DIECI ANNI DOPO IL GENOCIDIO
Ruanda, ritorno su una colpevole cecità internazionale
di Colette Braeckman,
giornalista di Le Soir (Bruxelles), autrice fra l’altro di Nuovi predatori, Fayard. Paris. 2003.
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Un milione di morti in cento giorni e il mondo non ne avrebbe saputo nulla? Dall’indipendenza, nel 1962, in poi, tutti coloro che s’interessavano al Ruanda sapevano che il fuoco covava. Già nel 1959, assistiti dai belgi, che avevano puntato sulla maggioranza etnica, quella degli Hutu, questi ultimi avevano scacciato dal Paese più di 300.000 Tutsi.
Dopo l’entrata in guerra, nell’ottobre 1990, del Fronte patriottico ruandese (FRP) - un’organizzazione politico-militare che si batteva per il ritorno degli esiliati e i cui membri, rifugiati in Uganda, si esprimevano in inglese - ogni avanzata si era tradotta in un massacro di Tutsi.
In agosto 1993, sotto le pressioni dei finanziatori, accordi di pace furono sottoscritti ad Arusha, in Tnazania. Essi prevedevano l’impianto di un governo di transizione nel quale il FPR sarebbe stato rappresentato a fianco dell’opposizione politica, con la garanzia di una forza di pace dell’ONU. In quell’epoca soltanto i diplomatici stranieri si mostrarono ottimisti. A tal punto che i Paesi membri del Consiglio di sicurezza considerarono sufficiente dotare il Ruanda di un contingente di 2.548 uomini (invece dei 4.500 che richiedeva il comandante della Missione ONU per l’assitenza al Ruanda (Minuar), il generale canadese Roméo Dallaire) e di limitare la sua azione al capitolo VI della Carta delle Nazioni Unite, che vieta il ricorso alla forza. È anche vero che il Ruanda, povero e apparentemente privo di interesse strategico, subì il contraccolpo del disastro degli Stati Uniti in Somalia, di qualche mese precedente, e che nessuno, a parte belgi e francesi, desiderava veramente impegnarvisi (1).
Tuttavia inquietanti indizi non mancavano: in luglio 1993 i «duri» del regime avevano raccolto fondi pèer lanciare la “Radio-televisione delle mille colline”, che denigrava gli accordi di pace, diffondeva nell’etere una propaganda piena di odio contro il FPR, contro i Tutsi in generale e il contingente belga, accusato di parzialità a favore del FPR. Già a partire da febbraio 1993 decine di migliaia di giovani Hutu furono reclutati e addestrati all’impiego delle armi da fuoco e del machete nei campi che si vedevano dalle strade. Come hanno potuto ignorare questa mobilitazione i cooperanti militari belgi e francesi, che tenevano informati i loro governi dei minimi movimenti di truppe?
In questo stesso periodo crediti anticipati dalla Banca mondiale venivano stornati per acquistare armi da fuoco e da taglio. Grazie a fondi garantiti dal Crédit Lyonnais, l’Egitto aveva effettuato numerose forniture di armi e di munizioni. In ottobre 1993 in Burundi l’assassinio da parte di militari Tutsi di Melchior Ndadaye, un presidente hutu legalmente eletto, contribuì ad acuire la tensione in Ruanda.
In gennaio 1994 i sospetti si trasformarono in certezza quando un informatore confermo alla Minuar che tutti i Tutsi erano stati debitamente schedati. Egli descrisse l’addestramento degli Interhamwe (coloro che uccidono insieme), la costituzione di depositi di armi e munizioni e fornì la prova delle sue affermazioni conducendo alcuni caschi blu in un sotterraneo nella sede del partito presidenziale, trasformato in deposito di armi. Mise anche in evidenza le minacce che pesavano sui caschi blu belgi.
Ma il telegramma in codice che il generale Dallaire inviò a New York il 15 gennaio, chiedendo l’autorizzazione a smantellare i depositi segreti di armi, non ottenne la risposta attesa: il Dipartimento delle operazioni per il mantenimento della pace, diretto a quel tempo da Kofi Annan, gli vietò qualsiasi azione (2). Al massimo gli ambasciatori dei Paesi occidentali esposero il problema al presidente Juvénal Habyarimana e questi, mentre negava la realtà dei fatti ... fece distribuire le armi in tutti i comuni.
Di abbandono in abbandono
Malgrado gli avvertimenti formulati in febbraio a Kigali dal ministro belga degli QAffari esteri, Willy Claes, malgrado l’assassinio di Félicien Gatabazi, ministro del Lavori pubblici e dirigente del Partito socialdemocratico, malgrado le lettere indirizzate al generale Dallaire da numerosi ufficiali superiori che denunciavano un «piano machiavellico», malgrado il moltiplicarsi degli attentati e il crescere, quasi tangibile, della violenza, nulla cambiò. Il mandato della Minuar non fu modificato e il Consiglio di sicurezza si accontentò, il 17 febbraio, di esprimere la sua inquietudine.
Il 6 aprile 1994 l’attentato contro l’aereo del presidente Habyarimana (i cui autori e mandanti sono a tutt’oggi ignoti...) segnò l’inizio del genocidio. La campagna di assassini mirati, diretti contro personalità Hutu moderate e semplici cittadini Tutsi - operazione pianificata da mesi ed eseguita con determinazione - fu presentata come «espressione della collera popolare» in seguito alla morte del capo dello Stato. In quel momento le forze dell’ONU erano disperse in tutto il Paese, mancavano di munizioni e di personale e, quando il generale Dallaire e il suo aiutante, Luc Marchal, nella mattinata del 7 aprile appresero che dieci caschi blu belgi incaricati di proteggere il primo ministro erano in difficoltà, non fu neppure presa in considerazione la possibilità di portare loro aiuto.
Mentre i cadaveri erano raccolti dai camion della nettezza urbana, le squadre dei killer percorrevano in lungo e in largo la città e il generale Dallaire chiedeva rinforzi, ci si preoccupava di evacuare i cittadini stranieri. A questo scopo i francesi spedirono 450 uomini, i belgi 450 paracadutisti in Ruanda e altri 500 in Kenya, 80 italiani si aggregarono all’operazione, mentre 250 ranger americani si trovavano in Burundi. Se avessero unito le loro forze a quelle della Minuar, queste truppe occidentali avrebbero potuto senza dubbio fermare i massacri a Kigali, fare tacere la radio estremista e imporre un cessate il fuoco.
Ma su ordine dei rispettivi governi queste forze si limitarono a una missione di evacuazione dei residenti stranieri, abbandonando i civili tutsi, comprese le coppie miste, gli impiegati delle ambasciate, fra i qualim il personale del Centro culturale francese, e decine di Tutsi che si erano posti sotto la protezione dell’ONU. Anche i caschi blu furono abbandonati alla loro impotenza. Su ordine del presidente François Mitterrand i francesi badarono a evacuare la vedova del rpesidente Habyarimana, che apparteneva al clan dei «duri», e a trasportare in posti sicuri qualche personalità del regime.
Il Ruanda non era ancora al limite dell’abbandono: il 12 aprile il ministro Willy Claes, traumatizzato dall’assassinio dei dieci cacshi blu, annunciava al segretario generale dell’ONU Boutros-Ghali che il contingente belga della Minuar stava per essere ritirato e si lanciava in un’azione diplomatica per tentare di persuadere gli altri Paesi a fare altrettanto.
Nello stesso tempo il rappresentante del Ruanda, legato agli estremisti, sedeva nel Consiglio di sicurezza come membro non permanente; rappresentanti del suo governo erano ricevuti a Parigi in veste ufficiale, e la Francia, tramite Goma nel Kivu settentrionale, continuava a fornire armi. Gli americani e i britannici da parte loro si opposero al rafforzamento degli effettivi della Minuar, come se la sola emergenza fosse quella di non fare nulla. Il segretario di Stato americano Madeleine Albright d’altra parte badò a impedire che si facesse uso del termine «genocidio», che comportava l’obbligo di intervenire e a fine aprile Boutros-Ghali parlava ancora di «guerra civile». Il 21 aprile la risoluzione 912 del Consiglio di sicurezza optò per una riduzione della forza dell’ONU in Ruanda, che avrebbe compreso meno di 500 caschi blu. Questi erano sprovvisti di alimenti, di munizioni, di veicoli e perfino di acqua potabile, impotenti a soccorrere i civili che chiedevano protezione o assistenza, anche se condussero con coraggio e buoni risultati numerose operazioni di evacuazione.
La stampa, quando s’interessò al Ruanda, lo fece per filmare dall’Uganda i corpi che andavano alla deriva sul lago Vittoria o per seguire il massiccio esodo degli Hutu i quali, dopo aver portato a compimento il loro crimine, erano fuggiti verso la Tanzania per sfuggire alle rappresaglie.
Molto prima sia Philippe Gaillard, in nome del Comitato internazionale della Croce rossa, sia Medici senza frontiere, il cui personale era stato massacrato a Butare assieme ai malati (3), sia lo stesso generale Dallaire avevano moltiplicato le loro sconvolgenti testimonianze e le richieste di aiuto. Bisognò aspettare l’11 e il 12 maggio perché il commissario dell’ONU per i diritti dell’uomo, José Ayala Lasso, venuto sul luogo, facesse alfine uso del termine «genocidio». Fino a quel momento la stampa, in grande maggioranza, parlava ancora di «massacri interetnici», di «lotte tribali». Mentre le carneficine erano sostenute e organizzate dal governo interinale messo in piedi dopo la morte di Habyarimana, il Ruanda era descritto come uno «Stato in fallimento», piombato in una specie di barbara anemia. Come se si dovesse trasporre a ogni costo il cliché somalo in questo paese molto gerarchizzato, nel quale i cittadini hanno l’abitudine di obbedire agli ordini venuti dall’alto.
Schiacciante responsabilità della Francia
Soltanto nel mese di giugno la tragedia cominciò a emozionare l’opinione pubblica. Il Consiglio di sicurezza, malgrado l’opposizione americana, finì per votare in favore di una Minuar 2 rinforzata, ma l’ONU non trovava né gli uomini né il denaro per mandare a effetto questa missione. Gli Stati Uniti, contattati perché fornissero i veicoli e i blindati, volevano essere pagati in anticipo... Quanto al FPR, avanzava lentamente ma con sicurezza verso Kigali, chiudendo la tenaglia sui suoi avversari e le loro vittime e considerava un intervento straniero ormai inutile; non soltanto perché la maggior parte dei Tutsi erano già morti, ma soprattutto perché non intendeva affatto farsi scippare la vittoria. Fu allora che la Francia mise le mani avanti: il 22 giugno ottenne dal Consiglio di sicurezza l’autorizzazione a lanciare un’operazione secondo il capitolo VII, che autorizza l’impiego della forza.
Se ormai era troppo tardi per salvare centinaia di migliaia di civili, scomparsi durante le prime settimane del genocidio, e se solamente da 10.000 a 15.000 persone poterono essere raccolte nei campi di Nyarushishi e di Bisesero, era ancora possibile tentare di salvare la carta del governo interinale. Quest’ultimo accolse i francesi con entusiasmo, sperando che l’operazione «Turquoise» arrestasse l’avanzata del FPR e imponesse una negoziazione sulla base di una ripartizione del territorio. Ma la rapida avanzata delle truppe del FPR e infine la commozione dell’opinione pubblica riuscirono a dividere il governo francese. Contro i militari che volevano «rompere le reni al FPR» e non nascondevano la loro solidarietà per i loro vechi compagni d’armi Hutu, dei «francofoni» che essi avevano istruito ed equipaggiato, il primi ministro Eduard Balladur decise di limitare le ambizioni dei militari dell’operazione «Turquoise». Costoro, obbligati a prendere contatto con il FPR, dovettero accontentarsi di creare nell’ovest del Paese una «zona umanitaria sicura» verso la quale conversero tutti i gruppoi estremisti e il governo interinale, che inquadravano con loro milioni di civili hutu.
