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LA TUNISIA E IL «PROFETA» BELAID. In grave pericolo la transizione democratica. Una nota di Annamaria Rivera

Non c’è che da sperare che la risposta politica di massa a questo evento tragico segni la fine delle «liquidazioni» politiche e sventi i rischi del caos. E segni la svolta verso una fase della transizione che ravvivi le rivendicazioni e i principi della rivoluzione del 14 gennaio: giustizia sociale, uguaglianza e dignità.
domenica 10 febbraio 2013.
 

IL «PROFETA» BELAID

di Annamaria Rivera (Il Manifesto, 07.02.2013)

Chokri Belaid, avvocato, era una figura carismatica dell’opposizione di sinistra. Chi scrive ha avuto l’onore di conoscerlo in occasione dell’assemblea del 24 aprile 2011, nel Palazzo dei Congressi di Tunisi, quella che sancì l’unificazione tra le due formazioni, che si definiscono marxiste-leniniste e panarabiste, nate dalle lotte degli anni ’70: l’Mpd (Movimento dei patrioti democratici) e il Ptpdt (Partito del lavoro, patriottico e democratico).

Belaid aveva denunciato più volte l’escalation della violenza politica, che rischia, diceva, di mettere in grave pericolo la transizione democratica. A più riprese aveva dichiarato d’essere stato minacciato di morte e quasi profeticamente aveva previsto: è giunto il tempo delle «liquidazioni» politiche. Da politico acuto e lungimirante aveva colto bene il senso delle minacce ricevute e di altri eventi allarmanti.

Per parlare solo dei giorni scorsi, in appena 48 ore c’erano stati almeno sei atti di violenza politica ad opera, si dice, delle famigerate «Leghe di protezione della rivoluzione» - milizie armate al servizio di Ennahda, il partito islamista che domina il governo di transizione - spalleggiate da gruppi di salafiti jihadisti.

Il 1° e il 2 febbraio avevano attaccato giusto il congresso del Ppdu nel governatorato del Kef, fatto irruzione in un meeting del Partito repubblicano a Kairouan, sequestrato, a Gabes, Ahmed Nejib Chebbi, leader di questo stesso partito, aggredito un anziano militante democratico, cercato di assalire la sede centrale, a Tunisi, di Nidaa Tounes, il partito neo-bourguibista che è per Ennahda il concorrente elettorale più temibile, e saccheggiato la sua sede di Kebili.

Quest’ultimo partito ha avuto il suo primo «martire» post-rivoluzione il 18 ottobre scorso: Lotfi Naqdh, dirigente locale di Tataouine, linciato a colpi di spranga e di martello, ancora una volta dalle milizie armate di Ennahda.

A tutto ciò si aggiungono le aggressioni quasi quotidiane ai danni di giornalisti, fino alla più recente: due giorni fa Nabil Hajri, dell’emittente Zitouna Tv, è stato ferito gravemente a colpi d’arma bianca.

Secondo l’agenzia Afp, il fratello di Belaid avrebbe accusato apertamente Ennhada e in particolare il suo presidente, Rached Ghannuchi, quali mandanti dell’assassinio.

In effetti il partito islamista è quanto meno uno dei responsabili morali della grave situazione di tensione e violenza politica che si è instaurata nel Paese. Dopo le prime elezioni democratiche, il 23 ottobre 2011, che hanno visto trionfare Ennahda, dopo la formazione dell’Assemblea nazionale costituente e del governo provvisorio di coalizione con i due partiti laici Ettakotol e Cpr, le cose sono andate di male in peggio.

Com’era prevedibile, una mobilitazione di massa vigorosa e diffusa è stata la risposta al brutale assassinio politico di Chokri Belaid, segretario generale del Partito dei patrioti democratici unificati, componente importante del Fronte popolare (Al Jabha Chaâbia).

Dalla capitale fino alle località della Tunisia «profonda» da cui è partita la scintilla della rivoluzione, la gente è scesa in piazza furibonda immediatamente dopo la notizia. In alcuni casi, come a Sidi Bouzid e a Gafsa, ha tentato di prendere d’assalto commissariati e altre sedi istituzionali o d’incendiare i locali di Ennahda, nonostante gli appelli alla calma dello stesso Fronte.

Certo, come dimostra la stessa risposta a questo assassinio politico, c’è tuttora un versante progressivo della transizione costituito dal protagonismo di massa: la presa di parola collettiva, la vivacità e reattività della società civile, le rivendicazioni e i conflitti sociali che attraversano il paese, spesso nella forma di rivolte duramente represse dalle forze dell’ordine e nondimeno irriducibili.

Ma sul versante del potere, delle istituzioni e della rappresentanza, il bilancio è assai magro se non disastroso. Non solo per la complicità o almeno l’indulgenza che una parte di Ennhada ha finora riservato a salafiti e predicatori wahabiti ingrassati a forza di petrodollari. Non solo perché i gravi problemi economici e sociali del paese - la disoccupazione galoppante, la precarietà drammatica, le profonde disparità regionali- non hanno trovato alcuna soluzione, se mai si sono inaspriti. Ma anche perché si è aperta una impasse drammatica sul piano propriamente istituzionale.

L’Assemblea nazionale costituente, che avrebbe dovuto redigere la nuova costituzione entro un anno dalle elezioni è in alto mare, lacerata da controversie sul ruolo dell’islam in rapporto allo Stato; e il governo provvisorio, a rigore già decaduto, è oggi attraversato da conflitti fra i tre partiti della coalizione.

È perciò che Hamma Hammami, portavoce ufficiale del Fronte popolare, ha dichiarato che «la responsabilità di questo assassinio è anzitutto del potere: il governo, la presidenza della Repubblica, il ministero dell’Interno e l’Assemblea costituente», dei cui membri ha preteso le dimissioni. Non solo: ha anche invitato tutte le forze di opposizione a organizzare lo sciopero generale il giorno dei funerali di Belaid.

Non c’è che da sperare che la risposta politica di massa a questo evento tragico segni la fine delle «liquidazioni» politiche e sventi i rischi del caos. E segni la svolta verso una fase della transizione che ravvivi le rivendicazioni e i principi della rivoluzione del 14 gennaio: giustizia sociale, uguaglianza e dignità.


SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

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