L’America scoperta dai cartaginesi. Duemila anni prima di Colombo
È la straordinaria tesi di Lucio Russo
Un libro che farà discutere e che rivoluzionerà il pensiero contemporaneo
Lo storico della scienza avvalora la sua tesi con prove inconfutabili
di Pietro Greco (l’Unità, 01.07.2013)
I CARTAGINESI SONO STATI I PRIMI MEDITERRANEI A SBARCARE IN AMERICA. Duemila anni prima di Cristoforo Colombo. Ora ne abbiamo la prova. Matematica. L’ha trovata Lucio Russo, storico della scienza e docente di calcolo delle probabilità, nel suo nuovo libro, L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo, appena pubblicato con Mondadori Università. Un libro che farà discutere, non solo per la novità in sé (clamorosa come uno scoop), ma anche per le implicazioni sull’idea stessa di storia che abbiamo.
Ma andiamo con ordine. Protagonisti della storia di Lucio Russo sono tre grandi scienziati dell’età ellenistica - Eratostene, Ipparco e Tolomeo - e due popoli, i cartaginesi e i romani.
Eratostene di Cirene (nato nel 275 a.C. e morto nel 195 a.C.), è stato un grande matematico dell’età ellenistica. Ha diretto la Biblioteca di Alessandria d’Egitto e ha inaugurato la geografia matematica, usando in maniera sistematica le coordinate sferiche (latitudine e la longitudine) e riuscendo a calcolare il diametro della Terra con un errore che, rispetto alla misura attestata dai geografi dei nostri giorni, è inferiore all’1%.
Il secondo protagonista della storia ricostruita da Lucio Russo è Ipparco di Nicea (nato nel 190 a.C. e morto nel 120 a.C.). Uno straordinario astronomo capace di compilare il primo catalogo delle stelle fisse (ricco di 1080 oggetti cosmici) e di scoprire la precessione degli equinozi. Ma Ipparco è anche un grande geografo. Capace di prevedere, in base allo studio delle maree, la presenza di un continente tra l’Indopacifico e l’Atlantico.
Oggi sappiamo che quel continente è l’America. In realtà, dimostra Lucio Russo, Ipparco in qualche modo conosce quel continente. I cartaginesi, infatti, parlano di una serie di isole cui, lasciata la costa africana, si giunge dopo alcuni giorni di navigazione verso occidente. Quelle isole diventano note nell’antichità come «fortunate», a causa del clima particolarmente gradevole e della vegetazione, particolarmente florida.
Ebbene Ipparco calcola la longitudine e la latitudine delle Isole Fortunate: e Lucio Russo dimostra che corrispondono con straordinaria precisione alle coordinate delle Piccole Antille. Inoltre Ipparco calcola la longitudine e la latitudine di un località più a Nord, cui i cartaginesi sarebbero giunti: corrispondono, ancora una volta con straordinaria precisione, alle coordinate di Tule, sulla costa orientale della Groenlandia.
Testi antichi, a iniziare da quelli di Strabone, descrivono le Isole Fortunate in un modo che corrisponde alla morfologia delle Piccole Antille. Inoltre ci sono diversi indizi che sembrano corroborare l’ipotesi di un’antica «scoperta dell’America» da parte di popolazioni mediterranee. Per esempio, in alcune località dell’America Latina gli spagnoli che sbarcano al seguito di Colombo trovano galline, animali euroasiatici. Oppure, in molte rappresentazioni di epoca romana compare l’ananas: un frutto americano sconosciuto nei tre continenti connessi (Asia, Europa e Africa).
Inoltre i cartaginesi erano padroni dell’arte della navigazione e possedevano navi che, per grandezza e qualità, erano in grado di superare l’Atlantico molto più facilmente della Nina, della Pinta e della Santa Maria. O delle piccole, ancorché agili navi dei vichinghi che hanno preceduto Colombo.
Per Lucio Russo è fondata l’ipotesi che, grazie ai cartaginesi, i popoli mediterranei abbiano frequentato le Piccole Antille e, probabilmente, buona parte dell’America centrale in maniera continua e per molto tempo: probabilmente anche per cinquecento anni.
