Per la critica dell’economia politica....

ECONOMIA. A PAUL KRUGMAN, UN PREMIO NOBEL CONTRO IL DISASTRO - CUM GRANO SALIS. Una nota di Fabrizio Tonello e una di Furio Colombo - a cura di Federico La Sala

martedì 14 ottobre 2008.
 

[...] Tra gli studiosi progressisti, come John Kenneth Galbraith, Krugman è sempre stato considerato più un economista «alla moda» che non un teorico originale. La sua biografia professionale è rispettabile ma non eterodossa: nelle ultime settimane, per esempio, le sue ricette per uscire dalla crisi sono state molto British (è stato il primo a sostenere che la ricetta giusta era quella di interventi simili a quelli dei governi europei, come la Svezia negli anni Novanta e la Gran Bretagna in questi giorni). Tutto a suo merito, naturalmente.

Krugman è quindi una scelta che sarà apprezzata dalle sinistre nel mondo ma non è una voce nuova. L’Accademia delle Scienze Svedese forse non è più reazionaria ma certo non merita di diventare il nuovo maître à penser dei democratici (americani o italiani che siano) [...]

Paul Krugman è di sinistra nel senso di uno competente, che sa, capisce e non cede. Sa che passerà un treno impazzito e che bisogna spingere via dai binari le vittime designate che sono sempre i più deboli. Lo fa, lo ha fatto e - per una volta nella vita -, gli arriva un premio. [...]


Paul Krugman coscienza liberal

di Fabrizio Tonello (il manifesto, 14 ottobre 2008)

Forse sarebbe opportuno partire dal fatto che il «premio Nobel per l’Economia» non esiste. Quello che è stato assegnato ieri allo statunitense Paul Krugman, un economista neokeynesiano che insegna a Princeton, diventato celebre come editorialista del New York Times, è lo «Sveriges Riksbanks pris i ekonomisk vetenskap till Alfred Nobels minne» ovvero il «Premio della Banca di Svezia in memoria di Alfred Nobel». Ciò che condivide con i cinque veri premi Nobel (cioè quelli istituiti a suo tempo per volontà di Alfred Nobel) è il fatto che è l’Accademia Reale Svedese delle Scienze, a designare il vincitore. La differenza non è di poco momento perché ha a che fare con lo statuto dell’economia come scienza, anzi come scienza in grado di gettare luce su ogni aspetto della società e del comportamento umano, come sostiene l’economista Gary Becker che ricevette il premio nel 1992.

La Banca di Svezia e l’Accademia Svedese delle Scienze hanno non poca responsabilità nella creazione del clima culturale di adorazione del mercato che si è affermato negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni Settanta ed è poi dilagato nel resto del mondo fino ad oggi. Le loro scelte, amplificate dai media, hanno infatti consacrato come «Nobel» una serie di economisti ferocemente contrari a ogni intervento di regolazione del mercato, di cui il più celebre è Milton Friedman (premiato nel 1976 e deceduto nel 2006) ma il più importante è senza dubbio Friedrich Augustus von Hayek, un economista austriaco emigrato in Inghilterra, dove insegnava alla London School of Economics e poi negli Stati Uniti.

Hayek, premiato nel 1974, era convinto che ogni tentativo di dirigere l’attività economica non può che essere capriccioso e arbitrario e che anche modesti tentativi di pianificazione necessariamente conducono alla distruzione delle libertà individuali e al totalitarismo. La tesi, esposta organicamente nel suo pamphlet del 1944 La via della servitù, riassumeva abilmente le idee sull’economia spontaneamente adottate dagli americani fin dal Settecento, idee che ne fanno un’attività del singolo naturale, spontanea e prepolitica, in cui ogni intervento dello stato non può che essere dannoso. Non stupisce, quindi, che la maggioranza dei deputati repubblicani, solo due settimane fa, abbiano respinto in nome di questa ideologia il piano di salvataggio delle banche americane proposto dal ministro del tesoro Paulson, un loro compagno di partito che aveva semplicemente capito quanto vicina fosse la catastrofe.

