La scoperta fatta da ricercatori americani ha evidenziato una capacità che hanno l’uomo, alcune scimmie e i delfini
L’elefante si riconosce nello specchio indice di vita sociale complessa
di LUIGI BIGNAMI *
E’ in grado di farlo l’uomo, alcune scimmie e anche i delfini. Ora si è avuto modo di capire che anche gli elefanti, se messi davanti a uno specchio, sono in grado di riconoscersi. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences.
Le specie che possiedono questa caratteristica mostrano di avere una vita sociale molto complessa, superiore a quella di tutti gli altri esseri viventi. Spiega Joshua Plotnik, psicologo alla Emory University di Atlanta che ha seguito la ricerca: "Non vi sono dubbi che esistono chiare correlazioni tra l’abilità di riconoscersi in uno specchio e una forma di vita sociale molto avanzata che in qualche modo si avvicina a quella dell’uomo".
Alla conclusione Plotnik è giunto studiando, nello zoo di New York, il comportamento di tre femmine adulte di elefanti asiatici posti di fronte a uno specchio. Tutti e tre i pachidermi si sono comportati nello stesso modo: dapprima hanno voluto capire se c’era qualche loro simile dietro lo specchio, poi si sono strusciati lungo lo specchio stesso per verificare se l’immagine era di un altro animale e con la proboscide hanno ripetutamente compiuto movimenti per vedere se anche l’immagine riflessa si comportasse allo stesso modo.
L’elefante chiamato Happy ha poi superato la prova più significativa: quella di toccarsi ripetutamente una X bianca disegnata dietro l’orecchio che poteva vedere allo specchio ma non direttamente sul suo corpo. Questo significa che l’elefante pensava realmente che lo specchio riproducesse la sua immagine. "Il fatto che gli altri due elefanti non siano andati alla ricerca della X bianca può indicare che essi non erano interessati al segno e non che non si riconoscessero nell’immagine", spiega Plotnik.
Numerose sono state le prove eseguite prima di giungere alla conclusione proposta dal ricercatore, perché finché lo specchio non aveva almeno 2,5 m di lato non richiamava l’interesse degli animali. Quando essi potevano vedersi completamente sia da vicino che da lontano hanno iniziato a capire che c’era un "intruso" nella loro area e hanno voluto andare a fondo. Così si sono mostrati sempre più interessati alle figure che comparivano sullo specchio, finché non si sono riconosciuti in esse.
Questa capacità, secondo vari ricercatori, è segno che tali animali possiedono la capacità di avere un’empatia nei confronti dei propri simili e forse questo spiega anche perché gli elefanti dimostrano di percepire dolore quando uno del gruppo muore.
La scoperta tuttavia, richiede ancora ricerche e conferme. Piuttosto scettico infatti, è Moti Nissani, professore di Studi Interdisciplinari alla Wayne State University di Detroit (Usa): "Il comportamento di Happy è davvero affascinante, ma bisogna capire se è un’eccezione o se davvero si è riconosciuto allo specchio, anche perché gli altri due elefanti non hanno mai mostrato interesse in quella croce bianca. Le ricerche dunque, devono continuare". (31 ottobre 2006)
* www.repubblica.it, 31.10.2006
La filosofia tra noi e gli animali
di Donatella Di Cesare (il manifesto, 28.10.2006)
Si può stabilire un confine tra l’uomo e l’animale? E dove passerebbe tale confine? Intorno a questa domanda, spesso censurata nella storia della filosofia, ruota L’animale che dunque sono, un testo scritto da Jacques Derrida in occasione di un seminario tenuto a Cerisy-la-Salle nel 1997 (tradotto per Jaca Book da Massimo Zannini, con una introduzione di Gianfranco Dalmasso).
La questione dell’«animale» torna d’altronde spesso nelle sue opere e ne testimonia la simpatia per gli aspetti della vita animale più disprezzati. Di qui il rilievo attribuito alla domanda di Jeremy Bentham: «possono soffrire gli animali?». La sofferenza animale è il tentativo di aprire un varco in quella barriera che la filosofia ha eretto tra animale e uomo per cancellare in quest’ultimo ogni animalità. In un percorso che da Aristotele a Lacan, dalla Bibbia ebraica a Lewis Carroll, insegue aporie e paradossi del pensiero occidentale, senza lasciare inalterati facili biologismi vecchi e nuovi, il libro - per iniziativa dei curatori che hanno trascritto una conferenza solo registrata - sfocia in un confronto con Heidegger, dove viene alla luce una volta di più l’esigenza di ricominciare a pensare dall’animale, «l’altro in quanto tale», dalla sua alterità indicibile e irrappresentabile.
Eppure l’animale ci guarda, e noi siamo «nudi davanti a lui». Ma poi: «se l’animale rispondesse?».
SUL TEMA, cfr., ALL’INTERNO DEL FESTIVAL DELLA SCIENZA: GENOVA, DAL 26 OTTOBRE AL 7 NOVEMBRE 2006
Mostra
dal 26 ottobre al 7 novembre, dalle 09:00 alle 18:00 dal lunedì al venerdì, dalle 10:00 alle 19:00 il sabato e nei festivi
Palazzo della Borsa - Sala delle Grida Via XX Settembre 44
Specchi
Scienza e coscienza allo specchio
da 6 anni
Sono d’argento ed esatto. Non ho preconcetti. Prendo tutto quel che vedo Così com’è, senza farmi confondere da quel che mi piace o dispiace
Sylvia Plath
Lo specchio, il protagonista di questa mostra, è elemento di confine: non solo un tramite, come in Lewis Carroll, tra la nostra realtà quotidiana e una misteriosa “altra parte”, ma anche uno strumento per pensare e comprendere i nodi più affascinanti dell’arte e della scienza contemporanee. Il percorso si snoda infatti attraverso esperimenti scientifici e opere di grandi artisti e fotografi: Kértesz, Pistoletto, Mari, Vigo, Donzelli, Griffiths, De Vecchi e tanti altri. Un dialogo serrato tra arte e scienza che risponde a domande e suggestioni che sono di tutti.
Che cosa è il sé? Una entità, un “occhio” interno? O un costrutto, una ipotesi? Come e quando si forma l’autocoscienza? Gli animali hanno coscienza di sé? E i bambini?
Nella prima parte della mostra si vedrà quanto siano importanti gli specchi per rispondere a queste domande e quanto sia problematico nei bambini - e impossibile per la maggior parte degli animali - il riconoscimenti di sé allo specchio che, secondo gli scienziati, accompagna il formarsi dell’autocoscienza.
Sarà anche possibile vedersi “come ci vedono gli altri” nel true mirror - che non inverte le immagini - oppure osservarsi di spalle, di lato o da altre diverse prospettive in uno specchio che ritarda la restituzione della nostra immagine riflessa.
Nello specchio arriviamo alla fine a conoscerci, ma possiamo anche cambiare, trasformarci, perderci...Gli specchi possono avere preconcetti - e rifletterli. Oppure ingannarci. Si tratta di un grande tema insieme dell’arte e della scienza - affrontato nella seconda parte della mostra. in cui potrete travestirvi davanti agli specchi deformanti e sperimentare le diverse “realtà” che certi specchi rimandano.
Vedrete come, grazie alla capacità degli specchi di “ingannare” il cervello, neurofisiologi come Vilayanur Ramachandran sono riusciti a curare certe patologie, come quelle degli “arti fantasma”, e indagherete l’affascinante e complesso rapporto degli specchi con la luce, nella sezione a cura di Enel.
Il tema finale della mostra è l”enigma” degli specchi: la caratteristica, che attribuiamo loro normalmente, di “invertire” le immagini, di scambiare destra e sinistra e sopra e sotto. Avrete la possibilità di sperimentare il mondo “sottosopra” indossando occhiali che rovesciano quel che vediamo, come già fece nell’Ottocento George M. Stratton; di scrivere allo specchio come Leonardo da Vinci, di capovolgere la simmetria degli oggetti, delle figure, delle parole, del vostro volto; e, in ultimo, di moltiplicare la vostra immagine all’infinito, in ciascuna delle tre dimensioni.
Al centro della mostra la scienza, l’arte contemporanea, ma anche il cinema, con una spettacolare proiezione delle più famose sequenze in cui lo specchio è protagonista.
A cura di Simona Morini e Maria Perosino
Produzione a cura di Codice. idee per la cultura
Progetto di allestimento Progetto Media, Milano
Quattro conferenze collegate in programma:
Le scienze alla prova dello specchio
In tema anche il laboratorio "Il ritmo delle forme"
“Perché l’uomo è un animale empatico”
Un libro-conversazione del padre dei neuroni specchio Giacomo Rizzolatti racconta la scienza delle emozioni
colloquio di Antonio Gnoli (la Repubblica, 02.09.2016)
Uno degli effetti più sorprendenti della scoperta dei neuroni specchio riguarda la possibilità di indagare con maggiore efficacia i comportamenti sociali. Ciò che di solito era affidato alla psicologia e alla sociologia ha trovato una nuova sponda interpretativa nelle indagini sul sistema neurale. Non costituiremmo le nostre relazioni empatiche e interpersonali senza queste cellule nervose. Il loro venir meno o la scarsa capacità di attivarsi possono produrre differenti livelli di patologia e di deficit mentali. A questo punto può forse essere interessante affrontare in modo più preciso come certe dinamiche cognitive si intreccino con quelle sociali.
