Festival della Mente (31 agosto - 2 settembre 2007)

OCCHIO E MENTE. DECIFRARE PER SOPRAVVIVERE. NELLA FORESTA DEI VOLTI, COME NELLA FORESTA DI PIUME. Il testo-tema della conferenza ( sulla “breve storia del viso umano”) di Ruggero Pierantoni a Sarzana - a cura di pfls

mercoledì 29 agosto 2007.
 

[...] Marilyn Monroe, la cui gonna candida e plissettata viene alzata per noi da vapori complici della metropolitana di New York, si appoggia teneramente ad Abraham Lincoln. Egli sembra, un po’, è vero, venire fuori da una famosissima fotografia scattata da Mathew Brady. E, devotamente e un po’ scontrosamente, occorre dirlo, alza gli occhi al cielo: «Cosa si deve fare per la Democrazia!». Documento indiscutibile quindi, fotografico, testimonianza ineccepibile. Anche se siamo sorpresi e magari un po’ scandalizzati, non possiamo dubitare: la fotografia è una prova assoluta. «Anche a me, per dirtela tutta, quel Lincoln non mi ha mai convinto. Hai visto? Faceva finta di non vederla. Chissà cosa aveva in mente, invece...».

Era l’alba di Photoshop: fotografica-mente. [...]


Associazioni mentali

Le facce degli altri sono un “secondo ecosistema” che, al pari di quello naturale, occorre saper decifrare in tempo reale per consentirci la sopravvivenza nel nostro ambiente. È questo il sorprendente tema della “breve storia del viso umano” che Ruggero Pierantoni narrerà al prossimo Festival della Mente

Nella foresta dei volti

di RUGGERO PIERANTONI *

La parola “mente” si è insinuata, profonda, attraverso il millennio e oltre, nella lingua, adesso, italiana: si è insinuata profonda-mente. L’antico, impeccabile ablativo assoluto ha spinto la parola sempre più nel fondo quasi inconscio della nostra lingua e finimmo quasi per dimenticarci dell’origine: dolce-mente, progressiva- mente, definitiva-mente. Eppure, all’origine ci sono anche “mann” e, poi, necessariamente: mentire. Quindi: uomo, calcolo, conoscenza, giudizio. E, inganno.

Il nuovo connubio tra “Mente” e “Festival” mi suscita l’idea di una fiera antica, forse barbarica, con pennoni al vento colorati sospesi su padiglioni dipinti a strisce diagonali. In essi, allineati lungo le rive di un largo fiume, si mostrano ai popoli che accorrono “menti” in azione. Menti che cantano, motteggiano, folleggiano, erudiscono, sussurrano... Ce ne ritorneremo al carro, al cavallo, alla barca con “souvenir mentali” nelle tasche, nel fardello.

A casa metteremo i ricordi vicino alla fiamma del camino e ci ra-mmenteremo della nostra facoltà, forse ormai già sperduta, di essere stati capaci, un tempo, di dare un senso alle cose, di misurarle, di anticipare i moti sia dei corpi che degli animi.

Prima di aprire il mio padiglione colorato di immagini, nel lungo prato della “Fiera”, che sarà pieno di gente buona e curiosa e che venne anche da lontano attratta dalle bandiere piene di vento e di colore, cerco di ricordarmi di cosa andrò dicendo.

E l’inizio sarà proprio pensando al fiume.

Nel 1978 J.J. Gibson, un uomo che fece il portiere d’albergo, il pilota d’aerei da bombardamento e il professore universitario nel meraviglioso campus della Cornell University, inventò, o molto meglio ri-inventò la parola “affordance”.

L’origine etimologica, anche qui, è rivelatrice. “Ford”, come noto, è il guado in inglese: Oxford è il guado dei buoi. Nelle mani di Gibson il “guado” diventa possibilità, disponibilità dell’ambiente a compiere azioni, “permesso” accordato. Il “ford” è, quindi, la disponibilità del fiume a farsi attraversare, ma lì e non in altro luogo, ma adesso e non in novembre. L’oasi è l’affordance che il deserto ti concede, la forma e il colore del frutto benevolo sono l’affordance che il bosco ti suggerisce.