Poi, noi mediterranei, ci siamo dimenticati dell’America. Anche in questo caso Lucio Russo indica una possibile causa. La distruzione di Cartagine, tra il 146 e il 145 a. C., e l’annessione della Grecia da parte di Roma. In particolare i Romani distruggono tutti (o quasi tutti) i documenti cartaginesi, compresi quelli che riguardano la navigazione transatlantica. E, non avendo né le capacità né l’interesse per la navigazione di lungo corso, si dimenticano dell’America. In realtà le rotte verso le Isole Fortunate vengono battute anche in età romana. Ma quei viaggi sono ignorati a Roma e, ormai, quei marinai non hanno più alcun rapporto con i geografi.
È qui che interviene il terzo protagonista della storia: Claudio Tolomeo. Anche lui astronomo e matematico, grande esponente di una generazione di scienziati di cultura ellenistica ma di una fase successiva a quella di Eratostene e di Ipparco. Tolomeo, infatti, nasce intorno al 100 e muore intorno al 170 dopo Cristo. Dunque tre secoli e mezzo dopo la grande stagione in cui sono vissuti i due precedenti protagonisti.
Ormai dei viaggi verso le Americhe i geografi hanno perduto memoria. In quell’epoca le isole più a occidente conosciute sono le Canarie e Tolomeo assume che siano esse le Isole Fortunate. Ma i conti non tornano rispetto alla grandezza della Terra calcolata da Eratostene e alle coordinate calcolate da Ipparco. Così, a causa del suo pregiudizio Tolomeo commette una serie di errori. Assume un’unità di misura diversa da quella usata tre secoli prima e, così, rimpicciolisce del 29% le dimensioni della Terra è sposta di 15 gradi verso est la longitudine delle Isole Fortunate, in modo che corrisponda a quella delle canarie.
Questa operazione comporta una evidente distorsione della geografia e delle carte geografiche. Ma in mancanza di interessi reali alla precisione e in forza del pregiudizio l’errore di Tolomeo si afferma. E l’America è, appunto, definitivamente dimenticata. Gli europei dovranno attendere quasi un millennio e mezzo prima di riscoprirla.
Lucio Russo, dunque, fornisce per la prima volta una prova quantitativa della scoperta dell’America avvenuta a opera di popolazioni mediterranee prima della nascita di Cristo. E ciò costituisce in sé una novità davvero importante. Di quelle che fanno riscrivere i manuali di storia in tutto il mondo.
Naturalmente, quella quantitativa di Lucio Russo dovrà essere corroborata da altre prove indipendenti. Ma è una prova di peso. E costituisce uno stimolo per nuovi programmi interdisciplinari di ricerca.
Tuttavia Lucio Russo non si limita a presentare la sua scoperta, ma ne propone un’interpretazione in chiave di «filosofia della storia». Molti studiosi sono rimasti colpiti, nel corso dei secoli, dall’evoluzione convergente delle società umane. Tra il VI e il V secolo, per esempio, in Grecia (i primi filosofi ionici), in India (Buddha) e in Cina (Confucio) viene scoperta la «potenza della ragione». O, anche, in Eurasia e Africa (diverse civiltà) come in America (i Maya) vengono realizzate una serie di innovazione e di vere e proprie scoperte singolarmente coincidenti: dall’agricoltura alla lavorazione del metallo, dalla città alla scrittura, dal gioco della palla e dei dadi al concetto e all’espressione di zero.
Ci sono due possibili interpretazioni di questi fenomeni. Il primo è che esiste una sorta di legge generale di progresso che porta in maniera deterministica le diverse società umane a tagliare certi traguardi. È quella che i biologi chiamerebbero una forma di «convergenza evolutiva».
La seconda interpretazione è che questa legge non esiste. E che le società umane tagliano i medesimi traguardi semplicemente perché sono connesse tra loro, si scambiano cultura. E, dunque, la convergenza non è affatto indipendente.
Lo sviluppo delle civiltà americane sembrava una falsificazione di questa seconda teoria. Perché se Asia, Europa e Africa possono essere considerati continenti connessi e gli scambi culturali tra le varie civiltà di questi continenti sono ormai ben documentate, quello americano è stato considerato a lungo un continente «non connesso», con uno sviluppo della civiltà del tutto indipendente.
La «nuova storia» di Lucio Russo mette in discussione tutto ciò. Perché, se non falsifica la prima ipotesi (quella della evoluzione convergente), ridà dignità scientifica alla seconda ipotesi (quella dell’evoluzione per connessione).