«È vero: conoscendo i meccanismi biologici, certi comportamenti sociali si possono indagare meglio e con maggiore profondità. Vorrei fare però subito una precisazione. La nostra ricerca, le nostre scoperte hanno mostrato nuovi importanti meccanismi biologici, ma non hanno un’applicabilità immediata né tantomeno rappresentano la panacea a difficoltà interpersonali. A volte, quando mi capita di parlare in pubblico di fronte a un uditorio di non specialisti, ho la sensazione che chi mi ascolta voglia da me proprio questo. Che gli spieghi non la base neurale di certi meccanismi sociali, ma che gli suggerisca degli esercizi, delle procedure per stare meglio. Più o meno una seduta di yoga su base scientifica. Mi torna in mente un episodio. Un giorno sono venute da me due ragazze, mi hanno raccontato che le relazioni umane in molti uffici della loro azienda erano difficili, tra impiegati ma specialmente con i loro capiufficio, che spesso si consideravano persone uniche e si comportavano con i sottoposti in maniera dura e scostante. E mi hanno chiesto consigli per migliorare la situazione. Ho tentato di spiegare che i nostri dati indicano che l’empatia è una condizione fondamentale, alla base della nostra natura, ma l’empatia non si accende o si spegne come fosse l’interruttore della luce. Il suo grado di realizzazione dipende da numerose condizioni esterne. Non è detto che tutte siano presenti o realizzabili al momento. E soprattutto io non ho mai inventato esercizi per migliorare l’empatia».
Questo aneddoto tocca un problema vero: ogni grande (o piccola) scoperta ha una ricaduta sociale. In fondo, penso che sia questo il compito democratico della scienza.
«La scienza - per come la concepisco io - non è solo un deposito di conoscenze specialistiche. È un bene per tutti, un arricchimento culturale. Come i Sonetti di Shakespeare, la Commedia di Dante o i quadri del Louvre. Una risorsa capace di migliorare le nostre capacità di ragionare, provare emozioni e non sottometterci a superstizioni antiche o moderne, vedi la follia della moda del “biologico” o la paura degli Ogm. In questo senso la scienza può avere anche ricadute sul benessere delle persone».
Quando parli di arricchimento culturale a cosa ti riferisci?
«Prendiamo per esempio il darwinismo. Ha cambiato la nostra visione del mondo. Non ha sminuito però la posizione dell’uomo nel creato, come pensano molti. Le scimmie non compongono sonetti né risolvono equazioni. Darwin ha descritto dei principi che si applicano agli animali e anche a noi, specie Homo sapiens. Oppure Freud: quando afferma che non siamo pure intelligenze, puri spiriti, ma un insieme di pulsioni, sta ponendo le basi per un modo nuovo e più corretto di pensare l’individuo. [...]».
Siamo arrivati ad affrontare il tema delle emozioni. Da dove si può partire?
«Nel mondo antico i filosofi definivano le emozioni “passioni”. E le vedevano con sospetto, momenti disturbanti della vita. Platone pensava che fossero una specie di “malattia dell’anima” contro la quale il saggio doveva combattere. Una posizione meno negativa assunse Aristotele. Per lui occorreva trovare un giusto equilibrio tra le passioni-emozioni e la ragione. Insomma, Aristotele toglieva loro la pericolosità, imbrigliandole in un discorso sulle virtù. A giudicare poi dal modo in cui le passioni-emozioni rientravano nei rituali dionisiaci, è difficile non riconoscere che il problema non era risolvibile con qualche ammonizione o divieto di natura teorica».
Cosa cambia con l’avvento della modernità?
«[...] Alla fine degli anni Sessanta del Novecento Paul Ekman si recò in Nuova Guinea per studiare se soggetti che non erano mai stati a contatto con la cultura occidentale fossero in grado di comprendere le emozioni degli occidentali. L’esperimento si svolse così: Ekman raccontò agli abitanti locali delle storie e chiese loro di scegliere, fra tre foto di volti di occidentali che esprimevano un’emozione, quale corrispondesse alla storia raccontata. Senza esitazioni i soggetti indicarono l’emozione giusta. Tornato a San Francisco ripeté l’esperimento contrario, chiedendo questa volta a studenti americani di collegare le espressioni dei guineiani alle storie raccontate. Di nuovo, i soggetti scelsero l’emozione giusta».
Quindi le emozioni non sono un fatto culturale, ma biologico?
«Credo che oggi tutti siano d’accordo che le emozioni, almeno quelle di base, siano universali e innate. Non c’è accordo però sul loro numero. In genere sono sette quelle incluse nel novero delle emozioni di base: paura, tristezza, gioia, disprezzo, disgusto, sorpresa e rabbia».
Ma ci sono anche emozioni legate a culture diverse?
«Possiamo dire che accade un po’ come nella musica. Una sinfonia non cambia, ha sempre le stesse note, ma ogni direttore d’orchestra la esegue in maniera personale, unica. Le emozioni di ordine superiore sono identiche nelle differenti culture, ma vengono espresse in maniera diversa, così come fanno i direttori d’orchestra rispetto alla partitura di un’opera. I giapponesi tendono a minimizzare l’espressione delle loro emozioni; altri popoli, le culture meridionali in particolare, ad accentuarla».
Oltre all’essere diffuse in tutte le culture, cosa caratterizza le emozioni di base?
«La durata nel tempo. Prendiamo per esempio la gioia. Un’esplosione di gioia dura alcuni secondi, raramente più di un minuto. Lo stesso vale per le altre emozioni di base. La loro breve durata le distingue da un altro aspetto non strettamente razionale dell’individuo: l’umore. Lo stato dell’umore che segue la gioia, la felicità, può protrarsi a lungo, anche ore. È interessante che, secondo lo stato dell’umore, cambia la nostra suscettibilità agli stimoli che causano le emozioni di base. Se siamo preoccupati, è facile che uno stimolo pressoché innocuo possa suscitare in noi uno scatto di rabbia. La cronaca chiama tale rabbia, quando produce effetti nefasti, “futili motivi”».
Intervista a Frans De Waal
«Anche gli animali hanno una morale»
«Seguono regole sociali e reagiscono alle ingiustizie»
di Cristiana Pulcinelli (l’Unità, 06.12.2013)
FRANS DE WAAL HA PASSATO UNA VITA A STUDIARE LE GRANDI SCIMMIE. NEL SUO NUOVO LIBRO («IL BONOBO E L’ATEO»,RAFFAELLO CORTINA EDITORE, PP. 322, EURO 28) si addentra però su un terreno considerato da sempre regno incontrastato dell’essere umano: la moralità. Il suo è quindi un punto di vista interessante perché nuovo, lontano dalle dispute filosofiche o teologiche. L’etica, sostiene de Waal, è nata dal basso, si è evoluta nel mondo animale e solo in un secondo momento la religione è intervenuta per rafforzare alcuni comportamenti.
La morale sembrava rimasta una caratteristica esclusivamente umana. Non è così?
«In quasi tutti i campi (cultura, politica, linguaggio, morale) gli esseri umani sono speciali, ma non unici. Quando analizziamo le capacità che sono alla base di ognuna di queste categorie, vediamo infatti alcune somiglianze con le altre specie. Prendiamo la politica: ha a che fare con il potere e comporta il darsi da fare perché i propri sostenitori siano felici. Ebbene, gli scimpanzé sono assetati di potere e condividono più cibo con i loro partner che con i rivali. Lo stesso vale per la morale. Non dico che gli scimpanzé o i bonobo siano esseri morali, ma hanno tutti gli ingredienti di base senza i quali noi umani non potremmo avere una morale: si prendono cura l’uno dell’altro, seguono le regole sociali, reagiscono alle ingiustizie».
La morale quindi scaturisce dall’empatia. Ma che cos’è l’empatia e quali animali la provano?
«L’empatia è l’essere sensibili alle situazioni e alle emozioni degli altri ed è presente in tutti i mammiferi. Probabilmente deriva dalle cure materne: che io sia una femmina di topo o di elefante devo prestare attenzione al fatto che i miei piccoli abbiano fame, freddo o siano in pericolo e devo reagire se si verifica una di queste condizioni. Questa origine spiegherebbe molte cose: il fatto che le donne hanno un livello di empatia più alto degli uomini, ad esempio, o perché l’ossitocina, un ormone della maternità, ha un effetto sull’empatia».
Qual è allora la differenza tra l’empatia di uno scimpanzé e quella umana?
«Non possiamo sapere cosa sentono gli animali. Quello che possiamo fare però è misurare come reagiscono in alcune situazioni. Gli scimpanzé e i bonobo, ad esempio, baciano e abbracciano quegli individui che soffrono perché hanno perso una battaglia o perché hanno paura di un serpente. Cercano di calmarli con quello che noi chiamiamo “comportamento consolatorio”. Lo stesso metro lo usiamo per misurare l’empatia nei bambini. Chiediamo a un membro della famiglia di piangere e vediamo come reagisce il bambino: anche lui consola la persona afflitta carezzandola e toccandola. Se due specie così vicine reagiscono nello stesso modo in circostanze simili, dobbiamo assumere che la loro psicologia e la loro esperienza sono simili».
Tra le specie non umane esiste qualcosa di paragonabile a quello che Adam Smith chiamava lo “spettatore imparziale”?
«Lo spettatore imparziale di Smith si impegna ad approvare o disapprovare un comportamento anche se quest’ultimo non lo coinvolge direttamente. La morale umana quindi non riguarda solo me e te o le persone che conosciamo, ma si applica a chiunque nello stesso modo. Questo richiede un certo livello di astrazione, delle regole generalizzate. In questo senso la morale umana è speciale: noi discutiamo i principi del nostro sistema etico e cerchiamo di giustificarli, mentre le scimmie antropomorfe non lo fanno».
