AMARTYA SEN. L’ELOGIO DEL METICCIATO
Il premio Nobel Amartya Sen lancia un allarme contro chi rimuove la natura plurale e stratificata dell’uomo contemporaneo. E intanto esce un suo saggio contro gli abusi in nome dell’identità.
di Gad Lerner (La Repubblica, 09.09.2006)
Cei (Conferenza Episcopale Italiana), Ucoii (Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia), Ucei (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane)... Ogni giorno che passa, queste e tante altre sigle di rappresentanza comunitaria (vera o presunta?) conquistano spazio crescente nel nostro dibattito pubblico. Quando si discute di terrorismo, politica estera, regole di convivenza, pendiamo dalle labbra dei loro molteplici portavoce, non tutti credibili eppure ricercatissimi: quasi si trattasse addirittura di portavoce delle identità fondamentali entro cui ciascuno di noi dovrà naturalmente irreggimentarsi.
Ormai nell’agenda telefonica pronto uso del buon giornalista ci sono il vescovo conservatore e quello progressista, il musulmano "nemico" e il musulmano "amico", l’ebreo "duro" e l’ebreo "pacifista".
Pure in tv i nuovi portavoce comunitari cominciano a portar via spazio ai leader politici e ai rappresentanti delle categorie sociali. Magari con l’aiuto di parlamentari e opinionisti già specializzati come supporters dell’una o dell’altra gerarchia d’appartenenza (il sottosegretario preferito degli ebrei, l’ateo sostenitore di Ruini, il comunista devoto allo sciita Partito di Dio). Perfino al Viminale sembra prevalere l’idea che l’integrazione degli immigrati verrà facilitata dalle nuove organizzazioni comunitarie di matrice religiosa. Naturalmente sostenendo quelle "moderate" a scapito di quelle "radicali".
Eppure, a ben pensarci, questa tendenza a comprimere le persone dentro contenitori di identità uniche non solo finisce per mettere in crisi la nozione universalistica di cittadinanza, offuscando il sentimento di un’umana appartenenza globale. Stiamo rischiando, prima ancora, di falsificare la nostra esperienza di vita reale. Rimuovendo chi veramente noi siamo: individui complessi, ciascuno diverso nella sua unicità, variamente dotati di senso d’appartenenza e richiami spirituali. Uomini e donne in cui sono stratificate varie identità simultanee.
Benvenuto dunque l’allarme lanciato dal premio Nobel Amartya Sen nel suo recente ma già celebre saggio Identità e violenza, ora tradotto in italiano da Laterza (pagg. 219, euro 15). Guai a brutalizzare «l’inaggirabile natura plurale delle nostre identità», ci esorta Sen. Diffidiamo da chi guarda il mondo attraverso la lente deformante che lo riduce a mera «federazione di religioni e civiltà»: perché l’imposizione di una presunta identità unica è troppo spesso il preludio all’esercizio di «quell’arte marziale che consiste nel fomentare conflitti settari».
Non è certo un caso che questa efficacissima opera di demolizione teorica dell’ossessione identitaria contemporanea ci venga proposta da un pensatore cosmopolita. Un indiano di casa a Cambridge e ad Harvard.
Un economista che è anche un filosofo. Un uomo che non rinnega le sue origini ma le valorizza nell’incontro fra cultura asiatica e cultura occidentale. Così, grazie alla sua formazione individualistica, constata felicemente come una persona possa essere, senza la minima contraddizione, tante cose insieme, non riducibili a un’affiliazione religiosa, etnica o comunitaria.
Negli anni Settanta del secolo scorso, quando il bisogno d’identità tornò a manifestarsi nel mondo anche sotto forma di irrefrenabili esplosioni settarie, lo storico marxista Eric Hobsbawm propose di esorcizzarne l’impeto, distinguendo: una cosa sono le insuperabili "identità-pelle"; un’altra cosa sono le troppe inautentiche, mutevoli "identità-magliette".
Il liberale Sen va oltre, fa leva sulla normale complessità che caratterizza la grande maggioranza degli abitanti del pianeta. E dunque propone di ricercare l’antidoto alle eruzioni reazionarie di un’inesistente guerra di civiltà dentro a noi stessi: nella pluralità di ogni singola natura umana.