In questa zona i francesi furono impotenti nell’impedire numerosi massacri, ma rifiutarono di disarmare miliziani e militari, si guardarono bene dall’arrestare i responsabili del genocidio che in seguito si rifugiarono nello Zaire e non vietarono le trasmissioni grondanti odio della Radio delle mille colline. I francesi, che avevano portato con loro elicotteri da combattimento, aerei Jaguar e Mirage, un centinaio di blindati e mortai, ma troppo pochi autocarri e medicinali, nulla poterono di fronte all’epidemia di colera che scoppiò a Goma e causò la morte di più di 40.000 rifugiati hutu.
A questo punto la stampa, attirata sul posto dalla presenza francese e la facilità delle comunicazioni e finalmente sensibilizzata alla tragedia ruandese, si presentò all’appuntamento, insieme alle organizzazioni umanitarie. Il nuovo potere si installò a Kigali in un vero e proprio deserto: i qudri dello Stato avevano preso la fuga, portando seco incartamenti, veicoli e depositi bancari, 300.000 orfani erravano attraverso il Paese. Ma la comunità internazionale recalcitrava davanti all’intervento e all’aiuto da dare al FPR, mentre gli uni denunciavano il «doppio genocidio» gli altri esigevano che il regime desse «pegni di riconciliazione», quando i corpi giacevano ancora insepolti nei fossati.
In realtà, malgrado le sue buone relazioni con gli Stati Uniti e il Regno Unito, il FPR pagava per il fatto di aver conquistato il potere in un aese francofono senza aver ottenuto l’assenso delle ex potenze coloniali. La presenza nei campi del Kivu di più di due milioni di rifugiati Hutu, inquadrati dagli autori del genocidio e nutriti dall’aiuto umanitario, avrebbe destabilizzato durevolmente la regione. Nell’ottobre 1996, dopo aver chiesto invano all’Alto commissariato per i rifugiati (HCR) e alle altre agenzie dell’ONU di allontanare dalla frontiera del suo Paese la minaccia rappresentata da quei campi, Paul Kagame, che dirigeva il FPR, lanciò un’offensiva destinata a costringere al ritorno i rifugiati ruandesi e a disperdere gli altri attraverso l’immenso Zaire (divenuto in seguito Repubblica democratica del Congo).
La comunità internazionale, impotente a prevenire un genocidio pianificato e annunciato, assisteva a un nuovo tornante della tragedia: dopo sette mesi il maresciallo Joseph Désiré Mobutu, sostenuto fino alla fine dai francesi, veniva rovesciato da Laurent Désiré Cabila e dai suoi alleati ruandesi e ugandesi. Finché, nel 1998, scoppia una nuova guerra, perché i Ruandesi erano costantemente alla caccia degli Interhamwe in fuga e al passaggio si abbandonavano, insieme ai loro alleati ugandesi, al saccheggio delle risorse del Congo. Al milione di morti del genocidio si sarebbero aggiunti più di tre milioni di vittime congolesi, anch’esse dimenticate, prese in trappola dalla guerra, dal saccheggio delle risorse naturali e da una sorda lotta fra francofoni e anglofoni per il controllo del cuore dell’Africa.
Il presidente ruandese Paul Kagame il 13 febbraio ha lanciato un appello ai dirigenti africani riuniti a Kigali per partecipare al summit dedicato al Nuovo partenariato per lo sviluppo dell’Africa (Nepad), invitandoli a lottare contro il «malgoverno - cattiva governance», una delle cause, a suo avviso, del genocidio del 1994 in Ruanda. Si potrebbero aggiungere le responsabilità di Paesi e Istituzioni - Nazioni Unite, Stati Uniti, Francia, Belgio - che, a quell’epoca, non hanno saputo reagire, malgrado le richieste di aiuto venute da questo Paese. Colette Braekman
(1) Lynda Melvern, A people betrayed. The role of the West in the Rwanda’s Genocide, Zed books, Londres, 2000, e Gérard Prunier, Histoire d’un génocide, Dagorno, Paris, 1997.
(2) Romeo Dallaire, J’ai serré la main du Diable, la faillite de l’humanité au Rwanda, La Libre Expression, Montréal, 2003.
(3) Allison Desforges, « Aucun témoin ne doit survivre, génocide au Rwanda », rapporto redattoper Human Rights Watch, Fédération internationale des droits de l’homme, Paris, 1999.
LE MONDE DIPLOMATIQUE | mars 2004 | Page 20
Sull’argomento, cercando la parola "Ruanda", si trovano numerosi articoli in:
http://www.ildialogo.org/estero/index31122005.htm
La visita.
Genocidio in Ruanda. Macron a Kigali ammette: «Responsabilità francesi»
Delusi i parenti delle vittime: non si è scusato. Il presidente Kagane: «Atto di grande coraggio»
di Daniele Zappalà (Parigi), (Avvenire, giovedì 27 maggio 2021)
È giunto ieri a Kigali, presso il più importante memoriale del genocidio ruandese del 1994, per dire questo: «Tenendomi, con umiltà e rispetto, al vostro fianco, in questo giorno, vengo per riconoscere l’entità delle nostre responsabilità». Oltre un quarto di secolo dopo l’immane tragedia, il presidente francese Emmanuel Macron ha impiegato ieri parole che nessun altro suo predecessore aveva osato proferire. Nel quadro della spirale genocidaria, dunque, Parigi non si è limitata a commettere i «gravi errori» già ammessi nel 2010 da Nicolas Sarkozy, l’altro capo dell’Eliseo partito per un viaggio di riparazione in Ruanda rivelatosi poi infruttuoso. E questa volta, il presidente ruandese Paul Kagame ha mostrato d’apprezzare il «discorso potente» di Macron, perché «le sue parole hanno più valore delle scuse, sono la verità». Nel complesso, ha subito commentato Kagame, si è trattato d’un «atto d’enorme coraggio».
Giungendo a Kigali anche con 100mila dosi di vaccino anti-Covid, consegnate nel quadro del piano Covax lungo l’asse Nord-Sud del mondo, Macron ha dunque deciso alla fine di non imitare i vertici del Belgio che fin dal 2000 avevano presentato scuse esplicite. Ma il capo dell’Eliseo non si è rifugiato dietro circonlocuzioni fumose, poiché ormai «la Francia riconosce la parte di sofferenze che ha inflitto ai ruandesi». Il che non significa, ha precisato Macron, che ci sia stato sangue innocente ruandese direttamente versato da effettivi francesi complici dei massacri.
Le ammissioni di Macron sono state affiancate da una promessa politicamente decisiva, sullo sfondo del doloroso e aspro contenzioso che aveva fin qui avvelenato le relazioni bilaterali: «Riconoscere questo passato è pure e soprattutto proseguire l’opera di giustizia. Impegnandoci affinché nessuna persona sospettata di crimini di genocidio possa sfuggire alla giustizia». Parole, queste, che alludono chiaramente al destino di quegli “esuli” ruandesi in Francia additati da tempo da Kigali per il loro ruolo nei massacri. Rispetto alla clemenza dimostrata fin qui da Parigi nei loro confronti, potrebbe dunque ben presto scattare un giro di vite politico-giudiziario all’insegna dei conti ancora da saldare con la storia.
Per suggellare la prospettiva d’una normalizzazione delle relazioni bilaterali, ormai apparentemente a portata di mano, Macron ha pure annunciato ieri l’imminente nomina d’un nuovo ambasciatore in Ruanda, un posto rimasto vacante dal 2015 sullo sfondo della fase più tempestosa nelle relazioni fra i due Paesi. La svolta è giunta dopo un lungo e delicato lavoro diplomatico di riavvicinamento che ha fatto ampio uso pure del lavoro degli storici. Uno di loro, il francese Vincent Duclert, ha presieduto un gruppo di lavoro voluto dall’Eliseo per esplicitare il perimetro delle responsabilità francesi. A fine marzo, ne era scaturito un rapporto dettagliato (di 1.200 pagine) pronto a considerarle «pesanti e schiaccianti». E il lavoro di ricerca della verità proseguirà, ha promesso Macron, riferendosi alle residue zone d’ombra circa la politica filo-hutu della Francia del presidente François Mitterrand.
Fra le associazioni di sopravvissuti del genocidio, come ad esempio “Ibuka” rappresentata da Egide Nkuranga, si sono tuttavia levate proteste per l’assenza di scuse da parte francese. Ma al contempo, le parole di profondo rispetto di Macron anche verso "il silenzio di più d’un milione" di vittime non sono cadute nel vuoto. La posizione del capo dell’Eliseo avrà prevedibilmente ricadute pure nel più ampio dibattito mai chiuso sulla geopolitica post-coloniale francese nel continente africano, ancor oggi additata anche da associazioni e studiosi transalpini. Un fronte su cui molti continuano a invocare verità.
Lutto.
Addio a Pierantonio Costa, da console in Ruanda salvò migliaia dal genocidio
«Ho solo risposto alla mia coscienza», diceva l’imprenditore spentosi nei giorni scorsi a 81 anni, quando veniva interpellato sul suo ruolo durante il genocidio ruandese del 1994
di Matteo Fraschini Koffi, Dakar (Avvenire, giovedì 7 gennaio 2021)
«Ho solo risposto alla mia coscienza». Era questa la risposta più frequente di Pierantonio Costa, spentosi nei giorni scorsi a 81 anni, quando veniva interpellato sul suo ruolo durante il genocidio ruandese nel 1994. Oltre duemila le persone che è stato in grado di salvare. «Riusciva a creare dei corridori umanitari attraverso cui ha fatto fuggire verso il vicino Burundi centinaia di persone, straniere e locali - ha scritto Collins Mwai sul quotidiano ruandese New Times -. Oltre 300 bambini sono stati salvati grazie alla sua opera».
Abile imprenditore e console onorario nella capitale ruandese, Kigali, trasformatosi durante le violenze in nobile umanitario suo malgrado. Eroe per caso nella follia generale di quei 90 giorni di morte.
Una rara combinazione che gli ha valso la candidatura per il Premio Nobel per la pace nel 2011. Per «l’angelo italiano del Ruanda» ricordato nel «Giardino dei giusti del mondo” a Milano e Padova. "È stato un uomo molto buono - ha detto Bruno Puggia, attuale console onorario italiano in Ruanda -. Ha fatto molto sia per la comunità ruandese sia per quella italiana».
Ciclismo.
Il riscatto del Ruanda corre su una bicicletta
Nel Paese in ricostruzione dopo la guerra civile è lo sport più cresciuto. E la Federazione conta già 150 iscritti. Il presidente Bayingana: «Abbiamo ottimi corridori e belle strade, ora il Mondiale»
di Alex Cizmig (Avvenire, mercoledì 23 ottobre 2019)
Il 6 luglio 2003 la nazionale di calcio del Ruanda si qualifica alla Coppa d’Africa dell’anno successivo in Tunisia. Un miracolo sportivo per un Paese in piena ricostruzione in seguito alla guerra civile che nel 1994 è culminata con il genocidio di circa un milione di Tutsi, Twa e Hutu moderati.
Un miracolo che col tempo si rivelerà solo un fuoco di paglia, riacceso flebilmente nel 2016 dalla qualificazione ai quarti di finale della Chan, la Coppa d’Africa riservata ai calciatori che militano nel continente. Il calcio è spesso il carburante prediletto per alimentare il motore dei Paesi che devono rialzarsi e ripartire, ma i ruandesi hanno scelto di percorrere un’altra strada. E di farlo in sella a una bici.
Nel “Paese delle mille colline” la bicicletta è un mezzo fortemente presente nella quotidianità delle persone: viene utilizzata per trasportare merci e addirittura come taxi - molti corridori professionisti ruandesi hanno cominciato trasportando persone per le strade del Paese. Quelle strade su cui hanno poi disegnato una nuova immagine del Ruanda, tanto martoriato da terribili faide etniche. Da Butare, città universitaria e sede del Museo Etnografico, ai distretti turistici di Kirongi e Rubavu che si affacciano sul lago Kivu; da Nyamata, città che ospita il memoriale del genocidio, a Kigali, capitale innovativa e principale hub tecnologico d’Africa, negli ultimi dieci anni i ruandesi hanno percorso migliaia di chiilometri e posto la propria bandiera nella mappa del ciclismo internazionale.
