IDEE
Mostrare il fallimento dell’etica moderna, dovuto al tentativo illuministico di costruirne una puramente razionale, tentativo di cui Nietzsche sancì l’insuccesso determinando la dissoluzione dell’etica contemporanea in un generico motivismo. Ricordare come pratiche e tradizioni possono funzionare solo se l’uomo ha chiaro un fine trascendente verso cui muoversi. MacIntyre ripercorre il proprio cammino filosofico e ribadisce l’attesa di un «santo civilizzatore»
«Gli effetti della visione fondazionale di Benedetto e la loro ricaduta erano in gran parte imprevedibili per quei tempi. Anche la nostra epoca è un tempo di inattese possibilità di rinnovamento. Allo stesso tempo è un periodo di resistenza prudente e coraggiosa, giusta e temperante nei confronti dell’ordine sociale, economico e politico dominante nella cosiddetta modernità avanzata»
Virtù
solo un san Benedetto ci salverà
La critica che muovo al liberalismo deriva dalla convinzione argomentata che la vita migliore per l’uomo, quella in cui la tradizione delle virtù si esprime nel modo migliore, è vissuta da quanti sono impegnati a costruire e sostenere forme di comunità volte a ottenere insieme i beni condivisi che rendono possibile ottenere il bene ultimo per l’uomo. La critica del liberalismo non deve essere interpretata come indice di una mia simpatia nei confronti di qualsiasi genere di conservatorismo contemporaneo. Il conservatorismo è per molti versi l’immagine speculare del liberalismo cui professa di opporsi. Il proprio impegno a sostegno di uno stile di vita strutturato dall’economia del libero mercato genera un individualismo distruttivo al pari di quello del liberalismo
di Alasdair Macintyre (Avvenire, 05.08.2007)
Per poter giudicare adeguatamente la cultura morale dominante della modernità avanzata, bisogna giudicarla dall’esterno. Essa appare ancora oggi lo scenario di controversie irrisolte e apparentemente irrisolvibili, di natura morale e non solo, tra fazioni avverse le cui rispettive argomentazioni valutative e normative ci pongono dinanzi al dilemma seguente: per un verso si dà per scontato il riferimento a criteri condivisi impersonali in forza dei quali si assume che una delle parti in causa alla fine otterrà ragione. D’altro canto, pare proprio che un siffatto criterio non esista nella realtà, a giudicare dalla povertà delle argomentazioni a sostegno delle diverse tesi in campo, e dal modo con cui si continua a sostenerle: le si ripete invariate nella loro sostanza in maniera meramente assertiva e alla lunga petulante. La mia spiegazione di questo fenomeno era e rimane la seguente: i cosiddetti princìpi morali erano originariamente inseriti in un contesto di credenze pratiche e di modalità consolidate di pensare, sentire e agire, che li rendevano comprensibili; tale contesto, ove i giudizi morali trovavano il loro senso in riferimento a criteri impersonali giustificati da una concezione condivisa del bene umano, è andato perduto.
Venuti meno il contesto e la giustificazione, a seguito di complessi processi di trasformazione sociale e morale occorsi alla fine del Medioevo e alle soglie della modernità, bisognava individuare nuove strade per poter spiegare le regole e i precetti morali, e di conseguenza attribuire loro un nuovo statuto, autorità e giustificazione. È quanto i filosofi morali dell’Illuminismo europeo hanno tentato di realizzare a partire dal diciottesimo secolo in avanti. Tuttavia, il risultato delle loro riflessioni è stato di fatto la moltiplicazione di teorie rivali, le une incompatibili con le altre, gli utilitaristi in conflitto con i kantiani, gli uni e gli altri opposti ai contrattualisti, in modo tale che i giudizi morali, come oggi li si inte nde, si riducono essenzialmente a regole che esprimono il comportamento e il sentire di chi le ha formulate, e ciò nonostante si continua a presentarle assumendo che ci sia un criterio impersonale in base al quale i conflitti morali potrebbero essere risolti razionalmente. Tali disaccordi riguardavano sin dall’inizio, non solo la giustificazione, ma anche il contenuto della morale.