Se non hai il sistema di rilevamento sensoriale e cognitivo che ti estrae l’oasi dal fondo omogeneo delle sabbie o il lampo rosso e oblungo dalla cortina verde delle foglie, se non intuisci dal riflesso, dal rumore, dalla trasparenza la sottigliezza delle acque, il guado non sarà lì. Semplicemente, non esisterà. Virginia Woolf calcolò bene il suo “guado” e, per prudenza, si riempì le tasche di sassi.

Entro la rete fittissima delle “affordances” naturali che ci circondano, che ci permettono, ci impediscono, ci invitano all’azione o all’immobilità ansiosa esistono anche i volti umani. I volti dei nostri simili: e il nostro stesso, per giunta. All’ecosistema d’alberi e pietre e gocce se n’affianca un altro, intricato e fulmineo di sguardi, di pupille spinte di lato, di bocche appena aperte, di fronti che da lisce divengono corrugate in un decimo di secondo, di un sopracciglio che si alza, per un frammento d’istante, di un millimetro: e siete condannati. O vi si porta in paradiso. La lettura, in tempo reale, delle “affordances”, diciamo naturali, ma in esse dobbiamo aggiungere, ormai, semafori, schermi su cui scorrono papiri di numeri verdi, punti solitari e silenziosi ma fatali, soli virtuali e ombre digitali, ci permette la sopravvivenza nel nostro ambiente.

Ad essa si aggiungono i visi nostri e di molte migliaia di altri esseri umani che, ogni giorno, dobbiamo vedere. Questo “secondo ecosistema” non è meno severo, né meno violento e brutale di quello delle valanghe o delle cascate o del fulmine in agguato sopra le nubi. Dio non giocherà ai dadi ma anche Madre Natura non ama gli spassi e i divertimenti: chi sbaglia paga e paga assai e quasi subito.

-  Noi umani siamo proprio come Don Giovanni:
-  «Non l’avrei giammai creduto, ma farò quel che potrò,
-  Leporello, un’altra cena, fa che subito si porti...
».

E il saggio Leporello non viene ascoltato: non deve esserlo. Non contenti della notevole complicazione che la mobilità dei nostri visi, la molteplicità delle interpretazioni, le infinite ramificazioni del desiderio, della paura, della fiducia connesse ad un fulmineo lampo dello sguardo possono inserire nel nostro bagaglio di comportamento abbiamo deciso per «un’altra cena».

All’ecosistema visivo dei nostri visi ne abbiamo immediatamente aggiunto un altro: quello delle immagini di noi medesimi. In pietra, in pigmento, in inchiostro, in bronzo, gesso, smalto, corallo... Abbiamo creato un secondo universo d’immagini che ci riflettono.

L’infamia degli specchi di cui si lamentava il cieco Borges si limitava alle immagini flebili, piatte, fredde, che nascono dagli specchi, ed esse sono un miliardesimo di quelle che sono state trasformate in oggetti, cose stabili, permanenti, fisse, con un loro volume o superficie irriducibili. La loro metastasi è immensa e definitivamente incontrollabile. Da quando le immagini hanno acquistato moto e colore e suono, esse c’inseguono, ci parlano, ci comandano, ci indicano, ci amano forse. Di certo esse ci ingombrano la mente e la possiedono ininterrottamente.

Sembra che un’ulteriore idiozia stia lentamente tramontando: quella di avere degli avatar. L’idea stessa di avere una sorta di “KA” digitale che si agita elettronicamente da qualche parte, sepolto in un viluppo di domini magnetici e di micro-correnti, perfettamente piatto, alto pochi centimetri, dotato d’approssimative ombre secrete da un auto- cad da strapazzo è inverosimilmente idiota. Eppure, anche questo “sogno” di eternità, di persistenza, di essere sempre, è così doloroso, così umano, così triste! Che ruolo gioca, in questo “gioco” tra orrendo e imbecille, la nostra “mente”? Quando tutto è “cominciato”?