«Il ciclismo è senza ombra di dubbio lo sport più riuscito in Ruanda», afferma fiero Aimable Bayingana, presidente della Federazione ruandese di ciclismo. «È lo sport che più si è sviluppato nel corso degli anni, considerando che fino a una decina di anni fa nessuno conosceva il nostro movimento». Le gambe hanno pedalato velocemente e la crescita è stata davvero repentina. Il Tour di Ruanda ne è la dimostrazione: la corsa ruandese principale è entrata a far parte dell’Uci Africa Tour nel 2009 e per l’edizione 2019 è salita di livello, raggiungendo l’unica altra corsa africana di respiro mondiale, la Tropicale Amissa Bongo che si svolge in Gabon.
Il Tour di Ruanda è ora nella categoria 2.1 - la stessa categoria, per intenderci, della Settimana Internazionale di Coppi e Bartali - e può aprirsi anche alle squadre World Tour; nel 2019 ha partecipato l’Astana, team da cui proviene il vincitore, l’eritreo Merhawi Kudus. «Vantiamo il tour più popolare del continente e a Musanze abbiamo costruito un centro di formazione che serve tutta l’Africa centroorientale. Il movimento ciclistico ruandese è uno dei motori di questo sport in Africa», certifica Bayingana che individua nella volontà del governo di Paul Kagame e della Federazione di cui è a capo l’elemento chiave nella volata che ha elevato il movimento locale a una dimensione internazionale. «I nostri corridori sono tra i migliori del continente e ottengono successi in ogni competizione e in qualunque fascia d’età».
Sono 150 i ciclisti regolarmente iscritti alla Federazione. L’obiettivo è quello di raggiungere quota 400 entro il 2020 e per far ciò il Ruanda è intenzionato a investire su nuovi centri di formazione da edificare in tutti gli angoli del Paese. Com’è naturale che sia, dietro ogni crescita sportiva è possibile scovare delle figure di rilievo che hanno contribuito a tale processo. Nel caso del ciclismo ruandese, queste figure corrispondono ai nomi di Jonathan Boyer e del suo allievo Adrien Niyonshuti.
La storia del primo si lega al Ruanda nel 2007: Boyer, il primo americano a correre il Tour de France nel 1981, è stato accusato e imprigionato nel 2002 per molestie sessuali nei confronti di una minorenne e una volta scontata la pena ha trovato nel Ruanda la strada del riscatto, dedicandosi alla formazione di ciclisti dilettanti. Tra loro è emerso il talento di Niyonshuti che, attraverso gli insegnamenti di Boyer, è arrivato al professionismo e a fregiarsi del titolo di portabandiera ruandese alle Olimpiadi 2012 a Londra.
Grazie alla spinta di questi due corridori, il ciclismo in Ruanda ha potuto avanzare e produrre nuovi prospetti come il 22enne Samuel Mugisha, membro della Dimension Data for Qhubeka, formazione sponsorizzata dall’azienda Dimension Data, già partner del Tour de France e della Vuelta di Spagna. Nella rosa di ciclisti del team sudafricano sono presenti anche quattro italiani, tra cui Samuele Battistella, primo U23 all’ultimo Mondiale.
A proposito di Mondiali, a quanto pare non manca nulla al Ruanda per diventare il primo Paese africano a ospitarne uno, tanto che a settembre la Federciclismo ruandese ha ufficializzato la candidatura per l’edizione 2025. «Abbiamo ottimi ciclisti, belle strade e infrastrutture all’avanguardia. Noi ci crediamo, abbiamo tutto per organizzare i Mondiali», conclude Bayingana, fermamente convinto che il ciclismo sia «lo sport della rinascita, che rende orgogliosi i ruandesi».
25 anni dopo. «Ruanda, le mie storie d’amore più potenti del genocidio»
Lo psichiatra Giovanni Galli andò in Ruanda per salvare i bambini. E diventò padre di 6 figlie
di Lucia Bellaspiga, inviata a Desenzano del Garda (Brescia) *
«Appena varcai il confine mi colpì l’odore di cadavere che impregnava tutto. I morti erano sparsi ovunque, interi o a pezzi, e i vivi avevano lo sguardo perso nel vuoto, sopravvissuti nel corpo ma morti dentro. Quell’odore mi è rimasto impresso per anni».
Era il maggio del 1994 e Giovanni Galli, giovane psichiatra bolognese, andava nel luogo da cui tutti fuggivano, il Ruanda del genocidio più cruento del Novecento, certamente il più rapido: «Durò solo cento giorni, dal 6 aprile 1994 a metà luglio, durante i quali ottocentomila persone furono uccise a colpi di machete, martelli e bastoni chiodati, prima gli adulti, poi i bambini». Erano gli Hutu contro i Tutsi, fino al giorno prima tutti pacificamente ruandesi, compagni a scuola e colleghi al lavoro, amici e vicini di casa, sposati tra loro e imparentati. Poi, improvvisamente, nemici. «Nel mattatoio per animali che c’era vicino a noi, furono messi in fila e massacrati uno a uno. Persino nelle chiese dove si rifugiavano furono chiusi dentro e uccisi tutti, cristiani contro cristiani» (nella sola chiesa di Nyarubuye ventimila civili furono massacrati tra il 15 e il 16 aprile del 1994).
Un genocidio programmato con diligenza: dalla Cina erano stati importanti 581mila machete, l’arma più economica e straziante. E la radio nazionale ruandese spronava gli Hutu al massacro degli «scarafaggi Tutsi» e guidava le squadre della morte dettando i nomi e gli indirizzi. Come obbedendo a un ordine infernale, amici, colleghi, parenti, persino coniugi e figli divennero persecutori l’uno dell’altro.
In tutto questo, il giovane medico con un C130 dell’aviazione militare italiana cercava insieme a padre Tiziano di portare viveri e medicinali all’orfanotrofio di Nyanza, nel sud del Paese, dove i padri Rogazionisti nascondevano ottocento bambini. «Il console Pierantonio Costa aveva provato a convincere i missionari a lasciare il Ruanda, ma invano - ricorda Galli 25 anni dopo -, allora per proteggerli aveva circondato l’orfanotrofio con bandiere italiane e un enorme striscione con su scritto ’Consolato d’Italia’». Prima ancora di arrivare in Ruanda l’intero carico di aiuti andò perduto: «A Kampala, in Uganda, i Comboniani ci hanno aiutati a caricare tutto su tre camion, ma poi gli uomini che ci dovevano scortare ci hanno assaliti e derubati di tutto, così siamo tornati a Kampala solo con i nostri pantaloni e la maglietta».
Ma il piano B della Provvidenza si chiamava Avsi, Associazione volontari per il servizio internazionale, che ha procurato altri camion, farmaci e cibo, e dopo due giorni, tra ponti fatti saltare e agguati, lo psichiatra è arrivato a Nyanza... «Nelle sale di chirurgia da campo della Croce Rossa giungevano continuamente persone mutilate, non si andava per il sottile, anche uno psichiatra andava bene per ricucire» e ancor più per tenere insieme i pezzi di un’umanità annientata. A luglio il genocidio si era compiuto, ma la vera emergenza doveva ancora cominciare, «non solo bisognava trattare il trauma da guerra - racconta Giovanni Galli - ma anche rintracciare gli adulti rimasti in vita ed eventualmente imparentati con migliaia di bambini soli, magari uno zio, un cugino... In due anni, fino al 1996, con Avsi e i Rogazionisti abbiamo fatto seicento ricongiungimenti, inoltre formavamo il personale locale per ricostruire un corpo insegnanti e cercavamo di riattivare le strutture sanitarie insegnando a riconoscere i segni del trauma psichico. Insomma, c’era fame di risorse umane per ricostruire da zero un’umanità». E tra gli assistenti sociali che si fanno avanti c’è L., vedova, il marito insegnante caduto sotto i colpi di un machete, tre figlie - 3 anni, 2 anni e l’ultima un mese di vita - nascoste in campagna da sua madre. «Gli Hutu prima uccidevano i maschi sistematicamente, adulti e piccini, poi cercavano le donne e le bambine - spiega lo psichiatra -. Erano scene da Erode, non si fermavano di fronte a nessuno, anche l’ultimo dei Tutsi doveva morire. Le sorelle di L. non ce l’hanno fatta». Quando i due si incontrano, Galli ha 34 anni, lei dieci di meno. È una vera manna per il lavoro di ’tracing’, la ricerca dei dispersi, ma soprattutto ha una dignità innata: sa dare e non chiede niente, anche se ha tre bambine da crescere. Pochi mesi dopo Giovanni e L. si sposano e da loro nasceranno altre tre figlie, la prima in Ruanda, le altre due in Italia. «Sono tutte e sei ugualmente figlie mie e tutte sono cittadine italiane», sorride il medico nel suo studio sul Lago di Garda (oggi è responsabile delle comunità di Riabilitazione psichiatrica nella sanità pubblica locale), presentando la sua famiglia. Le prime tre le ha subito adottate («nella tradizione ruandese portano cognomi bellissimi, ’La più desiderata’, ’Dolce come il latte’...»), del genocidio non ricordano nulla, sono cresciute in Italia, all’inizio qualche insulto razzista a scuola se lo sono prese «ma cosa vuole che sia, con quello che avevano visto!».
Oggi la più grande insegna Lettere a Bergamo, la seconda è laureata in medicina a Brescia, la terza in psicologia a Padova, la quarta studia medicina a Bologna, la quinta ingegneria a Milano, la sesta frequenta lo scientifico. «Nel 2007 abbiamo visitato tutti insieme il Ruanda, la terra che ha segnato i nostri destini e che evidentemente portavo scritta nel Dna. Appena laureato, nel 1985, già desideravo andare in missione e nella mia parrocchia salesiana a Bologna c’era un’associazione ’Amici del Ruanda’, con cui partii. Mai avrei immaginato quello che anni dopo sarebbe successo».
Non si è mai fermato, il dottor Galli, tuttora spesso in missione con la onlus ’Resilience’, fondata con gli amici al suo rientro in Italia per formare operatori sanitari in Paesi come Haiti, Congo, Palestina, Libano, Kazakistan.
«Stima e amicizia ci legano ad Avsi e Ummi, Unione medico missionaria italiana - spiega -. Insieme desideriamo far passare l’idea che nella relazione di aiuto, in qualsiasi parte del mondo avvenga, ognuno di noi non è solo un operatore che porta sostegno da fuori, ma un valorizzatore delle risorse umane che ogni comunità si porta dentro. In questo modo, l’altro non è l’oggetto passivo, ma insieme a noi è soggetto e protagonista del cambiamento. Ogni persona, indipendentemente da quello che fa, ha un valore per quello che è, perché Dio l’ha voluta e pensata. Dietro non c’è un aspetto meramente filantropico, ma la coscienza della dignità di ogni uomo, che spesso è difficile riconoscere ma che abbiamo il compito di scoprire».
È lo stesso sguardo con cui venticinque anni fa in Ruanda ha guarito centinaia di bambini, oggi padri e madri di famiglia che mai lo hanno dimenticato. Sul cellulare ci mostra la foto ricevuta giorni fa da Parigi, un bel ragazzo con lo zigomo e il naso separati da una profonda cicatrice: «L’ho suturato io, come vede non molto bene», sorride. E poi c’è Solange, le gambine mozzate da un machete, costretta a strisciare per terra. Oggi è laureata e per anni lo ha cercato: «L’aiuto psicologico è stato più utile della protesi - gli ha detto quando l’ha trovato -, con l’anima morta non avrei saputo che farmene delle protesi. Ci avete dimostrato che la vita non è definita da quello che manca, ma da quello che siamo e che possiamo tornare a essere nonostante il dramma». Ma chi proprio non scorda è Dusabe (in ruandese ’Preghiamo’), 10 anni, gettata dentro l’orfanotrofio dalle mani disperate della madre in fuga dai massacratori: «Dopo settimane di silenzi e rifiuto della vita, un giorno mi prese la mano e se l’appoggiò sulla testa. Nemmeno un genocidio è più potente di quel gesto d’amore».