Questa caratteristica peculiare della cultura morale della modernità non è cambiata. E io sono rimasto dell’idea che si possa comprendere la genesi e la situazione di stallo della modernità morale soltanto a partire dal punto di vista di una tradizione differente, di cui Aristotele ha raccolto e analizzato credenze e presupposti, elaborandoli teoricamente nella sua ben nota teoria classica. Non voglio sostenere, questo è importante sottolinearlo, che la dottrina morale aristotelica sia in grado di vedere riconosciuta la propria superiorità razionale e di essere accettata dagli esponenti delle correnti più accreditate della filosofia morale, in altre parole che un aristotelico sia in grado di avere la meglio nei confronti di un kantiano, un utilitarista o un contrattualista, nelle dispute teoretiche che avvengono nei teatri della modernità. Sarei subito smentito e non potrei obiettare nulla: la situazione è evidentemente diversa; non solo: in un simile agone, l’aristotelismo è costretto a presentarsi e si presenta di fatto come una solamente tra le tante proposte morali, i cui esponenti hanno la stessa, flebile speranza di confutare i loro rivali, cosa che peraltro accade anche agli utilitaristi, ai seguaci di Kant o ai contrattualisti.
La mia convinzione di allora, che rimane immutata ancor oggi, è che l’inconsistenza del discorso morale della modernità si spiega a partire dal genere di vita che ricalca la logica e si comprende alla luce dei concetti formulati da Aristotele; da questa prospettiva si capisce anche perché la cultura della modernità morale sia priva delle risorse che poss ono farla progredire nelle proprie ricerche, cosicché sterilità e frustrazione sono l’inevitabile conseguenza con la quale essa è costretta a misurarsi per venir fuori dall’impasse in cui si trova. In questo momento però comprendo molto meglio di venticinque anni fa le ragioni che mi hanno portato a sposare le tesi di Aristotele, e che si devono ad almeno due tipi diversi di sollecitazione.
Quando ho scritto Dopo la virtù, ero già un pensatore aristotelico, ma non ancora un tomista: tomista lo sono diventato dopo, in parte perché mi sono convinto che l’Aquinate era per certi versi più aristotelico di Aristotele: non soltanto era un eccellente interprete dei testi del filosofo greco, ma era stato in grado di estendere e approfondire le ricerche metafisiche e morali del proprio maestro. Ciò mi ha fatto cambiare idea in almeno tre casi.
In Dopo la virtù offrivo una spiegazione delle virtù che definirei aristotelica in senso ampio, senza far ricorso o appello a quella che allora definivo la biologia metafisica di Aristotele. Buona parte della biologia aristotelica è senza dubbio sorpassata. Tuttavia, San Tommaso mi ha fatto capire che il mio tentativo di spiegare il bene sociale ricorrendo semplicemente a una teoria della società, in termini di pratiche, tradizioni e dell’unità narrativa delle vite umane, non sarebbe stato adeguato finché non fosse stato esplicitamente fondato in una metafisica.
Pratiche, tradizioni e tutto il resto possono funzionare, come di fatto funzionano, solamente in quanto gli uomini hanno un fine verso il quale muovono in ragione della loro natura specifica. Così ho capito che, senza rendermene conto, avevo dato per scontata la verità di qualcosa di molto simile alla dottrina del bene che si può leggere nella quinta quaestio della prima parte della Summa Theologica. Ho poi dato anche una spiegazione più accurata del contenuto delle virtù, identificandone alcune col nome di "virtù della dipendenza riconosciuta". Seguendo questa logica, ho pre so spunto dalla dottrina sulla misericordia di Tommaso d’Aquino, un punto che lo separa da Aristotele in maniera decisiva.
Sono dunque giunto a questi cambiamenti del mio pensiero in seguito alle riflessioni sui testi di Tommaso e sui commenti ai medesimi da parte di alcuni studiosi tomisti contemporanei. Il mio pensiero si è però sviluppato anche grazie alla spinta delle critiche rivolte a Dopo la virtù da parte di quanti si trovavano in radicale disaccordo con il mio libro. Prenderò spunto da una di queste, la quale più che derivare da una reale incomprensione, parrebbe provenire da una lettura non attenta del testo.
Sono stato accusato di nostalgia per un passato che avrei idealizzato: questo perché la mia comprensione della tradizione delle virtù muove dall’interno della polis greca, in modo particolare da quella ateniese in cui è stata adeguatamente razionalizzata; e perché, poi, ho indicato nell’Europa del Medioevo l’ambiente nel quale quella tradizione è potuta maturare. Mi pare tuttavia che non ci siano spunti sufficienti nel testo per un’accusa del genere.