Un corollario di questa discussione è la scienza, della cui storia Lucio Russo è esperto. Molti sostengono che la scienza sia nata più volte in maniera indipendente: in età ellenistica nel Mediterraneo, poi in India, in Cina, nell’Islam e, infine, nell’Europa del XVII secolo. E, invece, la connessione nello spazio e nel tempo delle varie civiltà rafforza l’idea di Lucio Russo: che la scienza sia un «accidente congelato». Che sia nata una sola volta, in età ellenistica, all’epoca di Eratostene (ed Euclide e Archimede e Ipparco e molti altri) e che si sia diffusa, talvolta in maniera chiara, estesa e consapevole, talaltra in maniera ambigua, frammentaria e inconsapevole. Questa seconda ipotesi spiegherebbe perché anche la scienza in diversi paesi e in diverse fasi storiche possa essere, come l’America, scoperta e poi dimenticata.
E Magellano ridisegnò la Terra
di Alessandro Vanoli (Corriere della sera, La Lettura, 28.04.2019)
Perché ci piacciono tanto i racconti di viaggio? Gli ultimi anni hanno visto un grande successo di libri sulle mappe, sulle esplorazioni e sulle strade percorse nei secoli. Credo ci sia più di una spiegazione: la prospettiva globale con cui siamo ormai obbligati a guardare al mondo, la crisi di un certo tipo di storia (e assieme ad essa di un certo tipo di geografia); e anche il bisogno di ritrovare un senso d’avventura che la nostra faticosa società ci nega sempre di più. Ma forse oltre questo c’è anche il fatto, non scontato, che di mondo da scoprire semplicemente non ne abbiamo più. E questa, a pensarci bene, non è una cosa da poco, perché per millenni noi non abbiamo fatto altro che superare limiti e confini e, superandoli, abbiamo rivisto le nostre conoscenze e dato nuovo alimento ai nostri sogni.
In questa prospettiva è difficile trovare un momento più significativo e determinante di quello che si visse in Europa e sull’Atlantico alla fine del Quattrocento. Da secoli oltre le colonne d’Ercole, i marinai navigavano lungo le coste del Marocco e della Spagna, sino alle fredde isole del Nord; e qualcuno, come gli islandesi, era giunto persino alle coste più settentrionali dell’America. Ma ora, in quell’ultimo scorcio di secolo, tutto era pronto per un vero balzo in avanti. Nuove imbarcazioni con un sistema di vele sempre più complesso e più resistenti fasciami delle carene. Una progressiva decifrazione dei venti e delle correnti, anche grazie al controllo delle isole oceaniche, soprattutto le Canarie. E inoltre conoscenze geografiche sempre più solide. A quei tempi nessuno che fosse sufficientemente istruito o intelligente dubitava della sfericità della Terra.
Semplicemente lo si sapeva da sempre, da quando gli antichi, Eratostene prima e Tolomeo dopo, l’avevano calcolato. Il problema semmai era capire quanto quei calcoli fossero giusti: se l’Oceano Indiano era davvero un mare chiuso o se il tratto di mare tra Europa e Asia fosse corto a sufficienza da poter essere affrontato. Così in quegli ultimi scorci di secolo, portoghesi e castigliani moltiplicarono le esplorazioni. Sino a quel fatidico 3 agosto 1492, quando da Palos de la Frontera Cristoforo Colombo partì alla ricerca di una via occidentale per le Indie. Perché il motivo era quello: l’Oriente. Le ricchezze della Cina, le spezie, i tessuti, le pietre preziose che giungevano in Europa lungo le vie dell’Asia. Era quella la ragione di ogni sforzo e di ogni sfida all’ignoto. Con gli spagnoli che cominciarono a spingere verso Ovest e i portoghesi verso Sud, lungo le coste d’Africa. Bastarono pochi anni per capire che la situazione andava regolamentata. Ci pensò papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia, che però era spagnolo e dunque decisamente di parte), che nel 1494 con il trattato di Tordesillas stabilì i confini dei reciproci imperi: collocato un meridiano nei pressi delle isole di Capo Verde, stabilì che a Ovest di quel punto tutto sarebbe stato spagnolo e a Est portoghese.
Intanto la gara continuava. Pochi anni dopo, il 20 maggio 1498, le navi di Vasco da Gama erano a Calicut, di fronte alle coste dell’India. Fu solo un primo contatto: i portoghesi tornarono pochi anni dopo, questa volta in armi. Nel 1510 la conquista del porto di Goa e nel 1511 il controllo dello stretto di Malacca attraverso cui si accedeva alla gran parte delle isole indonesiane. In altra maniera: i portoghesi si erano impadroniti del cuore del commercio delle spezie.