* Avvenire, domenica 13 gennaio 2019 (ripresa parziale, senza foto).
Lottiamo contro il negazionismo, rafforziamo il nostro progresso
di Françoise Kankindi *
Il 7 aprile il Rwanda sarà immerso nella commemorazione del genocidio dei Tutsi. Da ventitré anni, tale data segna l’inizio di un lungo periodo di lutto e di riflessione.
Nel 1994 sono stati massacrati quasi un milione di uomini, donne e bambini - un settimo della popolazione. Nel Paese delle mille colline non c’è una particella, non un villaggio, non una famiglia che non sia stato toccato dal genocidio.
Per fortuna il gusto di vivere insieme è ritornato grazie alle sedute collettive dei Gacaca, all’istituzione della Commissione Nazionale di Lotta contro il Genocidio e alla Commissione per l’Unità e la Riconciliazione. Tutte le istituzioni, dal governo all’Umudugudu (municipio) sono stati investiti nel rendere effettivo il mai più.
Il ricevimento del presidente Paul Kagame da Papa Francesco, che ha “implorato il perdono per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri, tra i quali sacerdoti, religiosi e religiose che hanno ceduto all’odio e alla violenza, tradendo la propria missione evangelica”, ha aperto una nuova era nei rapporti tra il Rwanda e la chiesa Cattolica, ed è stato un balsamo al cuore di tanti cristiani rwandesi che hanno visto i loro cari massacrati nelle chiese dove avevano cercato rifugio.
I rwandesi stanno investendo nel consolidare il progresso raggiunto e il 4 agosto le elezioni presidenziali confermeranno l’attuale leadership - che non solo ha fermato il genocidio, ma ha anche lanciato il Paese verso uno sviluppo salutato positivamente da tutte le parti.
Quando guardo il Paese dove sono nata, il Burundi dove i Tutsi sono massacrati nel totale silenzio della comunità internazionale, mi viene da gridare al mondo intero che la Convenzione internazionale per la prevenzione del genocidio non è da archiviare, ma deve anzi essere un appiglio a cui aggrapparsi per rendere il nostro mondo libero da massacri di innocenti.
*
Analisi di Françoise Kankindi, Bene Rwanda
Il Papa ha chiesto scusa per il genocidio in Ruanda
La Chiesa cattolica locale fu complice del massacro di centinaia di migliaia di persone del 1994, ma finora non c’era stata una vera assunzione di responsabilità del Vaticano *
Lunedì papa Francesco ha incontrato al Palazzo Apostolico Vaticano il presidente del Ruanda Paul Kagame, e ha chiesto perdono per il ruolo della Chiesa cattolica nel genocidio del 1994, quando centinaia di migliaia di persone, soprattutto di etnia Tutsi, vennero uccise per motivi razziali e politici. Il Papa, dice il comunicato ufficiale del Vaticano, «ha manifestato il profondo dolore suo, della Santa Sede e della Chiesa per il genocidio contro i Tutsi, ha espresso solidarietà alle vittime e a quanti continuano a soffrire le conseguenze di quei tragici avvenimenti», e ha «rinnovato l’implorazione di perdono a Dio per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri, tra i quali sacerdoti, religiosi e religiose che hanno ceduto all’odio e alla violenza, tradendo la propria missione evangelica».
Il genocidio in Ruanda durò un centinaio di giorni, dall’aprile al luglio del 1994, ed ebbe inizio con l’abbattimento dell’aereo sul quale viaggiava il presidente del paese Juvénal Habyarimana, che era di etnia Hutu e guidava un regime dittatoriale. Il Ruanda era abitato in larga parte da persone di etnia Hutu, che avevano tolto il potere alla minoranza Tutsi alla fine degli anni Cinquanta. Cominciò allora un’operazione di sterminio condotta da milizie estremiste Hutu e in parte da civili, che uccisero - secondo le stime - 800mila persone, soprattutto Tutsi ma anche Hutu moderati. Circa 200 suore e sacerdoti furono uccisi, ma altri furono complici del massacro, permettendo a volte che le persone che avevano cercato rifugio nelle chiese venissero uccise. In una chiesa cattolica di Ntarama furono massacrate circa 5.000 persone il 14 agosto del 1994. In certi casi si conoscono anche i nomi dei sacerdoti responsabili, perché sono stati processati dai tribunali internazionali: Athanase Seromba per esempio fece abbattere la sua chiesa con dentro 2.000 Tutsi, mentre Wenceslas Munyeshyaka aiutò la compilazione di liste di persone che poi vennero uccise o violentate.
Le ragioni della collaborazione della Chiesa cattolica con il genocidio dipesero dalla vecchia collusione tra il clero locale e la classe dirigente Hutu: l’arcivescovo Vincent Nsengiyumva fece parte per 15 anni del comitato centrale del Movimento nazionale repubblicano per la democrazia e lo sviluppo, quello del presidente Habyarimana, in un periodo in cui il partito discriminava i Tutsi. Non fece niente per impedire il massacro, che anzi si rifiutò di riconoscere come genocidio. L’anno scorso avevano chiesto scusa per il ruolo della chiesa locale i vescovi del Ruanda, riconoscendo le responsabilità del clero nel compimento del genocidio, che vennero stabilite anche da un’inchiesta dell’Organizzazione dell’unità africana.
Il Vaticano non aveva però mai riconosciuto esplicitamente le colpe della Chiesa cattolica - Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano lasciato intendere che le colpe fossero dei singoli sacerdoti - e in molti casi i vescovi e i sacerdoti colpevoli avevano lasciato il Ruanda e proseguito le loro carriere in altri posti: Munyeshyaka in Francia e Seromba a Firenze, per esempio. Il Vaticano fu anche accusato di aver ostacolato il processo di estradizione di Seromba. Louise Mushikiwabo, ministra degli Esteri del Ruanda, ha detto che l’incontro con papa Francesco «ci permette di costruire delle basi più resistenti per riportare l’armonia tra i ruandesi e le istituzioni cattoliche».
* IL POST, 21 marzo 2017 (SENZA FOTO).
Rwanda: Vince il "Si" al referendum per il terzo mandato di Kagame
La popolazione rwandese ha votato in massa per le modifiche alla Costituzione che permetterebbero al presidente Paul Kagame la possibilità di correre per altri tre mandati, restando al potere fino al 2034. È quanto emerge dai risultati provvisori del referendum costituzionale di venerdì scorso, annunciati sabato dal presidente della Commissione elettorale nazionale Kalisa Mbanda in una conferenza stampa..
Si tratta, come era previsto, di una netta affermazione dei voti favorevoli a una candidatura di Kagame nel 2017. Erano chiamate al voto 6,4 milioni di persone. Secondo i dati forniti con il 70% circa degli scrutini completati, i “sì” hanno ottenuto il 98,13% dei voti contro l’1,71% dei “no”.
Il referendum è l’ultimo passaggio di un processo di riforma partito con una petizione popolare firmata - secondo il governo - da 3,7 milioni di cittadini e proseguito con il voto favorevole delle due Camere.
L’unico partito d’opposizione mobilitato contro il referendum, quello Verde, ha rinunciato a fare campagna elettorale. Troppo pochi i dieci giorni trascorsi tra l’annuncio della consultazione e il voto: appena 10 giorni, ricordano i responsabili di questa forza politica.
Immediata la reazione degli Stati Uniti. La Casa Bianca ha rinnovato il suo appello al presidente rwandese Kagame affinché rinunci a correre per un terzo mandato in vista delle elezioni presidenziali del 2017, nonostante la vittoria schiacciante dei “sì” al referendum. In una dichiarazione diffusa ieri, il governo di Washington si è inoltre detto “deluso” dal dall’esito del referendum. "Congratulandoci con il popolo del Rwanda per il pacifico esercizio dei suoi diritti civili, ci rammarichiamo circa le modalità con cui si è svolto il referendum, che non hanno dato tempo e modo sufficienti a favorire un dibattito politico serio", si legge nella dichiarazione.
Secondo la Casa Bianca, “il presidente Kagame, che per molti versi ha contribuito a consolidare e sviluppare il Ruanda, ha ora l’opportunità storica di onorare il proprio impegno a rispettare i limiti dei mandati presidenziali". (Reuters / Agenzia Nova)
Un libro sul genocidio del 1994
La strage, la memoria, il dolore. Il Ruanda visto da dentro
di Marcello Flores (Corriere della Sera, 07.09.2015)
Le grandi tragedie hanno sempre spinto i migliori giornalisti e reporter a misurarsi con la loro enormità e il genocidio del Ruanda non ha fatto eccezione. Si può dire che sono stati dei reportage giornalistici a far conoscere meglio e ovunque - insieme ad alcune testimonianze terribili e belle - i massacri che dall’aprile del 1994, nel giro di pochi mesi, uccisero circa un milione di persone. Chi ha letto molto delle centinaia di libri e articoli che sono stati scritti sul Ruanda, pensava che difficilmente si sarebbe potuto ancora aggiungere qualcosa, anche se i genocidi del passato ci hanno mostrato quanto possa essere lunga l’onda delle testimonianze, delle memorie, delle analisi.
Il libro del reporter polacco Wojciech L. Tochman Oggi disegneremo la morte , tradotto in italiano dall’editore Keller, mostra quanto l’abilità professionale, una curiosità attenta, un’empatia solida ma non acritica, una capacità letteraria non comune possano produrre un libro nuovo e originale, informato e capace di emozionare e comprendere le contraddizioni di un presente che ci è ormai lontano e ignoto (quello del Ruanda vent’anni dopo il genocidio).
È un libro straordinario, capace di entrare nella memoria dei sopravvissuti, delle vittime e dei carnefici, dei testimoni impauriti o compiacenti di quella che è stata la tragedia collettiva più spaventosa degli ultimi decenni. Capace di farci capire cosa possa significare attendere ancora giustizia dopo vent’anni, ricordare senza timori solo una volta all’anno (nell’anniversario del genocidio) e poi cercare di vivere in un presente senza più razze e discriminazioni (ci sono solo cittadini ruandesi oggi, guai a parlare di tutsi o hutu, se non nei giorni di aprile), ma non poter evitare di riconoscere il massacratore di tua madre, di tuo padre, dei tuoi fratelli, che vive poche strade lontano da te. Capace di raccontare lo strazio di una giustizia originale (tradizionale e nuova al tempo stesso), quella delle corti gacaca , dove puoi vedere gli assassini intrattenersi amichevolmente coi giudici o puoi riuscire a mandare all’ergastolo il tuo stupratore che si sentiva ormai immune da ogni giustizia.
Il libro di Tochman, che si fonda soprattutto sulle testimonianze degli orfani sopravvissuti e delle donne stuprate e martoriate con una violenza inimmaginabile (chi è sopravvissuta ha in genere preso l’Aids, e in poche hanno avuto la possibilità di curarsi), è una memoria di come il corpo possa essere violato nei modi più terribili, per colpire gli «scarafaggi» tutsi che si vogliono sterminare, ma anche per terrorizzare i loro parenti o chi volesse difenderli tra gli hutu ancora capaci di sentimenti umani (e non furono pochi).