Si è sostenuto a lungo che l’essere umano è nel suo profondo egoista e cattivo e che nasconde questa sua natura sotto una vernice di gentilezza grazie all’intervento della ragione. Sembra che questa teoria si sia dimostrata falsa, perché?
«Questa visione della natura umana divenne popolare intorno agli anni Settanta del secolo scorso con i libri di Richard Dawkins e Robert Wright. Si trattava di un messaggio antidarwiniano perché lo stesso Darwin credeva fortemente che ci fosse un continuum tra l’istinto sociale degli animali e la morale umana. La “teoria della vernice” per fortuna ha perso la sua attrattiva dopo le scoperte fatte da economisti, antropologi, psicologi e primatologi secondo cui noi abbiamo una naturale tendenza al prendersi cura, all’empatia e alla cooperazione. La scoperta dei neuroni specchio, avvenuta in Italia, ha mostrato che noi siamo fatti per relazionarci agli altri. E che, se ci interessiamo a loro, non è solo per il nostro interesse».
Quale ruolo svolge la religione nel modellare la nostra morale?
«La cooperazione e l’armonia sociale sono state sempre un vantaggio per la nostra specie, molto prima che nascessero le moderne religioni, ovvero circa duemila anni fa. Sono sicuro che i nostri antenati si sono presi cura l’uno dell’altro e si sono interessati della correttezza delle azioni per un milione di anni o forse più. Le cose cambiarono con la rivoluzione dell’agricoltura, circa 12.000 anni fa. Noi uomini cominciammo allora ad espandere le nostre società per includervi migliaia, milioni di persone. Le regole della reciprocità e dell’empatia e il monitoraggio del contributo di ognuno non funzionavano più. Diventava troppo facile imbrogliare. Un approccio dall’alto in basso divenne necessario per rinforzare la cooperazione, aiutato magari da una forza soprannaturale onnisciente che teneva d’occhio tutti e che prometteva il paradiso o l’inferno a seconda di quanto ti comportavi bene. In quest’ottica la religione odierna non è alla radice del senso morale, ma nasce come un modo per rinforzare il sistema. La grande questione è: quanto è essenziale questa aggiunta per il buon funzionamento di una società? E, se anche lo era in passato, lo è ancora?»
Un punto centrale del suo libro mi sembra il rifiuto di ogni dogmatismo, sia ateo sia religioso. Quali sono i danni di un atteggiamento dogmatico?
«Io non divido il mondo in credenti e non credenti, ma piuttosto in dogmatici e pensatori riflessivi. Ho poca pazienza con i primi, siano credenti o non credenti. Con la loro pretesa di essere razionali, il loro disprezzo per l’intreccio storico fra scienza e religione e la loro disponibilità a inimicarsi anche i credenti moderati, i neo-atei finiscono per cadere nella parte dogmatica dello spettro. La loro posizione è stata particolarmente dannosa al dibattito sull’evoluzione. Chi ascolterà i biologi che sostengono quanto sia ben documentata l’evoluzione se la prima cosa che esce dalle loro bocche è: “sei un idiota”? Per di più, l’ateismo è una posizione vuota. Tutto quello che fa è sostenere che Dio non esiste, mentre lascia senza risposte domande come: cosa fare con la nostra vita, dove trovarne il significato, perché siamo qui e come metterci in connessione con la società umana nel suo insieme.
Fortunatamente la gente si sta interessando ad argomenti più sostanziali.
Il mio libro affronta forse il più importante: possiamo avere una morale senza la religione e dove troveremo la forza e l’ispirazione per condurre una vita buona? Se ci pensiamo, l’Umanesimo non ha mai speso molta energia per combattere la religione o negare Dio, ma invece si è focalizzato su aspetti positivi, chiedendosi come forgiare una buona società utilizzando le naturali potenzialità umane. Il mio libro cerca di stabilire un legame con l’Umanesimo e in particolare con la sua tradizione olandese, fino a Erasmo, Hieronymus Bosch e Spinoza».
Test negli Usa: i primati sanno abbinare muso e glutei di esemplari che conoscono
La memoria si protrae nel tempo. Gli scienziati: "Fanno meglio di noi"
Scimpanzé, scimmie fisionomiste Riconoscono i simili in fotografia
di LUIGI BIGNAMI *
Gli scimpanzé portano con sé, impresso nel cervello, il ricordo di come sono fatti i propri familiari e anche alcuni conoscenti, una capacità che neppure gli uomini posseggono così elevata. Lo si è scoperto attraverso un esperimento che ha permesso di stabilire che i primati sono in grado di identificare con precisione individui con i quali sono venuti a contatto anche in tempi non prossimi, attraverso fotografie che mostrano separatamente la parte posteriore del corpo e le facce. Un’abilità che suggerisce che gli scimpanzé posseggono una rappresentazione mentale del corpo dei loro simili con cui vengono a contatto, e che tale immagine rimane indelebile nel loro cervello.
L’esperimento si è svolto mostrando agli scimpanzé natiche e facce di individui simili a loro. Le scimmie hanno mostrato notevoli capacità di "abbinare" le fotografie delle parti del corpo che appartenevano a medesimi individui, ma ciò succedeva solo nel caso in cui le natiche e le facce erano di scimpanzè conosciuti. "E’ noto che molti animali osservano parti del corpo di propri simili, come le zampe o le facce, e spesso ascoltano con attenzione la voce, ma in nessun esperimento si è potuto dimostrare che un animale è in grado di unire parti diverse appartenenti a medesimi individui. Mentre nel caso degli scimpanzé vi è una chiara evidenza della loro capacità di integrare parti differenti che appartengono ad un unico loro simile", ha spiegato Frans de Waal del Yerkes National Primate Research Center dell’Atlanta Emory University (Usa), il quale ha pubblicato la ricerca si Advanced Science Letters.
Esperimenti simili con gli uomini hanno dimostrato che la loro capacità di abbinare le parti posteriori del corpo con le facce di conoscenti non è così sviluppata come in queste scimmie. "E’ abbastanza ovvio che i vestiti interferiscono. Forse la capacità è superiore tra quelle tribù dove le singole persone vivono sempre nude o tra i nudisti", ha detto Waal.
"La ricerca ha dimostrato che questa particolare capacità di abbinamento è ancora più manifesta se appartengono ad un individuo della famiglia di sesso diverso rispetto a quello cui è stato sottoposto all’esperimento. "Per i maschi, questa abilità la si spiega facilmente, in quanto le femmine durante l’ovulazione tendono a gonfiarsi proprio nelle parti posteriori e questo fa si che i maschi rimangano fortemente attratti", ha detto Sarah Brosan, primatologa alla Georgia State University di Atlanta.
Una maestria, quella appena messa in luce, che si aggiunge alle molte altre che quasi portano a distinguere gli scimpanzè dal resto del regno animale e avvicinarli all’uomo per capacità e sensibilità. Di essi infatti, si sa che hanno un senso innato per insegnare ai propri simili, una "sensibilità" che li porta ad essere altruisti, oltre a possedere una capacità di linguaggio quasi unico nel regno animale, fino a rapportarsi con i computer con una velocità che è spesso superiore a quella di tante persone pur allenate ai giochi elettronici.
* la Repubblica, 2 ottobre 2008.
Anche gli elefanti fanno i conti con lo specchio
Di fronte allo specchio gli oranghi si avvicinavano di più e sporgevano le labbra verso l’immagine come per baciarla Charles Darwin Finora la scienza ci aveva assicurato che solo l’aristocrazia dei primati superiori fosse in grado di riconoscersi in una superficie riflettente. Ci si aspetta, infatti, che questa prerogativa sia associata a comportamenti sociali complessi, dotati di empatia e cooperazione La recente performance di Happy, un elefante che sembra riconoscersi allo specchio, mette in crisi le acquisizioni per cui questi animali sarebbero privi di prerogative così sofisticate. L’autocoscienza è
di Pietro Perconti (il manifesto, 09.12.2006)
Figurarsi un elefante davanti a uno specchio è un po’ come immaginarselo all’interno del famoso negozio di cristalli: goffo e fuori posto. Perché un elefante davanti a una superficie riflettente dà intuitivamente la sensazione di essere nel luogo sbagliato? Il motivo forse risiede nel fatto che per noi esseri umani gli specchi sono l’occasione per esercitare la nostra vanità, per esplorare minuziosamente il corpo e per preoccuparsi dell’aspetto fisico che abbiamo. Gli specchi sono nello stesso tempo utensili consueti nell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi e oggetti dotati di un valore simbolico speciale. Ricorriamo all’uso dello specchio quasi ogni giorno della nostra vita, eppure il confronto con una superficie riflettente può sempre rivelarsi un’esperienza turbativa. Probabilmente gli specchi sono gli artefatti che hanno più a che fare con la nostra coscienza, decisivi come sono nella vita ordinaria delle persone per la costruzione della propria identità personale.
Di fronte al test della macchina
Per esempio, di norma è proprio davanti agli specchi che scopriamo di essere diventati vecchi. Le reazioni altrui possono risparmiarci la durezza che solo la superficie piatta e levigata degli specchi è in grado di riservarci. Con le parole dello scrittore e medico Georges Duhamel: «Parlavo con Gilbert ... ed ecco che vedo, attraverso il fumo del sigaro, un volto sconosciuto: un uomo robusto, con le spalle larghe e il collo tozzo, una zazzera di capelli grigi quasi bianchi, un’espressione di forza e di stanchezza nello stesso tempo. Era di profilo, e quasi mi voltava le spalle. Penso: ’Da dove viene questo vecchio signore? Non ce l’hanno presentato’. In quel momento, faccio un gesto, e quell’uomo fa lo stesso gesto. Fu come aver ricevuto un pugno nello stomaco. Quel vecchio signore sconosciuto ero io».