La visione bucolica di una società «naturale» dove il cittadino vive del frutto della sua fatica e scambia le uova delle proprie galline con il latte del vicino è tanto profondamente radicata nella cultura americana che i manuali delle università partono spesso da lì, come sa chi ha letto quelli di Samuelson (premiato nel 1970) e Schelling (premiato nel 2005). Negli Stati Uniti, il ricordo della crisi del 1929 dev’essere considerato una parentesi: dopo i premi a Hayek e Friedman praticamente scomparve (fu il ministro del Tesoro di Clinton, Lawrence Summers, a dire che oggi tutti gli economisti «devono essere friedmaniani»). Per puro caso, il governatore attuale della Federal reserve, è uno studioso della Depressione, il che lo ha reso più sensibile ai segnali di pericolo di quanto non fosse la Casa Bianca.

Benché l’Accademia Svedese delle Scienze abbia premiato, negli anni, numerosi economisti neokeynesiani, come Amartya Sen nel 1998 e Joseph Stiglitz nel 2001, la sua responsabilità per il clima culturale di «adorazione del vitello d’oro» non può essere minimizzata, visto che ha attribuito il premio della Banca di Svezia a Robert Lucas (1995) e Robert Mundell (1999) ma, soprattutto a Robert Merton e Myrton Scholes nel 1997, consacrati per aver «sviluppato un metodo per determinare il valore dei derivati». Ora, è proprio la piramide finanziaria creata a partire da cartolarizzazioni, derivati e credit defaul swaps che è all’origine della crisi attuale (non certo finita perché ieri il Dow Jones ha riguadagnato il 7%). Ed è proprio l’impossibilità di attribuire un prezzo ai prodotti creati da Wall Street negli ultimi anni che è all’origine della paralisi dei prestiti interbancari.

Se un merito ha Paul Krugman, premiato ieri per i suoi lavori sugli scambi commerciali internazionali, scritti peraltro parecchi anni fa, è il fatto di aver scritto già nel 2000 che le bolle speculative (prima delle aziende che nascevano per sfruttare internet, le cosiddette dot.com e poi dell’immobiliare) non potevano che scoppiare. Oggi ci appare profetico il suo libro scritto nel 2001 Il ritorno dell’economia della depressione. Stiamo andando verso un nuovo ’29?. Nel libro del 2003, The Great Unraveling, ripubblicava i suoi caustici attacchi all’amministrazione Bush, in particolare per il «capitalismo dei compari» che aveva portato allo scandalo Enron, per il taglio delle tasse (enormemente gravoso per il bilancio pubblico) e per la guerra in Iraq.

Occorre sottolineare che Krugman ha usato lo spazio bisettimanale che gli offre il quotidiano di New York per parlare non solo di economia, ma anche di guerra in Iraq, di Guantanamo, di violazione dei diritti costituzionali negli Stati Uniti. Una linea che ha provocato furiose reazioni dell’amministrazione Bush e pressioni sul New York Times (che ha meritoriamente resistito, pur chiedendogli di non scrivere più «Bush è un bugiardo»). In genere, i suoi commenti sul New York Times sono mediamente più a sinistra di quanto non siano il suo giornale e lo stesso Partito democratico americano (che spesso Krugman ha criticato).

Al contrario di quanto sosteneva ieri nel sito di Repubblica l’economista Francesco Daveri, l’Accademia delle Scienze le sue scelte di campo le fa eccome. Krugman è stato premiato perché, come sostiene Daveri, «ha cambiato il modo in cui gli economisti pensavano alla globalizzazione. Dopo le sue pubblicazioni, lo studio dell’economia internazionale non è stato più lo stesso»? Forse, ma quel che è certo è che, con quanto sta succedendo alla finanza mondiale, forse non sembrava opportuno premiare qualche altro teorico dei «mercati in equilibrio perfetto».

Tra gli studiosi progressisti, come John Kenneth Galbraith, Krugman è sempre stato considerato più un economista «alla moda» che non un teorico originale. La sua biografia professionale è rispettabile ma non eterodossa: nelle ultime settimane, per esempio, le sue ricette per uscire dalla crisi sono state molto British (è stato il primo a sostenere che la ricetta giusta era quella di interventi simili a quelli dei governi europei, come la Svezia negli anni Novanta e la Gran Bretagna in questi giorni). Tutto a suo merito, naturalmente.

