Le rivoluzioni che l’Occidente non ha capito
di Kurt Volker (La Stampa, 26.02.2011) *
Una delle grandi sfide delle analisi nel lavoro di intelligence è la previsione dei grandi cambiamenti. L’analisi più sicura è quasi sempre che le forze che hanno plasmato le cose fino a oggi continueranno. Il mantenimento dello status quo è dunque il risultato più probabile almeno fino al momento in cui lo status quo scompare.
Questo rende cauti i politici. Anche nel pieno di nuovi sviluppi dimostrazioni, crisi economiche, guerre l’aspettativa è che la nave corregga la rotta e le cose tornino alla normalità. Vale la pena quindi aspettare, essere cauti, per vedere chi prende il potere, per tentare di salvaguardare altri interessi di sicurezza nazionale. Perché invischiarsi in una situazione per sostenere una parte, se c’è una buona probabilità che l’altra prevalga?
E tuttavia i grandi cambiamenti inaspettati accadono. La caduta del muro di Berlino. Il crollo dell’Unione Sovietica. E trovarsi dalla parte sbagliata del cambiamento ha i suoi costi. Inoltre, quando il cambiamento è inevitabile, la cautela può prolungare una crisi, mentre l’azione potrebbe portare a una soluzione più rapida, pacifica e benefica.
Il trucco sta nel capire quando è in corso un grande cambiamento e quando è business as usual. Questo è proprio il punto su cui l’Occidente ha costantemente sbagliato riguardo alle rivoluzioni che stanno esplodendo in Medio Oriente. Prima c’è stata la Tunisia, dove la maggior parte degli osservatori riteneva che le manifestazioni non potessero rovesciare un dittatore. Poi c’è stata la presunta unicità della Tunisia, la maggior parte degli osservatori non credeva possibile che il cambio di regime lì potesse significare un cambio di regime altrove. In Egitto, la maggior parte degli osservatori non credeva che le proteste potessero davvero far cadere Mubarak. La maggior parte degli osservatori non credeva che in Libia, con un regime pronto a usare la forza bruta, il cambiamento fosse possibileOgni volta abbiamo sbagliato l’analisi.
Ogni volta siamo stati lenti nel parlare, lenti nel sostenere il cambiamento, lenti nell’agire. Quelli che sono stati disposti a rischiare la vita per la propria libertà in Medio Oriente possono essere perdonati se pensano che gli Stati Uniti e l’Occidente siano stati contro di loro.
Perché abbiamo sbagliato?
Primo per la convinzione che i regimi alla fine avrebbero prevalso e allora perché bruciare i ponti?
In secondo luogo, soprattutto in Europa, per la paura che ogni cambiamento porti a massicci esodi di rifugiati e flussi migratori.
Terzo, per il timore che gli estremisti islamici si impadroniscano delle rivoluzioni e impongano un regime peggiore di quello precedente
Quarto, per la preoccupazione che i nuovi regimi potrebbero non onorare gli accordi esistenti con Israele.
Quinto per il paternalistico luogo comune che ritiene gli arabi non ancora pronti per la democrazia.
E sesto e ultimo punto forse il più significativo perché i governi occidentali semplicemente non capiscono che questa è una rivoluzione basata sui valori umani e su ideali di trasformazione.
Autoritari leader arabi per anni ci hanno detto che l’Islam radicale era l’unica alternativa al loro governo. Hanno usato il conflitto israelo-palestinese come una cortina di fumo per mascherare i loro feroci regimi. Hanno soppresso l’accesso pubblico alle informazioni e alle fonti del pensiero arabo alternativo. Come risultato, noi in Occidente ci siamo convinti che un cambiamento democratico fosse davvero impossibile nonostante i nostri stessi valori.
La maggior parte dei funzionari governativi non legge i messaggi su Twitter. Molti di quelli che li leggono li considerano insignificanti divagazioni popolari rispetto alle posizioni ufficiali e alle azioni del governoEppure, basta leggere i messaggi dei partecipanti e degli osservatori in Medio Oriente per capire che ciò che sta accadendo ora è diverso. La gente sta spazzando via i miti proposti per anni da questi leader autoritari.
Questa onda di marea non ha a che fare con l’Islam, né con Israele o l’Occidente. Si tratta di una richiesta di diritti e libertà che arriva dall’interno, da una nuova generazione di arabi che vedono come le loro società sono state depredate dai propri governanti. Per quanto le istituzioni della democrazia siano state negate per decenni, l’aspirazione dello spirito umano alla libertà rimane universale e intatta. Questo è ciò che la nostra prudente politica e le analisi di intelligence non sono riuscite a capire.