Tutto ciò, almeno intuitivamente, sembra estraneo alla forma di vita di animali come gli elefanti. Per apprezzare cosa è uno specchio, infatti, bisogna essere in grado almeno di riconoscere la propria figura nel riflesso. Finora la scienza ci aveva rassicurato sul fatto che gli elefanti, al pari di moltissime altre specie animali, non comprendono che in un riflesso è possibile contemplare la propria figura. Daniel Povinelli, uno psicologo comparativo che lavora all’Università della Luoisiana negli Stati Uniti, in un esperimento del 1989 aveva notato che - messi di fronte a uno specchio - gli elefanti non erano in grado di riconoscere la propria immagine. Essi, infatti, non passavano il cosiddetto «test della macchia».
Qualche buona intuizione
Si tratta di una procedura sperimentale, originariamente elaborata dallo psicologo statunitense Gordon Gallup, che permette di saggiare il riconoscimento allo specchio in creature che non sono in grado di dire se nell’immagine vedono se stessi. Funziona così: si produce una macchia su un animale facendo in modo che non si renda conto dell’operazione. La macchia viene situata in una parte del corpo che non può esser vista se non tramite uno specchio. Si colloca quindi l’animale in un ambiente in cui c’è una superficie riflettente e se ne osserva la reazione. Se l’esemplare tocca continuamente la macchia o tenta di rimuoverla, se in generale esibisce un comportamento diretto verso il proprio corpo che non potrebbe avere se non ritenesse che l’immagine riflessa gli appartiene, allora probabilmente si rende conto di stare guardando la propria figura. Altrimenti non possiede la forma di consapevolezza necessaria a fare le giuste inferenze relativamente a se stesso.
Approfittare di uno specchio sembra insomma qualcosa che è possibile soltanto per creature che sono dotate di una forma benchè embrionale di autocoscienza. Gli elefanti di Povinelli non manifestavano tale sagacia. Eppure dovevano avere qualche buona intuizione sul genere di oggetti a cui appartengono gli specchi. Infatti, se nel riflesso vedevano del cibo, per afferrarlo si voltavano indietro, invece di cercarlo in ciò che stava loro davanti. Sembrava che fossero in grado di comprendere il meccanismo riflettente degli specchi, anche se non giungevano fino al punto di afferrare il fatto che una delle cose che vedevano riverberate erano proprio loro.
Questo è ciò che sapevamo sugli elefanti e gli specchi fino a poche settimane fa. Ma ora, grazie al lavoro di altri ricercatori, tra cui il celebre primatologo Frans de Waal, siamo indotti ad ammettere almeno un elefante nel circolo esclusivo di coloro che sono in grado di riconoscersi allo specchio. Contrassegnato con una vistosa croce da un lato della fronte e posto dinanzi a una estesa superficie riflettente, Happy - un esemplare ospite dello Zoo del Bronx a New York - tocca ripetutamente la parte segnata, a quanto pare incuriosito della strana circostanza.
L’esperimento ha avuto una vasta eco sui giornali statunitensi e britannici, tra cui il «New York Times», il «Washington Post» e l’«Economist». La performance di Happy desta sorpresa perché non ci si aspetta che un elefante possa esibire un comportamento così complesso. Riconoscere se stessi, infatti, di norma è la base per attribuire credenze e sentimenti agli altri individui. Ci si aspetta che il riconoscimento di sé sia associato a una serie di comportamenti sociali complessi, di tipo empatico e cooperativo, che non supponiamo presenti in animali come gli elefanti. Proprio a motivo dell’interesse che l’esperimento ha suscitato nei media internazionali, è opportuno notare che l’evidenza in questione non è in effetti molto robusta e che la prova andrebbe ripetuta con altri esemplari nonché replicata in contesti ecologicamente più significativi di uno zoo. D’altra parte, è evidente che si tratta di un dato su cui la comunità scientifica è chiamata a riflettere e su cui ciascuno può farsi una idea personale osservando i filmati di Happy sul sito Internet della rivista in cui è stata data la notizia dell’avvenimento (vedi la scheda).
Se davvero gli elefanti fossero in grado di riconoscersi allo specchio, dovremmo aggiungerli a quelli di cui già si conosceva questa abilità, scimpanzè, bonobo, esseri umani, oranghi, alcuni gorilla, ossia l’aristocrazia dei primati superiori. Molti altri animali sono stati messi alla prova davanti allo specchio, offrendo un campionario vario e talvolta divertente di reazioni. Sembra che, contemplando la propria figura, i fenicotteri rosa si eccitino sessualmente. I delfini, per parte loro, fanno un mucchio di capriole e circonvoluzioni davanti alla loro immagine macchiata, dando talvolta la sensazione di comprendere ciò che stanno vedendo. Molte scimmie, invece, hanno un comportamento meno amichevole e aggrediscono colui che ai loro occhi deve sembrare un intruso. In generale la risposta che è stata osservata più frequentemente è di tipo sociale, come se l’animale supponesse di stare guardando un altro individuo e rispondesse sulla base delle regole sociali della propria specie.
Che la questione sia cruciale, e non da poco tempo, lo dimostra - fra l’altro - il fatto che già Charles Darwin avesse fatto interessanti osservazioni a questo proposito: nel suo L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, ricorda di aver posto uno specchio tra due oranghi del Giardino Zoologico di Londra: «All’inizio essi guardavano le proprie immagini con la più grande sorpresa e spesso cambiavano il loro punto di vista. Quindi si avvicinavano di più e sporgevano le labbra verso l’immagine come per baciarla, esattamente come prima avevano fatto l’uno verso l’altro, quando erano stati messi alcuni giorni prima nella stessa stanza». Di fronte a tali comportamenti ci si potrebbe semplicemente godere lo spettacolo dell’ottusità animale davanti agli specchi, riservando ai malcapitati narcisi il genere di sufficienza con cui generalmente nella storia abbiamo trattato le altre specie animali. Sono informati da questa disposizione d’animo molti filmati amatoriali che si possono guardare su YouTube, uno dei principali siti Internet di consultazione e condivisione di brevi filmati (http://www.youtube.com). Ma non si tiene conto di due circostanze: la prima è che, come abbiamo notato, noi umani non siamo l’unica specie in grado di riconoscere la propria immagine riflessa.
La seconda è che negli stessi esseri umani la capacità in questione è più fragile di quanto si possa supporre. Generalmente i bambini non passano il test della macchia se non sono arrivati a due anni di età. Prima di questo momento guardano la loro immagine come se stessero osservando un altro bambino, oppure cercano di esplorare la superficie dello specchio battendo sull’immagine con le mani e leccando ciò che vedono. A circa diciotto mesi, forse quando cominciano a nutrire dei sospetti sul bimbo riflesso e sono però ancora imbarazzati da una scena di cui evidentemente non comprendono del tutto il significato, cominciano a evitare senz’altro quel compagno di giochi dispettoso che compie esattamente i loro stessi movimenti. Tale reazione, detta appunto di evitamento, sparisce solo quando il bambino diviene capace di riconoscersi nel riflesso.
Anche quando la capacità di riconoscimento è ormai raggiunta, non lo è purtroppo in modo sicuro e irreversibile: una causa delle strane esperienze speculari che talvolta si possono sperimentare è la stanchezza, come nel caso di ciò che è accaduto al vecchio Ernst Mach, nonostante la sua eccellenza di neuroscienziato ante litteram: «Tempo fa, dopo un faticoso viaggio notturno in treno, molto stanco, sono salito su un omnibus e ho visto salire un altro uomo dal lato opposto. ’Che triste - ho pensato - quel professore che è appena entrato’. Ero io: di fronte a me c’era solo un grande specchio. La fisionomia della mia classe sociale, evidentemente, mi era più familiare di quella di me stesso».
Quando il riconoscimento allo specchio non fallisce a causa della stanchezza, come nel racconto di Mach, può fallire per una malattia neurodegenerativa, come nel caso dell’autismo o del morbo di Alzheimer. Il ruolo dell’emisfero destro
Una serie di studi recenti suggeriscono che nel cervello umano vi sono circuiti neuronali dedicati al riconoscimento del proprio volto e che, quando sfortunatamente essi finiscono per essere danneggiati, il riconoscimento allo specchio va fatalmente incontro al fallimento. Scienziati di successo come Oliver Sacks hanno popolarizzato l’esistenza di strane sindromi come la prosopagnosia, a causa della quale un individuo può sperimentare una estrema difficoltà a riconoscere e memorizzare i volti delle persone che incontra. È meno noto però che ci sono casi di persone che, pur non essendo affette da questo genere di disturbi e avendo quindi normali capacità di riconoscimento delle facce altrui, non riescono tuttavia a riconoscere il proprio volto nel riflesso. Questo genere di pazienti sono affetti da una patologia nota proprio come «segno dello specchio», che di norma è causata da un danno all’emisfero destro del cervello. Sembra quindi che l’emisfero destro svolga un ruolo determinante nel riconoscimento della propria immagine.
Tale circostanza è stata provata anche ricorrendo a una recente tecnica investigativa, la stimolazione magnetica transcranica. Si tratta di una metodologia che permette di stimolare tramite un impulso magnetico esterno il sistema nervoso centrale inibendone in modo selettivo il funzionamento: è possibile, così, stabilire qual è il ruolo che una certa regione del cervello svolge nell’esecuzione di un determinato compito. Inibendo dunque l’attività della corteccia prefrontale dell’emisfero destro, si è scoperto che anche nelle persone sane la capacità di riconoscere il proprio volto può essere artificialmente compromessa, per poi ritornare nella norma una volta che l’effetto della macchina si sia esaurito.
