JACQUES DERRIDA
Lezioni magistrali per cacciare gli spettri della sovranità
LIBRI: INCONDIZIONALITÀ O SOVRANITÀ. L’UNIVERSITÀ ALLE FRONTIERE DELL’EUROPA DI JACQUES DERRIDA, MIMESIS, PP. 45, EURO 10
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 26.06.2008)
Elitario per alcuni, demagogo per altri, sublime ed odioso per molti, Jacques Derrida non ha mai provocato indifferenza. Nel suo caso vale ciò che Bertrand Russel disse della matematica: «Non si sa mai ciò di cui si parla, né se ciò che si dice è vero».
Oggetto di culto dalla Corea alla California, filosofo e scrittore sconcertante per ricchezza di registri, intellettuale impegnato arrestato in Cecoslovacchia al tempo del comunismo, sostenitore di Nelson Mandela, di Mumia Abu-Jamal e delle lotte dei sans papiers in Francia, Derrida viene sempre più percepito come un pensatore della politica e critico radicale della sovranità e dei suoi fantasmi teologico-politici.
Ne è la prova la conferenza inedita Incondizionalità o sovranità. L’università alle frontiere dell’Europa, pronunciata nel 1999, in occasione del conferimento della laurea honoris causa presso l’Università di Atene, ora pubblicata in italiano con l’introduzione e la cura di Simone Regazzoni che a Derrida ha recentemente dedicato studi di pregevole fattura (La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida e Nel nome di Chora. Da Derrida a Platone e al di là, entrambi pubblicati da Il Melangolo).
Nel momento più istituzionale della vita universitaria, il conferimento di una laurea per chiara fama, Derrida non solo denuncia la «guerra umanitaria» allora in pieno svolgimento nei cieli della Serbia e del Kosovo ma, in nome della «libertà incondizionale», sostiene che la guerra tra i nazionalismi (quello serbo e kosovaro) e la guerra della Nato a sostegno della rivendicazione di uno Stato-nazione in Kosovo sono ispirate dallo stesso principio. Ciò che accomuna i due fronti è il «principio-fantasma arcaico» della sovranità, di origine teologica, indissociabile dall’ideologia etnicista, nazionalista e stato-nazionalista. Anche gli stati europei che hanno considerato i diritti dell’uomo superiori alla sovranità degli stati sono rimasti prigionieri di questo fantasma. «Questo rispettabile discorso dei diritti dell’uomo - afferma Derrida - si aggiusta, in modo ingiusto e selettivo, alle mire egemoniche delle superpotenze statuali-nazionali. Esse non rinunciano alla propria sovranità».
Derrida è consapevole del fatto che l’ideologia della sovranità può avere, in maniera provvisoria, «positivi effetti di emancipazione». Tuttavia, anche in questo caso, la sua violenza si fa sentire. Perché, infatti, ignorare sistematicamente le risoluzioni dell’Onu, scegliendo quale violenza sanzionare, rispetto a molte altre che restano impunite? Il vero problema per una politica democratica, è mettere in questione il principio di sovranità come principio di potere. La democrazia deve essere consapevole di gestire una violenza che, al contempo, pone e conserva i diritti di cui essa stessa è promotrice. Per farlo, non è più possibile aderire incondizionatamente ad un regime politico che non ha il coraggio di affrontare la propria violenza costitutiva. Ignorarlo, significa correre pericoli inaccettabili per sé e per gli altri. Comprenderlo, significa invece formulare «un principio di resistenza o di dissidenza» che deve preparare un nuovo pensiero della «responsabilità politica». Quella di Derrida è l’ipotesi di una «nuova alleanza dentro e fuori l’Europa, con tutte le forze che non confondono la critica della sovranità con l’asservimento, e neppure con la servitù volontaria».
Un’alleanza che deve oltrepassare le frontiere dei campus universitari e rivendicare una «libertà incondizionale» per mettere in discussione il potere e le sue figure nazionali o democratiche, teologico-politiche ed economico-militari. Una libertà rischiosa, ma necessaria per evitare di essere travolti da un potere che, in nome della democrazia, svuota o annienta la libertà dei deboli, quindi anche la nostra.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
Il marrano, quel «corpo» politico della rivolta
Scaffale. Donatella Di Cesare riattualizza la figura esoterica dell’ebraismo diasporico
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 21.07.2018)
Nella filosofia italiana esiste la tendenza a individuare figure esemplari e liminari per descrivere la nostra attualità. È stato così per l’Homo Sacer di Giorgio Agamben, formula del diritto romano che indica un essere umano uccidibile senza che si compia un reato. Così oggi è il migrante affogato nel Mediterraneo o recluso nei campi di concentramento in Libia. Donatella Di Cesare ha delineato i tratti di una figura filosofica e l’ha definita straniero residente. Nel suo ultimo libro Marrani. L’altro dell’altro (Einaudi, pp.113, euro 12) aggiunge a questa figura che travalica la distinzione tra migrante e autoctono una genealogia che scava nella nostra identità politica.