Sono certamente convinto del fatto che dobbiamo rileggere il nostro passato, per comprendere la nostra identità e le nostre relazioni morali di oggi alla luce di una tradizione che ci renda capaci di superare gli ostacoli che la modernità, specialmente la modernità avanzata, impone a una simile conoscenza di sé. Allo stesso tempo, viviamo inevitabilmente nella modernità avanzata, di cui assumiamo i caratteri sociali e culturali che la contraddistinguono.
Il mio modo di comprendere la tradizione delle virtù, le conseguenze per la modernità del rifiuto di considerare questa tradizione e la possibilità di rimetterla in gioco, si può capire solo se si vive nella modernità. Le continuità e le fratture della tradizione delle virtù, così come essa si è declinata secondo una varietà di forme culturali diverse, si possono comprendere infatti solo retrospettivamente, a partire della prospettiva moderna, nel m omento in cui si cerca una via per venire fuori dalle secche della modernità morale.
Detto in altri termini, il genere di ricerca storica che ho svolto in Dopo la virtù è possibile solamente dopo il diciottesimo e diciannovesimo secolo. Vico è stato l’antesignano di questo genere di ricerca storica, anche se personalmente devo di più a R.G. Collingwood e a J.H. Newman, soprattutto per quanto riguarda la comprensione della natura e della complessità delle tradizioni. (...)
Mi si consenta adesso di passare a una critica, quella di chi vuole difendere la modernità liberale ed individualista e formula le proprie critiche muovendo dal dibattito tra liberali e comunitaristi (dando per scontato che io sia uno di questi ultimi, cosa che non è mai stata vera). Personalmente, non riconosco alcun valore alle comunità di cui si parla in questo dibattito; molte di queste sono brutalmente oppressive; inoltre, i valori della comunità, come sono intesi dagli esponenti americani del comunitarismo, gente come Amitai Etzioni, sono perfettamente compatibili con i valori del liberalismo che io rifiuto, anzi contribuiscono a sostenerli.
La critica che muovo al liberalismo deriva dalla convinzione argomentata che la vita migliore per l’uomo, quella in cui la tradizione delle virtù si esprime nel modo migliore, è vissuta da quanti sono impegnati a costruire e sostenere forme di comunità volte a ottenere insieme i beni condivisi che rendono possibile ottenere il bene ultimo per l’uomo. Le società politiche liberali s’impegnano per definizione a negare qualsiasi spazio per una concezione sostantiva del bene nel dibattito pubblico, e ancor meno possono accettare che la loro vita comune possa essere fondata su una concezione determinata del bene. Secondo la visione liberale dominante, il governo rimane essere neutrale riguardo alle concezioni rivali del bene umano, anche se il liberalismo promuove un ordine istituzionale sostantivo che è ostile alla costruzione e al sostentamento delle re lazioni solidali richieste per vivere la vita migliore dell’uomo.
Questa critica del liberalismo non deve essere assolutamente interpretata come indice di una mia personale simpatia nei confronti di qualsiasi genere di conservatorismo contemporaneo. Il conservatorismo è per molti versi l’immagine speculare del liberalismo cui professa di opporsi. Il proprio impegno a sostegno di uno stile di vita strutturato dall’economia del libero mercato genera un individualismo distruttivo al pari di quello del liberalismo. Dove il liberalismo ha tentato di usare il potere di trasformare le relazioni sociali caratteristiche dello stato moderno, favorendo leggi permissive, il conservatorismo si serve del medesimo potere per attuare i propri propositi di coercizione, promulgando leggi proibitive.
Conservatorismo e liberalismo sono ugualmente in opposizione alla visione di Dopo la virtù. Così la categoria dei moralisti conservatori contemporanei, con la loro tronfia retorica priva d’ironia e spesso di fondamento, dovrebbe essere aggiunta ai personaggi descritti nel capitolo 3 di Dopo la virtù, tra i protagonisti che caratterizzano i drammi culturali della modernità, il terapeuta, che negli ultimi vent’anni si è lasciato ammaliare dalle scoperte della biochimica, quella del manager, che continua a ripetere le formule che ha imparato in un corso di business ethics, mentre sta ancora cercando la giustificazione delle proprie pretese di competenza, e quella dell’esteta, che sta oggi emergendo dalla propria venerazione per l’arte concettuale. Così il conservatore moralista è diventato anch’egli un personaggio ricorrente, nelle trame intessute dalle élite che governano la moralità avanzata. In ogni caso, a queste élite non spetta mai l’ultima parola.
