Così Amartya sen ci insegna a pensare una società più equa
È fondamentale considerare le possibilità effettive degli individui
La ricchezza non dice nulla sul benessere di un paese
di Bernardo Valli (la Repubblica, 18.05.2010)
Amartya Sen si è seccato, anzi infuriato, quando un cronista del Guardian, pensando di fargli un complimento, lo ha definito "Madre Teresa dell’economia". Il paragone non calza, ha protestato con ragione. Anzitutto perché lui lo giudica, con spirito cavalleresco, irrispettoso nei confronti di Madre Teresa di Calcutta; e poi perché le attività di un economista, per quanto impegnative, non hanno nulla in comune con quelle di una religiosa che si sacrificava per il mondo dei poveri. Inoltre lui, ha aggiunto, ama i buoni vini e la buona tavola, insomma desidera campare nel migliore dei modi. Non nella sofferenza.
È vero, il cronista inglese ha scritto uno sproposito. Ma è altrettanto vero che dalle opere del professor Sen, senz’altro uno dei pensatori del nostro tempo, affiora, a volte esplode, un’umanità insolita, un’attenzione piuttosto rara per le calamità che affliggono gli abitanti della Terra, dalle carestie alla povertà, ed anche per il raggiungimento del benessere, non dall’esclusivo punto di vista economico. Di solito la gente della sua casta si esprime, nel migliore dei casi, con arida erudizione. Ma Amartya Sen non vuole che nei suoi scritti si prenda per caritatevole quel che è razionale. Una razionalità espressa con eleganza e, a tratti, non senza ironia. Il professor Sen è un umanista, qualifica che non si addice a tutti i cultori di scienze economiche. Sono ormai anni che le sue idee di economista-filosofo riscaldano i numeri della glaciale aritmetica attraverso i quali interpretiamo il mondo in cui viviamo.
Quando infuriava la tesi dello scontro di civiltà, tutt’altro che defunta, Sen disse che l’idea secondo la quale le persone possono essere classificate soltanto sulla base della religione o della cultura è una pericolosa fonte di conflitto potenziale. La convinzione implicita di una classificazione unica può incendiare il mondo intero. Questo, secondo Sen, non contrasta soltanto con il fatto che noi esseri umani siamo tutti più o meno uguali, ma anche con l’idea, molto più fondata, che siamo diversamente differenti. Se si considera l’umanità soltanto un insieme di religioni, o di civiltà o di culture, si ignorano le altre identità, legate alla classe sociale, al genere, alla professione, alla lingua, alla scienza, alla morale, alla politica, alle abitudini alimentari, agli interessi sportivi, ai gusti musicali, e ad altre cose ancora.
È stata un’impresa audace, per un economista, ridisegnare la figura dell’homo economicus, vale a dire il concetto utilizzato nella scuola neoclassica della teoria economica per modellare il comportamento umano. Insieme al pakistano Mahbub ul Haq, Amartya Sen ha creato per le Nazioni Unite un nuovo indicatore di sviluppo umano (Idh), basato sul principio che la ricchezza misurata soltanto sul prodotto interno lordo non rappresenta un punto di riferimento soddisfacente. È molto limitato. È un disastro. Gli indici della produzione o del commercio non dicono granché sulla libertà e sul benessere, che dipendono dall’organizzazione della società. Né l’economia di mercato né il funzionamento di una società sono processi che si regolano da soli. Hanno bisogno dell’intervento razionale dell’essere umano. La democrazia è fatta per questo: per discutere del mondo che vogliamo. Nel loro Idh, Amartya Sen e Mahbub ul Haq tengono conto di tanti dati, oltre a quelli economici: ad esempio della speranza di vita alla nascita, del tasso di alfabetismo degli adulti, dell’accesso all’educazione e all’assistenza sanitaria. E tra i criteri di misurazione è compresa la situazione della donna, la cui emancipazione è un elemento centrale per lo sviluppo di una società.
Nell’ultima opera (L’Idea di Giustizia, in uscita da Mondadori) si ritrova raccolto il pensiero disperso nei tanti altri scritti di Amartya Sen. Non a caso è dedicata a John Rawls, l’amico americano morto nel novembre 2002. John Rawls ha raggiunto una fama mondiale quando sull’onda delle agitazioni sociali degli anni Sessanta tentò una sintesi tra libertà e uguaglianza, esprimendo il concetto secondo il quale la democrazia liberale può essere giusta, può raggiungere la giustizia sociale. «La giustizia - diceva Rawls - è la prima virtù delle istituzioni sociali come la verità è quella dei sistemi del pensiero».
Amartya Sen rende omaggio a Rawls, riconosce, sottolinea che il suo pensiero è stato tra i più influenti del Ventesimo secolo, ma lo critica, contestando in larga parte Teoria della Giustizia, il libro di Rawls, apparso nel 1971. Il quale ha influenzato, forse più di qualsiasi altro testo del nostro tempo, la filosofia politica, l’etica, il diritto e le scienze sociali. Il pensiero dominante oggi, influenzato da Rawls, identifica dei dispositivi istituzionali giusti e ritenuti tali per qualsiasi società. Sen non è d’accordo. Invece di precisare quel che è giusto di per sé, cerca dei criteri che consentano di affermare se un’opzione è meno ingiusta di un’altra, stabilisce paragoni tra società, e cerca di determinare se una riforma sociale particolare crea giustizia o ingiustizia, nel contesto in cui viene applicata.
Insomma, per Amartya Sen, invece di concentrarsi sulla natura delle istituzioni, l’analisi della giustizia deve tener conto delle condizioni di vita delle persone. La condizione di un individuo, in termini di opportunità, è giudicata inferiore a quella di un altro se egli ha meno possibilità reali ("capability" parola chiave nel pensiero di Sen) di realizzare quello cui attribuisce valore, e meno libertà di usare i propri beni per scegliere un modo di vita.