Considerazioni istruttive
La capacità di riconoscersi allo specchio è dunque non soltanto una prerogativa di creature sofisticate al meglio delle loro capacità, ma è anche fragile: sono considerazioni istruttive riguardo a ciò che immaginiamo sia la nostra autocoscienza. Da una parte è chiaro che essere consapevoli di se stessi non può ridursi all’essere in grado di conoscere la propria immagine. La nostra vita interiore è fatta soprattutto di ricordi, conversazioni silenziose con noi stessi e sensazioni che non riusciamo a condividere con gli altri. Eppure, la semplice constatazione che una creatura non umana non sia indifferente alla propria immagine ci rende meno soli nell’ordine della natura - e forse mette anche noi all’interno di quel negozio di cristalli, alle prese con un senso del sé più delicato di quanto immaginavamo.
breve
Letture per indagare il senso di sé *
La reazione di animali e bambini davanti allo specchio è stata investigata con un certo metodo almeno dalla seconda metà dell’Ottocento. Il libro di Charles Darwin «L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali» risale al 1872 ed è pubblicato da Bollati Boringhieri. Ma l’interesse per gli specchi nel corso della storia è andato ben oltre la possibilità di indagare le basi della consapevolezza di sé. Si pensi soltanto al ruolo che gli specchi hanno avuto nella storia della scienza, a come per esempio la costruzione dei telescopi e il tentativo di comprendere il funzionamento della luce siano stati resi possibili dalle nuove tecnologie nella costruzione degli specchi sviluppate nel Seicento. Sabine Melchior-Bonnet ha scritto una interessante storia di questo genere di artefatti, dai primi rudimentali specchi di ossidiana fino alla guerra commerciale combattuta nel Seicento tra Venezia, che produceva i migliori specchi sul mercato, e la Francia di Colbert, che voleva rubare il segreto delle manifatture veneziane ad ogni costo («Storia dello specchio», Dedalo, 2002). Una storia in inglese, scritta con particolare attenzione all’uso degli specchi nella ricerca scientifica, è quella di Mark Pendergrast («Mirror Mirror: A History of the Human Love Affair with Reflection», New York, Basic Book, 2003).
Il saggio sugli elefanti che si riconoscono si deve a Joshua M. Plotnik, Frans B. M. de Waal e Diana Reiss. Si intitola «Self-recognition in an Asian elephant» ed è reperibile nella rivista «PNAS, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America» (Novembre, 2006, vol. 103, no. 45, pp. 17053-17057). Collegandosi al seguente indirizzo Internet è possibile vedere tre filmati degli elefanti «consapevoli»:http://www.pnas.org/cgi/content/full/0608062103/DC1.
Il riferimento bibliografico del resoconto di Povinelli sugli elefanti incapaci di riconoscersi è il seguente: D. J. Povinelli, «Failure to find self-recognition in Asian elephants (Elephas maximus) in contrast to their use of mirror cues to discover hidden food», Journal of Comparative Psychology, 103 (2), 1989, pp. 122-131.
Anche al Festival della Scienza di Genova, che si è svolto dal 26 ottobre al 7 novembre scorso richiamando di nuovo quest’anno decine di migliaia di visitatori, ha presentato una mostra sugli specchi: «Scienza e coscienza allo specchio». Alcune informazioni sono disponibili presso il sito del Festival: http://www.festivalscienza.it/.
* il manifesto, 09.12.2006
Riflessi mentali
Una intervista con Giacomo Rizzolatti, il ricercatore che ha scoperto i «neuroni a specchio»
di Luca Tancredi Barone (il manifesto, 31.10.2006)
La prima settimana del festival della scienza di Genova si è chiusa con le polemiche dell’arcivescovo di Genova Bagnasco che ha attaccato la più importante kermesse scientifica d’Europa sulla base dell’ eccessivo - a suo dire - laicismo che la caratterizzerebbe. Col risultato che ieri il Corriere della sera ne parlava in prima pagina: un risultato che neppure il ministro della ricerca Fabio Mussi con il capello scarmigliato vestito come superman e sospeso a mezz’aria era riuscito a ottenere venerdì scorso. Con più di 43mila biglietti venduti il quinto giorno (l’anno scorso erano stati 38mila) tutto lascia pensare che verranno superate anche le più rosee aspettative, fra palestre di matematica, incontri al caffè, conferenze, mostre, giochi, animazioni e spettacoli teatrali che sono sempre affollatissimi - anche se molti scienziati continuano a stupirsene.
Uno dei temi portanti di questa quarta edizione del festival è sugli specchi, a cui sono dedicate ben tre mostre e tre incontri fra neuroscienziati, filosofi, musicisti, scrittori.
Uno dei protagonisti è il neurologo in odore di Nobel Giacomo Rizzolatti, che ha scoperto i neuroni specchio. Una scoperta raccontata assieme al filosofo Corrado Sinigaglia nel libro So quel che fai - il cervello che agisce e i neuroni specchio, da poco pubblicato da Raffaello Cortina editore.
Secondo l’indiano Vilayanur Ramachandran, direttore del centro per il cervello e la cognizione dell’università della California a San Diego, quella dei neuroni specchio è una scoperta destinata a cambiare le neuroscienze tanto quanto la scoperta del Dna ha cambiato la biologia.
«Uno non può farsi i complimenti da solo - si schernisce Rizzolatti -. Se cambierà le neuroscienze lo dirà solo il futuro». Di certo comunque ci insegna a guardare la tradizionale distinzione fra mente e cervello in maniera diversa, come ha sottolineato a Genova Corrado Sinigaglia: piuttosto che partire dal nostro pregiudizio su come deve funzionare il cervello a partire dalla nostra idea di mente e di cognizione, la scoperta di come funziona il cervello davvero dovrebbe insegnarci a modificare le nostre idee sulla mente.
Un vero e proprio cambiamento di paradigma scientifico, come lo avrebbe definito Thomas Kuhn, di cui chiediamo conto a Rizzolatti. «È una scoperta importante - ci risponde - perché sottolinea l’aspetto motorio della nostra cognizione. Rispetto al modello classico delle scienze cognitive, che invece si basano sugli aspetti percettivi, e dunque sul "vedere", i neuroni specchio ci insegnano che alla base dell’apprendimento c’è l’azione».
Un cervello che agisce e dunque comprende, come scrive nel suo libro...
Alla base della nostra conoscenza c’è il fatto che sappiamo fare delle cose. Da questo poi si costruisce tutto il resto. Se le vediamo fatte dagli altri le comprendiamo. Esistono due tipi di conoscenza: una è scientifica, oggettiva, l’altra è esperienziale. Questa è la nostra vera conoscenza, quella basata sul sistema motorio e sulle nostre esperienze. L’altra è una conoscenza molto importante, ma successiva.
Come avete scoperto i neuroni specchio?
È successo all’inizio degli anni Novanta. Noi studiavamo le scimmie, usando un metodo diverso da quello americano. Piuttosto che studiarle in gabbiette dove dovevano magari pigiare un pulsante, abbiamo cercato di studiare il loro sistema motorio in un ambiente etologico più simile alla realtà. Siamo partiti, al contrario degli americani - che per ottenere i grant per forza tendono a prediligere i paradigmi vigenti - dalla considerazione che probabilmente i neuroni funzionavano in maniera più complicata di quanto non si credesse.
Qualcosa di nuovo infatti lo avete scoperto...
La prima cosa che abbiamo scoperto è che alcuni di questi neuroni non sparavano (cioè si attivavano, n.d.r.) in relazione a un dato movimento (chiudere la mano, piegare il braccio, ecc), ma in relazione a uno scopo (afferrare un oggetto, ad esempio). Una conferma ci viene da un esperimento in corso, in cui abbiamo ideato uno strumento che può essere attivato sia aprendolo che chiudendolo con due movimenti opposti. Ebbene, i neuroni che sparano sono esattamente gli stessi.
Ma la cosa più stupefacente che abbiamo visto è che il neurone sparava sia quando la scimmia compiva una azione - portare il cibo alla bocca - sia quando era lo sperimentatore a compierla. Una specie di dialogo fra noi e loro. Una cosa mai osservata prima, che ci lasciò perplessi.
E poi?
All’inizio pensavamo che la scimmia in qualche modo volesse imitarci. Ma la scimmia rimaneva immobile. E soprattutto gli etologi ci hanno detto che le scimmie non sanno imitare. Incidentalmente mi piace sempre sottolineare come l’imitazione sia una cosa bellissima. Prima i bambini devono imitare, solo dopo possono diventare creativi.
Così siete arrivati all’idea del neurone specchio? Un neurone motorio che si attiva sia quando si compie una azione, sia quando la si osserva. Insomma: i neuroni servono per imparare?
Alcuni filosofi non ci amano per questo. Pensano che minimizziamo il ruolo del linguaggio. Noi però non diciamo che c’è una sola maniera per imparare: c’è un meccanismo arcaico che c’è negli animali e c’è in noi. Poi ovviamente ci sono meccanismi di ordine cognitivo superiore che si integrano con questo. Ma grazie al neurone specchio la scimmia non solo capisce quello che facciamo, ma lo può prevedere. Quando mi vede prendere in mano il cibo, nella scimmia sparano anche in successione i neuroni dei movimenti della bocca. In qualche modo dunque una funzione psicologica così complicata come l’intenzionalità può essere spiegata con un meccanismo neurale semplice.
Il comprendere viene prima del linguaggio?