La tradizione delle virtù riaffiora infatti periodicamente all’interno della vita quotidiana, nella vita di persone comuni che si impegnano all’interno di una varietà di pratiche, compresa quella di mettere su e sostenere relazioni famili ari e di vicinato, scuole, cliniche, e forme locali di comunità politiche. Questa rigenerazione rende capace la gente comune di mettere in discussione i modelli dominanti del dibattito morale e sociale e le istituzioni che trovano la loro espressione in modelli simili. Mentre scrivevo Dopo la virtù, immaginavo persone di questo tipo, e ancor oggi scopro con piacere che proprio loro ne sono i lettori più adatti, quelli più capaci di riconoscere nelle tesi centrali del libro, l’articolazione filosofica di idee che loro avevano già elaborato in maniera spontanea a partire dalla loro vita quotidiana, l’espressione delle motivazioni che in qualche modo già spiegavano la loro condotta.
Nel capitolo introduttivo alludo a Un cantico per Leibowitz, lo straordinario romanzo di Walter M. Miller Jr., e nelle battute conclusive del capitolo finale richiamo il raffinato poema di Constantine Kavafis, Aspettando i barbari. Probabilmente, in un eccesso d’ottimismo, ho pensato che quasi tutti i lettori avrebbero riconosciuto entrambe le citazioni. Visto che generalmente questo non è accaduto, vorrei esplicitare in questa circostanza tali debiti d’immaginazione, che sono tanto importanti quanto quelli intellettuali riconosciuti nel testo. E dovrei anche chiarire che, benché Dopo la virtù sia stato scritto in parte per portare alla luce e motivare le inadeguatezza morali del marxismo che la storia del ventesimo secolo ha reso evidenti, ero e rimango profondamente debitore della critica marxiana dell’ordine economico, sociale e culturale del capitalismo e dello sviluppo di tale critica da parte di appartenenti alla medesima tradizione.
Nell’ultima frase di Dopo la virtù affermo che stiamo aspettando un nuovo San Benedetto. La grandezza di Benedetto sta nell’aver reso possibile l’istituzione del monastero centrato sulla preghiera, sullo studio e sul lavoro, nel quale e intorno al quale le comunità potevano non solo sopravvivere, ma svilupparsi in un periodo di oscurità sociale e cul turale. Gli effetti della visione fondazionale di Benedetto e la loro ricaduta istituzionale grazie a quanti in modi diversi hanno seguito la sua regola erano in gran parte imprevedibili per quei tempi. Quando scrissi quella frase conclusiva nel 1980, era mia intenzione di suggerire che anche la nostra epoca è un tempo di attesa di nuove e inattese possibilità di rinnovamento. Allo stesso tempo, è un periodo di resistenza prudente e coraggiosa, giusta e temperante nella misura del possibile, nei confronti dell’ordine sociale, economico e politico dominante nella modernità avanzata. Questa era la situazione ventisei anni fa, e tale ancora oggi rimane.
— - stagirita scozzese
Alasdair MacIntyre nasce a Glasgow nel 1929. Dopo aver studiato a Londra e a Manchester, nel 1951 diventa professore di Filosofia e di Sociologia. Nel 1970 si trasferisce negli Stati Uniti, prima a Boston, poi alla Vanderbilt University del Tennessee. Nel 1988 ottiene la docenza presso l’Università di Notre Dame nell’Illinois.
Tra le sue opere principali si ricordano A short History of Ethics (1966), Against the Self-Image of the Age (1971), Whose Justice? Which Rationality? (1988), Three Rival Version of Moral Enquiry (1990).
La sua opera più importante resta però After vitue: a Study in Moral Theory (1981). Qui a fianco pubblichiamo una parte della prefazione scritta da MacInyre appositamente per la seconda edizione[la prima, Feltrinelli 1988, pfls] italiana (Dopo la virtù. Saggio di Teoria Morale, Armando Editore, pagine 334, euro 24) appena uscita e curata/introdotta da Marco D’Avenia, docente di filosofia morale alla Pontificia Università della Santa Croce.