Domani pomeriggio Amartya Sen concluderà il Festivaletteratura di Mantova a pochi chilometri di distanza da quella città di Brescia in cui la ventenne pakistana Hina Saleem è stata sgozzata e sepolta in giardino da un padre-padrone "offeso" dalla sua libera metamorfosi occidentale. Chi era dunque Hina Saleem se non, per l’appunto, una donna al tempo stesso orientale e occidentale restia a lasciarsi imprigionare da un’identità unica? Desiderosa di elaborare in autonomia le sue priorità di vita che non necessariamente avrebbero determinato rotture definitive con la sua famiglia e la sua tradizione?
Negli stessi giorni a Gerusalemme veniva accoltellato a morte il volontario Angelo Frammartino. Un coetaneo militante del Jihad l’aveva scambiato per ebreo, perciò stesso meritevole del suo odio: in questo caso è stata proprio l’"identità-pelle" a giocare un tragico scherzo alla vittima, un europeo che tentava di oltrepassare la sua appartenenza sviluppando un sentimento d’identificazione col destino dei palestinesi.
«È palese che ciascuno di noi appartiene a molti gruppi», scrive Sen. Possiamo essere italiani d’origine lombarda o campana o nordafricana. Appartenenti a classi sociali diverse. Religiosi e al tempo stesso favorevoli a legalizzare i diritti degli omosessuali, oppure tradizionalisti. Progressisti o conservatori. Onnivori o vegetariani. Tifosi di una squadra di calcio, appassionati di musica rap. Possiamo vivere nelle Langhe ma essere golosi di sushi disdegnando il tartufo. È molto probabile che in noi convivano molteplici fra queste attitudini, e a seconda delle circostanze l’una o l’altra assuma un rilievo preponderante. Si tratta quasi sempre di identità collettive che corrispondono al nostro naturale bisogno di relazione e perciò danno luogo a comuni appartenenze. Perché certo la ricerca di senso, il "bisogno d’identità", caratterizza legittimamente ogni percorso di vita fin dall’infanzia. Ma pretendere che il tempo di guerra, o la necessità di fronteggiare la minaccia terrorista, ci costringano giocoforza all’ammasso nel recinto di un’identità unica, è un abuso. Per l’appunto, e dovunque noi viviamo: un abuso d’identità.
Chi reputa necessario il "rafforzamento" della nostra identità (ma che significa?), chi addirittura manifesta angoscia perché teme imminente la sua cancellazione, sta imponendo al primo posto dei valori irrinunciabili quello della "conservazione culturale": nulla vi sarebbe di più importante della ricerca delle radici e della difesa intransigente del nostro patrimonio di tradizioni. Così si trasforma il bisogno d’identità in culto delle origini, mitizzando un improbabile "passato" senza il quale noi non saremmo niente. Come stupirci allora se gli stessi conflitti contemporanei vengono deformati come revival di faide antiche, e la storia manipolata senza trarne altro insegnamento che la necessità di combattere di nuovo - dice Sen - come "in una rappresentazione ancestrale"?
La realtà del vivere quotidiano e delle stesse memorie familiari e comunitarie ci riconduce invece più saggiamente alla contemporanea, generalizzata dimensione di meticciato. Siamo quasi tutti figli di incroci di civiltà, di mescolanze più o meno riuscite ma senza ritorno. Potrà sopravvivere in noi la nostalgia di luoghi e tempi il più delle volte immaginari - la condizione esistenziale diasporica caratterizza centinaia di milioni di persone che hanno dovuto attraversare i mari e gli oceani - ma questo siamo ormai: meticci, felicemente o irreparabilmente. Gli spacciatori d’identità hanno un bel predicare il miraggio di un assurdo ritorno alle origini dell’appartenenza etnica, religiosa, comunitaria. Non abbiamo possibilità alcuna di recuperare una purezza perduta (quale, poi?).
È da queste premesse che Sen muove la sua critica alla politica di Tony Blair e di altri governi occidentali che concedono spazio ai portavoce del «vero Islam, pacifico e moderato», pensando di arginare così le simpatie jihadiste di troppi loro cittadini musulmani. Mossi da buone intenzioni, questi politici finiscono per riproporre i vizi del modello sociale comunitarista (o "solitarista"): lasciano cioè che a dettar legge sui costumi familiari e sulle scelte scolastiche restino sempre quelle stesse leadership delegate alla suddivisione della cittadinanza secondo logiche di affiliazione religiosa.