Immaginiamo tre bambini e un flauto. Anna sostiene che il flauto le deve essere dato essendo lei la sola in grado di suonarlo. Bob basa la sua richiesta sul fatto che è povero e non ha altri giocattoli. Carla sul fatto che ha speso mesi per fabbricarlo. Come far giustizia di fronte a queste tre rivendicazioni? I partigiani delle teorie oggi dominanti (utilitarismo, egualitarismo, scuola libertaria) peroreranno ognuno per una soluzione diversa, riferendosi al valore che danno alla ricerca del libero, naturale sviluppo umano, all’eliminazione della povertà o al diritto di usufruire del prodotto del proprio lavoro.
Ma Amartya Sen fa notare che non c’è istituzione, né procedura capace di aiutarci a risolvere la controversia in un modo universalmente accettato come giusto. Per questo Sen si discosta dalle teorie sulla giustizia che tendono a definire le regole e i principi di istituzioni giuste in un mondo ideale. (Egli gira, consapevole, le spalle alla tradizione di Hobbes, Rousseau, Locke e Kant, ripresa dall’amico John Rawls. E si iscrive, come precisa, in un’altra tradizione: quella di Adam Smith, Condorcet, Jeremy Bentham, Mary Wollstonecraft, Marx, o John Stuart Mill).
Il Premio Nobel fu attribuito ad Amartya Sen (nel 1998) per avere introdotto la dimensione etica nella ricerca economica. La motivazione spinge a dare uno sguardo all’esistenza del settantasettenne indiano nato nel Bengala, a Santiniketan, nel campus universitario creato da Rabindranath Tagore. Là suo nonno insegnava il sanscrito e la civiltà indiana, e da quel campus Amartya Sen, figlio di un professore di chimica, è partito per un interminabile periplo che lo ha condotto, prima come studente e poi come professore, a Calcutta, al Trinity College di Cambridge, all’università di Delhi, alla London School of Economics, a Oxford, a Harvard, al Mit, a Stanford, a Berkeley.
Ma non è soltanto durante queste tappe prestigiose che è nata la sua idea di giustizia. Quando aveva dieci anni, nel 1943, il Bengala in cui viveva subì una carestia che fece più di un milione di vittime. E poi ha assistito alle violenze della partition tra l’India e il Pakistan. Ogni sei mesi il professor Sen abbandona i campus universitari occidentali, perché sente il bisogno di ritornare in India, terra che ha ispirato tante sue opere. Ed egli ha un legame particolare con l’Italia. Sua moglie, l’economista Eva Colorni, morta nel 1985, era figlia di Eugenio Colorni, il filosofo antifascista ucciso durante la resistenza, ed era cresciuta nella famiglia di Altiero Spinelli.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
IDENTITA’ E VIOLENZA. Il recente saggio di AMARTYA SEN, nel commento di Gad LERNER
L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...
DIALOGHI SULL’UOMO: L’UNITA’ DELLA DEMOCRAZIA E L’UNITA’ DELL’INDIVIDUO. Zagrebelsky riflette "su quello che rende unico ogni individuo", ma ancora non gli è chiaro il rapporto tra i molti "uno" della società e l’"Uno" della Costituzione. Sul tema, parte della lezione che il giurista terrà domani a Pistoia
(...) Ci sono "gli uomini" e non uno è per natura uguale all’altro (...) la sua plasticità e irriducibilità ad unitatem. Ma è una smentita apparente, perché non ci permette di andare oltre, mentre è propriamente questo "oltre", o questo "altro" ciò che ci importerebbe di definire (...)
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Battere la fame con le democrazie
Alternanza di governo e media liberi sono la vera garanzia
di Amartya Sen (Corriere della Sera, 01.09.2010)
Il peso di una carestia è a carico solo della popolazione colpita, e non dalla compagine di governo. La classe dirigente non muore mai di fame. Tuttavia, laddove il governo risponda al popolo e siano presenti un sistema di libera informazione e una critica pubblica non soggetta a censura, anche il governo troverà buone ragioni per impegnarsi al meglio a sconfiggere le carestie.
A fronte di un sistema politico democratico ben funzionante e di un sistema mediatico libero e privo di censura, nonché di partiti di opposizione desiderosi di far gravare sul governo l’incapacità di prevenire la fame, il governo stesso avverte una enorme pressione, che lo induce ad adottare misure rapide ed efficaci ogni qualvolta si delinei la minaccia di una carestia. Poiché le carestie sono facili da prevenire laddove si compiano sforzi concreti per arrestarle (come ho già avuto modo di affermare), la prevenzione si rivela in linea generale una strada percorribile. Non desta pertanto sorpresa che, tra tutte le terribili carestie che hanno lacerato il mondo, nessuna si sia mai verificata in un Paese indipendente dotato di una democrazia funzionante, con partiti di opposizione operanti in libertà e una stampa non soggetta a censura.
Le democrazie caratterizzate da un sistema mediatico libero ed energico e da regolari elezioni multipartitiche si dimostrano di fatto efficienti nel prevenire il verificarsi delle carestie. Ciò merita d’essere considerato se si analizza l’efficacia con cui il dibattito pubblico contemporaneo può farsi carico dei problemi delle generazioni future. Ma perché?
Per fare un confronto, si pensi che la percentuale di persone colpite dalle carestie non supera mai il dieci per cento della popolazione totale e risulta altresì solitamente inferiore al cinque. Una frazione così esigua difficilmente risulterà in grado di indurre la maggioranza a votare le misure direttamente necessarie a sradicare la minaccia della fame. Sono dunque il dibattito e l’impegno pubblico a diffondere l’ampiezza di vedute di coloro che, pur nutrendo interessi non necessariamente minacciati dalle carestie, ritengono ragionevole tentare di prevenirle - e mandano a casa i governi pertinaci. Pertanto, anche se coloro che hanno attualmente diritto al voto non ci saranno forse più quando le generazioni future si troveranno ad affrontare la gravità dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale, il dibattito pubblico democratico può rendere efficace il voto di oggi nel tutelare gli interessi delle generazioni future; allo stesso modo, una democrazia maggioritaria di oggi, in cui sia radicato con forza il dibattito pubblico, può salvare la vita a una minoranza di persone (quali le vittime potenziali di una carestia) che, di per sé, non può spostare il voto in un sistema maggioritario.