Sì, come avviene per i bambini. Ma il linguaggio si basa anche esso sulla capacità di imitare, che a sua volta si basa sul sistema dei neuroni specchio. Non basta. Oggi stiamo studiando anche i bambini autistici. E stiamo scoprendo che non solo il loro sistema specchio è deficitario, ma anche che hanno una difficoltà nell’organizzare il loro stesso movimento, la catena dei movimenti che negli altri porta all’attivazione dei muscoli della bocca subito dopo aver afferrato il cibo. Una ulteriore conferma del legame fra il movimento, i neuroni specchio e il meccanismo di empatia fra noi e gli altri.
Ansa» 2009-05-26 12:00
NEURONI SPECCHIO, UNO STUDIO ITALIANO INFRANGE LA TEORIA
ROMA - Potrebbero infrangersi in mille pezzi gli ’specchi neurali’ che ci consentono, o almeno finora si credeva, di capire gli altri, imitarli, provare empatia per loro. Infatti uno studio dell’Università di Trento pubblicato sulla rivista dell’Accademia Italiana delle Scienze ’PNAS’ sembra far cadere la teoria dei neuroni specchio negli uomini. Lo studio è stato condotto di Angelika Lingnau, Benno Gesierich e Alfonso Caramazza.
I ’neuroni specchio’, scoperti nelle scimmie da Giacomo Rizzolatti del Dipartimento di Neuroscienze all’Università di Parma, sono nella corteccia cerebrale a livello frontale e parietale e sono alla base della capacità umana di comprendere e riprodurre le azioni altrui. Funzionano proprio come uno specchio riproducendo nel nostro cervello azioni o stati d’animo osservati su qualcuno di fronte a noi.
Malgrado l’esistenza di un sistema di neuroni specchio nelle scimmie, afferma un comunicato dell’ateneo, finora l’evidenza di un tale sistema di neuroni negli umani è nel migliore dei casi incerta. Gli esperti avrebbero dimostrato ora che la teoria è fallace utilizzando una tecnica chiamata adattamento alla fMRI, basata sulla riduzione della risposta di neuroni a uno stimolo ripetuto più volte, durante l’esecuzione di un compito.
In questo modo é possibile controllare se una specifica area cerebrale è sensibile o meno a cambiamenti nelle proprietà di uno stimolo. I neuroni specchio dovrebbero esserlo, spiegano gli scienziati, indipendentemente dal fatto che l’atto sia osservato od eseguito.
Invece i risultati dimostrano che non è così, sostiene Caramazza - minando al cuore l’interpretazione dei neuroni specchio, secondo cui tali neuroni fornirebbero la base per il riconoscimento e l’interpretazione delle azioni; è improbabile che giochino un ruolo in funzioni complesse come empatia e comprensione del linguaggio o nella spiegazione di patologie cognitive come l’autismo".
Quei legami famigliari "scritti" nel cervello
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 11.08.2010)
La figura materna è l’archetipo della vita: madre che protegge, che si prende cura e che rinuncia a se stessa per i propri figli. Forse per questo motivo è difficile attribuire alle madri sentimenti negativi come l’odio e il risentimento, che in alcuni momenti possono essere emergere e che possono interferire nel rapporto coi figli soprattutto se questi stati d’animo, come scrive lo psicoanalista inglese Donald Winnicott, vengono ignorati e soprattutto negati. Come è ben noto per diventare madri si va incontro a grandi cambiamenti: in primo luogo fisici, basti pensare alla gravidanza, e poi trasformazioni psicologiche dell’identità femminile fino al nuovo ruolo sociale che viene ad assumere la donna.
Ma anche il cervello delle madri va incontro a grandi cambiamenti proprio perché una madre deve essere particolarmente capace di proteggere il figlio, di anticipare e prevenire i possibili pericoli, di provvederne alla cura e all’alimentazione. E madri non si nasce ma si diventa, come affermano due neurobiologi, Craig Kinsley e Kelly Lambert, che hanno studiato gli effetti della gravidanza e della maternità sul cervello materno in campo animale. Mettendo a confronto topoline madri che avevano da poco figliato con topoline vergini, si è visto che le prime erano in grado di trovare il cibo nascosto in un labirinto in 3 minuti, mentre queste ultime riuscivano a trovarlo solo dopo 7 giorni. Da questo studio è evidente la superiorità delle topoline madri nell’orientarsi nello spazio e nel ricordare gli indizi ambientali per trovare il cibo per la propria prole.
Ma che cosa succede nel cervello delle madri? In gravidanza si verifica un vero e proprio bagno di ormoni, estrogeni e progesterone, che non solo inducono le trasformazioni dell’utero e della placenta ma influenzano la stessa struttura del cervello. In primo luogo i neuroni cerebrali assumono dimensioni maggiori e si modificano anche sul piano biochimico con l’attivazione di determinate aree cerebrali, un vero circuito cerebrale materno. Si tratta delle regioni limbiche, ipotalamiche e del tronco cerebrale che influenzano il comportamento materno per cui le madri sono più attente e recettive ai segnali e ai comportamenti del figlio.
Se si potesse guardare dentro la testa delle madri si potrebbe constatare la particolare attività dell’emisfero cerebrale destro nell’accudimento e nell’amore per i figli. Infatti se si osserva come le madri tengono in braccio il figlio, lo prendono prevalentemente col braccio e con la mano sinistra, molto più dei padri e delle donne che non hanno ancora avuto un figlio. Questa particolare posizione viene assunta in modo istintivo e permette di tenere il figlio nella parte sinistra dello sguardo, ossia quella che comunica direttamente con l’emisfero cerebrale destro, maggiormente coinvolto nell’attaccamento al figlio e nelle risposte emotive.
L’amore che la madre prova per il figlio è una specie di innamoramento, che comporta un intenso compiacimento quando si sta insieme e si comunica. Due ricercatori dell’University College di Londra, Bartels e Zeki, hanno studiato con la Risonanza Magnetica il cervello delle madri e quello delle persone innamorate ed hanno scoperto che sono attivate aree cerebrali sovrapponibili. Si tratta di aree cerebrali in cui sono presenti recettori del sistema di ricompensa, ossia legati al neuro-ormone dopamina che suscita quelle sensazioni piacevoli tipiche di chi è innamorato, ma anche di altre aree ricche di ossitocina e di vasopressina, neuro-ormoni che influenzano il legame di attaccamento. Ma quello che stupisce di più è il fatto che in entrambi i casi avviene una disattivazione delle zone cerebrali legate al giudizio sociale e al riconoscimento delle emozioni negative, la spiegazione scientifica del detto napoletano "ogni scarrafone è bello a mamma sua".
Anche le recenti ricerche da noi effettuate ci consentono di comprendere il rapporto empatico fra madre e figlio. Quando le madri osservano le diverse espressioni emotive del proprio figlio si attivano le zone cerebrali in cui sono presenti i neuroni specchio che permettono di rivivere l’esperienza dell’altro anche soltanto osservandola. In questo modo le madri sono in grado di mettersi nei panni del figlio e comprenderne gli stati d’animo e le motivazioni. E’ indubbio che queste nuove ricerche in campo neurobiologico siano in grado di andare aldilà dello "strato roccioso", che secondo Freud costituirebbe il limite biologico all’esplorazione della mente umana.
Chi ha paura dei neuroni specchio?
di Anna Meldolesi (Corriere La Lettura, 15.06.2014)
Se piangi guardando un film drammatico la colpa è dei neuroni specchio. Se ti intenerisci davanti al bacio di due innamorati, il merito è di queste cellule dal nome suggestivo. Se le risate e gli sbadigli ti contagiano, gira gira il meccanismo è sempre quello. L’idea di avere dentro al cervello dei piccoli strumenti capaci di riflettere ciò che provano gli altri, generando empatia, è semplice e potente. Finora ne abbiamo sentito parlare come della scoperta più affascinante delle neuroscienze degli ultimi vent’anni e ne siamo andati orgogliosi, perché è avvenuta in Italia. Ma c’è una pattuglia di ricercatori che la descrive invece come la scoperta più sopravvalutata della psicologia e intende demolirla.
The Myth of Mirror Neurons («Il mito dei neuroni specchio») è il titolo di un libro che uscirà in agosto negli Stati Uniti. Lo firma Gregory Hickok, neuroscienziato cognitivo dell’Università della California a Irvine. Ma a fare rumore è soprattutto il sostegno espresso a questo libro dallo psicologo e linguista Steven Pinker, probabilmente la penna più brillante delle neuroscienze: «Ogni tanto - sostiene - c’è qualche scoperta che esce dai laboratori e prende vita propria». Sembra offrire «una spiegazione per tutti i misteri, una conferma dei nostri desideri più profondi» e diventa un’esca irresistibile per giornalisti, studiosi di altre discipline, artisti, affabulatori. Pinker ricorda che in passato è accaduto con alcune idee della meccanica quantistica e della relatività, fraintese e trasformate in suggestioni. Ed è convinto che stia succedendo anche con i neuroni specchio, a cui vengono attribuite funzioni immaginifiche e mai sperimentalmente dimostrate.
I sostenitori più ardenti di queste cellule, dentro e fuori l’accademia, le hanno incaricate di spiegare quasi tutto: dall’orientamento sessuale all’amore per la musica, dal linguaggio alla costruzione della pace. Era il 1992 quando un gruppo dell’Università di Parma riferì di aver trovato nella corteccia premotoria dei macachi una nuova classe di cellule «sensibili al significato delle azioni». Questi neuroni avevano la sorprendente capacità di attivarsi non solo quando una scimmia svolgeva un certo atto motorio, come afferrare un oggetto, ma anche quando vedeva un altro esemplare compiere lo stesso gesto. Giacomo Rizzolatti e colleghi, perciò, hanno ipotizzato che funzionassero come dei simulatori di realtà virtuale, che replicavano all’interno del cervello ciò che accadeva al di fuori, decodificando il comportamento degli altri.