Tochman s’interroga continuamente sul modo in cui parlare, interrogare, far affiorare i ricordi, accettare i silenzi e i dinieghi di persone il cui racconto, quando riesce a farsi parola, ci reimmette, con una verità brutale e semplice, nella realtà di un genocidio di cui ancora ignoriamo troppo, timorosi di scendere fino in fondo all’abisso di cui l’Occidente è stato particolarmente responsabile. È un libro da leggere, da far leggere nelle scuole. E andrebbe costretto a leggerlo chi ancora predica l’odio per l’altro, il diverso, il nemico.
l’anniversario
Ruanda vent’anni dopo
Il 6 aprile ’94 l’aereo del presidente hutu venne abbattuto
Poche ore dopo iniziò la caccia ai tutsi: e fu genocidi
di Domenico Quirico (La Stampa, 06/04/2014)
Venti anni fa tutto cominciò con un delitto di Stato. Il Falcon del presidente del Ruanda Juvenal Habyarimana, reduce da un vertice di capi di Stato in Tanzania con equipaggio francese e a bordo il presidente del Burundi Ntaryamira, fu colpito da un missile quando era ormai in fase di atterraggio a Kigali. Nessuno si salvò. Passarono poche ore e tutto il Ruanda cominciò a grondare sangue. Negli spasimi di una lunga tragedia etnica i fratelli nemici hutu e tutsi si sbranavano da secoli per un paradiso terrestre. La morte del presidente, un hutu, fu come il segnale atteso della ennesima resa dei conti. Perché tutto era stato preparato con metodo: gli elenchi di chi doveva essere ucciso, i magazzini con le armi comprate grazie a un sollecito prestito di una banca francese (Parigi era la grande alleata degli hutu al potere), gli estremisti huti erano in attesa dell’ordine, pronti, frementi, gonfi di birra e di odio.
Sul Paese scese il tempo di Caino, come una febbre maligna che annullava e travolgeva le coscienze. Un esercito tutsi, armato dall’Uganda e dagli americani, stava avanzando: erano i figli di un altro genocidio che cercavano la rivincita. La FranceAfrique, gli americani: anche stavolta c’erano sullo sfondo potenti burattinai. Le bande dei manovali della morte, che si facevano chiamare «i compagni’», andarono nelle caserme per ricevere machete fucili e bombe a mano. I rayban sul naso, ruttando alcool e ferocia, strinsero Kigali e i villaggi e le città in un laccio di posti di blocco. Sui documenti di identità la definizione etnica, sciagurato retaggio coloniale, era il corrispettivo della stella gialla degli ebrei, divideva chi aveva diritto alla vita dagli Altri, «gli scarafaggi» da schiacciare.
Avevano con sé le radioline, una voce infarinata di odio leggeva senza tregua gli elenchi interminabili di nomi, indirizzi di abitazioni, numeri di targa di auto dei tutsi da eliminare. Fu una notte di san Bartolomeo che durò cento giorni. Poco a poco gli assassini cominciarono a scarseggiare di pallottole, allora tirarono fuori i coltelli le lance i «masu», i bastoni cosparsi di chiodi. Si videro assassini che braccavano le vittime impugnando un cacciavite, un martello, il manubrio di una bicicletta. Un massacro autarchico e ferocemente minuzioso, fino all’ultima goccia di sangue. Vicini di casa che fino alla sera prima incontravano le vittime per i piccoli riti della quotidianità, un saluto un dono un pettegolezzo, suonarono all’uscio e cominciarono a colpire con i machete. Miti insegnanti andarono alla ricerca dei colleghi colpevoli di essere tutsi e li massacrarono con la furia di killer professionisti.
I mucchi di cadaveri cominciarono a crescere, di ora in ora. Il sindaco di Kigali, che neppure in quell’infamia perse i modi di persona educata, arruolò i detenuti, fece loro scavare in periferia enormi fosse comuni per gettarvi le vittime, non voleva le epidemie, diamine!
Da quando huti e tutsi hanno cominciato a scambiarsi massacri, le vittime hanno sempre cercato rifugio nelle chiese. Qui l’odio si era sempre fermato, la mano degli assassini sollevata come in un sussulto di misericordia. Venti anni fa non fu così. I soldati gettarono bombe nelle navate dove le vittime, insieme a preti e missionari, si facevano coraggio cantando inni e preghiere. I miliziani preferirono l’arma bianca. Sgozzarono squartarono prolungarono con tecnica consumata il martirio. Quelli che fino al giorno prima erano buoni parrocchiani coprirono gli altari e le statue dei santi con il sangue di coloro che fino al giorno prima erano inginocchiati al loro fianco per la comunione. Nelle famiglie miste ed erano migliaia, gli hutu dovettero scegliere tra l’uccidere la moglie o il marito o morire a loro volta. Molti furono gli eroi per forza, molti di più, troppi, purtroppo gli obbedienti.
Romeo Delaire era un generale canadese, comandava il piccolo, impotente contingente dei caschi blu a Kigali. Vide l’attentato all’aereo del presidente alla Cnn seduto nel suo bungalow nella capitale. Sulla scrivania i telegrammi disperati che aveva inviato nelle settimane precedenti alla segreteria delle Nazioni unite per avvertire che si stava preparando qualcosa di orribile formavano una pila alta. Li aveva ricevuti il suo superiore, l’uomo che dirigeva il dipartimento per le operazioni di mantenimento della pace. Era un africano. Delaire era sicuro che sarebbe stato sensibile al rischio di una altro genocidio nel «suo» continente. Aveva chiesto soldati per sequestrare i depositi di armi per il massacro: non era un mistero, tutti i vicoli della capitale ne parlavano. Ricevette un telegramma con un no secco e sgarbato. La firma: Kofi Annan.
Ottocentomila morti ha lasciato dietro di sé il genocidio ruandese. A cui bisogna aggiungere quelli della vendetta dei tutsi arrivati dal Ruanda. Altre decine di migliaia, nessuno li ha mai contati, i loro scheletri sono nelle foreste del vicino Congo dove avevano, invano, cercato rifugio. Su di loro scese un secondo colpevole silenzio.
Perché per fermare quell’orrore non bastarono le parole. Ci vollero le immagini. Per farci capire. Ancora una volta, un’altra volta. L’occidente, filisteo, mellifuo, fece scorrere i giorni del massacro, gli avvertimenti, le urla di aiuto: sono africani, poveracci, hanno solo coltelli e bastoni per confezionare un genocidio ci vuole altro, il taylorismo della morte, l’industrializzazione dell’omicidio, l’asettica efficienza delle camere a gas dove assassino e vittima non si toccano, non si vedono, si schiacciano bottoni anonimi, si manovrano leve apparentemente neutre. E invece il segno sicuro del materializzarsi di questa terribile invenzione semantica, genocidio, è il senso oscuro che l’uomo ha superato la frontiera del Bene e del Male e si era avventurato su sentieri senza ritorno: ovvero gli assassini erano completamente privi di rimorsi e le vittime non si ribellavano, gli uni lavoravano di coltello sulla carne dei loro simili senza che nulla li turbasse e gli altri offrivano il collo alla lama come se fosse da tempo immemorabile nel loro destino. Venti anni dopo le immagini di quella tragedia non sono ricordi ma figure che davanti a noi si muovono, vive, presenti, la realtà così come è, tremenda, in ogni secondo, e con i più la risultanza, il grumo, la verità, la farina passata al sottile setaccio di tanti anni.
Rwanda. Le colpe dell’Onu
Chi avrebbe dovuto fermare il genocidio non l’ha fatto: i responsabili di allora hanno anche fatto carriera
di Daniele Scaglione (il Sole-24ore/domenica, 30.03.2014)
Il 6 gennaio del 1994, mentre tornava a casa dopo l’allenamento, la pattinatrice su ghiaccio Nancy Kerrigan fu colpita al ginocchio da un uomo. Mandante dell’aggressione era la sua rivale Tonya Harding, che voleva toglierla di mezzo in vista delle olimpiadi in Norvegia. Allo scandalo che ne derivò i network televisivi Abc, Cbs e Nbc dedicarono più spazio che al genocidio in Rwanda. Non c’è da stupirsi, perché quei tre mesi che devastarono il piccolo Paese africano, i media internazionali li raccontarono poco e male. Salvo rare eccezioni, i cronisti parlarono di una violenza imprevedibile e incontrollabile, reazione della maggioranza hutu all’uccisione del presidente Habyarimana. Quell’attentato, avvenuto la sera del 6 aprile 1994 e subito attribuito ai tutsi del Fronte Patriottico Rwandese, secondo gli organi d’informazione fu la goccia che fece traboccare il vaso, nella secolare divisione etnica tra hutu e tutsi.
Niente di tutto ciò è vero. In primo luogo, hutu e tutsi non costituivano gruppi etnici differenti. A dividerli, nel XX secolo, erano stati i colonizzatori, che attribuivano ai tutsi una certa superiorità in virtù di caratteri somatici - altezza, forma del naso, colore della pelle - che li rendevano un po’ "meno negroidi". In secondo luogo, nulla di quanto accadde in quei maledetti giorni tra l’aprile e il luglio del 1994 fu improvvisato, ma avvenne secondo un piano accurato e moderno che includeva l’uso di mezzi di propaganda come la radio, l’acquisto e la distribuzione di un quantitativo di armi spaventoso e una sofisticata organizzazione che consentì di massacrare decine di migliaia di persone al giorno per cento giorni di fila. La stessa uccisione del presidente hutu Habyarimana - compiuta dagli estremisti hutu e non dai ribelli tutsi - era parte del piano, era il segnale d’inizio della mattanza. Infine, che la tragedia stava per accadere era noto: lo sapevano i dirigenti dell’Onu e i governi più potenti del mondo. Lo sapeva anche Roma, che si affrettò a mandare alcune centinaia di militari di prim’ordine per rimpatriare i nostri connazionali e altri europei.
Queste verità vennero a galla solo in seguito, grazie alle confessioni di estremisti hutu sotto processo al tribunale internazionale di Arusha e grazie al lavoro di ricercatori e intellettuali che volevano capirci qualcosa di più. Ma la fonte più inquietante è costituita da Romeo Dallaire, il capo dei caschi blu a Kigali. Dallaire, dopo il genocidio, raccontò più volte che già nel gennaio del ’94 aveva allertato il Palazzo di Vetro sulla carneficina che si stava preparando. I suoi capi a New York, però, non solo non gli inviarono i rinforzi che aveva chiesto, ma gli proibirono anche di requisire le armi destinate alle milizie genocide. Il Consiglio di Sicurezza, dopo l’inizio dei massacri, decise persino di ridurre i soldati a sua disposizione da 2.500 a 270 e se Dallaire potè invece contare su 454 effettivi è solo perché i caschi blu ghanesi non se la sentirono di abbandonare i rwandesi.
Dell’uccisione di almeno 800mila persone è dunque responsabile chi il genocidio lo organizzò ed eseguì ma anche chi, potendo fermarlo, scelse di non fare nulla. Tra i primi, molti stanno facendo i conti con la giustizia internazionale o con quella rwandese. Tra i secondi, la situazione è invece desolante: chi ha commesso gravissimi errori ha fatto carriera.
Il caso più eclatante è forse quello di Kofi Annan, vice segretario Onu ai tempi del genocidio e capo diretto del generale Dallaire. Due anni dopo il disastro, Annan fu scelto come Segretario Generale delle Nazioni Unite, carica ricoperta per due mandati consecutivi. Carriera in progressione anche per i suoi più diretti collaboratori nel ’94, Maurice Baril e Iqbal Riza. Madaleine Albright ai tempi rappresentava gli Stati Uniti presso il Consiglio di Sicurezza e si oppose con decisione al rinforzo della missione di caschi blu in Rwanda: nel successivo mandato presidenziale di Bill Clinton, venne promossa a segretario di Stato.
Il governo di Parigi invece si schierò con decisione, ma dalla parte sbagliata. Sostenne gli estremisti politicamente e militarmente - prima, durante e dopo i massacri - e mandò addirittura il suo esercito a proteggerne la fuga in Zaire, quando il Fronte Patriottico Rwandese stava per vincere la guerra. Mitterrand inaugurò anche la stagione revisionista. Verso la fine del 1994, a un giornalista che lo interpellava sul genocidio in Rwanda, chiese: «Di quale genocidio parla? Del genocidio dei tutsi a opera degli hutu o di quello degli hutu a opera dei tutsi?».