Il bisogno di cambiamento nella regione non sparirà nel nulla. E poiché è in linea con i nostri valori più profondi, l’Occidente avrebbe dovuto sostenerlo dall’inizio.
Per quanto sia difficile fare queste previsioni ora dobbiamo capire che questo non è business as usual questo è il grande cambiamento. I nostri timori per la stabilità, la sicurezza dell’area e l’estremismo islamico hanno più probabilità di avverarsi se resistiamo a questi cambiamenti piuttosto che se li appoggiamo. E le opportunità per un reale progresso su questi stessi temi la stabilità, la pace regionale, la sicurezza globale, la lotta all’estremismo sono di gran lunga maggiori in un Medio Oriente democratico. Le conseguenze ridimensioneranno sia la guerra in Afghanistan sia quella in Iraq.
* Ex ambasciatore americano alla Nato è senior fellow e direttore del Centro per le relazioni transatlantiche presso la Johns Hopkins University School of Advanced International Studies e consulente senior presso McLarty Associates (Traduzione di Carla Reschia)
Occidente cieco
di Pino Arlacchi (l’Unità, 22.02.2011)
Dalla Libia giungono notizie drammatiche e contraddittorie. Il dittatore ha deciso di concludere nel sangue la sua avventura quarantennale e, mentre scrivo, il quadro cambia di ora in ora. Ma quali che siano i tempi e gli esiti della rivolta del popolo libico, è chiara e consolidata la direzione dei processi in atto nel mondo arabo: siamo in presenza di un’ondata paragonabile a quella che, negli anni Ottanta, portò la democrazia in America latina e, negli anni Novanta, nell’Europa dell’Est. Siamo in presenza di eventi di portata storica.
Come Occidente ci siamo arrivati impreparati. Alcuni governi attribuiscono la responsabilità di ciò agli organismi di intelligence. In effetti i precedenti non mancano. È noto che la Cia non riuscì a vedere il crollo del comunismo e che non si è stati capaci di avvertire lo shock petrolifero, l’ascesa della Cina, l’odierna virata a sinistra dell’America Latina. Potremmo compilare una lista molto lunga.
Ma non includeremmo la sorpresa di queste ultime settimane. No, questa volta la colpa non è di 007 incapaci, ma di un errore di prospettiva culturale. Abbiamo vissuto nell’idea dello scontro di civiltà con l’Islam e col suo inevitabile corollario: l’incompatibilità tra l’Islam e la democrazia. Ci siamo cullati nella presuntuosa convinzione d’essere, noi occidentali, i monopolisti della democrazia fino a escludere, nelle scelte di politica internazionale, quella che continuavamo a predicare: la sua universalità. E ora siamo qua, a bocca aperta, a guardare eventi enormi che, in realtà, non sono affatto sorprendenti.
E non è finita. Perché un po’ per cinismo, ma probabilmente anche per stupidità, c’è chi si ostina a trasferire quel pregiudizio di “incompatibilità” tra democrazia e Islam al presente: minimizza quanto è accaduto in Tunisia, in Egitto, e sta accadendo in Libia, e sostiene che questi processi alla fine consegneranno quei paesi ai Fratelli musulmani e al fondamentalismo islamico.
È la parola d’ordine della destra internazionale adottata con passiva disciplina dal nostro governo che fa breccia anche tra commentatori prudenti e moderati. Alcuni giorni fa sul Corriere della sera c’era chi si domandava se in fondo non era meglio la “stabilità” garantita dai governi autoritari di queste potenziali “democrazie estremiste” governate da partiti islamici.
C’è da chiedersi di quale “stabilità” parlino. Il Medio Oriente è da cinquant’anni l’area più instabile e conflittuale del mondo. La guerra internazionale più sanguinosa degli ultimi trent’anni si è combattuta tra Iran e Iraq con un milione di morti. E abbiamo forse dimenticato gli eventi tragici che si sono prodotti in Iran prima sotto lo Shah e poi sotto Komeini? E le ripetute invasioni del Libano? E le guerre in Afghanistan e in Iraq con l’annessa invasione del Kuwait?