Fernão de Magalhães, che noi conosceremo come Ferdinando Magellano, cominciò proprio in quegli anni la sua carriera. Era un nobile, un soldato e un avventuriero; e navigando per l’Oceano Indiano si era fatto un’idea piuttosto chiara di che cosa fosse la ricchezza e di come raggiungerla. Tornato in Portogallo, cercò di convincere i suoi sovrani che sarebbe stato più facile navigare verso le Indie passando dall’Atlantico. Ma il Portogallo aveva già una rotta più che soddisfacente e nessuno l’ascoltò. Così si rivolse ai diretti concorrenti, gli spagnoli, dove trovò tutt’altro ascolto. Magellano si sbagliava: pensava, come Colombo, che il tratto di mare tra Europa e Asia fosse molto più corto. Ma su quell’errore avrebbe fatto letteralmente la storia.
Era il 20 settembre 1519 - esattamente cinquecento anni fa - quando salpò da Sanlúcar de Barrameda, con cinque navi e circa duecentocinquanta uomini. Una spedizione imponente, raccontata da Laurence Bergreen in Oltre i confini del mondo (libro riproposto ora da HarperCollins a 15 anni dalla prima edizione con una nuova introduzione dell’autore).
Dopo le consuete soste alle Canarie e alle isole di Capo Verde, Magellano giunse in Brasile, sostò un’altra volta, poi volse la prua a sud. Agli inizi del 1520 la flotta incrociava lungo la costa dell’America meridionale alla ricerca dello stretto. In marzo il clima si fece spaventoso: Magellano fu obbligato a svernare in Patagonia e si ritrovò a dover sedare un ammutinamento. Quando finalmente arrivò in vista dello stretto, alle porte dell’Oceano Pacifico, in realtà aveva già fallito: il passaggio era troppo a sud per servire davvero come via d’accesso all’Asia. Inoltre era un tale intrico di canali e di venti avversi che sarebbero occorse sette settimane per superarlo. Durante quei giorni forse davvero sentì di essere giunto alla fine del mondo. Talvolta intravide qualcosa che poteva tradire la presenza di un insediamento umano: fuochi lontani e d’ignota natura che bruciavano, e rosse fiamme che sembravano apparizioni spettrali sullo sfondo verde cupo di cipressi, rampicanti e felci. Talvolta vide invece immensi muri di ghiaccio: duecento o cinquecento piedi, le cui creste si elevavano più alte dei condor che volavano lontani in ampi cerchi.
Quando finalmente uscì da quell’inferno, sembrò a Magellano di avercela fatta: venti propizi e un mare così calmo da convincersi a battezzarlo Pacifico. Ma si sbagliava anche questa volta: lo aspettavano novantanove terribili giorni di viaggio in alto mare. Quando nel marzo del 1521 avvistò l’isola di Guam, le riserve d’acqua erano putride e le gallette ormai piene di vermi, mentre gli uomini del suo equipaggio si erano ridotti a masticare gli involucri di cuoio delle vele, con le bocche gonfie per lo scorbuto. Magellano comunque raggiunse le Filippine e le rivendicò nel nome di Carlo V. Ma fu proprio lì che il viaggio gli fu fatale. I rapporti con i locali sembrarono inizialmente cordiali, ma poco ci volle perché le cose degenerassero. Magellano morì in battaglia, combattendo a fianco di un rajah locale contro quello della vicina isola di Mactan.
La spedizione aveva perso il suo comandante. Il 27 aprile lo spagnolo Juan Sebastián Elcano assunse il comando della Victoria, la nave che era stata di Magellano e che ora era ridotta a sessanta uomini di equipaggio; e si accinse al viaggio di ritorno. L’Oceano Indiano, innanzi tutto, poi il Capo di Buona Speranza e ancora l’infinita costa dell’Africa. Il 6 settembre 1522 all’orizzonte del porto di Sanlúcar de Barrameda, in Spagna, apparve la sagoma di un vascello in rovina. A mano a mano che la nave si avvicinava, la gente accorsa sulla banchina poté vedere brandelli di vele sbattuti dal vento penzolare dall’alberatura, sartiame marcio, colori sbiaditi dal sole e fiancate corrose dalle burrasche. Dal parapetto di quel relitto si affacciavano i corpi scheletriti di diciotto marinai e tre prigionieri drammaticamente denutriti. Il cronista della spedizione, l’italiano Antonio Pigafetta, annotò con la consueta precisione: «Navigammo 14.460 leghe e completammo il circuito del mondo da est a ovest». Di quella lunga tragedia e di quella incredibile avventura era sicuramente quello il risultato più importante.