Non si combatte l’integralismo mettendo guardiani amici a capo dei ghetti. Ma, al contrario, liberando le nostre identità plurali di persone tutte diverse l’una dall’altra e proprio per questo accomunate nella medesima umanità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Sen, Nobel per l’economia: «C’è un legame tra ingiustizie e terrore»
Intervista a c di Maria Serena Palieri *
Amartya K. Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998, ha concluso ieri a Mantova nella sede degli incontri più vasti, Piazza Castello, questa decima edizione di una manifestazione cui il nome, Festivaletteratura, va stretto: un Festival in realtà onnivoro, nel decennale bulimico, aperto a filosofi e matematici, pamphlettisti e botanici, geografi e cantautori. Sen, la cui fortuna editoriale in Italia in questo 2006 ha conosciuto una nuova primavera, accompagnava l’uscita per Laterza del suo saggio Identità e violenza. Indiano di Santiniketan e rettore del Trinity College di Cambridge, studioso del Welfare e inventore del nuovo «coefficiente di povertà», adolescente nell’India dei massacri tra hindu e musulmani seguiti alla grande Spartizione e settantenne nella Gran Bretagna degli attentati di Al Qaeda, è l’interlocutore adatto in molte evenienze attuali. A cominciare dall’anniversario che cade oggi.
A cinque anni da un altro 11 settembre, quello del 2001, lei crede confermato il giudizio di chi, allora, disse che quella sarebbe stata una data spartiacque dopo la quale «nulla sarebbe stato più come prima»?
«Certo l’11/9/2001 è stata e resta una data molto significativa: è il giorno in cui un attentato terrorista ha provocato una quantità immensa di morti. E l’abbiamo visto in diretta televisiva: è cambiata sotto i nostri occhi la skyline di New York, un luogo che sembrava l’emblema della sicurezza. Questo, sull’immaginario degli occidentali, ha provocato un effetto enorme. È stato un "evento", un avvenimento grande e sorprendente. Ma da un altro punto di vista dovremmo ricordarci che la violenza terrorista c’era già prima, e ha continuato a esserci dopo. Purtroppo, in questo senso, niente è cambiato. E non bisogna smettere di ragionare sul fatto che le morti causate dal terrorismo sono una piccola percentuale delle morti non obbligate, non naturali che si producono nel mondo. In quello stesso 11 settembre 2001 molta più gente nel pianeta, compresa New York, è morta di Aids, o per altre cause violente, rispetto alle vittime provocate dal crollo delle Twin Towers. Ogni giorno fame e deprivazioni uccidono più del terrorismo».
Insomma, anche l’ 11/9 non è un evento assoluto, come lo vive una parte dell’opinione pubblica americana, ma va contestualizzato?
«Sì. E un punto di vista più saggio, più integrato, non può non cogliere il nesso che c’è tra squilibri economici e violenza. Il colonialismo - che persiste - e lo sfruttamento creano disuguaglianze, per esempio nella cura delle malattie, e generano rabbia verso l’Occidente. Il legame tra disuguaglianza e terrorismo non è automatico, ma c’è».
In questo suo nuovo libro «Identità e violenza» lei ha due obiettivi polemici: da un lato lo «scontro di civiltà» (risposta conseguente, per alcuni tra cui il presidente Bush, all’11 settembre); dall’altro, però, un multiculturalismo in apparenza più rispettoso delle infinite differenze tra gruppi umani, meno guerrafondaio. Dov’è la prevaricazione insita in esso? E, se è vero che esso a volte appare un ginepraio di divieti e scrupoli, qual è la bussola con cui orientarci?
«In questi anni in cui la parola "identità" ha un corso così largo, io propugno un’idea in fondo vicina al comune buon senso. Nessuno di noi appartiene a un solo gruppo umano. La stessa persona può essere un’italiana, una donna, una cittadina di Mantova, una persona di sinistra, una professoressa di matematica e un’appassionata di pianoforte e di pittura rinascimentale. Tutto ciò, tutto insieme, contribuisce alla sua identità. La violenza è nell’essere costretti a scegliere un solo dato: sono un musulmano, sono un cristiano, sono un induista. Anche qui, invece, conta il contesto: se sono vegetariano e vado a cena con amici, essere vegetariano è significativo. Ma se vado a votare, nel seggio il mio vegetarianesimo non c’entra. Rabindranath Tagore parla di "lealtà", da un lato, e di "scelta": posso far "mio" un aspetto di un’altra cultura che mi piace. La cultura non deriva solo dal luogo in cui siamo nati. Questo è l’errore del multiculturalismo. Il sistema educativo, le relazioni sociali, la vita, ci offrono altre possibilità. Come economista so bene che esistono i vincoli. Ma poi, appunto, ci sono anche le scelte».
