Nel saggio, in uscita in Francia, il pensatore esplora le radici dell’esistenzialismo e il suo impatto sulla nostra epoca
Glucksmann: compito del filosofo scavare il vuoto sotto le certezze
Socrate giganteggia sull’Occidente. Anche sul suo erede Heidegger
di André Gluksmann (Corriere della Sera, 02.10.2009)
Come si comincia a «filosofare»? Consumando i jeans sui banchi del liceo? Pendendo dalla bocca dei professori all’università? Meditando sui grandi testi? Frequentando gli autori giusti? Poi cimentandosi da soli nella dissertazione? Why not? Solo che questi utili sostegni non garantiscono le menti stracolme contro il vuoto delle lezioni apprese.
Nessuno può insegnarmi a giudicare, poiché devo prima giudicare se i consigli e i consiglieri sono buoni o cattivi. Se vuoi filosofare, nessuno può pensare al tuo posto. Se vuoi cominciare a pensare, decidi di pensare da te.
Questo modo insolente di mettere fra parentesi il ricorso alle opinioni già confezionate viene facilmente considerato presuntuoso e soggettivo: perché sarei un giudice migliore di altri? La risposta socratica capovolge la domanda: perché gli altri, per numero o per età, si sbaglierebbero meno di me? Non si entra nel pensare affermando d’essere il migliore. Non cerchiamo la saggezza per eccellenza, ma per difetto. Scopriamoci sbigottiti come chiunque altro davanti a ciò che sbalordisce e disarma.
Per cominciare a filosofare, bisogna osare stupirsi, «questo sentimento (pathos ), cioè il fatto di stupirsi, di meravigliarsi, è caratteristica principale del filosofo, poiché per la filosofia non esiste altra origine (arché, principio), per cui chi ha detto che Iris è figlia di Thaumas non è privo di abilità nel praticare la genealogia» (...).
In meno di un secolo, lo sconvolgimento europeo si è propagato nell’intero pianeta in preda all’evaporarsi delle tradizioni, all’incertezza dell’avvenire e alla precarietà accertata dell’esistenza umana.
Gli antichi hanno battezzato «peste» un cataclisma fisico, politico e mentale che affligge l’insieme di una società. Questa malattia mortale inaugura l’ Iliade di Omero, riappare nella Tebe di Eschilo, nell’Atene di Tucidide e nell’Italia di Lucrezio.
Il Rinascimento, con Boccaccio, Margherita di Navarra e infine Shakespeare, la evoca di nuovo come elemento fondatore in cui la letteratura esplora nuovi modi di esistere e di resistere, mentre il vecchio universo crolla senza speranza di ritorno. Kafka, Beckett, Solzhenitsyn e qualche altro hanno testimoniato sismi materiali e spirituali altrettanto notevoli.
Il merito del giovane Heidegger fu, negli anni Venti, di meditare filosoficamente sull’angoscia che sommergeva l’incipiente XX secolo. Alla rivoluzione mentale che il nuovo pensiero invocava fu affibbiato un vocabolo divenuto ben presto alla moda e come tutte le mode destinato a propagarsi abusivamente: «esistenzialismo». Così fu designata la volontà di staccarsi dai dogmi ritenuti intangibili di una Belle époque che le grandi potenze europee, nazionaliste e coloniali, imponevano attraverso le armi e gli animi.
Finita la sollecitudine divina che guidava le anime pie e cullava il concerto delle nazioni cristiane! Finita la moda dei determinismi scientifici e laici che inquadravano rigidamente l’Universo con leggi chiare e definitive, sottoponendo i cittadini alle regole della ragione e le speranze di ognuno alla saggezza collettiva. Religiosi o liberi pensatori, gli europei perdevano la testa nello stesso momento in cui smarrivano i propri amuleti.
Senza accanirsi nel conservare o ripristinare catechismi in disuso, l’offensiva esistenzialista si accinse a proprio rischio e pericolo a scavare il grande vuoto. In qual modo le opinioni di un pensatore toccano il destino di un’epoca? Solo nella misura in cui esse diventano filosofiche, e non più strettamente familiari, sentimentali, corporativistiche o comunitarie. Nella misura in cui non si limitano a subire la crisi generale, ma si mettono a pensarla.