Le democrazie che si contraddistinguono per libertà del dibattito pubblico e assenza di censura governativa forniscono gli strumenti con cui perseguire giustizia sociale in numerosissimi ambiti. E rendere giustizia ai cittadini di domani costituisce già una parte assai rilevante dell’impegno democratico. Un dibattito pubblico aperto è un mezzo idoneo a gestire le nostre responsabilità verso le generazioni future.
Le nostre responsabilità in materia di sviluppo sostenibile racchiudono dunque il ruolo svolto dai cittadini di oggi nel dibattito inerente una situazione mondiale che si estende oltre le vite individuali. Di sicuro, molti aspetti legati al collasso ambientale esprimono effetti immediati. A quanti respirano l’aria di Pechino, Città del Messico o Nuova Delhi non occorre ricordare che alcuni degli effetti derivanti dal degrado ambientale pregiudicano nell’immediato la qualità delle loro vite. E a prescindere dal fatto che ci si occupi della condizione della popolazione di oggi o di quella di domani, non si possono ignorare la responsabilità civica e la partecipazione alla vita politica.
Attualmente disponiamo di una letteratura piuttosto vasta sul ruolo che i singoli cittadini svolgono nella salvaguardia dell’ambiente, incentrata nella fattispecie su azioni che trovano motivazione in un senso di obbligo civico e di etica sociale. Andrew Dobson si spinge a sostenere quanto da lui definito col termine di «cittadinanza ecologica», che prescrive l’attribuzione all’ecologia di una priorità. Non sono del tutto certo che smembrare una cittadinanza integrata in specifici ruoli settoriali costituisca il modo migliore per interpretare la cittadinanza e la democrazia. Tuttavia, Dobson enfatizza con giusta ragione la portata delle responsabilità civiche nell’affrontare le sfide ecologiche. Egli analizza ed evidenzia in primo luogo ciò che i cittadini possono fare se spinti da motivazioni sociali e riflessioni ponderate, anziché da puri incentivi finanziari (agendo in qualità di «attori razionali mossi da egoismi personali»).
Concentrare l’attenzione sul senso della responsabilità ecologica dei cittadini è tipico di una nuova tendenza che si colloca a metà strada fra teoria e pratica. La politica britannica, ad esempio, fu bersaglio di critiche sul finire del 2000 quando, in risposta a picchetti e proteste, il governo fece marcia indietro rispetto alla proposta di aumento delle imposte sulla benzina, senza compiere alcun tentativo serio di rendere la questione ambientale materia di dibattito pubblico.
Come afferma Barry Holden nel suo avvincente Democracy and Global Warming, «Democrazia e riscaldamento globale», «questo non significa necessariamente che la questione ambientale avrebbe vinto la battaglia», ma «suggerisce che avrebbe avuto una possibilità, se almeno fosse stata sollevata». La crescente delusione che si va registrando è associata non solo alla debolezza - o all’assenza - di iniziative concrete, capaci di coinvolgere i cittadini nelle politiche ambientali, ma anche al palese scetticismo delle amministrazioni pubbliche circa la possibilità di appellarsi con successo al senso di responsabilità sociale dei cittadini.
Perché bisogna combattere gli stereotipi su Adam Smith
di Amartya Sen (la Repubblica, 27.05.2010)
Al momento della sua morte, avvenuta nel luglio del 1790 a Edimburgo, Adam Smith era più celebre e apprezzato in Francia che in Inghilterra. I rivoluzionari d’Oltremanica, per esempio il Marchese di Condorcet, si richiamavano con frequenza alle idee di Smith, e quella del filosofo ed economista scozzese era una presenza molto solida nei circoli intellettuali francesi. Naturalmente le opere di Smith erano molto lette anche in Inghilterra, e la prima di esse in ordine di tempo, la Teoria dei sentimenti morali (1759), non faceva eccezione, se all’indomani della sua pubblicazione Hume scriveva a Smith da Londra: «Il pubblico pare ansioso di tributare [al Vostro libro] enorme plauso». Tuttavia se sulle posizioni di Smith gli ammiratori francesi delle sue idee radicali avevano già maturato quella che potremmo definire una visione equilibrata (lo consideravano, appunto, un pensatore radicale), in Inghilterra l’immagine, oggi familiare, di uno Smith profondamente conservatore, intemerato araldo delle virtù del mercato (nel suo secondo libro, La ricchezza delle nazioni), era ancora in via di formazione. Tale immagine avrebbe preso quota, fino a diventare l’icona di Smith, solo nei decenni successivi alla scomparsa del filosofo.
Ancora nel 1787, tre soli anni prima della morte di Adam Smith, Jeremy Bentham stigmatizzava l’incapacità smithiana di mettere a fuoco tutte le virtù della libera economia e scriveva al filosofo scozzese una lunga lettera per rimproverargli l’irragionevole avversione al mercato. Invece di rinfacciare al mercato (proponendo di interferirvi) l’incapacità di tenere sotto controllo quelli che definiva "sperperatori e speculatori", Smith avrebbe dovuto lasciarlo operare in autonomia, abbandonando l’idea di una regolamentazione delle transazioni finanziarie da parte dello stato. Benché così argomentando Bentham mostri di non essere probabilmente riuscito a cogliere la forza del pensiero di Smith in materia (io sono convinto che non la colse), la sua valutazione dello scetticismo di Smith riguardo al mercato non è del tutto peregrina.
Comunque sia, di lì a poco Smith si sarebbe guadagnato l’immagine, che ancora oggi ne costituisce lo stereotipo, del banditore politico di elementari formulette, per lo più in lode del libero mercato; nulla a che vedere con quello che è uno dei più raffinati creatori di teorie sociali ed economiche mai esistiti, un sofisticato pensatore che guarda ai mercati con circostanziato scetticismo e al tempo stesso insiste perché, oltre ai problemi da superare, vengano riconosciuti anche i buoni esiti cui i mercati - e solo i mercati - consentono di approdare.