Un antropologo italiano, Francesco Remotti, autore di un saggio su questo tema, Contro l’identità, già dieci anni fa, quando in Italia la Lega sosteneva un modello identitario basato sulla fobia isolazionista, proponeva quello che possiamo chiamare il «paradosso del cannibale»: il cannibale che, dopo averlo ucciso, "mangia" il nemico per assimilarne coraggio e valore, è, per paradosso appunto, ci diceva Remotti, il paradigma cui ispirarci.
Lei ritiene che in questi ultimi cinquant’anni, con l’esaltazione delle «differenze» e i «culture studies» si sia sprecato tempo e che basterebbe tornare indietro alla «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» del 1945?
«La Dichiarazione del ’45 è importante perché, per la prima volta, stabiliva che libertà e diritti umani sono propri di ogni individuo, viva in democrazia o sotto una dittatura, in Italia o in India, in una colonia - allora ce n’erano ancora molte - o come cittadino d’una potenza imperiale. Ancora oggi è valida. Ma, dopo cinquant’anni, abbiamo nuovi problemi: per esempio è cambiata la mobilità, a quel tempo un fenomeno che vedeva soprattutto i cittadini dei paesi ricchi muoversi verso le colonie, mentre oggi sono al contrario le masse di diseredati che emigrano e si sono globalizzati. L’economia è come le malattie. Quella Dichiarazione va aggiornata e arricchita, alla luce di ciò che c’è di nuovo».
L’Italia è un paese dove l’immigrazione è recente. La vicenda di Hina, giovane pakistana uccisa dai parenti maschi perché «disonorava» la famiglia, ci ha messo in modo cruento di fronte al problema del rapporto tra il nostro diritto e il costume di queste comunità. Amartya Sen sa suggerirci una ricetta, un principio di base con cui orientarci?
«Il diritto di ogni essere umano è conoscere la propria comunità, ma anche le altre. E scegliere in quale vivere. Non si tratta di imporre un proprio diritto, quello italiano, agli altri. Si tratta di concedere a tutti la stessa libertà di scegliere, cambiare, avere se vuole una metamorfosi rispetto al mondo in cui è nato».
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www.unita.it, Pubblicato il: 11.09.06 Modificato il: 11.09.06 alle ore 13.16
Il Ghetto dell’Identità
di Jean-Paul Fitoussi (l`Unità, 02.01.2008)
Una volta andai a prendere al suo albergo il Nobel per l’economia Amartya Sen e l’addetta alla reception mi chiese se ero il suo autista.
Dopo un momento di esitazione, feci un cenno di assenso con il capo. Quel giorno, tra le mie varie identità, la più ovvia per l’addetta alla reception era quella di autista.
Questa sensazione dell’identità multipla è un qualcosa che lo stesso Sen ha sottolineato maliziosamente nel suo libro «Identità e violenza»: «La stessa persona può essere, ad esempio, un cittadino britannico, di origine malese, con caratteristiche razziali cinesi, un agente di borsa, un non vegetariano, un asmatico, un linguista, un culturista, un poeta, un nemico dell’aborto, un amante degli uccelli e uno che crede che Dio ha inventato Darwin per mettere alla prova i creduloni».
Appena un minimo di introspezione basta a dimostrare che la nostra difficoltà a rispondere alla domanda «chi sono?» deriva dalla complessità insita nel distinguere tra le nostre molte identità e nel distinguerne l’architettura.
Chi sono, in realtà, e perché dovrei accettare che altri riducano ad una sola delle sue dimensioni la mia persona e la ricchezza della mia identità?
Eppure in questo riduzionismo si nasconde uno dei concetti dominanti del mondo contemporaneo: il multiculturalismo, secondo cui una delle nostre identità deve prevalere su tutte le altre e deve fungere da unico criterio per organizzare la società in gruppi distinti. Oggigiorno ci viene detto spesso che le persone dispongono di soli due modi per integrarsi in una società: il modello “britannico” del pluralismo culturale e il modello “francese” basato sull’accettazione dei valori Repubblicani e, soprattutto, del concetto di uguaglianza.
Secondo il comune buon senso, il modello sociale della Gran Bretagna si fonda sulla coesistenza tra comunità diverse, ciascuna delle quali continua ad osservare le sue convenzioni e tradizioni nel rispetto delle leggi del Paese - una informale federazione di comunità. Ma il comune buon senso è completamente in errore in quanto le leggi britanniche riconoscono agli immigrati provenienti da tutti i Paesi del Commonwealth una cosa straordinaria: il diritto di votare persino alle elezioni politiche generali. I cittadini sanno per esperienza che la democrazia non consiste nel solo suffragio universale, ma comporta anche che ci sia una sfera pubblica aperta indistintamente e paritariamente a tutti.