PARTE DELLA PIÙ AMPIA filosofia delle migrazioni che la filosofa romana sta sviluppando, questo agile libro riattualizza una figura esoterica dell’ebraismo diasporico e lo considera come l’occasione di un pensiero radicale per reinventare una democrazia internazionalista, solidale, conflittuale. Nella filosofia contemporanea il marranesimo è un riferimento etico, politico, religioso. Dalla mistica di Teresa d’Avila - suo nonno Juan Sánchez era un convertito dall’ebraismo alla fede cattolica - alle campiture dell’Etica di Spinoza - ebreo oggetto del cherem (bando o scomunica), gravissimo e mai revocato, fino alla grazia tormentata di Jacques Derrida alle prese con la sua identità ebraica rimossa, molte sono le storie raccontate nel libro.
Il marrano è la figura iniziale di una nuova era della storia ebraica e di una tradizione politica di rivolta ancora in corso. È considerato come il primo migrante nella modernità politica. Cacciato dalla Spagna e dal Portogallo sciamò in tutta Europa, da Amsterdam fino a Livorno. E formò una «nazione anarchica», nel massimo segreto ideò un «progetto messianico mondiale». Era un senza terra, e senza religione, reinventò un credo religioso e un’idea di convivenza.
Da questa fonte sgorgò uno degli elementi del pensiero politico radicale del XX secolo: il messianismo. Quello che ha ispirato anche Walter Benjamin e il suo originalissimo pensiero marxista. O lo stesso Marx. Materialista, ateo, ebreo e comunista, anche il filosofo tedesco ha criticato nella Questione ebraica la separazione tra pubblico e privato in cui si dibatte il cittadino moderno, la stessa a cui è costretto il marrano obbligato a reinventare in privato l’identità che non può mostrare in pubblico. Marx ne dedusse l’inimicizia per la democrazia liberale e la sua idea di astratta uguaglianza. La tensione al superamento dell’alienazione per ritrovare l’unità caratterizza il «laboratorio politico della modernità».
PER DI CESARE tale ricerca è destinata allo scacco e, proprio per evitare che il soggetto resti scisso e irrisolto, bisogna rivendicare la dissonanza. Un progetto politico è tale quando resta aperto e incompiuto. Così ha una speranza di durare. In fondo questa è l’idea del «movimento che abolisce lo stato di cose presenti»: il comunismo.
Il marranesimo non è dunque solo la storia di violenze e coercizioni, né la rivendicazione della purezza di un’identità religiosa. È l’opposto. Il perservare dei marrani nel loro inconfessabile segreto - l’essere ebrei anche se convertiti a forza - la speranza recondita di un ritorno a un’origine che mai si ripeterà come tale, traducono la condizione di chi è senza radici, spaesato, e alla ricerca di una terra da costruire con chi si trova nella stessa condizione. Estranei allo Stato, ma capaci di costruire politica oltre la sovranità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA. Atene....
JACQUES DERRIDA. LA DEMOCRAZIA, IL PRINCIPIO-FANTASMA ARCAICO DELLA SOVRANITA’, E LA LIBERTA’ INCONDIZIONALE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
I margini infuocati del mondo
Gayatri Chakravorty Spivak. Un’intervista con la teorica femminista indiana, presenza fondamentale dei postcolonial e subaltern studies. Disapprendere il proprio privilegio significa imparare a costruire una relazione etica e politica tra i viventi
di Francesca Maffioli (il manifesto, 23.06.2016)
Contestare l’occupazione da parte dell’Occidente e della filosofia occidentale riguardo la posizione di Soggetto cardine del discorso è sempre stato un punto fondamentale dell’analisi di Gayatri Chakravorty Spivak. Così anche in un recente incontro pubblico tenutosi presso la sede dell’University of Paris, e titolato emblematicamente Il presente in dissolvenza, la filosofa e femminista ha sottolineato la presa di parola da parte dei «soggetti subalterni», secondo una logica di decostruzione di questa dinamica gerarchizzata e ignorante della diversità.