Nella breve storia del volto umano che illustrerò, come fanno alle Fiere, appunto, i cantastorie con il loro lungo bastone che scorre sulle immagini dipinte sulla tela srotolata e appesa ad un drago scrostato e zoppo, visiterò alcuni momenti di questa storia.

Ecco il profilo essenziale, puro, di Hesirè scolpito nel sicomoro della porta della sua “mastaba”. La parrucca perfettamente aderente al suo cranio pieno di pensieri ordinati e d’idee geometriche, la mano che stringe i due bastoni del comando, egli guarda netto alla sua sinistra, penetrante, pronto alla scrittura, sagace, capace. Intelligente. Attraverso la sua spalla nuda scorre il legaccio di cuoio che trattiene il contenitore dei papiri, il porta-pennelli e i due serbatoi leggeri di inchiostro rosso e di inchiostro nero. Attraverso i secoli lo segue Sesostri Secondo: il volto scolpito dal potere, dalla volontà decisionale, dall’intelligenza non costretta da ostacoli meccanici. Le borse sotto gli occhi, le rughe attorno alla bocca, le labbra contratte: tutto è restato, per sempre, nella pietra e ci rimanda una immagine di uno di noi ma che ebbe la sorte di determinare, personalmente, la storia del suo paese.

Un salto verso l’intima struttura di noi medesimi, l’intuizione della complessità della nostra mente attraverso il volto, la vediamo nei visi dei centauri di Olimpia. Bernhard Schweitzer nel suo studio del ritratto greco del 1939 analizza in dettaglio tutte le teste di centauro scolpite da Fidia e ne trae una forte e emozionante conclusione: è con i centauri che inizia la vera ritrattistica. Non sarà certo l’Apollo perfetto, incomprensibile, impenetrabile del frontone occidentale del tempio in Olimpia che ci mostrerà il lavorio della mente umana. Egli si accontenta di estendere orizzontale il suo braccio destro a riportare un ordine euclideo nel caos delle passioni umane. Ma è nel viso dei centauri afferrati e atterrati dagli eroi umani e greci che si rivela una natura interna. Il dolore fisico, l’umiliazione atletica, l’impotenza muscolare, il timore della morte troppo prossima scava rughe nei loro volti. E non sono rughe di vecchiaia, d’età, di sapienza. Le froge si arricciano come quelle dei felini braccati, le fronti si contraggono, le bocche si spalancano in urla ancora bestiali. Naturalmente, essi, i centauri, appartengono ancora a un Mondo di Mezzo. Il loro cammino verso l’umano è solo iniziato ma già il loro cuore è doppio, ambiguo, intriso di futuro. Il volto di Pericle, quasi contemporaneo, anche se considerato il punto di partenza della ritrattistica attica ci si presenta, stranamente, arcaico se comparato al gemito già quasi umano del centauro di Olimpia.

Invece, come sappiamo assai bene, Laocoonte non grida. Dalla sua bocca anche se spalancata non esce l’urlo ferino ma essa manifesta il profondo dolore morale (e fisico) di chi sa che si deve soffrire stoicamente e mostrare con il proprio controllo totale la natura umana: semplicemente. Richard Brilliant nella sua analisi dei “miei tre Laocoonti” insiste a fondo sulla componente filosofica del dolore e del suo “significato” come elemento di recupero della nostra componente spirituale, come rivincita della mente sul corpo. Come controllo razionale. E, quindi come suprema affermazione estetica. Una lunghissima strada, anche mentale, dall’urlo che esplode dalle bocche dei centauri.