A distanza di vent’anni, la memoria collettiva di questa tragedia è ancora tutta da costruire. Così come nel ’94 venne raccontato poco e male, oggi quell’evento viene ricordato in modo insufficiente e impreciso. È emblematico che il prodotto mediatico che più ne ha fatto parlare, il film Hotel Rwanda, sia sostanzialmente un falso. Racconta le sorti di circa 1.300 persone che si nascosero nell’Hotel delle Mille Colline, un albergo di lusso della capitale ma, nella realtà, il direttore dell’albergo non fu l’eroe raccontato dal regista Terry George e interpretato da Don Cheadle, bensì un personaggio ambiguo che approfittò delle persone in fuga, ricattandole e togliendo loro ogni avere.
Questa superficialità nel ricordare quel che è accaduto in Rwanda nel 1994 impedisce di riconoscerne l’importanza universale: quei fatti segnano il punto più basso della storia delle Nazioni Unite dalla loro fondazione e rappresentano il più grande fallimento della comunità internazionale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Proprio pensando agli orrori di quel conflitto, i rappresentanti dei «popoli delle Nazioni Unite» - così sono indicati in apertura dello Statuto dell’Onu - avevano preso l’impegno più solenne: intervenire senza indugi per fermare un genocidio. Ma cinquant’anni dopo, mentre un genocidio stava accadendo di nuovo, quei popoli si sono voltati dall’altra parte.
Memoria e memorie
di Moni Ovadia (l’Unità, 25.01.2014)
UN PAIO D’ANNI FA FUI INVITATO DALL’ASSOCIAZIONE BENE RUWANDA A PARTECIPARE AD UNA GIORNATA DI MEMORIA DEL GENOCIDIO DEL POPOLO TUTSI, nel ricorrere del suo anniversario. In quell’occasione ebbi modo di incontrare la signora Yolande Mukagasana, testimone del genocidio del suo popolo, militante della Memoria e candidata al Premio Nobel per la Pace.
Yolande nel genocidio ha perduto marito e figli, lei stessa si è salvata miracolosamente grazie all’aiuto di una donna Hutu. Incontrandola, rimasi profondamente impressionato dalla luce intensa del suo volto e dalle sue parole pacate e ferme nell’esprimere il dolore per l’ignobile opera di negazionismo che è stata avviata anche nei confronti del genocidio dei Tutsi.
Ebbene sì! Puo suonare incredibile ma il negazionismo non è rivolto solo contro il martirio gli ebrei, ma anche contro altre vittime di stermini. Mentre parlavo con Yolande Mukagasana, un singolare dettaglio mi colpì, il fatto che lei portasse al collo, come ciondolo, una vistosa stella di Davide. Vincendo il riserbo le chiesi perché indossasse quella stella e lei mi rispose: «Noi dobbiamo fare come gli ebrei!».
Evidentemente Yolande si riferiva al Senso della Memoria che ha permesso al popolo ebraico di non soccombere alla violenza, all’annientamento e all’oblio, ma di rispondere alle tenebre dell’odio con una cultura di conoscenza e di vita.
Per uscire da un equivoco molto diffuso, ovvero che l’istituzione del Giorno della Memoria sia ad usum degli ebrei, è bene chiarire con fermezza che non è così! Lo specifico ebraico della memoria vive nelle sinagoghe e nelle case di studio.
La teoria e la Pratica della Memoria ebraica nascono 3500 anni fa in occasione del primo scampato sterminio progettato nel deserto del Sinai dal re Amalek, il progenitore di tutti gli antisemiti irriducibili. A seguito di quell’evento viene consegnato ai b’nei israel, i figli di Israel, il monito «yizkhor!», (ricorderai!). Questa e la ragione del suo carattere originale ed irrinunciabile, 3500 anni di pensiero.
Il Giorno della Memoria deve servire all’Europa che, in misura maggiore o minore, ha nutrito e accolto nelle proprie fibre intime carnefici, collaborazionisti, delatori zone grigie ed indifferenti, deve indurre a riflettere criticamente pro bono della qualità del presente e del futuro sollecitando a porsi la grande domanda che non è «perché abbiamo fatto questo agli ebrei, ai rom, ai menomati, agli omosessuali, agli slavi, agli anti fascisti, ai testimoni di Geova», bensì «perché abbiamo fatto questo a noi stessi? Come abbiamo potuto ridurci a questo infame degrado?».
Quanto agli ebrei devono capire che la memoria della Shoah non deve garantire primazie, ma deve illuminare tutti i genocidi e gli stermini, quelli di prima e quelli di dopo e portarli in primo piano, non relegarli sullo sfondo, inoltre bisogna capire che ogni uso strumentale, propagandistico, bassamente retorico della Shoah è il miglior modo per destituirla di verità e di universalità.
Die Zeit, Hamburg - 6 settembre 2010
Se le vittime uccidono
Rapporto ONU sul Ruanda
In Ruanda, dopo il primo genocidio, ve n’è stato un altro? Un rapporto segreto dell’ONU rimette in questione le vecchie certezze. (traduzione dal tedesco di José F. Padova)
Negli anni successivi al 1994, quando avvenne la tragedia ruandese, ho tradotto e inviato molti scritti circa cause, circostanze, responsabilità, e altro ancora. Vi è stata qualche tempo fa la rottura fra il governo di Paul Kagame e quello francese, basata su accuse reciproche (vedi: http://www.ildialogo.org/estero/estero0127112006.htm).
Con il rapporto ONU recentemente portato a una certa pubblica conoscenza - leggendo l’articolo si comprende perché non dico: "pubblicato" - cominciano ad apparire le tragiche conseguenze a lungo termine di quel genocidio. Il governo di Kagame ha cercato di portare il Ruanda a un certo gradi di riappacificazione e anche di sviluppo economico, ma non ha risolto il dramma degli Hutu espatriati, o forse ha cercato di risolverlo nel peggiore dei modi (http://www.ildialogo.org/estero/articoli_1240998799.htm).
L’ombra di quanto è accaduto in Congo nell’ultimo decennio ne offusca l’immagine, e ancor più mette in evidenza le gravissime responsabilità dell’ONU e delle Potenze occidentali, soprattutto per l’indifferenza, l’inettitudine o, peggio, l’interesse per le grandi ricchezze del sottosuolo di quel devastato Paese.
JFPadova
http://www.zeit.de/2010/36/Ruanda-Voelkermord
Durante la tarda estate del 1994 un collaboratore americano dell’ONU, Robert Gersony, viaggiò attraverso il Ruanda. In quell’epoca il Paese era una fossa comune, aperta. Soltanto a poche settimane prima risaliva il genocidio da parte di estremisti Hutu di 800.000 Tutsi e Hutu moderati; proprio allora i ribelli Tutsi, al comando dell’attuale presidente del Paese, Paul Kagame, avevano preso il potere. Quasi due milioni di Hutu, fra i quali gli assassini e i loro fiancheggiatori, per timore di rappresaglie erano fuggiti nei Paesi confinanti, soprattutto nella parte orientale del Congo.
Gersony era pieno di simpatia per il nuovo regime ruandese, che aveva fermato il genocidio. Per incarico delle Nazioni Unite egli aveva il compito di studiare il modo in cui si sarebbe potuto rimpatriare il più rapidamente possibile la maggioranza dei rifugiati Hutu, che non si erano macchiati le mani di sangue.
Tuttavia Gersony scoprì qualcosa di totalmente diverso: una serie di massacri di civili, che capovolgeva lo schema assassini-vittime. Unità del Fronte Patriottico Ruandese (RPF) di Kagame, durante la loro avanzata nell’estate 1994, avevano ucciso molte decine di migliaia di Hutu.
L’americano consegnò il suo rapporto al quartiere generale dell’ONU a New York, dove nessuno mise in dubbio le sue informazioni, ma tuttavia gli misero la museruola. Aveva avuto luogo un crimine di dimensioni incomparabilmente vaste, un genocidio. La comunità internazionale a causa della propria inerzia si era addossata una pesante corresponsabilità, i Tutsi erano le vittime, l’esercito di Kagame il vincitore militare e morale, il suo nuovo governo il portatore della speranza. Quindi il rapporto di Gersony fu fatto sparire.
In 545 pagine le Nazioni Unite descrivono la peggiore guerra dal 1945 Sedici anni più tardi vi è nuovamente un resoconto, questa volta prodotto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani. Vi si tratta non il crimine perpetrato in Ruanda nel 1994, ma il secondo atto di questa apocalisse africana, le due guerre in Congo fra il 1996 e il 2003. Questa volta ai piani alti dell’ONU non si pensa a mettere sotto chiave il resoconto, ma invece a disinnescarlo.
Le organizzazioni per i diritti dell’uomo hanno documentato negli anni numerosi crimini e che tutte le parti in conflitto avessero commesso atrocità contro i civili lo si sapeva da lungo tempo. Tuttavia questa è la prima documentazione estesa, anche se per nulla completa, di crimini commessi sul più atroce teatro di guerra dal 1945. La versione provvisoria consiste di 545 pagine e attraverso una fuga di notizie è diventata ora di dominio pubblico. Già a pagina 14 si solleva il sospetto più atroce possibile: che dopo il Ruanda del 1994 potesse esservi stato un secondo genocidio - nota bene: potesse. Su territorio congolese, perpetrato contro i rifugiati Hutu dall’esercito ruandese di Paul Kagame e dai ribelli del suo alleato congolese di allora, il futuro Presidente Laurent Kabila. Nel 1996 con l’aiuto di Kabila Kagame aveva disperso quei campi di profughi nei quali gli estremisti Hutu si erano riarmati per riappropriarsi nuovamente del potere in Ruanda.
Quello che allora era stato presentato come un atto di autodifesa era il preludio di due guerre in Congo, con la partecipazione quasi totale di due Paesi confinanti. Come conseguenza fino al 2003 morirono tre milioni di persone per epidemie, fame, sete, bombardamenti o massacri, come pure verosimilmente molte decine di migliaia di profughi Hutu dal Ruanda. Occorre trattare i numeri con prudenza in questa regione, dove vi sono più teorie di complotti che statistiche affidabili. Per la fattispecie del genocidio tuttavia non è determinante il numero delle vittime, bensì l’intenzione di voler annientare un determinato insieme di popolo.
Contro questo sospetto l’attuale governo ruandese protesta energicamente e ha pubblicamente annunciato di voler ritirare i propri caschi blu dal Darfur in caso di pubblicazione del rapporto. Il capitale politico di Paul Kagame, il suo credito internazionale quale riformatore, che ha tramutato un Paese estremamente traumatizzato in uno Stato africano modello, in pieno sviluppo economico, dipende dalla sua reputazione come militare che ha salvato, e non esiliato o «etnicamente ripulito».
Che cos’è negazione, che cosa verità, propaganda o realtà storica? E chi ha il potere o la legittimazione di decidere su queste questioni? In ogni caso non l’ONU, chiarisce categoricamente il governo ruandese. Sarebbe «immorale e inaccettabile» che proprio l’Organizzazione mondiale che non ha impedito il genocidio del 1994 attribuisse ora un crimine analogo all’esercito che lo aveva fermato». Così ciò che d’altronde è un argomento inaccettabile potrebbe anche essere giustificato: il rimprovero mosso all’ONU di omissione di soccorso.
Per la verifica occorrono pazienza, soldi e buoni medici legali Le Nazioni Unite nel corso degli anni hanno sviluppato una sorprendente abilità nel compendiare in voluminose relazioni anche i peggiori casi del proprio fallimento - e così danno l’esempio anche ai Paesi membri.
Proprio questo è ora accaduto di nuovo. La lettura di questo rapporto conduce a 600 luoghi del crimine in tutto il Paese, la maggior parte dei quali nella parte orientale. Qui un massacro con 300 morti, là 70 persone bruciate nelle loro capanne, un paio di chilometri più avanti donne, bambini e vecchi ammazzati, e poi ancora un ospedale assalito di sorpresa, una paio di dozzine di profughi fucilati. Così si legge da una villaggio all’altro, qui si svolge una sorta di piccola Srebrenica, lì un saccheggio mortale.