Il soggetto che le interessa è sessuato, femminile, messo a margine da un sistema di valori centralizzato, in cui l’Occidente è sovrano e l’altra esiste in quanto oggetto da analizzare, da rappresentare e da controllare, anche nel momento della locuzione.
Quando alla «subalterna» è concessa la parola si tratta, infatti, di una parola che mima le aspettative del Soggetto che le ha permesso la libertà di espressione. La finalità della presa di parola del «soggetto subalterno donna», in comunicazione con il soggetto femminista occidentale, dovrebbe passare, secondo Spivak, dal superamento e dalla decostruzione dei rapporti gerarchici e dalla (ri)costruzione di un dialogo tra agenti parlanti. Si tratta di articolare un’agentività che implica un’egemonia non convenzionale, oltre i sistemi simbolici prestabiliti - in uno spazio dove la comunicazione si costituisce in quanto atto performativo.
Quanto, disporci all’ascolto di un «Other Knowledge», può renderci aperti a spazi di comunicazione che consentano di cogliere le opportunità per un dialogo con le voci marginalizzate? In che misura mettere in discussione la credibilità e la significatività di categorie teoretiche apprese agevolerebbe i requisiti per instaurare una comunicazione che ci volga alla comprensione dell’altra e dell’altro, della subalterna e del subalterno?
Abbiamo incontrato Gayatri Chakravorty Spivak per porle qualche domanda a riguardo.
Il suo monito «unlearn one’s privilege as one’s loss», ovvero «disimparare il proprio privilegio perché è una perdita», l’ha portata a riconsiderare il privilegio, anche di carattere gnoseologico, per (auto)instillare il dubbio critico e stabilire un rapporto etico con l’altro e l’altra - nell’obiettivo cioè di apprendere ad ascoltare le voci marginalizzate. Crede che oggi sia ancora valido?
Voglio partire dalla mia esperienza biografica, dalla storia della mia condizione di soggetto privilegiato in un contesto esplicitamente e sfacciatamente non-egualitario: il sistema delle caste hindu. Questo sistema, apparentemente imprescindibile, i ruoli sociali occupati dalla mia stessa famiglia di origine, costituiscono l’esemplificazione di privilegi millenari profondamente radicati. Ciò per dire che vi è una radicata struttura di potere in cui sono consapevole di essere attualmente collocata, riguardo per esempio il mio ruolo accademico negli Stati Uniti. Questa breve premessa che introduce ai privilegi che ho conosciuto, vuole essere però funzionale a ciò che intendo quando convoco il senso del disapprendere. Disimparare il privilegio significa allora costruire la risposta a un modello teorico a partire dalla mia esperienza di donna privilegiata, cresciuta in una famiglia facoltosa, in un sistema di diseguaglianze non celate.
La decostruzione dei propri privilegi può allora condurre ad una comunicazione autentica e a farci attori ed attrici di una pratica dialogica relazionale, definibile come relazionalità etica?
Il disapprendimento dei propri privilegi non significa la loro decostruzione. Sarebbe stata una posizione eccessivamente narcisistica da parte mia quella dell’insistenza, negli anni, verso il non riconoscimento e l’inconsapevolezza dei miei privilegi. Sarebbe stato come ripiegarsi nella negazione, riconoscere solo come perdita il privilegio di essere nata in una famiglia facente parte della casta dei brahmani (la casta sacerdotale, la prima delle quattro caste della società induista, ndr). A partire da un esatto momento della mia vita ho smesso di considerare i miei privilegi come perdita: ho trasformato questa presa di coscienza in un vettore di chance per la ricerca, in una pratica di utilizzo volta al dialogo con i soggetti meno ascoltati, i soggetti per cui l’identità e la parola sono forcluse. La necessità di «unlearn one’s privilege as one’s loss» deve essere rivista, completata secondo il fluire trasformativo del mio pensiero, che nel tempo ha subito delle evoluzioni. Devo confessare che questa considerazione l’avevo concepita precocemente, ben prima di entrare nel cuore dei temi che poi ho trattato nella mia attività di ricerca. In altre parole, credo sia fondamentale focalizzarsi sui privilegi, ma invece di disapprenderli, o prima ancora di imparare a disapprenderli, è necessario vedere dove essi si situano, riconoscerli e «to use them»: vedere e usare un privilegio in maniera funzionale, per volgersi a nuove pratiche di apprendimento e di comunicazione.