Ciò che Bentham non era riuscito a compiere per via argomentativa - trasformare senz’altro Adam Smith in un campione del puro capitalismo di mercato - fu realizzato nel XIX secolo attraverso un’errata analisi dell’opera smithiana e un corpus di citazioni estremamente parziale, insensibile a molti altri passi degli scritti di Smith. Questa immagine distorta di Adam Smith, fonte di tanti usi indebiti delle idee smithiane, si sarebbe consolidata nel secolo successivo alla morte del filosofo, per diventare poi canonica nel Novecento. Essa rimane tuttora il modo consueto di inquadrare Smith sia nelle opere dei principali economisti che nelle pagine dei giornali (malgrado le proteste di alcuni importanti specialisti).
Le tre lezioni che i propugnatori del capitalismo di mercato e del profitto traggono dalla lettura di Smith sono: 1) l’autosufficienza e la natura autoregolativa dell’economia di mercato; 2) l’idea che il profitto sia un movente adeguato per una condotta razionale; 3) l’idea che l’amor di sé sia sufficiente a determinare un comportamento socialmente produttivo. Tali tesi non solo non appartengono a Smith, ma sono marcatamente in contrasto con il suo pensiero.
In primo luogo, se è vero che Smith considera i mercati istituzioni di grande utilità, è anche vero che egli insiste con forza sulla necessità di integrarli con altre istituzioni, in particolare con istituzioni statali: il punto di disaccordo con Jeremy Bentham era senza dubbio questo. In secondo luogo, Smith sostiene la necessità di porre alla base di un comportamento razionale motivi che vadano al di là del profitto e del tornaconto personale. Con grande finezza Smith identifica varie ragioni per cui gli individui possono provare interesse per la vita degli altri, distinguendo tra simpatia, generosità, senso civico e altre motivazioni.
In terzo luogo, lungi dall’attribuire al perseguimento dell’amor di sé la capacità di dare vita a una buona società, Smith sottolinea la necessità di guardare ad altri moventi, e non solo per la realizzazione di una società decorosa, ma anche per quella di un’economia di mercato florida. Si spinge persino ad affermare che se «la prudenza» è «tra tutte le virtù quella maggiormente utile all’individuo», «l’umanità, la giustizia, la generosità e il senso civico sono le qualità più utili agli altri».
L’interpretazione standard del pensiero smithiano promossa dalla maggior parte degli economisti, e in tal modo filtrata nella cosiddetta «politica della scelta razionale» e nella corrente dominante dell’«analisi economica del diritto», è completamente fuori strada.
Conversando con Amartya Sen
«La crisi economica globale? Colpa di liberismo e finanza
È tempo di giustizia e libertà»
di Oreste Pivetta (l’Unità, 25.05.2010)
Amartya Sen è in Italia: vi trascorrerà alcuni giorni, per il riposo e per alcune conferenze. Il premio Nobel per l’economia gli venne attribuito nel 1998, per una «economia» pensata e ripensata alla luce di una necessità etica che dovrebbe coinvolgere gli uomini, il mondo intero, collocando l’indagine economica all’interno di una riflessione che fa perno su una nozione di diseguaglianza, analizzata a partire dalla eterogeneità degli esseri umani e dalla molteplicità dei parametri in base a cui può essere definita. Per questo, ragionando di sviluppo e di mercato, ma anche di libertà, democrazia, giustizia, di diritti (di diritti anche della «terra» e quindi in una dimensione ecologica), è diventato una bandiera, un beniamino, un riferimento di quanti hanno immaginato una alternativa al liberismo imperante, alla globalizzazione selvaggia, al depauperamento delle risorse, all’arricchimento di pochi e alla fame di molti. Una sintesi, anche di grande valore simbolico, della sua battaglia sta nell’invenzione (insieme con il collega pakistano Mahbub ul Haq e per conto delle Nazioni Unite) di un Pil (prodotto interno lordo) che rivoluziona quello tradizionale e che calcola la «ricchezza delle nazioni» non secondo riferimenti monetari o industriali, ma secondo altri parametri, come tasso di alfabetizzazione, grado di democrazia, possibilità di scolarizzazione, libertà di accesso ai media, qualità dell’assistenza sanitaria, attesa di vita, diffusione del benessere: si dice Hdi, indicatore di sviluppo umano (che non tutti però, mi precisa Sen, li include).
Il tema del suo ultimo libro, pubblicato da Mondadori, è la giustizia. Lo dice il titolo: «L’Idea di Giustizia». Ma lei è un economista e noi viviamo da tempo una pesante crisi economica. Come se ne esce? Imboccando un’altra strada rispetto a quella seguita fin qui? Abbandonando un modello di sviluppo, che è poi il modello capitalista?
«La crisi economica è grave. Le ragioni stanno certo nella cattiva politica, nella mano libera consentita alla speculazione finanziaria, nell’eccesso di fiducia nella forza regolatrice del mercato, comprimendo o addirittura osteggiando il ruolo delle pubbliche istituzioni. Diciamo che la prima responsabilità è stata degli Stati Uniti, con la complicità ovviamente di tutti gli altri paesi più ricchi. A questo punto per rimediare non c’è che una strada: incentivi e interventi pubblici, con le riforme istituzionali che possono favorirla. Pensando globalmente. Questo è un punto fermo. L’altro riguarda ancora il tema del mio libro: Giustizia e ingiustizie. Non possiamo ignorarlo, anche mentre la finanza va a rotoli, le borse crollano, la disoccupazione sale: non possiamo accettare soluzioni che per motivi di bilancio, per salvare il vecchio ordine, impongano nuove ingiustizie. Ad esempio, se è giusto tagliare il superfluo, si dovrebbe sempre considerare che politiche di estremo rigore rischiano di essere controproducenti laddove non assicurino i servizi pubblici essenziali ai cittadini. Ma soprattutto dobbiamo batterci contro quelle ingiustizie che già conosciamo, contro la povertà, contro le limitazioni della libertà, contro le censure alla democrazia, ovunque nel mondo, in Asia o in Africa, ma anche nei paesi industrializzati. Il benessere dell’universo mondo resta una questione di giustizia e le politiche economiche a sostegno della ripresa devono essere giudicate per quanto riescono a rafforzare quelle condizioni di libertà e di democrazia che sono autentica misura della qualità della vita per tutti e allo stesso tempo premessa del cammino che verrà».