Dobbiamo opporci con fermezza a questo mix di cecità e colpevole oblio che produce alla fine gli imbarazzanti balbettii del ministro Frattini, ancora una volta l’ultimo a capire. La democrazia è il piu grande fattore di stabilità e di pace di lungo periodo. Le democrazie riducono i budget militari, cioè gli strumenti della guerra. Sono il metodo della non violenza applicato ai rapporti interni e internazionali. È stato così in passato e sarà così anche nel mondo arabo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FLS
@rivoluzione. Giovani contro satrapi
Primavera araba, il contagio corre in rete
Le rivoluzioni del mondo arabo e il ruolo dei social network raccontate attraverso i messaggi su Internet dei giovani: è il libro di Giovanna Loccatelli “Twitter e le rivoluzioni” nelle librerie da oggi.
di Giovanna Loccatelli (il Fatto, 27.05.2011)
11 gennaio 2011. Sul blog collettivo Na waat.org un giovane ventenne tunisino scrive: “Al liceo e al collegio si ha sempre paura di parlare di politica. Ci sono informatori ovunque, ci viene detto. Nessuno osa discutere in pubblico [...] Siamo cresciuti con questa paura di impegnarci [...] Ed ecco che Wikileaks rivela quello che tutti mormorano. Ecco un giovane s’immola nel fuoco. Ecco, venti tunisini vengono ammazzati in un sol giorno. E per la prima volta vediamo l’occasione per ribellarci, per vendicarci di questa famiglia reale che si è presa tutto, per rovesciare quell’ordine stabilito che ha accompagnato tutta la nostra giovinezza”. Vive in un contesto di perenne paura la generazione di ventenni, povera, istruita, digitalizzata e senza lavoro fisso che, grazie ad Internet, conosce il mondo e rivendica i diritti dei coetanei virtuali, al di là dei propri confini .
LA RIVOLUZIONE, mediatica prima e reale poi, scoppia quando un ragazzo, Mohamed Bouazizi, si dà fuoco in un paesino vicino Tunisi. Le sue ultime parole su Facebook: “Me ne vado, mamma, perdonami, mi sono perduto lungo un cammino che non riesco a controllare, perdonami se ti ho disobbedito, rivolgi i tuoi rimproveri alla nostra epoca [...]”. La polizia, corrotta, gli aveva confiscato il suo carretto di frutta. Le foto fanno il giro del mondo grazie ai social network. Al Jazeera comprende, prima di tutti gli altri media tradizionali, il valore di quel materiale e nel giro di poche ore la notizia diventa globale. Il tam tam contagia tutti i media sociali, sbarca anche su youtube. [...] E poi la rivolta, con la velocità irrefrenabile della rete, arriva in Egitto. 8 febbraio 2011. @Ghonim “Non sono un eroe: sono soltanto abile con la tastiera del computer, gli eroi reali sono quelli in strada” dichiara Wael Ghonim, 30 anni, marketing manager di Google in Medio Oriente e Nordafrica. Ha orientato le masse giovanili della rivoluzione egiziana tenendo viva l’attenzione e la discussione online. Rapito dalla polizia e liberato dopo due settimane di reclusione subitotornainstradaetwittanelsuo microblog: @Ghonim “Piazza Tahrir è bloccata. Stiamo provando ad arrivare lì. Gli egiziani stanno facendo la storia”. Secondo Time è l’uomo più influente del 2011. Tanti, come lui, hanno twittato per strada con i propri cellulari.
La diffusione dei telefonini, non a caso, ha registrato un boom storico nel 2009: 45,6 milioni circa le utenze attive nel paese, con una popolazione di circa 80 milioni di persone. C’è pure, però, chi ha twittato le voci degli egiziani in tempo reale fuori da questi paesi, chiuso nella propria stanza. È il caso di John Scott-Railton. Studente californiano che, durante il blocco della rete messo in atto dal regime di Mubarak, ha fatto sì che le notizie provenienti dal Medio Oriente arrivassero in tutto il mondo. Come? Registrando da un telefono fisso le voci di egiziani e libici per poi pubblicarle nel suo account [...].