MacIntyre ha riportato Aristotele prima e poi San Tommaso al centro del main-stream filosofico, con una proposta di etica e di filosofia politica controcorrente. Il tutto supportato da un metodo epistemologico realistico, che punta alla scoperta dei primi principi, senza rinunciare all’apporto della storia e della teoria sociale, e al progresso delle scienze umane.
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Kant nel cestino? Postille a un testo che non invecchia
Contribuire alla costruzione di forme locali di comunità, al cui interno conservare la vita morale in un’epoca di oscurità e decadenza.
Questo il fine di MacIntyre
di Enrico Berti (Avvenire, 05.08.2007)
Quando, circa 25 anni fa, A. MacIntyre pubblicò la prima edizione di Dopo la virtù, molti ebbero l’impressione che, di fronte all’alternativa tra etica deontologica, o del dovere, ed etica utilitaristica, o della massima utilità per il massimo numero di persone, si prospettasse una specie di "terza via", l’etica delle virtù, basata su pratiche e tradizioni appartenenti a determinate comunità, e che essa potesse ristabilire la possibilità di un’etica condivisa. In realtà lo scopo di MacIntyre era un altro, cioè quello di mostrare il fallimento dell’etica moderna, dovuto all’abbandono del concetto tradizionale di vita buona, risalente ad Aristotele, e al tentativo illuministico di costruire un’etica puramente razionale, tentativo di cui Nietzsche sancì l’insuccesso, determinando la dissoluzione dell’etica contemporanea in un generico emotivismo.
La vera alternativa che dunque restava, secondo MacIntyre, era tra Nietzsche, simbolo della fine dell’etica, e Aristotele, simbolo dell’unica etica praticabile, l’etica appunto delle virtù. Ma il filosofo americano (di origine scozzese) non aspirava a riproporre l’etica aristotelica, bensì voleva soltanto contribuire alla costruzione di forme locali di comunità, al cui interno conservare la vita morale in un’epoca di oscurità per l’etica, sull’esempio di quanto aveva fatto San Benedetto all’inizio del medioevo.
Il suo libro non era in realtà senza precedenti, e a sua volta si prestava ad essere arricchito e completato, come avvenne ad opera di pubblicazioni posteriori dello stesso MacIntyre, ma rimase comunque il più bel manifesto dell’etica delle virtù. Esso non andò esente da critiche, soprattutto da parte di filosofi liberali, che lo accusarono di essere espressione del "comunitarismo", cioè di una concezione sostanzialmente conservatrice e localistica dell’etica, a cui essi contrapponevano i valori dell’universalismo.
Tuttavia Dopo la virtù contribuì in misura rilevante alla diffusione di quel neoaristotelismo, che per il contributo anche di pensatori europei come Gadamer, Ritter ed altri, e di pensatori americani come Martha Nussbaum, divenne una delle espressioni più significative dell’etica di fine Novecento.
Nel presentare la nuova edizione di Dopo la virtù MacIntyre dichiara di non avere trovato motivi sufficienti per abbandonare le principali tesi di questo libro. Egli conferma la diagnosi negativa dell’etica moderna, contrappone ancora a quest’ultima l’etica di Aristotele, ma annuncia come novità di avere scoperto San Tommaso come filosofo per certi versi più aristotelico dello stesso Aristotele e capace di estendere e approfondire nella direzione della metafisica le ricerche morali del maestro. In particolare dice di avere scoperto che le pratiche, le tradizioni e tutto ciò che forma l’etica delle virtù, può funzionare solo in quanto gli uomini hanno un fine in vista del quale muovono in ragione della loro natura specifica. MacIntyre infine conferma l’invocazione a San Benedetto come espressione di resistenza e attesa in tempi di oscurità sociale e culturale.
Non c’è dubbio che l’integrazione di Aristotele con Tommaso costituisce un approfondimento della prospettiva metafisica aristotelica, reso possibile all’Aquinate dalla sua fede cristiana nell’orientamento di tutte le creature, dell’uomo in particolare, ad un unico fine ultimo, supremo bene, determinabile universalmente. Ma ho qualche dubbio che questa integrazione renda più convincente la posizione di MacIntyre, la quale finora si era avvantaggiata del carattere "laico" suggerito dal richiamo ad Aristotele. Inoltre MacIntyre continua a negare - non so con quanta fedeltà a Tommaso, sicuramente con nessuna ad Aristotele - l’esistenza di criteri razionali neutrali e comuni, a cui richiamarsi per giustificare le scelte etiche.
