti da sinedrio, i discorsi da accademici e le analisi bibliche raffinate. Tanti sono i preti dispersi nelle università romane e rintanati nelle curie, nelle biblioteche e santuari. Questi preti la gente li capisce di più.
I don Gallo, invece, forse, verranno riconosciuti post mortem . Quando i ragionamenti scompariranno e riaffioreranno, invece, gli episodi eroici e profetici, carichi di altruismo, gratuità totale, misericordia radicale, tutto sarà più chiaro ed evangelico. Il cuore è un luogo senza regole, senza confini.
Il cuore osserva un solo comandamento: ama gli altri come te stesso, con la stessa «quantità» di amore con cui ama Dio. L’ha detto Cristo, l’ha detto Paolo, l’ha detto Francesco, l’ha detto Agostino. L’amore non fa peccati! Per don Gallo la paternità era legge, la parolaccia era carezza, la fede carnale, la speranza era Politica. Addio cappello sciupato: addio sigaro mai spento, addio parolaccia che affettava, come una lama affilatissima, l’egoismo, la borghesia e l’ipocrisia.
don Antonio Mazzi
Don Andrea, il folletto col colbacco
di Paola Tavella (europaquotidiano.it, 22 maggio 2013)
Sotto le finestre della mia casa nel centro storico di Genova, al Carmine, c’è ancora un murales del 1970 dove si legge “Aiuto! Ci hanno rubato il prete”.
Il prete è Andrea Gallo. Dovrei scrivere “era”, perché è morto questo pomeriggio, ma non so se riusciremo mai davvero a parlarne al passato, non solo per ragioni sentimentali. Una persona più immanente di Andrea Gallo è difficile da pensare. Mi ha sempre riportato all’idea di santità che hanno gli orientali, quella di un’immensa compassione, di un’estrema consapevolezza che tutto è Uno, che il bene e il male sono mescolati e non si può dividere il mondo in santi e peccatori, o almeno non come vorrebbe l’ortodossia.
Don Gallo era stato il vice parroco del Carmine negli anni Settanta, quando venne fuori che nel quartiere c’era una “fumeria di hashish”, ovvero una stanzetta dove alcuni ragazzi si trovavano e fumavano gli spinelli.
Il Carmine confina con una zona molto chic, abitata dalla borghesia di antico denaro, che indignata chiedeva provvedimenti severi contro i capelloni drogati temendo il contagio, senza sapere che molti dei loro figlioli ben pettinati erano già contagiati, eccome. Don Andrea, predicando la domenica successiva, disse che non solo l’hashish è droga, ma anche il linguaggio. Con le parole, ricordò, si bolla una ragazzo difficile o povero come “inadatto agli studi”, oppure si definisce “difesa della libertà” il bombardamento di popolazioni indifese.
Don Gallo era stato salesiano, folgorato da Don Bosco e poi da Don Milani. Appena ordinato sacerdote aveva servito in Brasile, ma raccontava che la dittatura lo aveva scacciato.
Tornato a Genova, fu assegnato come cappellano alla Garaventa, una nave-riformatorio. Su quella nave, che a Genova si evocava per spaventare i bambini (“se non studi finirai sulla Garaventa”), sperimentava un’educazione amorevole e antiautoritaria. Mia madre raccontava che non era raro vederlo alla testa di un piccolo esercito di garaventini in divisa, tutti diretti al cinema.
Sono stati i salesiani a togliergli l’incarico, nel ’64, e allora lui li lasciò, chiese di far parte della diocesi di Genova, fu spedito al Carmine. Ma lì la sua predica sulla droga del linguaggio non fu gradita né ai ricchi né al cardinale, il quale voleva confinarlo a Capraia, dato che a quel tempo l’isola era sotto la sua giurisdizione.
Il quartiere si sollevò, fricchettoni con i capelli lunghi e pie donne si ritrovarono uniti nel chiedere che rimanesse, che non lo mandassero via. Il Cardinale tuttavia restò muto, e irremovibile. Allora Don Gallo rifiutò di obbedire, e si ritrovò per la prima volta “prete da marciapiede”, come poi si sarebbe definito sempre.