Nel frattempo questo campo di indagine è cresciuto fino a contare oltre 800 articoli scientifici, anche se ripetere sull’uomo gli esperimenti invasivi svolti sulle scimmie non è possibile. Bisogna accontentarsi di spiare dall’esterno l’attivazione delle aree cerebrali o sbirciare dentro con il permesso dei pazienti operati al cervello per altri motivi. Ancora prima di riuscire a dimostrare la loro esistenza nella specie umana, comunque, i neuroni specchio erano già diventati il nuovo baricentro della nostra umanità. Vilayanur Ramachandran, neuroscienziato famoso per il suo lavoro sugli arti fantasma degli amputati, ha pronosticato che «i neuroni specchio avrebbero trasformato la psicologia come il Dna aveva fatto con la biologia». Ha tenuto una conferenza Ted intitolata I neuroni che hanno plasmato la civiltà. Ha attribuito loro l’ipotetico «big bang cognitivo» che centomila anni fa ci avrebbe fatto compiere il salto di qualità in quanto specie che parla, inventa, trasmette la propria cultura.
Lo scienziato di origine indiana non è il solo. In molti si sono abbandonati a speculazioni tanto seducenti quanto spericolate, perché prescindono dai fatti accertati in laboratorio. Lo stesso Rizzolatti, che quest’anno ha vinto il prestigioso Brain Prize, si è detto meravigliato su «Psichiatria online» per l’entusiasmo di «media, psicoanalisti, sociologi e persone che di solito non sanno nemmeno cosa sia la neurofisiologia». I critici invitano a fermare questo circo e puntano il dito su alcune debolezze intrinseche della scienza dei neuroni specchio. Ritengono che l’attivazione di queste cellule potrebbe non essere la causa ma la conseguenza della comprensione delle azioni degli altri e ipotizzano il coinvolgimento di reti neurali complesse. Giudicano poco convincente anche la teoria secondo cui la rottura del sistema dei neuroni specchio spiegherebbe l’autismo. «Non c’è ancora una ricerca che dimostri che questi neuroni siano vitali per l’empatia umana, e ci sono delle ragioni per credere che l’empatia sia possibile anche senza di essi», ha sostenuto su «Wired» Christian Jarrett, il cui libro Great Myths of the Brain («I grandi miti del cervello») uscirà ad ottobre in Gran Bretagna. Possiamo anche chiamarli i «neuroni di Gandhi», come fa qualcuno, ma nei prossimi mesi saranno loro a far litigare gli scienziati.
Festival scienza
Gli steccati del monsignore
di Franco Carlini (il manifesto, 31.10.2006)
Benissimo ha fatto Angelo Bagnasco, arcivescovo metropolitano di Genova a esprimere le sue critiche al Festival della scienza in corso in questi giorni. Non ci metterà piede perché «mi pare un po’ a senso unico, in direzione laicista». Con questa pubblica dichiarazione, argomentata più diffusamente nella lezione teologica tenuta sabato a Sanremo, il prelato ha fatto cadere gli equivoci su cui molti si erano adagiati, laici credenti e non credenti. Ha volutamente demolito la consolatoria idea che tra i due approcci al mondo ci possa essere un dialogo fecondo dove gli uni e gli altri imparano, a partire dalle proprie ricerche e dai propri valori.
Bagnasco, che fu allievo del più anticonciliare tra i cardinali italiani, Giuseppe Siri, rimette le cose a posto (a modo suo) e ci ricorda che si tratta di due grandi narrazioni che entrambe aspirano al rango di verità e che perciò sono, in ultima analisi, tra loro antagoniste. Così come le tre religioni monoteiste restano ognuna convinta di essere la migliore, anche quando dialogano.
La scienza occidentale, a dire il vero, non ha mai avuto questa pretesa, almeno nei suoi cultori più seri. Piuttosto ha sempre sostenuto che le sue sono verità provvisorie, pronte a essere superate, purché ciò avvenga all’interno di un metodo scientifico, appunto. Alcuni tra i ricercatori sembravano aver trovato la pace delle idee dicendo che gli ambiti delle due ricerche sono separati: la scienza si occupa solo del come vanno le cose nel mondo fisico e le religioni semmai si occuperanno dei perché, argomento sul quale la ricerca nulla può dire. I teologi più aperti a loro volta dicevano che se il mondo è stato creato da Dio, allora lo studiarlo è soltanto una buona esplorazione di quel disegno.
Come noto si fa scienza per applicarla al mondo e, prima ancora per amore di conoscenza. Ma a Bagnasco non va bene né l’una né l’altra motivazione: «La ricerca scientifica deve essere ordinata non già all’utilità sociale e non può esserlo nemmeno a se stessa: una scienza del tutto libera, senza nessun vincolo, come oggi si sente dire, è destinata all’autodistruzione».
E’ una tesi pesante, una rivendicazione di egemonia sempre e comunque che non discende da un dialogo nel mondo né da uno interno alla chiesa cattolica: lo conferma il ridimensionamento dei laici credenti al convegno delle chiese d’Italia, in Verona.
Oggi riemergono le offese mai digerite, Voltaire e Darwin, e si rialzano gli steccati con la modernità in nome di verità che autorità autoreferenziali dichiarano indiscutibili. Non ci si stupirà se di fronte a una tale pretesa così manifestamente irrazionale e irruente, scienziati di vaglia come il filosofo Daniel Dennet e il biologo Richard Dawkins abbiano pubblicato libri infuocati in nome dell’«ateismo» (che in America è termine più tecnico e meno connotato che da noi) per esempio scrivendo: «Io attacco Dio, tutti gli dei, qualsiasi cosa di soprannaturale, dovunque e ogni volta che sia inventata» (La delusione di Dio, di Richard Dawkins).
L’arcivescovo: vade retro, scienza
di Pietro Greco *
«La fede non ha bisogno del Festival». Le parole di Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, hanno rattristato ma non stupito molte delle persone giunte a migliaia nel capoluogo ligure per partecipare alla quarta edizione del Festival della Scienza, dedicato quest’anno alla scoperta. Le hanno rattristate per una certa gratuità. Alla gran parte di loro il Festival della Scienza di Genova, il più grande e variegato d’Europa dopo quello di Edimburgo, non è apparso affatto venato di quel laicismo - di quel pensiero unico - che invece vi ha scorto l’arcivescovo. E non solo perché tra le centinaia di relatori ve ne sono alcuni come il priore di Bose, Enzo Bianchi, che rappresentano al meglio il pensiero cattolico. Ma soprattutto perché la gran parte di quelle centinaia di relatori è giunta a Genova convinta di essere portatrice di un sapere provvisorio, non di un’ideologia politica o di una fede religiosa. Un sapere, quello scientifico, che per sua natura è fallibile e criticabile, fondato sullo scetticismo sistematico (nella scienza non vale l’ipse dixit). E che non accetta di essere cristallizzato in una dimensione assoluta, gelato in una logica di appartenenza.
D’altra parte è possibile dimostrare che le differenze, talvolta persino le divergenze, tra i protagonisti del Festival sono elevatissime. E non solo sui temi politici o religiosi, ma spesso anche sui temi culturali e persino scientifici. Differenze e persino divergenze che, tuttavia, con un metodo che costituisce il fondamento del principio e della prassi della democrazia, si confrontano - spesso anche duramente - ma non si combattono. A maggior ragione in una festa, una festa popolare, in cui la dimensione gioiosa rende inutile - persino ridicola - ogni tentazione militante.
Non è facile polemizzare con la scienza (sia chiaro, è invece possibile e talvolta utile polemizzare con gli scienziati). Ma è davvero difficile - un po’ sopra le righe - polemizzare con una festa della scienza. Per questo la sortita dell’arcivescovo ha rattristato molti. Ma non ha stupito. Non tutti, almeno. Quando, infatti, monsignor Angelo Bagnasco è entrato nel merito ha pronunciato parole - contro la ricerca scientifica che risponde al bisogno di utilità sociale o insegue la sua libertà, insofferente a vincoli esterni - che vanno oltre la (presunta) parzialità del Festival. E che non sono nuove.
Non aveva forse il papa, Joseph Ratzinger, espresso concetti analoghi la scorsa settimana a Verona, quando aveva paragonato la scienza a Icaro, che per amore di libertà si avvicina troppo al Sole e causa la sua stessa rovina? L’idea, legittima, di Ratzinger è che occorre applicare alla scienza dei principi etici che sono fuori dalla scienza. Che sono nella fede. Una posizione difficile da accettare per un laico, quando quella posizione esce dalla comunità dei credenti e si propone come regola sociale se non come legge dello Stato. Difficile da accettare soprattutto da chi crede che le capacità di esprimere valori etici non siano il frutto di una volontà trascendente, ma di quell’evoluzione biologica che la scienza studia e, per larga parte, spiega. Difficile da accettare, in definitiva, per chiunque tende a fondare l’etica su valori laici, accessibili all’uomo attraverso la ragione. E non necessariamente attraverso la fede.
E non era stato lo stesso Benedetto XVI un mese fa all’università di Regensburg a parlare dei limiti epistemologici della scienza, a suo dire incapace di rispondere agli interrogativi propriamente umani del «da dove» e del «verso dove», e a invocare una nuova razionalità che vada oltre le certe dimostrazioni matematiche e le sensate esperienze empiriche tipiche della razionalità scientifica? Una posizione ancora una volta legittima, sia chiaro. Ma difficile da accettare per ogni scienziato (e per ogni laico), che in quelle parole scorge la possibilità che - nell’era dei teocon e dei teodem - la teologia e, più in generale, la religione tornino a rivendicare con forza una loro priorità assoluta non solo in un confronto astratto con la scienza, ma nella quotidiana pratica scientifica.