Vediamo allora questo suo libro, che si apre con una dedica a John Rawls, il filosofo statunitense morto otto anni fa. Basterebbe il suo primo saggio, del 1958, «Giustizia come equità». “La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali”, ha scritto Rawls. Mi pare, professor Amartya Sen, che lei affronti il tema della giustizia da un altro punto di vista, cioè in funzione delle condizioni dell’esistenza umana, di una qualità della vita che a tutti dovrebbe essere garantita. Perché quel riferimento a Rawls?
«Il mio punto di vista sulla giustizia non è sempre esattamente compatibile con le conclusioni cui è giunto Rawls che ha comunque influenzato lo sviluppo del mio pensiero. Leggendolo, senza condividere molte delle sue affermazioni, mi ha stimolato a una ricerca personale. Per riassumere il lungo rapporto intellettuale che mi ha unito a Rawls, userei l’espressione ‘dialettica’. Credo che voi del l’Unità di dialettica ne capiate. Partendo dalle ragioni di disaccordo, sono riuscito a individuare il mio cammino per tentare di rispondere alla domanda fondamentale: che fare per contare su una giustizia migliore?».
E come le pare si possa rispondere a questa domanda. Esiste una misura della giustizia?
«Scrivendo questo libro, a proposito di un’idea di giustizia, mi sono innanzitutto preoccupato delle ingiustizie, perché solo risalendo dalle ingiustizie, dalla loro cancellazione, si può pensare a un passo verso una condizione più stabile e più equa dell’umanità».
Cioè, a una immagine teorica, direi ideale, della Giustizia, antepone una pratica di «ascolto» delle mille ingiustizie?
«Certo. Come infatti una società si può evolvere nel segno della giustizia? Può provarci, a condizione prima di tutto di una diagnosi delle ingiustizie. Su questo insisto: il primo compito è diagnosticare. Poi sulla base della conoscenza, di un consenso ragionato, di un esercizio intellettuale, attraverso cambiamenti politici, istituzionali, attraverso pure un cambiamento della mentalità diffusa, si può agire perché spariscano le situazioni di ingiustizia».
Però le miserie del mondo, la fame, le morti sono lì a parlarci immediatamente. E in modo scandaloso ...
«Le manifestazioni eclatanti, clamorose di ingiustizia sono infinite. Però mi interessava particolarmente stigmatizzare le forme più sottili dell’ingiustizia, ad esempio le tante forme di diseguaglianza tra gli uomini, lo squilibrio dei redditi piuttosto che la diversità delle opportunità. Sono questioni che toccano la sfera personale. Ciononostante condizionano il mondo. Certo: ingiustizia è morir di fame, è dover affrontare una carestia. Sono capitoli estremi dell’esistenza umana. Mentre si apre davanti ai nostri occhi un arcobaleno di situazioni, alcune delle quali non riusciamo a vedere nitidamente, come le tante forme di violenza, di limitazione delle libertà, di condizionamento fino alla tortura. Se vogliamo dare una risposta ad una domanda di giustizia, se vogliamo che quindi il genere umano, tutto, possa vivere bene, senza soffrire la fame, senza patire violenze, dobbiamo imparare a considerare le situazioni più manifeste (e morir di fame è tra le più gravi), ma anche quelle più occulte, che colpiscono comunque l’esistenza degli individui».
Mi pare che lei, trattando di giustizia, si riferisca molto spesso a concetti di libertà e di eguaglianza. Potremmo aggiungere «fraternità», come ‘legante’ comunitario, e siamo ai tre principi della rivoluzione francese. Quale dei tre metterebbe in primo piano?
«Mi sembrano tre principi importanti allo stesso modo. La libertà consente all’uomo di agire alla luce della ragione che a ciascuno è data. L’uguaglianza, se siamo esseri umani, è garantire a tutti le medesime opportunità. La fraternità permette di stabilire di continuare relazioni reciproche che non siano fondate sull’ostilità, che ci consentano quindi di sentirci vicendevolmente a nostro agio, di vivere vicini senza danneggiarci, di essere rispettati dai propri simili, di partecipare alla vita della comunità. Cercare di stabilire tra questi principi una classifica, mi sembra come tentare di dire che cosa sia preferibile tra i sensi, l’udito, la vista, il gusto. Valgono tutti e tre allo stesso modo e di nessuno dei tre vorrei privarmi. Finchè non sei posto davanti al bivio, cioè a una scelta, non potrai mai immaginare la graduatoria».
LA RICERCA
PIl addio, nasce il Piq
La ricchezza è di qualità
La fondazione Symbola lancerà un metodo che fotografa lo stato di salute reale dell’economia. Basti pensare che oggi un sisma è considerato un "fatto positivo", perché porta la ricostruzione
di ANTONIO CIANCIULLO *
Un Paese diviso in due. Con un motore economico antiquato e in affanno, che perde colpi ma muove ancora la maggior parte del fatturato. E un nuovo volano di sviluppo soft, che cresce lentamente ma con continuità. E’ la fotografia dell’Italia vista dal Piq, il Prodotto interno di qualità. Questa Italia vale il 46,3 per cento della nostra economia: 430,5 miliardi di euro nel 2009.