Krugman è quindi una scelta che sarà apprezzata dalle sinistre nel mondo ma non è una voce nuova. L’Accademia delle Scienze Svedese forse non è più reazionaria ma certo non merita di diventare il nuovo maître à penser dei democratici (americani o italiani che siano).


Un Nobel contro il disastro

di Furio Colombo *

Alla vigilia delle più importanti elezioni presidenziali americane il Premio Nobel per l’economia è stato assegnato all’economista che, con forza, competenza e passione è stato il grande antagonista di George W. Bush e del «rovinoso governo pubblico-privato» costituito da Bush «che si è preso il compito di liquidare anche i più urgenti interventi dello Stato, aumentando a dismisura la povertà», e da Dick Cheney «che è il titolare di un vasto sistema di potere e di profitto privato che dalla Casa Bianca si estende fino all’Iraq».

Un piccolo privilegio, essere membro dell’«Advisory Council» dell’Università di Princeton, mi ha consentito di conoscere presto Paul Krugman che a Princeton insegna economia e relazioni internazionali. Ma Krugman è un collega due volte, caso rarissimo in un Paese che non ama confondere le carriere. Infatti è opinionista di punta del New York Times. Per questo quasi tutto ciò che ho scritto di economia e di lavoro su questo giornale viene dalla lezione di Paul Krugman. (Che infatti, come i lettori sanno, è stato citato in quasi ogni mio articolo su questo giornale da anni). Il suo libro politicamente più importante è stato «The Great unraveling» («Il grande disastro» oppure «Grande disfacimento») con cui Krugman si è battuto per impedire la seconda elezione di George Bush e ha dimostrato, con quattro anni di anticipo sui politici e sui grandi giornali americani, la devastazione dell’economia, lo sbilanciamento brusco e pericoloso fra pubblico e privato, non solo a causa del continuo ritiro dello Stato da impegni assoluti come la salute, ma anche dell’invasione del “privato” (politicamente manovrato) in alcuni settori chiave come la sicurezza, le scorte anche militari, l’“intelligence”, la gestione di interrogatori e prigioni, l’occupazione quasi totale della sanità.Paul Krugman ha denunciato i tagli successivi di tasse ai redditi più alti voluto da Reagan, e poi, in modo più rovinoso, dato l’immenso debito contratto con l’infinita guerra in Iraq, dal drastico taglio delle tasse ai ricchi di George W. che ha segnato la fine di essenziali servizi sociali. Il nuovo Nobel ha descritto per tempo e con chiarezza le conseguenze, «la doppia natura malefica del governare da destra»: da un lato «si espande la povertà che comincerà ad avere il costo sociale di una guerra». Dall’altro «l’abolizione di ogni regola, lo stato pericoloso che i sociologi chiamano “anomia”, e che in economia si chiama caduta nel vuoto, quando nessuna parte riconosce più il debito con l’altra». Krugman ha anticipato di anni la disperata condizione del mondo della finanza americana e del mondo che stiamo vivendo oggi.

Riceve il Nobel con motivazioni tecniche che riguardano la sua teoria sul commercio mondiale (che richiamano comunque aspetti solidaristici visti come strumento di compensazione e di equilibrio anti-conflitto e contro il tornaconto «a breve» dei potenti e dei prepotenti). Ma Krugman per molti anni ha condotto da solo la sua battaglia di economista, ma anche di formidabile comunicatore, contro i due grandi inganni del «governo cieco» e della «economia che corre veloce, senza progetti e senza guida tranne l’avidità di alcuni, e che sta per deragliare». Ora che la finanza del mondo è deragliata «ed è come un grande, ingombrante, pericoloso malato che passerà di casa di cura in casa di cura», il Nobel a Krugman appare come il sigillo di un notaio su una serie di documenti profetici tutti scritti con precisa e analitica descrizione dei fatti, prima, molto prima che i fatti accadessero. È naturale dire - ed è consenso comune in America - che il mondo di Obama, il senatore, il leader politico, il candidato presidenziale, il possibile nuovo Presidente degli Stati Uniti, nasce qui, nella visione di un economista, ma anche di un opinionista, di grandissimo peso che vede e denuncia con forza le decisioni più gravi prima che diventino legge o tolleranza o accettazione appannata dalla teoria del «decidere insieme». Paul Krugman si è battuto da solo contro la guerra in Iraq, contro l’immensa crescita del debito americano, contro il taglio delle tasse ai redditi alti, contro il governo “privato” di Cheney e l’abbandono dei poveri, contro del governo “pubblico” di Bush, fondato sui tagli di tasse ai ricchi e sulla eliminazione di servizi essenziali, contro l’isolamento del lavoro e della classe media, contro la solitudine dei malati senza assicurazione, contro la voracità padronale delle assicurazioni verso cui l’accademico di Princeton è molto più duro del celebre documentarista Michael Moore. Paul Krugman è di sinistra nel senso di uno competente, che sa, capisce e non cede. Sa che passerà un treno impazzito e che bisogna spingere via dai binari le vittime designate che sono sempre i più deboli. Lo fa, lo ha fatto e - per una volta nella vita -, gli arriva un premio. Il prossimo risultato del suo straordinario lavoro potrebbe essere l’elezione di Barak Obama a Presidente degli Stati Uniti.