Ma don Federico Rebora, un altro grande prete sociale genovese, lo accolse a san Benedetto al Porto, e lì venne fondata una comunità cristiana di base che ha raccolto intorno a sé una folla enorme, e non ha mai chiuso le porte in faccia a nessuno negli ultimi quarantadue anni. Tossicomani, matti, barboni, prostitute, transessuali, devianti di ogni tipo, poveri, migranti, lui accoglieva tutti, li proteggeva, li difendeva, di ognuno sosteneva le ragioni umane ma anche quelle politiche.
Riceveva onorificenze di ogni tipo, fra cui “Persona gay dell’anno”, di cui andava fierissimo. Si schierava dalla parte dei movimenti, senza esitare. Là dove la gente aveva bisogno, o protestava, difendeva un territorio, una fabbrica, un’impresa sociale, arrivava con un gran sorriso, a rallegrare e a predicare, a parlare di Gesù come di un amico suo e nostro. Credeva fermamente che la Chiesa dovesse fare quello che diceva, stare dalla parte degli ultimi, dare voce a chi non ne ha.
Raccontava che il Cardinal Bagnasco, uomo di grande carisma ma anche di fermo rigore, dopo aver scoperto che Andrea aveva prodotto perfino un calendario con le foto delle trans di Vico Croce Bianca, lo aveva mandato a chiamare. Allora, Don Andrea, gli aveva chiesto, che cosa vogliamo farne di questi transessuali? Oh beh, Eminenza, me lo dica lei, aveva ribattuto Don Gallo.
Si è sempre detto che fosse comunista, ma non credo. Di certo era un partigiano nel senso più ampio del termine. Su youtube ci sono molti video come quello in cui si slaccia un fazzoletto rosso dal collo e lo sventola come una bandiera, cantando Bella Ciao in Chiesa, alla fine della messa, con tutti i fedeli a fargli il coro. Lui era così, se vedeva una bandiera degna abbandonata per terra la raccoglieva, la faceva vivere. Ho sempre pensato che fosse sbagliato, come è stato detto, che se non fosse stato prete Don Andrea sarebbe stato un leader politico, intanto perché lui è stato un leader politico nel senso più nobile del termine, e poi perché l’avrei visto piuttosto come un grandissimo direttore di giornale.
Don Gallo era un comunicatore eccezionale, istintivo, intuitivo e fulmineo. Era amico di cantautori famosi come di rapper scatenati, Assalti Frontali e Vinicio Capossela non mancavano di presentarsi al suo compleanno e di esibirsi per il puro piacere di vederlo contento. Aveva imparato come funzionava Facebook e ci si divertiva come un quindicenne, ultimamente seguiva anche Twitter.
Capiva le novità, e lo incuriosivano. Era stato fan della prima ora di mentelocale , il sito fondato da Laura Guglielmi, già collaboratrice del manifesto, che più di dieci anni fa aveva lasciato un posto sicuro al Secolo XlX per il web anche grazie al suo incoraggiamento. Da allora Andrea accompagnato dal suo angelo, Domenico Chionetti detto Megu, si presentava in redazione a tutte le ore, pretendeva di fare i titoli, si faceva fotografare con i giovani redattori, non si perdeva una festa. Laura Guglielmi è stata infatti la prima persona cui ho telefonato quando ho saputo che il Don ha voltato l’angolo. Ci siamo dette: «Come è duro a volte il nostro mestiere, vorremmo piangere e invece ci tocca scrivere».
Il suo ultimo capolavoro è stata l’elezione di Marco Doria a sindaco della città. Lo aveva sostenuto con tutta la sua influenza e il suo potere, aveva bacchettato la sindaca uscente, Marta Vincenzi, che se l’era presa. La sera della vittoria, sui gradini di palazzo Ducale, Marco Doria aveva detto poche pacate parole per ringraziare i cittadini, poi si era materializzato d’un tratto Andrea, come un folletto col colbacco. E quando aveva accennato un passo di danza sapevamo tutti che cosa stava per succedere. Così, ancora prima di lui, abbiamo cominciato a cantare insieme Bella Ciao .