Non stupisce, dunque, che l’arcivescovo di Genova attacchi la festa della scienza che da quattro anni porta lustro internazionale alla sua città. La sensazione è che, affermando che la fede non ha bisogno del Festival, il cardinale sia andato sopra le righe. Ma non troppo. Che abbia espresso, con toni duri, un clima - forse un progetto - culturale che va diffondendosi nella Chiesa di Roma ma anche in altri ambiti religiosi (tra i cristiani protestanti, come in America, e tra i musulmani, come succede in molti paesi islamici) che non fa bene né alla fede né alla scienza.
Sergio Cofferati si è trovato di fronte a un’altra manifestazione del medesimo progetto quando due giorni fa ha letto che la Curia di Bologna considera «un’invasione barbarica che oltraggia la fede e la ragione» una manifestazione artistica realizzata da omosessuali. E ha giustamente reagito, sostenendo che «la libera espressione nell’arte e nella cultura rappresenti una delle grandi conquiste dell’uomo nell’etica moderna e sia la ricchezza del vivere civile in uno stato laico. Solo la censura, il pregiudizio e l’intolleranza rischiano di riportarci al tempo dei barbari».
Non c’é né in Cofferati, né (più modestamente) in noi - e, per la verità, neppure nel Festival della Scienza di Genova - alcun atteggiamento laicista. C’è solo un atteggiamento laico. Simile a quello del cardinale Carlo Maria Martini, che qualche settimana fa ha avuto una laurea honoris causa presso l’Istituto San Raffaele di Milano di don Luigi Verzé.
Da tempo l’ex arcivescovo di Milano invita a fare quello che migliaia di persone stanno facendo in questi giorni a Genova: «guardare con stupore alla realtà in cui viviamo», prendendo atto «con timore e trepidazione, e insieme con ammirazione» dell’universo che la scienza va scoprendo. Carlo Maria Martini riconosce i limiti della scienza e della tecnica: le cui conquiste «destano da una parte meraviglia e gratitudine e dall’altra suscitano preoccupazione». Ma riconosce anche i limiti della teologia, che «non deve pretendere di colmare i "buchi neri" (della scienza, ndr) con ipotesi che introducono soluzioni trascendenti in problemi che vanno invece lasciati al controllo empirico, mediante osservazioni ed esperimenti».
Il cardinale consiglia di far conto soprattutto sull’uomo pensante «che accetta volentieri un orizzonte continuamente mutevole». Che «non vive di sole certezze, senza porsi dubbi, bensì, stupito e meravigliato». Che «si rimette ogni volta in gioco, facendo della domanda e del dubbio la molla vitale per una ricerca onesta, animata da interrogativi incessanti, nella speranza di una risposta che apra la porta a nuove domande». Un uomo che, dotato o meno della fede, ha bisogno della scienza. E anche dei suoi festival.
* www.unita.it, Pubblicato il: 31.10.06 Modificato il: 31.10.06 alle ore 8.47
Jane, una vita con gli scimpanzè. «Mica ragionano solo gli uomini»
di Leonardo Zellino
La regina degli scimpanzé. Quando per la prima volta Jane mise piede nella selvaggia foresta che si affaccia sulle sponde del lago Tanganyka, in Tanzania, loro fuggirono impauriti. Lei, Jane, era una giovane inglese bionda e attraente, ma loro si spaventarono lo stesso. «Scapparono tutti tranne uno: una scimmia che presto si sarebbe chiamata David. Era il 1960». E fu proprio David ad accompagnare Jane nel regno degli scimpanzé. Comincia così la storia di Jane Goodall, la primatologa più importante esistente al mondo. Ieri, Jane era in Italia, a Roma, per promuovere uno dei suoi tanti progetti, il «Sanganigwa Childrens’s Home» che aiuta i bambini della Tanzania orfani a causa dell’Aids. Nella sede del Parco dell’Appia Antica, dove ha inaugurato una mostra fotografica sull’Africa, la Goodall ha lanciato messaggi ambientalisti e raccontato i suoi 38 anni di convivenza con le scimmie del Gombe Stream National Park della Tanzania. Adesso i capelli di Jane sono bianchi, ha 72 anni e una serie riconoscimenti alle spalle: è Messaggero di Pace dell’Onu, medaglia d’oro dell’Unesco, Dama dell’Impero Britannico, premio Kyoto del Giappone e Legione d’Onore, solo per citarne alcuni.
L’Organizzazione che ha fondato nel 1977 a San Francisco e che si impegna per la protezione degli scimpanzé e del loro ambiente, la Jane Goodall Institute, ha 26 sedi in tutto il mondo, anche in Italia. Insomma, Jane è un «mito vivente» per gli amanti della natura. Come ogni glorioso viaggio, sono i primi e difficili passi che contribuiscono a creare il mito. Era il 1957 quando Jane decise che era ora di inseguire i sogni coltivati leggendo le avventure di Tarzan. Mise da parte un po’ di soldi lavorando come cameriera e partì per la Tanzania. Pochi mesi dopo il suo arrivo incontrò il famoso antropologo Louis Leakey che si entusiasmo per quella ragazza che voleva studiare una specie animale, di cui fino ad allora si sapeva poco e che si trovava a suo agio tra quei primati. Fu il dottor Leakey a convincerla al ritorno in Inghilterra: prima bisognava studiare.
«A Cambridge mi spiegarono che tutto quello che avevo fatto prima era sbagliato», ha detto ieri la Goddall. «Innanzitutto non dovevo chiamare gli scimpanzé con un nome, ma solo con un numero. E poi non dovevo parlare di "mente", "personalità" e "emozioni". Queste qualità dovevano essere appannaggio solo dell’uomo. Mia madre, però, mi aveva insegnato a far valere con coraggio le mie idee». Jane, con i suoi studi, è stata la prima a dimostrare che gli scimpanzé possono ragionare, costruire utensili, provano emozioni ed hanno un certo grado di conoscenza. Per queste scoperte «devo dire grazie, oltre che a mia madre e a David, anche allo scimpanzé "Fifì" e al mio cane "Krasty"», ha spiegato la primatologa.
È studiando le scimmie che Jane ha iniziato a porsi una domanda: «Perchè l’animale più intelligente, l’uomo, sta distruggendo il mondo?». È allora che ha iniziato a darsi da fare. Oggi la Goodall viaggia «300 giorni l’anno» per costruire «una rete internazionale che salvi il mondo». Con una speranza nei giovani: «Sono loro che capiscono come stanno le cose, che amano gli animali e che possono convincerci a prendere le decisioni giuste per il futuro».
* l’Unità, Pubblicato il: 03.12.06 Modificato il: 03.12.06 alle ore 13.22
CERVELLO
I ciechi "vedono" il mondo
La scoperta di un team italiano
I non vedenti possono conoscere l’ambiente in cui si muovono attraverso gli altri sensi. I ’neuroni-specchio’ si attivano allo stesso modo delle persone vedenti *
PERCEPIRE e conoscere il mondo esterno anche quando gli occhi non funzionano è possibile, ma non c’è bisogno di nessuna protesi. Infatti, il cervello umano è in grado di "vedere" la realtà che ci circonda grazie ad una vera e propria regia, capace di ricavare informazioni utili da tutti e cinque i sensi. Infatti, cellule nervose finora considerate il motore dell’imitazione visiva, i cosiddetti neuroni specchio, funzionano perfettamente anche in chi è cieco dalla nascita.
E’ quanto emerge da una ricerca italiana pubblicata sul Journal of Neuroscience e coordinata da Pietro Pietrini, direttore del dipartimento di Medicina di laboratorio e Diagnostica molecolare dell’Azienda ospedaliera universitaria di Pisa. Lo studio è stato condotto in collaborazione con la cattedra di Psicologia clinica diretta da Mario Guazzelli e con il Centro di Risonanza magnetica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) di Pisa.
"Ci siamo chiesti se il sistema dei neuroni specchio fosse strettamente dipendente dall’esperienza visiva, oppure se fosse in grado di svilupparsi anche in assenza di questa e di rispondere anche ad altri stimoli, come quelli sonori", spiega Emiliano Ricciardi, uno degli autori della ricerca. Per trovare la risposta gli studiosi hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale per osservare come risponde ad alcuni stimoli il cervello di un gruppo di volontari con cecità congenita e un gruppo di vedenti. I due gruppi dovevano riconoscere azioni presentate attraverso immagini e suoni. Si è visto così che i neuroni specchio dei non vedenti si attivano al suono di un’azione compiuta, come quelli prodotti bussando alla porta o piantando un chiodo. E che l’attivazione era simile a quella osservata nei volontari che vedevano compiere la stessa azione e sentivano i relativi rumori.
"I risultati dimostrano che il cervello è organizzato in modo più articolato di quanto si credesse e che utilizza tutte le informazioni, a prescindere dalla singola attività sensoriale", rileva Pietrini. Il cervello è insomma una macchina complessa "programmata per svilupparsi anche quando manca l’esperienza visiva". Di conseguenza "in termini di educazione il cervello dei non vedenti non ha differenze grazie a questa capacità di riorganizzazione plastica. La vista resta importantissima, ma adesso sappiamo che la capacità di rappresentare il mondo esterno non dipende strettamente da questa".
* la Repubblica, 12 agosto 2009