I riferimenti a questi interrogativi, come lei ce li descrive, sono suggeriti anche dalle intuizioni dalla filosofa e femminista postcoloniale Sara Ahmed che nel suo «Declarations of Whiteness: The Non-Performativity of Anti-Racism» sostiene come le stesse culture dell’apprendimento siano modellate esattamente sul privilegio...
Disapprendere il privilegio deve infatti trasformarsi in «learning to learn by below». Imparare a imparare dal basso, disattendendo le aspettative e le risposte che ci saremmo aspettati di ricevere e modificando i meccanismi di apprendimento, diventa un processo attivo per minare i meccanismi di dominazione e di controllo. Ammettere il privilegio significa cambiare la propria prospettiva d’osservazione, rappresenta il tentativo di ruotare l’angolo d’apprendimento attraverso cui ci hanno insegnato si debba guardare; significa andare oltre la tradizione che ha limitato le opportunità per una conoscenza alternativa. La prima fase per mettersi in ascolto dell’altro, per consentire che alle nostre orecchie la sua parola non sia muta, è dunque il riconoscimento critico del proprio privilegio.
* BIOGRAFIA E RICEZIONE - Al centro del dibattito internazionale e fuori commercio in Italia
Dal 2007, Gayatri Chakravorty Spivak, insegna alla Columbia University e fa parte dell’Institute for Comparative Literature and Society. Teorica della letteratura e critica femminista, è riconosciuta come una delle figure di spicco degli studi post-coloniali.
Si deve al suo contributo in quanto traduttrice l’introduzione della filosofia contemporanea francese - e in particolare di Jacques Derrida - nell’accademia statunitense. Ha partecipato alla fondazione a Dehli nel 1982 della rivista «Subaltern Studies» e nel 1988 ha codiretto la pubblicazione del celebre Selected Subaltern Studies.
Si deve a Spivak inoltre la pubblicazione di uno degli articoli fondatori degli studi post-coloniali, intitolato «Can the Subaltern Speak» del 1983: la filosofa ha contribuito infatti a rilanciare il termine di «subalterno» che Ranajit Guha aveva ripreso direttamente dalla concezione marxiana di Gramsci, per riconfigurarlo nella prospettiva della voce della donna subalterna e non in quella della storia raccontata dagli altri, il patriarcato o gli stati coloniali.
Tra le sue opere più note si ricordano: «A Critique of Postcolonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present» (1999), «Death of a Discipline» (2003) e «An Aesthetic Education in the Era of Globalization» (2012).
In Italia, grazie alle traduzioni e le cure di Ambra Pirri, Angela D’Ottavio, Patrizia Calefato, Vita Fortunati, Lucia Gunella, Sandro Mezzadra e altri, alcuni suoi titoli, molti dei quali ormai fuori commercio, sono stati pubblicati per le case editrici Meltemi e ombre corte.
Il 6 giugno l’University of Paris, l’Institut Humanités et Sciences de Paris (Université Paris Diderot) e il CIPh (Collège International de Philosophie) hanno organizzato una giornata dedicata alla filosofa: «Pensée post-coloniale et genre. Rencontre autour de Gayatri Chakravorty Spivak». Il titolo della sua conferenza è stato «The Vanishing Present».
Il tradimento necessario che espone alla vita
La nuova edizione di «Of Grammatology» di Jacques Derrida con un’introduzione di Judith Butler
A quarant’anni dalla prima traduzione inglese, comparsa proprio a opera di Spivak, viene ora rieditata in una versione per la Johns Hopkins University Press
di Federico Zappino (il manifesto, 23.03.2016)
La prima traduzione, nel 1976, di Of Grammatology, a opera della femminista indiana Gayatri Chakravorty Spivak, diede nuova vita a De la grammatologie, di Jacques Derrida, uscito invece in Francia nel 1967: di fatto, aprì all’internazionalizzazione del pensiero del filosofo francese. Proprio per la natura dell’opera, tuttavia, il gesto di Spivak - questa sua impresa monumentale - sollevò non pochi interrogativi critici.
Due, i più pressanti. Come sarebbe stato possibile tradurre, e poi leggere, Derrida in un’altra lingua, alla luce del guanto di sfida gettato dal filosofo ai canoni della leggibilità? E come sarebbe stato possibile, in secondo luogo, che la traduzione inglese non fallisse miseramente nel catturare la «pienezza» dei «termini» attraverso i quali l’«originale» sottoponeva a decostruzione ogni termine?