Ancora una breve storia. Ma di un Settecento intelligente, feroce e cortese, civile e tenebroso. David Garrick e William Hogarth sono rispettivamente il più grande attore inglese e il più famoso pittore inglese viventi e contemporanei. Siamo attorno al 1757. Sono legati da anglosassone amicizia, si frequentano, si stimano. Garrick è sposato con una bellissima giovane donna, Eva Marie Veigel, ballerina. Incarica Hogarth di ritrarli assieme in un momento di deliziosa intimità domestica. Hogarth esegue meravigliosamente. L’attore è seduto allo scrittoio impegnato nello scrivere il prologo alla commedia Taste di S. Foote. Eva Marie accorre leggera alle spalle del marito e tenta di sfilargli la penna d’oca di mano. Garrick sorride compiaciuto e con la mano sinistra fa il segno del numero due: è già stato “disturbato” dalla bella Eva Marie due volte in questo pomeriggio londinese?

Tutto civilissimo, educato, riservato e, anche, un po’ erotico. Ma, durante l’ultima seduta di posa, tra il pittore e l’attore scoppia qualcosa che ancora secoli dopo non si è stati capaci di ricostruire.

Hogarth, preso dall’ira cancella con una pennellata gli occhi di Garrick. Il quadro, stuprato, resta nello studio di Hogarth: questi muore. Tutto finisce bene e per opera delle donne, come spesso accade. La vedova Hogarth fa ri-dipingere gli occhi da un alunno del defunto marito. E lo invia come dono alla Eva Marie: happy end e della migliore natura, natural-mente. Il quadro fu svenduto dal proprietario temporaneo, H. Lockner, nel 1825, perché «spaventava i bambini».

Uno sguardo, anche fuggevole, al quadro mostra chiaramente come gli occhi di Garrick siano bovini, bolsi, quasi inespressivi e frutto, chiaramente, di un’arte assai inferiore a quella di Hogarth. Lo possiamo constatare confrontando quest’immagine di Garrick con quella di lui dipinta da Sir Joshua Reynolds. In questa tela famosa l’attore compare allerta, vistosamente soddisfatto di sé, ironico, a tutto agio davanti ai suoi mirabili libri sulla storia del teatro classico di cui era sagace collezionista. Gli occhi di Reynolds sono ben diversi da quelli dell’emulo di Hogarth.

Altre ed altre sarebbero le storie che si possono indicare con la punta del lungo bastone sul vecchio cartellone arrotolato e riarrotolato tante volte. Non possiamo chiudere la tenda e spegnere la piccola fiamma che esce dalle fauci del draghetto che sempre mi accompagna senza ricordare la Foto dei Due Presidenti, fotografia famosissima e giustamente tale.

In essa, infatti, Marilyn Monroe, la cui gonna candida e plissettata viene alzata per noi da vapori complici della metropolitana di New York, si appoggia teneramente ad Abraham Lincoln. Egli sembra, un po’, è vero, venire fuori da una famosissima fotografia scattata da Mathew Brady. E, devotamente e un po’ scontrosamente, occorre dirlo, alza gli occhi al cielo: «Cosa si deve fare per la Democrazia!». Documento indiscutibile quindi, fotografico, testimonianza ineccepibile. Anche se siamo sorpresi e magari un po’ scandalizzati, non possiamo dubitare: la fotografia è una prova assoluta. «Anche a me, per dirtela tutta, quel Lincoln non mi ha mai convinto. Hai visto? Faceva finta di non vederla. Chissà cosa aveva in mente, invece...».

Era l’alba di Photoshop: fotografica-mente.

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* LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 AGOSTO 2007 (pp. 46-47 - ripresa parziale, senza illustrazioni)

* Il testo che pubblichiamo in questa pagina è tratto dalla conferenza che Ruggero Pierantoni terrà al Festival

* IL FESTIVAL. Dopo il successo dello scorso anno con ventottomila presenze, il Festival della Mente di Sarzana, ideato e diretto da Raffaele Cardone e Giulia Cogoli, giunge alla quarta edizione Promosso dalla Carispe e dal Comune di Sarzana, si svolgerà dal 31 agosto al 2 settembre con cinquanta appuntamenti tra conferenze, workshop, spettacoli, letture e laboratori per bambini e ragazzi. Informazioni e prevendita online su www.festivaldellamente.it


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