Le vittime ricevono, se non un nome, almeno il profilo di una identità, i criminali si individuano se non altro come gruppo. Fra questi si contano non soltanto i ribelli di Kabila e i soldati di Kagame, ma anche truppe ugandesi, unità del Burundi, militari angolani. E tutti coloro che hanno preso parte alla «guerra mondiale africana» lo hanno fatto per assicurarsi lealismo etnico o per procurarsi materie prime o autorità.
Così da ogni pagina del rapporto esce la percezione, sempre motivata con cura, del Congo come teatro di un « conflitto arcaico» e «tipicamente africano», senza storia. Si è trattato e si tratta qui di stravolgimento etnico della politica, di convalida dei confini e di scarsità di terra, della questione di chi può essere cittadino di uno Stato.
Si è trattato e si tratta anche di valutazioni drammaticamente errate da parte delle Potenze occidentali. Prima di tutte la Francia, sostenitrice di quel regime Hutu che poi ha perpetrato il genocidio. Prima anche l’Amministrazione americana di Clinton, che per la coscienza sporca della propria inerzia durante il genocidio elesse Kagame al rango di good guy e gli diede mano libera. Quel governo USA avrebbe saputo come si sarebbe potuto impedire un ulteriore tentativo di genocidio da parte degli Hutu, chiarì a suo tempo un diplomatico americano: «Tutto ciò che dobbiamo fare è guardare da un’altra parte». Sottrarsi a questo rendiconto di buoni e cattivi a quel tempo non era facile, tenuto conto di centinaia di migliaia di Tutsi ammazzati. Le conseguenze di questo passare sopra sono ora descritte in più di 500 pagine.
E adesso? Senza giustizia nessuna pace, si dice. Per l’analisi della guerra e delle atrocità occorre un minimo di stabilità, per non parlare di pazienza, soldi, storici professionisti, medici legali, archivisti e di una giustizia indipendente, internazionale, se deve esserci. Nulla di tutto ciò è disponibile.
La Corte Penale Internazionale de L’Aja può indagare soltanto su crimini che siano stati commessi dopo l’entrata in vigore del suo statuto, il 1. luglio 2002. il Tribunale dell’ONU per il Ruanda non ha competenza sul territorio congolese. La giustizia ruandese indagherà contro i potenti tanto poco quanto quella congolese. Il presidente in carica, Joseph Kabila, è il figlio di uno dei principali indiziati, Laurent Kabila.
Confronti con il passato - in Congo essenzialmente impossibili. Eppure, in un loro tipico modo primitivo, essi sono da tempo iniziati. Per questo rapporto dell’ONU si sono fatti interrogare 1280 testimoni. In ogni piccola città attivisti annotano di pugno su quaderni scolastici i nomi degli uccisi e delle vittime di violenze carnali. Con l’indicazione del luogo del crimine, della data e almeno un sospetto circa la provenienza dei criminali. Non mancano le persone che vogliono deporre le loro testimonianze. Gli investigatori dell’ONU propongono ora l’istituzione di una commissione per l’accertamento della verità. Non già perché essa favorirebbe automaticamente la pace, ma perché limiterebbe il margine della possibile negazione dei crimini.
Sull’argomento “Genocidio in Ruanda” vedi anche:
http://www.ildialogo.org/estero/index31122005.htm (con “Trova nella pagina” la parola “Ruanda)
Fantasma Rwanda
Quindici anni fa l’alba del genocidio
di Pietro Del Soldà (il Riformista, 07.04.2009)
7 aprile ’94. Nella terra delle mille colline inizia lo sterminio. In cento giorni le milizie estremiste hutu uccidono a colpi di machete 800.000 persone, tutsi ma anche hutu moderati. Oggi il Paese guidato da Kagame e dalle donne, che hanno preso per mano una società di orfani, seppellisce il ricordo con uno sviluppo economico invidiabile. Ma la riconciliazione è lontana.
«Il trauma è ancora vivo, palpabile, ma i rwandesi hanno deciso di andare avanti». A parlare è Jean Pierre Ruhigisha, rappresentante della comunità rwandese a Roma, in Italia dal 2000. Jean Pierre durante il genocidio del ’94 non si trovava in Rwanda. Se n’era andato molti anni prima, nel ’73, fuggendo con la sua famiglia dal secondo massacro che insanguinò la storia del suo popolo. Allora aveva quasi quattro anni, ma i ricordi, aiutati anche dai racconti della madre, sono ancora vivi e terribili.
«In questo mese di commemorazioni, quando si avvicina il 7 aprile, data d’inizio del genocidio, il ricordo dei massacri ritorna vivo. Le reazioni dei singoli, di chi ha perso i familiari o gli amici o è scampato per miracolo ai colpi di machete, sono diverse, ma indicano tutte che la paura c’è ancora: c’è chi scappa, c’è chi si rinchiude in casa per stare da solo, la gente non è ancora in grado di affrontare quel capitolo della storia come qualcosa di superato. Poi, passato il mese di aprile, si riesce a gestire il trauma e ad andare avanti con la vita di tutti i giorni».
La memoria fa male, dunque, ma non c’è alternativa. La storia del Rwanda deve ripartire da lì, da quel 7 aprile di 15 anni fa, quando l’alba illuminò, come sempre, il Rwanda delle mille colline, e scoprì che il paese non era più lo stesso. L’abbattimento del jet Mystere Falcon, avvenuto la sera prima sui cieli di Kigali, non aveva soltanto posto fine alla vita del presidente Habyarimana, colpevole agli occhi degli hutu più oltranzisti di aver firmato un accordo con i tutsi del Fronte Patrottico Ruandese. Quel razzo lanciato da "ignoti" fece qualcosa di più. L’offensiva contro gli oppositori del regime, tutsi ma anche hutu moderati, nacque da un disegno di morte cinico e organizzato.
Il Rwanda sia chiaro non era nuovo ai massacri reciproci tra hutu e tutsi. La rivolta del 1959, quando i contadini massacrarono i loro padroni tutsi a colpi di zappe e machete, provocò una strage. L’indipendenza del Rwanda è stata poi segnata da violenze continue: lo stesso Habyarimana aveva contribuito ad acuire la spaccatura del paese, una divisione a cui aveva largamente contribuito il potere coloniale belga ed alla quale venne imposta dall’alto, per fini politici, una natura "etnica" che storicamente non ha grande fondamento. Ma nel 1994 le cose acquistarono un tono diverso, da "sterminio programmato" di un’intera categoria di rwandesi, i tutsi, che l’ideologia estremista al potere definiva una razza diversa, venuta da lontano a rubare la terra e il bestiame degli autoctoni hutu. Una menzogna diffusa ad arte, che convinse e coinvolse un numero impressionante di cittadini hutu.
La notte del 6 aprile cominciò l’annientamento degli «scarafaggi», come li definisce la famigerata Radio Mille Colline, accusati in massa della morte del presidente: un massacro che avrebbe potuto svolgersi a colpi d’artiglieria. Ma così non fu: lo sterminio doveva avvenire a colpi di machete, guidato da una milizia di massa, l’Interahamwe, che includeva contadini, studenti, impiegati, affinché fossero migliaia le mani sporche di sangue, e nascesse un nuovo paese fondato sulla colpa condivisa, sulla rimozione, sulla paura della verità.
In tre mesi vennero trucidate circa 800mila persone. Poi, i tutsi del Fpr ripresero il potere per non lasciarlo più. Oggi, il presidente Paul Kagame appare come una figura sfuggente dietro i grandi occhiali che coprono il suo viso magro: è il padre del nuovo Rwanda, un paese moderno, che cerca di seppellire il ricordo con uno sviluppo economico e sociale da far invidia ai paesi vicini. Kigali è una città cantiere, il fermento si vede già sorvolandola dall’alto. E poi, record dei record, la maggioranza dei parlamentari è donna.
«Sono le donne la vera guida del paese» - ci spiega Benedetta Lauricella di "Progetto Rwanda", onlus italiana impegnata nel pese dal 1997 (www.progettorwanda.it). «All’indomani del genocidio, che aveva colpito soprattutto ragazzi e uomini adulti, le donne rimaste sole presero per mano il paese e allevarono 500mila orfani». Potere alle donne e sviluppo economico, dunque, e anche un fermo no alla deriva etnica: Kagame ha infatti vietato le mortifere etichette hutu e tutsi. Ma la riconciliazione è lontana. I "gacaca", tribunali del popolo, hanno contribuito a fare un po’ di luce, ma nessun colpevole ha davvero chiesto perdono. Nessuna commissione per la verità e la riconciliazione, sul modello del Sudafrica, ha affrontato davvero il trauma: le ombre del genocidio si allungano ancora sul futuro del Rwanda.
«L’odio etnico è ancora vivo e le violenze continuano»
Yolande Mukagasana. La denuncia al "Riformista" della donna simbolo della memoria rwandese. «Profanano le nostre sepolture. Uccidono i testimoni. E i governi europei accolgono gli assassini».
di P.D.S. (il Riformista, 07.04.2009)
«L’ideologia del genocidio è ancora viva. È di questi giorni la notizia che le ossa dei morti gettati nel fiume Nyabarongo e trascinati in Uganda, dove avevano ricevuto sepoltura, sono state profanate». Ci parla senza mezzi termini Yolande Mukagasana, l’infermiera rifugiata politica in Belgio. È la donna simbolo del genocidio ruandese, la sua vicenda ha colpito i tanti spettatori della pièce Ruanda 94 e i lettori del suo libro La morte non mi ha voluta. Nata a Butare da una famiglia tutsi, subì già nel 1959, quando aveva solo cinque anni, le prime ferite della violenza hutu durante il primo grande massacro nella storia del suo paese. Nel 1972 ottenne il diploma, ma solo 16 anni dopo le autorità hutu le riconobbero il titolo di infermiera anestesista. Fu allora che scoprì la divisone etnica che lacerava il paese. Nel 1992, nonostante la difficoltà di vivere e lavorare in una società che guardava i tutsi con ostilità crescente, aprì un ambulatorio privato. Un’iniziativa coraggiosa per l’epoca, che infatti la espose a critiche e minacce. Poi, quando scoppiò il genocidio del 1994, l’ostilità nei suoi confronti degenerò. Perse marito e figli, che vide morire trucidati davanti a lei. Ma lei fu risparmiata, la morte non l’ha voluta.
Una donna hutu, Jacqueline Mukansonera, la tenne nascosta nella sua casa mettendo a repentaglio la sua stessa vita. Yolande oggi ricambia, con la paura e la morte negli occhi anche a distanza di 15 anni, lavorando affinché la memoria non si perda, e soprattutto perché la riconciliazione abbia la meglio sul desiderio di vendetta. Yolande ci parla da Roma, dov’è arrivata per partecipare alla manifestazione che stasera ricorderà il più terribile sterminio della storia recente (parlerà alle 21, al teatro Piccolo Eliseo). «La violenza non è affatto finita - ci dice ancora - ogni anno, e con frequenza ancora maggiore in prossimità dell’anniversario dell’inizio del genocidio, il 7 aprile, i colpevoli cercano ed eliminano i testimoni delle loro atrocità. Solo in questi giorni sono state uccise 16 persone, una ragazza è stata accoltellata a Bruxelles. Anch’io, nella mia casa in Belgio, continuo a vivere nella paura». La comunità internazionale non ci pensa più e Yolande accusa: «I governi europei sono di fatto negazionisti, continuano ad accogliere gli assassini sul loro territorio».
Cosa ne pensa, le chiediamo, dei tribunali del popolo, i gacaca, favoriti dallo stesso governo? «La giustizia ha cominciato ad agire su tre livelli differenti - risponde - Il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda è il livello più elevato, quello che si è occupato solo degli imputati eccellenti, e non ha mai previsto un risarcimento per le vittime. Poi c’è la giustizia ordinaria del Rwanda, un sistema che ha già cent’anni di storia, e che in nessun modo poteva affrontare decine di migliaia di processi». Si calcolò, infatti, che ci sarebbe voluto un secolo. «I gacaca quindi, istituzioni tradizionali che prevedono che vittime, testimoni e colpevoli si riuniscano sul luogo del delitto, hanno consentito di far emergere un po’ di verità».