In Gran Bretagna, pertanto, un gruppo numerosissimo di immigrati condivide con i cittadini nati nel Paese il diritto di partecipare al dibattito pubblico su tutte le questioni di interesse generale, sia di carattere locale che nazionale. Dal momento che l’uguaglianza fondamentale è garantita in questo modo, il sistema britannico riesce ad affrontare meglio di altri l’espressione delle diverse identità.
Oggi, tuttavia, lo stesso governo britannico sembra dimenticare le condizioni di fondo del modello britannico cercando di soddisfare il desiderio di riconoscimento pubblico di alcune particolari comunità attraverso la promozione ufficiale di cose come le scuole confessionali sovvenzionate dallo Stato.
Secondo Amartya Sen, questo comportamento è deplorevole in quanto porta le persone a privilegiare una delle loro identità - diciamo quella religiosa o culturale - su tutte le altre in un momento in cui è essenziale che tutti i bambini allarghino il loro orizzonte intellettuale. Abbracciando questa sorta di separatismo che queste scuole rappresentano, è come se la Gran Bretagna dicesse «questa è la vostra identità e non potete avere null’altro». Questo approccio si traduce in comunitarismo non in multiculturalismo.
Negli ultimi anni anche il modello “francese” è stato oggetto di errate interpretazioni dovute alla confusione sul suo principio portante - l’autentica inclusione nella vita della società che significa autentica uguaglianza sotto il profilo dell’accesso ai servizi pubblici, al sistema dello Stato sociale, alle scuole e alle università, all’occupazione e via dicendo.
Il repubblicanismo riconosce a ciascun individuo, a prescindere dalla sua identità, parità di diritti per arrivare all’uguaglianza universale. Non nega le varie identità e garantisce a ciascuna di esse il diritto di esprimersi nell’ambito della sfera privata. La tentazione del comunitarismo, intorno al quale in Francia va avanti il dibattito da almeno un decennio, origina dal desiderio di trasformare il fallimento della vera uguaglianza in qualcosa di positivo. Il comunitarismo offre l’integrazione nell’ambito dello spazio differenziato delle varie comunità - una sorta di reclusione ad opera della civiltà, direbbe Amartya Sen.
Ma non si può travestire il fallimento da successo. Fintanto che le aree urbane saranno socialmente ed economicamente depresse, il comunitarismo servirà solamente a mascherare la violazione del principio di uguaglianza. I gruppi sociali vengono di conseguenza misurati sotto il profilo delle differenze “etniche” o “razziali”.
Proprio in quanto sono state trascurate le condizioni sociali del “modello francese”, il modello è allo stato attuale una contraddizione vivente del suo principio di fondo: l’uguaglianza. Per invertire la tendenza, il repubblicanismo francese deve, al pari del multiculturalismo inglese, contraddire se stesso per realizzare se stesso. I francesi debbono riconoscere che l’uguaglianza davanti alla legge è un principio fondante, ma debole; deve essere integrato da una più rigorosa visione del modo in cui si arriva all’uguaglianza.
Questa visione dovrebbe rendere gli sforzi repubblicani proporzionali all’importanza della condizione di svantaggio della gente proprio per liberarla dal peso delle condizioni di partenza. Una vera uguaglianza nella sfera pubblica - che è diversa a seconda dei valori e della storia di ciascun Paese - implica un livello minimo di accettazione della storia e dei valori di un Paese.
Dice Amartya Sen che ciò che si accetta in tal modo è in realtà l’identità nazionale. Ma questa identità deve essere aperta. È una identità che condividiamo vivendo insieme e attraverso quanto abbiamo in comune, a prescindere dalle differenze tra le nostre identità multiple. Il grande romanziere britannico Joseph Conrad, nato Jozef Teodor Konrad Korzeniowski da genitori polacchi nell’Ucraina governata dalla Russia, disse che la parole sono il principale nemico della realtà.
Il richiamo alla “identità nazionale” non va trasformato in una collettiva cortina fumogena dietro la quale l’inclusione diventa un sogno immateriale che coesiste con il comunitarismo che sta ora emergendo dal suo fallimento.
Jean-Paul Fitoussi
è professore di economia all’Istituto
di studi politici di Parigi e presidente dell’Ofce (l’Osservatorio francese
della congiuntura economica)
sempre a Parigi.
© Project Syndicate/Institute
for Human Sciences, 2007
Traduzione
di Carlo Antonio Biscotto