A mio giudizio la modernità ha individuato alcuni di tali criteri nei diritti umani, riconosciuti almeno in teoria da quasi tutti, individui e Stati, i quali, opportunamente integrati nella direzione delle "capacità" o opportunità (vedi A. Sen e M. Nussbaum), possono fornire delle premesse da cui argomentare, non per dimostrare scientificamente (utopia illuministica), ma per giustificare dialetticamente, cioè ragionevolmente, determinate scelte piuttosto che altre.
Insomma, anche se MacIntyre dichiara ora di non essere mai stato comunitarista, il che va certamente a suo merito, non sembra ancora essere sufficientemente universalista per sfruttare quello che forse è l’unico vero progresso realizzato dall’etica moderna, cioè illuministica, in particolare kantiana, rispetto all’etica aristotelica, la scoperta appunto dell’uguale dignità di ogni uomo, progresso al quale ha sicuramente contribuito, sia pure attraverso un processo durato quasi due millenni, il cristianesimo.
i barbari fra noi *
Così scriveva MacIntyre alla fine del suo Dopo la virtù: «È sempre rischioso tracciare paralleli troppo precisi fra un periodo storico e un altro, e fra i più fuorvianti di tali paralleli vi sono quelli che sono stati tracciati fra la nostra epoca in Europa e nel Nordamerica e l’epoca in cui l’impero romano declinava verso i secoli oscuri. Tuttavia certi parallelismi esistono. Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e oscurità. Se la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la cività e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno governato per parecchio tempo. Ed è la nostra consapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso».
* Avvenire, 05.08.2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA:"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
Tolleranza non è ridurre le libertà delle donne
di Michela Marzano (Corriere della Sera, 31.03.2016)
Pare che George Washington, motivando ai quaccheri la ragione per la quale non avrebbe richiesto loro di adempiere il servizio militare, avesse detto che gli «scrupoli di coscienza di tutti gli uomini dovrebbero essere trattati con la più grande cura e gentilezza». E che quindi, in nome della tolleranza, si sarebbe dovuta «accomodare» persino la legge. Ma fino a che punto si possono «accomodare» alcuni diritti? È giusto arretrare anche solo sulle proprie abitudini?
È ammissibile, per le donne, rinunciare a quelle libertà conquistate da poco e con tanta fatica, come è accaduto recentemente ad Amsterdam dove sono stati vietati minigonne e stivali sexy negli uffici comunali per non urtare la sensibilità di una clientela multietnica? Si può, per dirla in altri termini, tollerare l’intolleranza altrui senza rischiare di cancellare la possibilità stessa della tolleranza?
La tolleranza, come ci insegnano Locke o Voltaire, non è solo quella virtù che porta a rispettare l’altro e le sue differenze. È anche e soprattutto ciò che permette di organizzare il vivere-insieme quando si hanno opinioni morali, politiche e religiose diverse, spingendoci a sopportare anche ciò che si disapprova. In che senso? Nel senso che quegli «scrupoli di coscienza» di cui parlava Washington non dovrebbero impedire alle donne di vestirsi come vogliono o agli umoristi di ironizzare o far ridere su qualunque cosa.
Esattamente come non dovrebbero impedire, a chi lo desidera, di augurare ad amici e a parenti «Buon Natale» o «Buona Pasqua», solo perché il Natale o la Pasqua sono festività cristiane. Ecco perché in ogni democrazia liberale e pluralista, pur non sopportando il fatto che una donna si veli, si dovrebbe essere capaci di accettarlo; esattamente come si dovrebbe accettare il fatto che alcune donne mettano la minigonna o vadano in giro con abiti sexy, anche quando la cosa infastidisce.
A meno di non voler distruggere proprio la tolleranza, visto che «tolleranza» e «intolleranza» non fanno altro che elidersi reciprocamente. Se in nome della tolleranza si tollerasse l’intolleranza si finirebbe d’altronde con lo svuotare di senso il concetto stesso di tolleranza.
È questo che vogliamo? Siamo sicuri che è il modo migliore per promuovere l’integrazione nei nostri Paesi? Non rischiamo così di aumentare la conflittualità e, nel nome della convivenza, di rinunciare a valori e ideali per i quali si sono battute generazioni intere di uomini e di donne?