Rideva in faccia al potere con fame di verità e giustizia
di Lorenzo Fazio* (Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2013)
Quando arrivava in casa era una festa. Io ero un ragazzino e lui raccontava di come la curia genovese gli facesse la guerra. Era stata mia nonna a informarci per prima di quel prete strano che faceva delle prediche molto dirette, nessuno ancora lo conosceva, lui diceva messa nella chiesa del Carmine in un quartiere popolare immediatamente sotto al quartiere dei ricchi di Castelletto a Genova. Parlava di poveri, di ingiustizie, di verità, di Gesù come se fosse un uomo tra tanti uomini, “non sembrava un prete”, così un giorno decidemmo con mio padre di andare ad ascoltarlo e rimanemmo fulminati, da quel giorno appena potevamo andavamo da lui e diventammo suoi amici.
Poi venne il giorno dell’anatema e i fulmini del cardinale Siri si abbatterono sul povero Andrea. Gli diedero del comunista e dell’anarchico. “Decidetevi”, diceva “o uno o l’altro”. Ci fu una reazione forte, ormai quel prete coraggioso aveva conquistato tante persone che magari a messa non sarebbero neanche andate. Stiamo parlando dei primi anni settanta quando c’era molto fermento e altri preti avevano osato criticare le gerarchie ecclesiastiche. Si aveva fame di verità e giustizia, come adesso. Finalmente un parroco timido, appartato ma coraggioso lo accolse nella chiesa di San Benedetto al porto e lì cominciò la sua avventura di uomo e prete al servizio di chi ha bisogno di aiuto.
Lui continuava a venire a casa e raccontava, sempre pronto a sorridere anche nei momenti più bui. Rideva del cardinal Siri, della inutile magniloquenza del potere politico, del linguaggio borioso di chi sta più in alto, aveva una passione per mio padre, giornalista de La Stampa, e solidarizzava con lui quando non gli pubblicavano un articolo cui teneva molto, tra loro c’era vera solidarietà. Lo ricordo il giorno di festa delle nozze di mia sorella e il giorno della morte di mio padre, le sue parole calde e fraterne, quelle di un amico caro. E lo ringrazio ancora.
Per me pubblicare i suoi ultimi libri è stato un modo per continuare quel rapporto, e fecondare le idee di quegli anni. Andrea fino all’ultimo ci ha creduto e allora anche io ci voglio credere fino all’ultimo giorno della mia vita in segno della nostra amicizia e fratellanza. Con le sue parole e la sua testimonianza sento che saremo ancora insieme a lottare per un mondo più bello.
*direttore di Chiarelettere
di Pier Aldo Rovatti (Forum salute mentale, 10 giugno 2013)
“Sono un rompiscatole”, aveva detto di sé don Gallo, il “prete di strada” più amato d’Italia, una vita intera dedicata concretamente ai deboli e ai diversi, ai tossicodipendenti, alle prostitute e a tutti quelli che stanno ai bordi della società o ne vengono rifiutati.
E chissà quante volte questa espressione è stata pensata e usata nei suoi confronti anche dall’istituzione cui apparteneva, ovvero la Chiesa, che di fatto lo ha emarginato e ignorato.
Non è l’unico, né si tratta solo di preti battaglieri: il “rompiscatole” è una figura emblematica del mondo in cui viviamo, uno che sa rompere gli equilibri e non si presta mai a essere disciplinato, perciò diventa un corpo estraneo, temuto sia da chi ha il compito di governare e raffreddare le istituzioni, sia dalla massa opaca di coloro che credono di poter barattare la propria servitù volontaria con il mantenimento di privilegi acquisiti e pallide promesse di carriera.
Quando un grande e produttivo rompiscatole muore, l’istituzione tira finalmente un sospiro di sollievo che maschera a fatica con onoranze postume e perfino riti di beatificazione. Quando, invece, sono i tanti piccoli rompiscatole a lasciare il terreno, il cinismo ovunque trionfante non ha neppure bisogno di cerimonie riparatrici e fa calare in fretta un pesante sipario di silenzio. L’etica minima, in questi casi, è surclassata da una convinta e completa assenza di moralità civile.