Una stima da prendere con cautela perché non è semplice stabilire che cosa sia la "qualità". Si sa che ha a che fare con il benessere, con la felicità, con l’equilibrio dei bilanci e con la stabilità degli ecosistemi. Ma alla fin dei conti resta un concetto sfuggente, "dinamico e continuamente aggiornato", osserva il rapporto sul Piq che sceglie di non cimentarsi nella scivolosa definizione di "felicità" e di concentrarsi invece sulla misurazione della qualità in funzione della competitività del sistema. Il rapporto analizza 27 settori dell’economia pesando il contributo in termini di capitale umano, conoscenza, sviluppo del prodotto o del servizio, costruzione di reti nazionali e internazionali.
Nasce così una nuova "bilancia" che può dare un contributo importante nel mettere a fuoco la direzione di marcia dell’economia. Specie in tempi di crisi.
Il Pil (Prodotto interno lordo) fu l’unità di misura utilizzata per uscire dalla Grande Depressione del ’29, in un periodo in cui la produzione di acciaio veniva considerata un indicatore universale di buona salute economica. Ma il Pil è un misuratore cieco: mette all’attivo anche i soldi spesi per riparare le catastrofi derivanti dal malgoverno del territorio e se un terremoto distrugge una città risulta un arricchimento collettivo. Perciò in tanti - a cominciare dal "Rapporto sulla performance economica e il progresso sociale" curato da Stiglitz, Sen e Fitoussi su incarico del presidente francese Sarkozy - cercano un’alternativa.
La Fondazione Symbola, con l’aiuto di un team formato da Luigi Campiglio, pro rettore dell’Università Cattolica di Milano, da oltre 150 esperti di settore e da rappresentanti di Confindustria, Coldiretti, Cna, Confartigianato, Confcommercio, ha dato un contributo organizzando il rapporto sul Piq come un "cantiere aperto" per mettere a punto uno strumento capace di misurare non solo i flussi, le quantità, ma anche lo stato di salute reale dell’economia.
L’obiettivo, precisa nell’introduzione Ferruccio Dardanello, presidente di Unioncamere, è "distillare" dal Pil la sua essenza, cogliendo la nota corale della qualità: "La qualità costituisce un indubbio elemento di forza delle produzioni italiane. Questa difficile fase che stiamo vivendo sta tuttavia dimostrando che la qualità, da sola, probabilmente non basta più alle nostre imprese per farsi largo nel nuovo scenario del commercio internazionale. I nostri campioni dell’industria manifatturiera hanno capito che l’offerta dal profilo qualitativamente elevato resta competitiva solo se frutto anche di una più ampia capacità innovativa e, soprattutto, di una maggiore efficienza produttiva non solo interna ma soprattutto di "sistema" o di filiera". L’Italia delle eccellenze insomma deve saper far squadra per imporre i valori dell’efficienza, dell’innovazione, del rispetto del territorio e della coesione sociale senza i quali la crescita si blocca.
Le grandi questioni ambientali - aggiunge Campiglio - hanno messo in evidenza la questione dei "beni comuni", i commons, - oggi divenuti di importanza ineludibile per le ripercussione sul clima, sull’equilibrio fra domanda e offerta agricola e sulla sicurezza alimentare: "Pensiamo al crescente problema delle proprietà abbandonate nelle campagne e sui monti italiani: la questione centrale è come riuscire a fare in modo che i "beni comuni" diventino un "bene comune" anziché un "male mondiale"".
Per Ermete Realacci, presidente di Symbola, il Piq fornisce l’occasione per rileggere quello che per anni le statistiche non hanno saputo cogliere: la trasformazione di una parte del nostro sistema produttivo nel segno della qualità, un processo che in alcuni comparti ha permesso di aumentare i fatturati diminuendo la quantità di merce. Ad esempio si è dimezzato il numero di scarpe esportate, ma il fatturato complessivo del settore è aumentato. Si produce il 40 per cento in meno di vino rispetto alla metà degli anni Ottanta, ma il valore dell’export è quadruplicato. "E’ un’Italia", conclude Realacci, "che ha un grande bisogno di essere messa in rete e di riconoscersi in un progetto comune, quello della qualità. Con il Piq offriamo uno strumento per ribaltare la prospettiva della crisi: giocare non più in difesa, ma con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita e la competitività del Paese".
* la Repubblica, 19 maggio 2010
UNA DEMOCRAZIA APERTA ALLA POTENZA DEL REALE
IL SOGNO dei giusti
di Sandro Chignola (il manifesto, 25.06.2010)
Una buona società nasce senza l’investitura statale. La teoria della giustiza vista criticamente dal premio Nobel Amartya Sen e dal filosofo statunitense Ronald Dworkin. Due volumi che metteno al centro della riflessione le idee di eguaglianza e di libertà
Forse è possibile partire dalla fine. Nell’estate del 1816 James Mill scrive a David Ricardo in merito alla carestia indotta dalla grave siccità abbattutasi sull’Inghilterra. La fredda constatazione di Mill è che un terzo della popolazione è destinata a morire. Il suo fatalismo, tuttavia, non si limita a questo. La conclusione cui perviene il suo utilitarismo è che sarebbe bene, per praticare una riduzione delle sofferenze del popolo, portare la gente colpita dalla siccità «nelle strade e nei viali e sgozzarle come si fa con i maiali». Con questa conclusione, Ricardo si dice pienamente d’accordo. E, nella sua risposta a Mill, aggiunge il suo dispiacere nel «vedere la tendenza ad infiammare gli animi delle classi inferiori» convincendole che il legislatore potrebbe in qualche modo soccorrerle.
Lo scambio di lettere tra Mill e Ricardo, alquanto efficace nel restituirci il lato in ombra del liberalismo ottocentesco, quello dal quale emana il suo «cattivo odore», per riprendere la felice espressione di Michelle Perrot, viene evocato nell’ultimo capitolo del poderoso volume di Amartya Sen che Mondadori manda in questi giorni in libreria (L’idea di giustizia, pp. 457, euro 22). Se, come facevano Ricardo e Mill a partire da un fatalismo economico determinato, si riteneva che quelle persone non potessero in alcun modo essere salvate, era legittimo stigmatizzare le proteste e pensare, invece, a come minimizzare i costi sociali della loro agonia.