Per cominciare, come dicono i religiosi, bisogna spogliare il vecchio uomo. Demolire, distruggere l’orizzonte di conformismo che impedisce di fronteggiare la crisi. Demolire e distruggere diventa ben presto un tema ricorrente nel giovane Heidegger.
L’idealismo, spesso «neokantiano », che fino a Heidegger dominava l’università tedesca, che a sua volta dettava legge in Europa, non escludeva bruscamente eventuali difficoltà, ostacoli, e anche crisi.
Il pensiero dominante tuttavia concepiva le contrarietà solo seguendo un ordine superiore che dava senso a questi ostacoli. Ottimista, esso adottava con imperturbabile serietà la promessa, sebbene ironica, del Mefistofele di Goethe: «Sono parte di quella forza che vuole sempre il male e sempre fa il bene». Sereno, esso prendeva alla lettera «l’astuzia della ragione» immaginata da Hegel, secondo cui dal peggio nasce il meglio, o sognata da Marx, secondo cui la storia progredisce «attraverso i suoi aspetti negativi» (...).
Il XX secolo diagnostica una crisi delle fondamenta, quando studiosi o semplici cittadini finiscono per vagabondare di qua e di là. La filosofia che nasce e rinasce sceglie come dimora la crisi più violenta, quella che minaccia di sradicare le civiltà. Fedele a questo scuotimento iniziale, il socratismo non prodiga cure palliative o farmacopee corroboranti, promette di pensare fino in fondo, costi quel che costi, la scossa mentale e di soggiornare in essa senza illusioni.
Atteggiamento minoritario, questo rifiuto di «vivere nella menzogna» è il filo conduttore di una dissidenza polimorfa che da 2.500 anni anima meditazioni, letterature e iniziative il più delle volte solitarie. Crisi di ogni genere - sociali, economiche, istituzionali, internazionali, morali - punteggiano l’attualità. Lo storico le enumera. Saggi e specialisti propongono rimedi. Il filosofo socratico le analizza. Non imputategli la sua diffidenza. Se necessario, egli coopererà - come Montaigne fu sindaco di Bordeaux e consigliere del futuro Enrico IV - per colmare le lacune imminenti. Ma come Montaigne, autore dei Saggi, primo filosofo francese, il filosofo socratico non accetta mai di voltare pagina in fretta e furia, occultando i buchi neri che la crisi mette in luce: lavora sulla lunga, sulla lunghissima durata.
La peste immaginata da Albert Camus nella sua città, Orano, può pure simboleggiare la «peste bruna» che sommerge la Germania nazista, ma resta comunque un incidente delimitato da invalicabili barriere spaziali e temporali. La città (Orano), il Paese (la Germania dal 1933 al 1945) attraversano uno stato d’eccezione; il mondo tutt’intorno sfugge a questo cammino extra- ordinario (Sonderweg), il pericolo rimane all’esterno, fermamente contenuto, così come fu domata nel 1820 l’ultima grande peste, questa sì schiettamente fisiologica, dalle parti di Marsiglia (fucili e batterie di cannoni, un cordone sanitario inviolabile cingevano la regione contaminata).
L’opinione pubblica costruisce troppo facilmente una linea Maginot mentale e considera la crisi un’eccezione alla regola. Ecco come rassicurare senza tanti sforzi. La filosofia, invece, tenta di sondare lo sconvolgimento in profondità, nella sua lunga durata, e l’ausculta come crisi della regola stessa. Heidegger, seguendo una simile direzione, si serve abilmente di Kant contro Kant per condurre la propria lotta contro l’angelismo neokantiano, e fa un taglio netto con un’adolescenza teologica e cattolica. Infatti, quali che siano le credenze intime di ciascuno, la filosofia lavora senza reti e «senza dio». (Traduzione di Daniela Maggioni)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA DELLA RIVELAZIONE. 1841-1842, Kierkegaard a Berlino ad ascoltare Schelling