La spedizione di Magellano aveva fornito un’evidenza decisamente nuova riguardo alle dimensioni della Terra. La sua circumnavigazione cambiò per sempre la concezione occidentale della cosmologia e della geografia. Grazie a quel viaggio, fu provato che le Americhe non facevano parte dell’India, ma erano un continente a sé stante, e che gli oceani coprivano la maggior parte della superficie terrestre. Nel 1531 fu pubblicata la prima carta attendibile dello Stretto di Magellano: in questa rappresentazione, disegnata da Oronce Finé, esso compare nella sua posizione corretta in fondo al continente sudamericano, e anche se il cartografo non lo chiama così, c’è pure l’Oceano Pacifico.
Ci avrebbe poi pensato il fiammingo Gerardo Mercatore a fissare definitivamente il nome dello stretto sul suo famoso planisfero del 1541. Ben pochi però vollero ritentare l’impresa. Nel 1525 una spedizione impiegò quattro mesi e mezzo per attraversare lo stretto e i partecipanti consigliarono caldamente di cambiare rotta. Quella speranza di un passaggio verso la Cina si spostò dunque a nord: per i secoli successivi le navi di inglesi e olandesi avrebbero sfidato i ghiacci dell’Artico nell’inutile sforzo di trovare il passaggio a nord-ovest.
Quando gli esploratori tornarono a sud lo fecero per altri motivi: c’era una parte di mondo ancora da cercare. Un continente intero, pensavano. E quella terra non poteva che essere laggiù. Una terra che persino Aristotele e i pitagorici avevano previsto e che da secoli faceva sognare filosofi e viaggiatori. Di una terra australe c’era bisogno, pensavano in molti, perché serviva a compensare le altre terre emerse; perché un continente simmetrico al mondo conosciuto - dicevano i filosofi - sarebbe stato indispensabile per equilibrare il pianeta e impedirgli di rovesciarsi. E al di là degli aspetti più fantasiosi, l’idea continuava a sembrare ragionevole. Soprattutto perché proprio Magellano l’aveva visto: quando passando dalla Terra del Fuoco aveva scorto alla sua sinistra isole di foreste e di neve. Così per secoli ogni volta la Terra Australis sembrò farsi più vicina. Sembrò soltanto. E forse è proprio lì il segreto e il lascito più grande di Ferdinando Magellano. Averci dimostrato che superare i limiti della propria conoscenza è l’unico modo per dare vita a sogni e fantasie ancora più grandi.
L’America scoperta dagli antichi
di Carlo Rovelli (Il Sole-24 Ore, 30.06.2013)
Ancora una volta Lucio Russo porta argomenti per ribaltare la ricostruzione tradizionale della storia del nostro sapere. Ne L’America dimenticata, fresco di stampa nella collana Scienza e Filosofia di Mondadori Education, difende una tesi presa in considerazione in passato, ma audace: che l’esistenza del continente americano fosse nota in epoca ellenistica.
Lucio Russo è personaggio singolare nel panorama intellettuale italiano. A cavallo fra discipline diversissime, è difficile da collocare. Ma molti studiosi, tra cui sono felice di annoverarmi, hanno per lui un’ammirazione che sfiora l’adorazione. I suoi libri hanno avuto un impatto profondo; per me hanno cambiato la visione di cosa sia la scienza, la visione della storia, e hanno riorientato i miei interessi culturali.
L’America dimenticata si inserisce nella scia aperta dal corposo La rivoluzione dimenticata, vasta e coltissima valutazione della scienza ellenistica. La scienza del periodo intorno al III secolo a.e.v., quando un’aristocrazia greca controllava gran parte del medio oriente, lo splendore di Atene era tramontato, e Roma era ancora una piccola potenza marginale. Una parte impressionante di quello che noi tutti sappiamo, quello che impariamo a scuola, è conoscenza sviluppata durante questo periodo, ad Alessandria oppure da studiosi in stretto contatto con Alessandria. Qualche esempio: la geometria, modello per tutta la matematica, è opera di Alessandria. La grammatica è opera di Alessandria.