I codici del comando
Ciò che appariva «giusto» da fare in quella circostanza, apriva evidentemente uno spazio conteso. Da un lato, la prospettiva dei saperi a stretta desinenza «tecnica», quelli di Mill e di Ricardo. Una prospettiva che metteva fuori corso anche solo la legittimità di proteste e di aspettative che chiedessero di intervenire sulla situazione. Dall’altro, le rivendicazioni di coloro che non soltanto avrebbero avuto la loro da dire in merito al fatto di farsi sgozzare come maiali, ma che muovevano contro la fredda linearità del ragionamento che portava a quella conclusione. Quello che si apre tra «situazione effettiva» e «situazione potenziale» è uno iato che è possibile valorizzare in termini di promozione della giustizia. E, per Amartya Sen, quegli stessi «animi infiammati» che dispiaceva a Ricardo dover considerare presenti sulla scena dell’analisi economica, possono invece innescare, proprio per il loro spalancare la dimensione del possibile, il processo della critica. L’«indignazione» - autentica passione spinoziana, anche se Sen non ce lo ricorda - può inaugurare «la riflessione, anzichè sostituirla», come egli scrive. Non mantenersi al di qua. o al di là della situazione, ma attraversarla, metterla in movimento, sparigliarne i codici costitutivi.
È sulla necessità di assegnare uno status particolare all’accordo raggiunto attraverso una riflessione pubblica, che Amartya Sen fa ruotare il suo libro. L’operazione che sta al suo centro agisce su molti livelli. Innanzitutto, essa muove dal conservare quell’apertura. Una teoria della giustizia che si fondi sulla riflessione pubblica, non può cedere all’illusione di definire un orizzonte preciso, unanimistico, delle scelte. L’accordo sul quale è possibile convergere non pretende di realizzare una gerarchizzazione univoca e ultimativa delle opzioni. Se è vero che il disaccordo - che Sen non ritiene affatto una iattura - non è una condizione insuperabile, gli accordi che la discussione pubblica delle opzioni può realizzare non possono essere supposti facilmente stringibili o incisi per sempre nel bronzo. La messa in discussione di pregiudizi, interessi, preconcetti, è fondamentale per decidere secondo giustizia, ma talvolta può non essere sufficiente per aggirare lo stallo che si determina quando le ragioni alla base delle scelte possibili appaiono tutte legittime se prese ciascuna di per sé. Nè essa può esorcizzare per sempre il ritorno del disaccordo come componente fondamentale della comunicazione sociale.
La deriva istituzionale
Riconoscere che anche qualora una teoria comprensiva della giustizia accolga al proprio interno considerazioni non in linea con la sua struttura non significhi doverla per forza valutare incoerente o inservibile. È questo il passaggio preliminare per assumere a motore del processo decisionale la pluralità delle opzioni e per non sacrificare il pluralismo ai recinti che in nome dell’accordo da raggiungere selezionano i partners suscitati al dialogo o i valori fondamentali da sottrarre al confronto.
Quella di Amartya Sen è, in questo senso, una prospettiva davvero globale. Non soltanto per il suo reclutare i propri argomenti dalla biblioteca delle differenti culture che il suo nomadismo accademico gli ha reso possibile attraversare, ma per la consapevole rinuncia al trascendentalismo della ragione e al suo rovescio istituzionale. Le concrete realizzazioni sociali della giustizia, la costante rivedibilità dei criteri di accesso al dialogo pubblico, il potenziamento delle capacità individuali e collettive, che viene con ciò reso possibile e non una «felicità» e una «democrazia» universali e minacciose perché promosse indipendentemente dalle concrete condizioni di vita dei cittadini globali, quando non addirittura sospinte dalle ali dei bombardieri, è ciò che gli interessa difendere.
La rivedibilità dei criteri di giustizia e il mantenimento di un’apertura al cuore della loro definizione sono ciò che spinge il confronto critico di Sen con le teorie del contratto sociale, da Thomas Hobbes a John Rawls. Ciò che Sen contesta in esse sono fondamentalmente due cose: il costruttivismo istituzionalista (l’idea cioè che sia possibile pervenire all’identificazione e alla realizzazione di un ordine «giusto») e un modello di razionalità formale che elude il confonto con i problemi di intersezione e di confronto con culture e pratiche sociali materialmente differenziate.
Contro quest’ipotesi - la cui ombra lunga si proietta ovviamente ben oltre il XVII secolo per toccare parte significativa del dibattito filosofico-politico contemporaneo (da John Rawls a Robert Nozick) -, Sen mobilita, tra gli altri, argomenti della cultura tradizionale indiana. Il ruolo assegnato ai doveri e alla responsabilità che derivano dall’esercizio di un potere reale non si esaurisce nella promozione di un vantaggio, ma configura un impegno oblativo: se una persona ha il potere di compiere un’azione che a suo avviso può ridurre l’ingiustizia nel mondo, ci sarebbero buoni e fondati motivi perché essa proceda in tal senso, senza bisogno di giustificarsi invocando un qualche vantaggio pratico connesso all’attività di cooperazione. Buddha contra Hobbes, evidentemente.
Ci sono due parole per dire «giustizia» in sanscrito classico: niti e nyaya. Ad esse Amartya Sen fa riferimento per l’intero svilluppo del suo libro. La giustizia intesa come niti fa riferimento all’organizzazione, all’istituzione e all’«adeguatezza» di un comportamento rispetto ad una norma. Ad essa fa da contraltare il termine nyaya: la giustizia intesa come più ampia distribuzione sociale realizzata.