GLI ATTIVISTI raggruppano in un archivio on line, “I’m jan 25” tutto il materiale audiovisivo della rivoluzione. Un enorme contenitore che immortala le testimonianze della sanguinosa rivolta. La consapevolezza, diffusa tra i cittadini, della potenza dei social network è tale che tra gli egiziani in festa dopo le dimissioni di Mubarak è circolata una barzelletta sui tre presidenti. La barzelletta riguarda l’incontro dei tre in paradiso. Quando Nasser e Sadat vedono arrivare Mubarak gli chiedono come sia morto. “È stato il veleno o eri sul palco?”. “Nessuna delle due - risponde Mubarak - è stato Facebook” Che in inglese rende ancora di più: “I was facebooked!”.
E poi la Libia. Anche qui i giovani si sono uniti in un gruppo, ShababLybia, voce del Movimento dei giovani per la Libia. È un gruppo nato su face-book, ricreato su Twitter, che si ispira a quanto successo in Egitto. Mohammed Nabbous ha creduto, forse più di tutti, nella forza divulgatrice di questi strumenti. All’indomani dell’insurrezione del 17 febbraio, aveva fondato la Libya Alhurra tv, esempio massimo di giornalismo partecipativo. Un sito che trasmette quotidianamente i video degli scontri, le sparatorie, le mobilitazioni, e le vittime del regime di Gheddafi. [...] Su Twitter: @Nabbous “Non temo di morire ma ho paura di perdere la mia battaglia per la libertà della Libia”. È stato freddato da un cecchino di Gheddafi mentre riprendeva le rivolte in presa diretta con il mondo. Era una fonte, autorevole, per tanti giornalisti, sparsi nel globo.
Alla luce di questo viaggio virtuale: come sta cambiano pelle l’informazione globale? Difficile rispondere, è in atto però un esperimento, di successo, che si chiama Al Jazeera talk. Non esiste una redazione fisica, non esistono giornalisti dietro un computer in un ufficio, ma, esistono oltre 300 blogger sparsi nelle zone calde nel mondo che, in tempo reale, con il cellulare e un pc raccontano in diretta la storia.
AHMED ASHOUR, direttore di questa piattaforma, racconta: “Nei giorni del blocco totale di Internet, i giovani che si erano riversati a piazza Tharir hanno fatto circolare alcuni fogliettini di carta, con sopra diversi messaggi. Era imperativo, scritto nero su bianco, l’ordine di farli circolare il più possibile da una mano all’altra”. Questa, secondo Ashour, è la mentalità dei social network che si è fatta carne ed ossa nelle rivoluzione della “primavera araba”. Funzionerà in altri contesti? Ma una cosa è certa: queste sono le prime rivoluzioni 2.0 nell’era dell’informazione globale. Nulla sarà più come prima.
Twitter e le rivoluzioni di Giovanna Loccatelli EDITORI RIUNITI, 240 PAGINE, 16 EURO
Mentre la dittatura di Gheddafi è in agonia e i dittatori al collare dei coloni del petrolio si affrettano a cambiare governi e costituzioni, ecco come la nonviolenza sta trasformando i dirimpettai dell’Europa
Il futuro dei ragazzi arabi che hanno conquistato la loro libertà
di Adel Jabbar *
14 gennaio 2011: è questa la data che segna la svolta tanto agognata dalle moltitudini dei paesi arabi, in cui il despota (al-taghiya) Ben Ali è fuggito. Il tiranno che ha tenuto in ostaggio la Tunisia per ben 23 anni non c’è più. 25 gennaio 2011: è stato il giorno in cui in Egitto la gioventù ha accolto l’invito del movimento giovanile 6 aprile a manifestare per porre fine al strapotere di un altro dittatore arabo che ha fatto delle leggi di emergenza una sistematica prassi di governo trasformando l’intero paese di ben ottanta milioni di cittadini in una tenuta di famiglia.
Queste due date indicano una radicale rottura con decenni di stagnazione, che rischiava di diventare un aspetto peculiare delle società arabe. Le proteste (al-tadhahurat) l’insurrezione (al-wathba), la sollevazione (l’intifada) e la rivoluzione (al-thawra) che stanno attraversando l’intera area araba, dalla Mauritania fino allo Yemen, evidenziano il desidero di una primavera di rinascimento (nahdha), delle popolazioni e la volontà di riscatto oltre che di rinnovamento (tajdid). Questi accadimenti avvengono dopo un lunghissimo periodo caratterizzato da infinite angherie, repressioni, persecuzioni, impoverimento generale dell’intera società ad eccezione di una ristretta cerchia di familiari e di cortigiani. Sono stati anni di arretramento politico e socioculturale, di pesanti sconfitte sul piano della politica estera e della perdita di sovranità. L’intero mondo arabo, in effetti, si è ritrovato, di nuovo, a subire dei condizionamenti che rimandano alla memoria l’epoca coloniale. Grazie ai movimenti giovanili milioni di abitanti dell’area araba, cominciano in questi giorni a scorgere la fine del tunnel e a intravedere la luce di un nuovo e necessario risveglio (sahawa).