* l’Unità, Pubblicato il: 14.10.08, Modificato il: 14.10.08 alle ore 8.50


Ansa» 2008-10-13 21:57.

NOBEL ECONOMIA; PREMIO 2008 A PAUL KRUGMAN

ROMA - ’’Il mio credo e’ che se un editoriale o un fondo non fanno decisamente arrabbiare un notevole numero di persone, l’autore ha sprecato lo spazio concesso’’: e’ il premio Nobel per l’Economia, Paul Krugman, a spiegare in prima persona la sua ormai decennale presenza come editorialista del New York Times, un palco che ha usato per lanciare attacchi spesso pesanti alle scelte di politica economica ed estera dell’amministrazione Bush. Nato a Long Island, negli Usa, nel 1953, Krugman ottiene prima una laurea a Yale e poi un dottorato al Mit di Boston. Molto interessato anche alla vita politica, lavora per un anno (tra il 1982 e il 1983) nel Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca, sotto l’amministrazione Reagan, e viene accreditato come uno dei possibili segretari di Governo nel caso in cui John Kerry avesse vinto le elezioni del 2004.

Al di fuori del mondo accademico, nel quale ha pubblicato oltre 20 libri e 200 lavori, e’ noto soprattutto per il suo ruolo di editorialista. Il suo ’Economia Internazionale’ e’ uno dei libri di testo piu’ diffusi, anche nelle universita’ italiane, grazie alla ’nuova teoria del commercio’, poi evolutasi nella ’Analisi dei modelli di commercio internazionali’ in cui determina gli effetti del libero scambio e della globalizzazione e che gli e’ valsa il premio Nobel. Prima del Nyt, ha scritto anche per Fortune e l’Economist, ma e’ stato sul quotidiano newyorchese, in cui pubblica con cadenza bisettimanale, che ha allargato il campo d’azione, guadagnandosi anche non poche critiche per la sua posizione estremamente negativa nei confronti delle politiche messe in atto dal presidente George W.Bush.

’La deriva americana’ e’ la traduzione italiana di una raccolta di suoi articoli in cui muove critiche a quel ’’pericoloso gruppo di potere rivoluzionario’’ che, sostiene, sta rovinando gli Stati Uniti. Acceso sostenitore della sanita’ pubblica e detrattore dell’abolizione della tassa di successione, il neo premio Nobel, in anticipo di anni rispetto a quanto sarebbe successo con la crisi dei mutui, aveva piu’ volte sottolineato, citando gli esempi dei fallimenti di WorldCom ed Enron, che un sistema di libero mercato non e’ in grado di funzionare correttamente senza gli adeguati controlli. E non e’ un caso che anche nel suo editoriale odierno, quand’era ancora ignaro del premio che lo attendeva dall’altra parte dell’oceano (’’sono corso a farmi una doccia per la conferenza stampa’’, il suo primo commento), Krugman abbia speso parole positive per l’iniziativa inglese del premier Gordon Brown per fronteggiare la crisi dei mutui, bocciando invece senza mezzi termini il piano Usa: invece di rinazionalizzare le banche - ha scritto - il ministro Paulson ’’ha scelto di acquistare i titoli tossici, basandosi sulla teoria che... beh, non e’ mai stato chiaro quale teoria fosse’’.


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