Avrei voluto esserci, sabato scorso, dentro la chiesa del Carmine a Genova, durante le esequie di don Gallo, in mezzo a quel popolo che ringraziava, insieme dolente e battagliero. Si era mosso perfino, a officiarle, il cardinal Bagnasco, il capo dei vescovi; e poiché l’encomio riparatore da lui pronunciato aveva evitato qualunque accenno di autocritica, allora qualcuno ha cominciato a tossire e in breve la tosse pur sommessa ha prodotto una cascata assordante e la cerimonia si è bloccata diventando un caloroso e irrituale omaggio. Il funerale si è così trasformato in un inno alla vita.
Si parla tanto dello spirito critico di cui avvertiamo distintamente la mancanza. Ognuno di noi vorrebbe averne un poco o magari di più, ma poi quasi sempre ci si arresta ai buoni propositi, ci si appaga di parole e discorsi gratificanti. Questi ultimi, sì, non mancano e in essi circola soprattutto la lamentazione.
Ci lamentiamo di continuo delle storture e delle ingiustizie, stigmatizziamo i comportamenti dei potenti, i cattivi modelli dei politici, e abbiamo un’imponente materia per farlo. Ma non basta. Infatti, bisognerebbe superare la linea e osare rischiare qualcosa. Lo spirito critico avvista innumerevoli “scatole” che imprigionano i comportamenti individuali e sociali, inanella denunce su denunce, ma finché non tenta di “rompere” questi involucri ingabbianti, non comincia davvero a farlo, resta solo la voce di un’anima bella, intellettualistica e inerte. Ciascuno, là dove vive, nell’ambiente che gli è proprio, in quel pezzo di sociale che frequenta, può scendere giù tra la gente. Uno spirito critico che rinuncia a “questa” politica è un falso spirito critico, addormentato, già cadaverizzato.
L’esempio dei grandi rompiscatole - cui dedico questo modestissimo elogio - ci insegna che ciascuno di noi può incrinare, dovunque e in qualsiasi momento, la pellicola delle convenienze che continuiamo ad accettare per quieto vivere o per qualche astuta viltà.
Il rompiscatole è il contrario del furbo, cioè di quello che sembra essere ormai diventato il nostro abituale stile di vita. Il furbo calcola cosa è più profittevole per lui, misura vantaggi e svantaggi personali di ogni suo minimo atto. Il rompiscatole se si limitasse a calcolare, non esisterebbe neppure. Così, ciascuno di noi, se non fosse anche un po’ rompiscatole (nei confronti degli altri ma anche di se stesso), non agirebbe mai.
I grandi rompiscatole (come don Gallo) sono molto rari, forse inimitabili. Noi, normalmente, siamo un misto in cui la furbizia conserva la sua parte e dove, però, il rischio di rompere le uova nel paniere del “così fan tutti” potrebbe avere - sempre - uno spazio proprio.
Quello che possiamo fare, quotidianamente, è cercare di comprimere al massimo la parte dell’egoismo individuale e di dare una dimensione sempre più ampia alla parte di noi che si avventura a infastidire l’accettazione acritica di ogni scatola sociale, dai luoghi di educazione dei bambini alle case di riposo, dal mercato del lavoro alle forme del welfare, per non parlare di tutti gli scomparti in cui viene rinchiusa normalmente ogni diversità.
Un Commento a “Elogio del rompiscatole”
Michela 12 giugno 2013 alle 8:06 pm
Zico Perani ci invia: don Gallo era presente, uno che rispondeva “io ci sono”, soprattutto di fronte al vuoto del mondo. Non abbandonava un’anima viva per strada perché, se Dio c’è, Dio ha lasciato il posto a un prete che sapeva amare, che aveva in cuore il primato della libertà di coscienza e la resistenza del suo mondo, che non aveva dubbi sul fatto che la speranza vive nel cuore dell’umanità quando ama la pace, la libertà e ogni vita al mondo. A oltranza.