Gli avvenimenti che stanno scuotendo le società arabe e travolgendo i vari vassalli e satrapi dimostrano:
1) che le popolazione hanno superato la paura che li ha paralizzati per decenni e, di fatto hanno trovato la forza di sconfiggere la cultura dell’intimidazione e del terrore che i tiranni hanno usato e usano come unico modo per governare;
2) che le élite, spesso secolari, non sono altro che combriccole familistiche di stampo mafioso;
3) che i poteri dell’occidente democratico hanno sostenuto regimi corrotti e violenti mettendo in primo piano i propri interessi materiali dimenticando del tutto la cultura dei diritti umani, della quale fanno uso, non di rado, in termini meramente strumentali;
4) una maturità e una consapevolezza politica delle fasce giovanili smarcata da riferimenti ideologici novecenteschi;
5) che larghi settori assumono la nonviolenza e la disobbedienza civile come prassi per rivendicare i propri diritti e la propria dignità, quindi smentendo e confutando il luogo comune che vuole le società arabe imbevute di violenza e di fanatismo religioso, appiattendo l’immagine degli arabi sulla figura di Bin Laden e di al-Qa‘aida;
6) l’assenza di retorica anti occidentale - non sono stati presi di mira né interessi né persone né simboli occidentali - e il sapere parlare un linguaggio transculturale in grado di comunicare in un mondo di differenze e di molteplicità attraverso parole d’ordine quali dignità, libertà e giustizia.
In molti si chiedono quali saranno le conseguenze di queste sollevazioni. Si può tentare sommariamente di indicare due plausibili cambiamenti, uno di natura interna e l’altro di natura esterna. Relativamente alla realtà interna, si potrebbe avviare un corso politico caratterizzato dal riconoscimento di soggetti politici diversi che tenderanno a posizionarsi in un primo momento nel nuovo scenario creatosi e in un secondo momento competeranno per l’acquisizione del consenso popolare tramite le urne. In questo panorama le varie e variegate visioni di stampo islamico giocheranno certamente un ruolo significativo, tuttavia non si tratterebbe di un ruolo totalizzante e egemonico, a differenza di quello che sostengono alcuni analisti. Anche se qualche formazione islamica occuperà una posizione determinante nei nuovi assetti sarà comunque molto vicina all’esperienza dell’attuale compagine turca democratico-islamica e quindi avrà delle similitudini con alcune delle esperienze democratiche cristiane in Europa.
Riguardo al secondo aspetto, cioè quello esterno, i cambiamenti che avverranno saranno più lenti e si svilupperanno con una certa cautela. Uno dei cambiamenti prevedibili riguarderà un ripensamento delle relazioni interarabe in funzione di una maggiore collaborazione al fine di ripristinare un qualche ruolo sulla scena mondiale e acquisire un peso politico rispetto alcuni temi caldi e sensibili, come per esempio la questione del popolo palestinese, la situazione della Somalia e i rapporti con l’Iran. In oltre si cercherà di smarcarsi da alcune decisioni della politica statunitense e di trovare una voce autonoma, senza doversi appiattire sulle scelte di Washington com’è avvenuto negli ultimi decenni (per esempio la partecipazione alla guerra contro l’Iraq, l’appoggio alla guerra contro l’Afghanistan e l’adesione ad un eventuale attacco contro l’Iran).
Quello che è certo e lo dimostrano gli accadimenti in atto, è che le genti arabe hanno già conquistato un ruolo determinante nell’agenda politica sia nazionale che internazionale, avendo oggi una perfetta consapevolezza del proprio ruolo, dei propri diritti e della propria dignità.
* Adel Jabbar è sociologo ricercatore presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Vive in Italia da 30 anni. Nell’area della ricerca, della formazione e della mediazione culturale ha collaborato con vari enti e istituzioni (CENSIS, CNEL, Commissione per le politiche di integrazione).
* 28-02-2011: http://domani.arcoiris.tv/il-futuro-dei-ragazzi-arabi-che-si-sono-ripresi-la-loro-sovranita/#more-11381