La dottrina della morale
Tutti gli antichi teorici indiani del diritto parlano non a caso con disprezzo di ciò che chiamano matsayanyaya, la «giustizia del mondo dei pesci», quella per cui il pesce grosso mangia quello piccolo. Ciò che qui è cruciale - e il riferimento agli squali della finanza globale e alla «matrice» giuridica neoliberale non è del tutto improprio - è che per realizzare la giustizia come nyaya non è sufficiente attrezzare modelli decisionali e normativi, ma occorre giudicare le società stesse per la distribuzione delle capabilities che realizzano e per il sistema di opzioni che mettono a disposizione.
È attraverso questa posizione che Amartya Sen impatta il dibattito internazionale. Da un lato, mobilitando un sapere locale occultato e rimosso dal canone formalista occidentale della razionalità. Dall’altro, fondando direttamente i principi di giustizia sulle concrete realizzazioni sociali da essi rese possibili e non limitandosi ad ancorarli a norme e ad accordi procedurali, come si limitano invece a fare molti di coloro che egli assume a interlocutori: da Rawls, a Dworkin, a Nagel.
Proprio di Ronald Dworkin, un libro su argomenti analoghi esce ora in Italia (La giustizia in toga, Laterza, pp. 325, euro 24). Qui, la prospettiva criticamente discussa da Amartya Sen, si fa particolarmente esplicita. I criteri di giustizia, in una serie di contributi nei quali Dworkin si confronta, oltre che con teorici del diritto, con giudici e sentenze della Corte Suprema, vengono inscritti nelle tavole di un’«anatomia» dell’ordinamento. Ciò che interessa a Dworkin è definire il luogo che le «convinzioni morali» di un giudice dovrebbero, oppure non dovrebbero, occupare in relazione alle sue opinioni circa cosa sia il diritto.
Di qui l’operazione che Dworkin conduce differenziando diversi livelli dell’analisi giuridica - questo il bisturi con cui Dworkin incide il sistema normativo per attingere l’anatomia della decisione giurisprudenziale - e innestando la funzione morale, come criterio di giustizia, su di un piano intermedio tra la definizione semantica e quella dottrinaria dei principi del diritto. Ne deriva una serie di conseguenze: innanzitutto l’assunzione «olistica ed integrata» di valori etici non gerarchizzabili che segnano la cooperazione sociale indirizzandola ad un progresso; poi, una polemica col «pragmatismo darwiniano» di coloro che pensano che il diritto evolva quasi di per sé, in termini incrementali, in nome di una teoria del diritto e della pratica giurisprudenziale che connetta, invece, morale e diritto. Infine, una concezione dell’interpretazione giudiziale che non assuma a proprio motore la «fedeltà ai principi», per assumersi invece la responsabilità politica di indirizzare decisioni collettive che hanno un effetto diretto sulla vita dei cittadini. Il ruolo della giustizia nella definizione di cosa sia il «diritto» emergerebbe a questo livello.
La fisiologia del conflitto
Anche Dworkin polemizza con il proceduralismo di Rawls. E valuta estremamente limitato il concetto di libertà di Isaiah Berlin. E tuttavia, Amartya Sen muove ancora oltre Dworkin. Quest’ultimo, a parere di Sen, non fuoriesce in fondo dall’istituzionalismo trascendentale. Non solo perché traduce l’egualitarismo in uguaglianza di risorse in partenza e non in uguaglianza di libertà e capacità effettiva, ma soprattutto per il tentativo, che è in fondo lo stesso di Rawls, di generare secondo un modello razionale e in una sola mossa, un sistema di di istituzioni perfettamente giuste. Al gesto anatomico di Dworkin e del contrattualismo, Amartya Sen contrappone la fisiologia - la «vita» - del diritto inteso come giustizia, come nyaya.
Se una teoria della giustizia ha un obiettivo, questo non coincide con il narcisismo e la retorica della fondazione. Esso ha a che fare piuttosto «con il tipo di creatura che noi esseri umani siamo», sostiene Sen. Uomini dotati di ragione e tuttavia capaci di simpatia; capaci di provare dolore ed indignazione di fronte all’umiliazione del prossimo, sensibili alla libertà, capaci di ragionare, di argomentare, di disapprovare, di convenire. Capaci di situarsi nella posizione dello «spettatore imparziale» di Adam Smith e di prendere dunque in considerazione, eccedendo il confine di ogni concezione locale della giustizia, le opinioni altrui e la riflessione che le ha prodotte. Di assumere perciò la democrazia come una pratica e il processo del diritto come un concreto farsi della giustizia.
«Nulla è mai stato percepito e sentito quanto l’ingiustizia» dice Pip in Grandi speranze di Dickens, frase scelta come citazione d’apertura del libro di Sen. Per Dworkin, «manifestamente ingiuste sono le aliquote dell’imposizione fiscale negli Stati Uniti». I limiti del dibattito contemporaneo sulla giustizia stanno esattamente nella distanza che separa queste due posizioni. E ciò forse allude alla necessità di una ben più radicale genealogia.
*
SCAFFALI
Un Premio Nobel e un «liberal» contro l’ideologia del libero mercato
Amartya Sen è un economista (ha avuto il Nobel nel 1998) che ha cercato sempre di unire l’adesione alla concezione neoclassica dell’economia a una teoria dell’eguaglianza e della libertà: caratteristica che lo hanno reso uno degli studiosi più ascoltati dai movimenti sociali tanto del Nord che de Sud del Pianeta. Tra i suoi testi, vanno ricordati «Risorse, valori e sviluppo» (Bollati Boringhieri), «La diseguaglianza» (Il Mulino), «Globalizzazione e libertà» (Mondadori), «La democrazia degli altri» (Mondadori). Indiano ha preso più volte posizione contro la scelta del governo di New Dehli a favore del libero mercato.
Ronald Dworkin è invece un filosofo del diritto (insegna alla New York University) che ha puntato invece a dare un fondamento morale all’esercizio della giustizia. Da qui la sua teoria «interpretativa» della legge. Tra i suoi testi, vanno ricordati «L’impero del diritto» (Il Saggiatore), «I fondamenti del liberalismo» (Laterza), «La democrazia possibile» (Feltrinelli).