Qualche forma di ricompensa effettivamente c’è stata, continua Yolande, il ruolo dei gacaca che si sono occupati dei «genocidari comuni», è stato utile. Ma certo non è sufficiente perché le ferite si rimarginino e cessi la paura.
Ansa» 2009-01-23 08:15
CONGO, ARRESTATO CAPO RIBELLI LAURENT NKUNDA
KINSHASA (CONGO) - Il leader dei ribelli tutsi congolesi Laurent Nkunda è stato arrestato in Ruanda dalle forze congiunte del Congo e del Ruanda, che hanno sferrato in questi giorni un’offensiva contro gli insorti in territorio congolese, al confine con il Ruanda. Lo hanno reso noto fonti del comando militare congiunto. Nkunda è il leader del Congresso Nazionale per la Difesa delPopolo (Cndp), attivo nella regione orientale del Nord Kivu, di cui è capoluogo Goma.
Un comunicato firmato dall’ispettore generale di polizia della Repubblica democratica del Congo, John Nundi, rende noto che "lo stato maggiore congiunto Fardc (esercito congolese) ed elementi Rdf (esercito ruandese) informano l’opinione pubblica dell’arresto del generale destituito Laurent Nkunda giovedì alle 22:30 in fuga sul territorio ruandese, dopo aver opposto una breve resistenza ai nostri militari a Bunangana". Le forze congiunte ruandesi-congolesi erano arrivate ieri sera alle porte della località congolese di Bunangana, feudo di Nkunda nel Nord Kivu. I principali comandanti del Cndp, fra i quali il capo di stato maggiore Bosco Ntaganda, avevano abbandonato Nkunda il 16 gennaio scorso, aderendo alla coalizione congolese-ruandese.
Nel 1994 il colonnello era a capo delle milizie Hutu che uccisero 800.000 civili
La sentenza è la prima comminata per un responsabile del genocidio dal tribunale dell’Onu
Ruanda, condannato Bagosora
guidò il massacro dei Tutsi
ARUSHA - Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda ha condannato oggi all’ergastolo il colonnello Théoneste Bagosora, considerato il "cervello" del genocidio dei Tutsi nel 1994. E’ la prima condanna di un responsabile del massacro ruandese comminata dalla corte riunita in Tanzania.
Bagosora, 67 anni, è accusato di essere stato a capo delle truppe e delle milizie Interahamwe Hutu che sterminarono 800.000 persone, tra membri della minoranza Tutsi e moderati Hutu.
Il colonnello era capo di gabinetto del ministero della Difesa negli anni del genocidio. Secondo l’accusa, Bagosora nel 1993, dopo aver chiuso il negoziato con i ribelli Tutsi del Fronte patriottico ruandese (Fpr, oggi al potere a Kigali) annunciò che sarebbe tornato nel suo Paese per "preparare l’apocalisse". Parole che il militare nega di aver mai pronunciato, proclamandosi innocente e rifiutando di definire quello ruandese un "genocidio".
La stessa corte - istituita alla fine del 1994 ad Arusha, in Tanzania - ha riconosciuto colpevoli degli stessi capi di imputazione altri due accusati, il maggiore Aloys Ntabakuze ed il colonello Anatole Nsengiyumva, entrambi condannati all’ergastolo. Il tribunale ha invece assolto il generale Gratien Kabiligi, ex capo delle operazioni militari e ne ha ordinato l’immediato rilascio.
Le uccisioni di massa iniziarono il 7 aprile 1994, all’indomani dell’abbattimento dell’aereo che trasportava i presidenti del Ruanda e del Burundi, colpito da un missile mentre si preparava ad atterrare nella capitale ruandese di Kigali. Bagosora, estremista hutu, dichiarò immediatamente che l’esercito aveva assunto il controllo della situazione. Poche ore dopo, truppe governative e squadroni della morte iniziarono ad uccidere i Tutsi. Il massacro durò cento giorni.
L’atto di accusa a carico di Bagosora affermava che l’ex capo di gabinetto del ministero della Difesa era contrario alle concessioni fatte dal suo governo ai ribelli Tutsi durante i colloqui di pace che si tennero in Tanzania nel 1993. Secondo l’Onu il genocidio fu organizzato nel dettaglio con tanto di liste di esponenti tutsi e leader dell’opposizione individuati come bersagli da assassinare.
* la Repubblica, 18 dicembre 2008
Ruanda, ergastolo al prete complice del genocidio *
È il primo prete cattolico giudicato dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda. Ed è stato condannato all’ergastolo. Per l’abate Athanase Seromba un’accusa tremenda: ha partecipato attivamente allo sterminio di quasi 1500 persone durante il genocidio del 1994. Millecinquecento cittadini di etnia tutsi lasciati massacrare dalle milizie hutu e sepolti sotto le macerie della sua parrocchia.
La condanna in appello all’ergastolo significa che padre Seromba, cui in primo grado era stata comminata una pena di soli 15 anni, non si è limitato ad essere «complice» passivo dei miliziani, ma ha pianificato giorno dopo giorno la mattanza. È stato lui, secondo le testimonianze raccolte dal tribunale, a incoraggiare centinaia e centinaia di tusti in fuga dalle campagne a rifugiarsi nella sua chiesa. Lui a far circondare l’edificio, a lasciare i rifugiati senza acqua né cibo, a far uccidere chiunque tentasse la fuga. Ed è stato ancora lui a ideare la soluzione finale: due grandi bulldozer che hanno spianato la chiesa seppellendo sotto le macerie tutti gli occupanti, mentre i bastoni e i machete degli hutu si accanivano sui superstiti. Alla fine, contemplando i mucchi di cadaveri, disse: «Ora levatemi di qui questa immondizia». E così i corpi furono gettati nelle fosse comuni.
Athanase Seromba è stato arrestato nel 2002 in Italia, nella chiesa di San Martino in Montughi a Firenze, dove aveva trovato rifugio sotto il falso nome di Anastasio Sumba Bura. Nonostante il governo italiano avesse rifiutato in un primo momento l’estradizione, alla fine, anche grazie ad una forte pressione internazionale, è stato consegnato al Tribunale di Arusha (Tanzania).
* l’Unità, Pubblicato il: 12.03.08, Modificato il: 12.03.08 alle ore 16.54
Ruanda, il sacerdote accusato di genocidio che vive a Roma protetto dal Vaticano *
Jean-Baptiste Rutihunza ha oggi 63 anni. Secondo decine di testimoni, nel 1994, l’anno del massacro, stilava e aggiornava liste di proscrizione di tutsi, anche bambini disabili, che passava ai gruppi paramilitari hutu. Nei suoi confronti c’è un mandato di cattura internazionale. La decisione spetta alla giustizia italiana e poi al governo ROMA - C’è un sacerdote cattolico ruandese, colpito da mandato di cattura internazionale per genocidio e crimini contro l’umanità, che vive a Roma protetto dal Vaticano. Si chiama Jean-Baptiste Rutihunza e oggi ha 63 anni. E’ di etnia hutu e nel 1994, l’anno della grande mattanza scatenata dagli estremisti hutu delle milizie interawne, con quasi un milione di morti, era il rappresentante legale del Centro Fratelli della Carità a Gatara, distretto di Nyanza, nel sud del Paese: una struttura religiosa che ospitava centinaia di bambini con gravi problemi motori.
Secondo decine di testimonianze raccolte tra i sopravvissuti che hanno avuto la forza di raccontare quell’orrore nonostante le minacce e la paura di ritorsioni, padre Rutihunza avrebbe partecipato attivamente al genocidio stilando e aggiornando liste di proscrizione. Assieme a Cèlestin Ugirashebuja, ex sindaco di Kigoma, un comune dello stesso distretto, avrebbe indicato i bambini disabili di origine tutsi ai gruppi paramilitari che vagavano per il Paese in preda a un delirio di odio etnico. Le indagini avviate dal Tribunale internazionale di Arusha, che sotto l’egida dell’Onu cerca di fare giustizia di un massacro solo in parte riparato, hanno accertato che a Gatara sono morti 4.338 bambini. Tutti sono stati poi sepolti in una fossa comune che è stata scoperta successivamente.
Diciotto anni dopo, il sacerdote ha deciso di uscire allo scoperto e di sottrarre il Vaticano a un evidente imbarazzo. Con l’arrivo del Fronte patriottico ruandese (Fpr) che mise fine al massacro, Rutihunza fugge nella vicina Repubblica Democratica del Congo e si stabilisce a Bukavu dove assieme ad altri sacerdoti fonda un convento dei Fratelli della Carità. Ma con la distruzione dei campi profughi nella parte orientale della Rdc, nel 1996 si sposta in Tanzania. Un anno dopo approda a Roma e trova ospitalità in una struttura della potente confraternita. La sua presenza è ingombrante. La stampa la svela. Si scopre soprattutto chi è il sacerdote, che ruolo ha avuto nel genocidio. E’ noto come il boia di Gatara. Ci sono nuove testimonianze, una montagna di documenti.
Il Tribunale internazionale spicca un ordine di cattura. Ma il caso viene avocato dalla Procura generale di Kigali che fra proprio il provvedimento e lo segnala all’Interpol. A chiedere la cattura del sacerdote adesso è il governo ruandese. Da cinque anni ha deciso di agire in modo autonomo dal Tribunale di Arusha: ci sono le vittime che invocano giustizia, i tempi delle istruttorie e dei processi spesso si dilungano, c’è necessità di riaffermare una sovranità giuridica che il Paese dei Grandi Laghi, dopo tanti anni di controlli internazionali, rivendica con forza.
I protagonisti, presunti aguzzini, hanno ovviamente paura. Di vendette, di ritorsioni, di giudizi sommari. Jean-Baptiste Rutihunza prende il largo, si rifugia in Belgio ma poi decide di rientrare a Roma. Da un paio d’anni vive nel quartiere generale dei Fratelli della Carità, al riparo delle Mura del Vaticano, dove svolge il lavoro di receptionist. Ma la Santa Sede è imbarazzata: non può sottrarsi a un mandato di cattura internazionale. C’è il precedente di Atanase Seromba, un altro sacerdote accusato di genocidio che per anni, vicino a Firenze, ha servito messa e distribuito la comunione a fedeli del tutto ignari. Anche in quel caso ci fu una denuncia pubblica e il Vaticano dovette accettare la sua estradizione verso Arusha dove poi è stato condannato per le atrocità commesse: rinchiuse duemila tutsi, uomini donne e bambini, nella chiesa di Nyange, di cui era parroco, poi rasa al suolo con i buldozer. Chi cercava scampo veniva abbattuto a colpi di fucile. Lo imbracciava lo stesso Seromba, piazzato sulla scala che portava alla sua canonica.
Rutihunza non pone problemi di extraterritorialità. Non vuole essere estradato in Ruanda. "Ho fiducia nella giustizia italiana", ci ha detto stamani all’uscita della Procura generale che lo aveva convocato assieme al difensore, l’avvocato Michele Gentiloni Silverj. "Le accuse che mi vengono rivolte sono frutto di una vendetta politica. Non ho commesso quello che mi viene contestato. Mi difenderò e dimostrerò la mia innocenza". Ma quando gli abbiamo chiesto cosa rispondesse ai sopravvissuti che hanno raccontato quei giorni di orrore si è tirato indietro. "Non posso rispondere", ha detto con gli occhi pieni di paura.
Il caso approderà ora alla Corte d’appello di Roma che si pronuncerà sull’estradizione. Ci sarà, eventualmente, la possibilità di un ricorso in Cassazione. Ma se entrambe accoglieranno la richiesta di Kigali l’ultima parola spetterà alla presidenza del Consiglio. E a quel punto la vicenda diventerà politica.
Leggi tutto da: repubblica.it:
http://www.repubblica.it/esteri/2012/09/24/news/ruanda_sacerdote_ricercato-43213875/