Chi attacca il relativismo ce l’ha con la società liberale
Sotto accusa sono in realtà la convivenza e il confronto tra molteplici visioni del mondo
In una bellissima intervista concessa a Le Monde poco tempo prima di morire, Paul Ricoeur ha dato un risposta che si può considerare definitiva alla questione del relativismo; che vale la pena di ricordare e commentare, proprio in questi tempi in cui, da cattedre alte e meno alte, da quella papale a quella del presidente del Senato, si tuona contro questo nuovo spettro che sembra aggirarsi per l’Europa. In quanto esponente della filosofia ermeneutica - cioè della teoria secondo cui la verità è inseparabile dalle interpretazioni - Ricoeur viene interrogato sul suo essere o no relativista. E risponde citando la frase con cui Lutero aveva resistito agli emissari del Papa che volevano ricondurlo all’ortodossia: Qui io sto. Per Ricoeur, come egli stesso chiarisce in quell’intervista, ciò significa: date le mie esperienze di vita, le letture che ho fatto, anche i condizionamenti storici e psicologici che porto con me in quanto essere storico-finito, questa è la mia posizione.
Sarà una espressione di relativismo? Più che ridiscutere le “ragioni”, se ce ne sono, del relativismo - cioè, per semplificare, della teoria secondo cui “tutto va”, e cioè tutte le “verità” si equivalgono (“ogni scarrafone è bello a mamma sua”) - vale la pena, per prender sul serio Ricoeur, domandarsi se conosciamo qualche “relativista”, cioè qualcuno che interrogato sulla verità dica che tutte le enunciazioni si equivalgono. Davanti a una domanda come questa - credi davvero che tutte le teorie, le culture, le visioni del mondo, anche i sistemi di valori, si equivalgano? - sarà difficile trovare qualcuno che risponda che sì, è proprio così. E non tanto perché spaventato dal classico argomento antiscettico (se dici che tutto è falso è falsa anche questa tua affermazione), ma perché anche lui “sta” da qualche parte; può ben pensare che la sua verità sia condizionata da ogni genere di fattori (condizione sociale, storia psicologica, ecc.), ma se non cerca solo di prendersi gioco di voi avrà per l’appunto una posizione che potrà esporre e difendere. Che cosa pensa davvero il nostro ipotetico relativista, allora? Molto probabilmente, pensa se stesso in termini di consapevolezza storica dei propri limiti; ma fino a che non ne trova altri, fino a che, per esempio, non si convince a convertirsi a un’altra religione, a un altro partito, a un’altra Weltanschauung, rimane, “sta” nella propria opinione. La questione diventa allora: che cosa ci chiede di fare chi ci mette in guardia contro il relativismo? Molto probabilmente, come pensiamo faccia il Papa, ci chiede di professare più coerentemente e sinceramente la nostra fede, cioè la nostra specifica “verità”. Ma nessuno può seriamente pensare di convertirsi dal relativismo (la credenza che tutte le opinioni si equivalgono) a qualcosa d’altro. Sempre starà dentro a una posizione determinata, anche se può cambiarla per assumerne un’altra che, magari, gli apparirà più “evoluta” proprio perché passata attraverso l’esperienza della negazione della precedente.
Possiamo azzardare una conclusione che rischia di essere scandalosa? Chi tuona contro il relativismo non si rivolge a noi come singoli, che non siamo né possiamo mai essere relativisti - giacché forse solo Dio lo può essere davvero, guardando dall’alto la pluralità delle culture e delle interpretazioni. Il relativismo può essere solo un tratto della società, giacché è in essa che convivono e spesso si scontrano molteplici visioni del mondo. Eliminare il vizio relativista non vorrebbe allora dire semplicemente liquidare la società liberale?
Gianni Vattimo
La Stampa, 1 aprile 2006