A quarant’anni dalla prima traduzione in inglese, Spivak ritraduce oggi, e forse riscrive, Of Grammatology di Derrida (Johns Hopkins University Press, pp. 560, introduzione di Judith Butler). «Riscrivere» non va inteso come se Spivak ne divenga l’autrice o che rimpiazzi l’originale; piuttosto, significa che il concetto di autorialità, nonché quello di originalità, subiscono un disfacimento.
A ben vedere, la prima domanda ineriva alla capacità, da parte di Spivak, di farsi rappresentante dell’opera di Derrida, ossia di preservarne, o di istituirne, una qualche leggibilità. La seconda, invece, ineriva alla sua capacità di riconoscerla, ossia di tradirla ma ai fini della traduzione - e non il contrario. L’introduzione, potente, di Judith Butler, scritta per l’occasione di questa riscrittura,si esercita, in questo senso, in un tentativo di risposta: restituisce la storia di Spivak che traduce Derrida e la sua ricezione negli USA - una restituzione che è a un tempo una rappresentazione, e un gesto di riconoscimento. Ci sono due soggetti - ciascuno dei quali ha una propria consistenza- che si rincontrano, dopo quarant’anni.
E proprio perché si stanno rincontrando, proprio perché stanno ritraducendo l’occasione del primo incontro, o forse è la forza di quell’incontro a invocarne la ritraduzione, deve esserci qualcuno a riconoscere quel gesto, e a rappresentarlo. Né Spivak né Derrida hanno perso la voce. Non è detto, però, che essa riesca a essere immediatamente decifrabile. A volte non si riesce a parlare proprio perché si sta agendo. E la traduzione è un’azione stancante. La traduzione, infatti, altera retroattivamente il linguaggio di partenza con lo stesso gesto attraverso il quale torce, e potenzia, il linguaggio di arrivo.
Nessuno dei due codici, in altri termini, rimane identico a se stesso, dopo la traduzione. Il loro disfacimento è precondizione per la creazione di un linguaggio che è dell’ordine del molteplice. E la traduzione, nel suo senso più politico, svela l’illusione di ogni fantasia di sovranità.
Quest’occasione lo riconferma. Ci sono dei soggetti, da una parte, e c’è una presentazione, dall’altra. E quei soggetti pervengono a intelligibilità solo grazie a questa nuova presentazione. Con questo non significa che quei soggetti, e loro relazione, possano essere ridotti alla presentazione, ma significa senz’altro che questo loro nuovo incontro divenga intelligibile, nuovamente, solo attraverso una presentazione. La composizione di questo assembramento, d’altronde, lo consente. Né Derrida, né Spivak, né Butler hanno mai avuto nostalgia di un soggetto autofondato, di un soggetto, cioè, che entra nel discorso così come ne esce - un soggetto che non necessita di alcuna presentazione, e di alcuna traduzione.
D’altro canto, non sempre le presentazioni che fanno gli altri di noi, sono in grado di rappresentarci e di riconoscerci. In altre parole, si tratta di cattive traduzioni. Ma anche se la presentazione può essere una cattiva traduzione, in nessun modo tale eventualità ne intacca il suo carattere necessario - nessuno di noi potrebbe pervenire a esistenza, in assenza di una presentazione. Se ciò accadesse, infatti, sarebbe la vita stessa a essere forclusa dalla presentazione che il soggetto fa di sé: un soggetto che pur di restare aggrappato alla propria autodefinizione, esclude la possibilità della vita. Of Grammatology non può certo essere questo tipo di soggetto. Forse perché Of Grammatology non è propriamente un soggetto - ne è la crisi.
Più che un libro, Of Grammatology è la sua tomba. Cosa significa, oggi che Derrida non c’è più, rappresentare e riconoscere questo monumentale tentativo di mantenere aperta la traduzione, di porla in prima linea per affermare la deiescenza delle nostre categorie di pensiero più importanti, e per fare di questa deiescenza una necessità? Significa costringere il linguaggio a una trasformazione, che lo induce a uno spaesamento, che lo induce a un disfacimento. Ancora una volta, come quarant’anni fa. Che lo espone a un lutto. A un certo tipo di lutto necessario, ancora una volta, l’unico dal quale emerge, come ogni volta, la vita.