L’astronomia scientifica, dalla quale deriva la scienza moderna, è alessandrina, l’idea che la Terra giri intorno al Sole è di quel periodo, la grande fisica e matematica di Archimede che calcolava integrali duemila anni prima di Newton, sono di quel periodo, la medicina scientifica e l’anatomia sono nate ad Alessandria.
L’idea di istituzioni pubbliche per la ricerca scientifica, di biblioteca pubblica, di raccogliere e sviluppare il sapere universale, è alessandrina. La Bibbia, che parecchi venerano oggi nel mondo, è stata composta ad Alessandria, chiedendo a settanta dotti di accordarsi nel comporre e tradurre in greco sparsi e variegati testi religiosi ebraici antichi.
L’Iliade e l’Odissea sono state compilate ad Alessandria raccogliendo i canti della tradizione di cinque secoli prima. Se conosciamo la dimensione della Terra, la distanza della Luna, la precessione degli equinozi, il fatto che il Sole è più grande della Terra, tutto questo è stato chiarito e misurato ad Alessandria.
Potrei continuare a lungo, con l’ottica, la geografia, la meccanica... Il III secolo a.e.v., sul quale a scuola spesso si scivola via, è stato uno dei momenti più fulgidi per la crescita della coscienza. Russo restituisce questo straordinario periodo di luce della ragione al suo giusto posto nella storia universale del sapere.
Riesce in quest’impresa perché è fra i pochissimi intellettuali che vivono in entrambi i mondi in cui la cultura è frantumata: è un matematico di raffinata sensibilità scientifica, ma ha conoscenza vasta e approfondita di lingua e cultura greca. L’ignoranza sulla storia degli scienziati è abissale. Ho bravissimi colleghi astronomi che non sanno che duemila anni fa la Terra fosse già considerata rotonda. E l’ignoranza scientifica di molti grecisti è, se possibile, ancora peggiore. Si trovano libri che sostengono che i greci non conoscessero la trigonometria, perché Tolomeo invece di seni e coseni usa le «corde», senza capire che un seno non è altro che la metà di una «corda». Russo ha nelle sue mani entrambi gli strumenti, e combinandoli ci apre un mondo quasi dimenticato.
In Italia c’è una grande tradizione di attenzione al sapere scientifico antico. Geymonat e la sua scuola hanno saputo cogliere il senso dell’intreccio dello sviluppo della cultura scientifica e filosofica, anche se forse la reazione all’ideologia di fondo dei suoi lavori ne ha reso più difficile l’influenza. Non è un caso isolato: dagli splendidi studi sulla scienza greca di Aldo Mieli (ma anche per lui essere difensore dell’omosessualità negli anni in cui vinceva il fascismo non ha aiutato), risalendo all’indietro fino all’umanesimo coltissimo di Galileo, l’Italia è il paese dove il sapere scientifico antico ha potuto fare da sorgente alla scienza moderna.
In fondo Copernico è venuto a studiare Tolomeo ed Euclide a Bologna e Padova, per poi aprire la rivoluzione scientifica moderna. Ma è stata necessaria la sensibilità scientifica di Russo per cogliere pienamente la portata storica della "rivoluzione dimenticata" di Alessandria, e il valore di questa operazione è lontano dall’essere solo storico. Il senso dell’unità del sapere, del nostro sapere, delle sue radici migliori, ne esce profondamente rafforzato.
Certo, vedere riaffiorare dall’arazzo di Russo la grandezza del pensiero razionale antico ha anche qualcosa di inquietante. Chiamiamo «seno» la funzione che Tolomeo chiamava «corda» perché «sinus» è la traduzione latina di una parola araba che translittera un termine sanscrito che traduce il greco «corda». Questo significa che sappiamo la trigonometria perché i Greci l’hanno insegnata agli Indiani, che l’hanno insegnata ai Persiani che l’hanno insegnata agli Arabi, che l’hanno riportata sul Mediterraneo. Qui, la trigonometria come il resto di quello splendido pensiero, era stata perduta. Quel mondo intelligente, capace di imparare, si è arenato, è stato travolto. Dalla brutalità delle armi.
Dal fanatismo della fede. Dalla stupidità. Rischiamo lo stesso? I tre ingredienti sono intorno a noi, tra noi. La consapevolezza del rischio ci aiuti almeno un po’ a difendercene.