L’integrazione non è mai facile. Non lo è per nessuno. Non lo è stato per gli Italiani, i Polacchi, gli Spagnoli e i Portoghesi che sono emigrati il secolo scorso. Lo è ancora meno per chi viene da una cultura o da una religione completamente diversa come l’Islam. In ogni caso, si è confrontati all’alterità. E l’alterità, per definizione, è difficilmente assimilabile. Anche perché l’altro, in quanto tale, è il contrario dell’identico, e quindi di tutto ciò che si conosce e che si è intuitivamente disposti ad accettare.
Ci si può integrare, come spiega il filosofo Alasdair MacIntyre, solo a partire dalle proprie molteplici «appartenenze» (famiglia, quartiere, tradizioni, chiese...). «E la particolarità», scrive MacIntyre, «non può mai essere semplicemente lasciata alle spalle o cancellata rifugiandosi in un mondo di massime universali». Al tempo stesso, però, ci sono diritti, o anche solo abitudini, su cui sarebbe un grave errore arretrare vuoi per paura, vuoi per rispetto. Soprattutto quando si pensa a quei territori di libertà femminili che si sono conquistate pian piano, con sofferenze e sacrifici. Perché poi è sempre così che finisce: sono le donne - ma anche le persone omosessuali e transessuali - che rischiano di pagare sulla propria pelle il prezzo di quest’accomodarsi per paura di ferire la sensibilità altrui.
Come si può anche solo pensare di vietare le minigonne o di coprire delle statue nude - come è accaduto in Italia in occasione della visita del presidente dell’Iran - solo perché il nudo potrebbe imbarazzare chi non si imbarazza affatto quando, a casa sua, si tratta di imporre i propri usi e costumi? Come si può anche solo immaginare di tollerare l’intolleranza di chi è convinto che un uomo non debba nemmeno sognarsi di stringere la mano di una donna?
Oswald Spengler, ne Il Tramonto dell’Occidente, spiegava che il mondo si fa, si disfa e si rifà, indipendentemente da quello che possiamo fare o volere. Con queste parole, il filosofo tedesco anticipava profeticamente la fine della «Modernità». Al tempo stesso, però, affermava qualcosa di profondamente erroneo. Almeno per chi parte dal presupposto che, nonostante ci sia sempre qualcosa che sfugga al controllo, gli esseri umani sono comunque responsabili del proprio destino. E crede quindi che ci si debba sempre battere per salvaguardare i propri diritti ed evitare di arretrare. Tanto più che, oggi, sono numerosi coloro che vorrebbero cancellare anni di storia e di battaglie femminili.
Gli integralismi, quando si tratta delle donne, si assomigliano tutti. E con la scusa di difendere valori come la famiglia, l’onore, il pudore o la castità, vogliono di fatto tornare a quell’epoca in cui le donne, docili e silenziose per natura, dovevano accontentarsi di restare a casa, lasciando agli uomini gli oneri e gli onori della vita pubblica.
Il diavolo si nasconde spesso nei dettagli: una minigonna vietata o un velo imposto, un «vergognati» o un «resta al posto tuo», un «era meglio prima» o un «questo è puro e questo è impuro». Tanti dettagli che, col tempo, rischiano però di diventare pericolosi. Soprattutto quando, nel nome della tolleranza e del rispetto, di fatto si impongono solo intolleranza e umiliazione. Ma come si può, nel nome della tolleranza, tollerare appunto l’intolleranza?
Aspettando i barbari
di Konstantinos (Costantinos) Kavafis
Che cosa aspettiamo cosi’ riuniti sulla piazza?
Stanno per arrivare i Barbari oggi.
Perche’ un tale marasma al Senato?
Perche’ i Senatori restano senza legiferare?
E’ che i barbari arrivano oggi.
Che leggi voterebbero i Senatori?
Quando verranno, i Barbari faranno la legge.
Perche’ il nostro Imperatore, levatosi sin dall’aurora,
siede su un baldacchino alle porte della citta’,
solenne e con la corona in testa?
E’ che i Barbari arrivano oggi.
L’Imperatore si appresta a ricevere il loro capo.
Egli ha perfino fatto preparare una pergamena
che gli concede appellazioni onorifiche e titoli.
Perche’ i nostri due consoli e i nostri pretori
sfoggiano la loro rossa toga ricamata?
Perche’ si adornano di braccialetti d’ametista
e di anelli scintillanti di brillanti?
Perche’ portano i loro bastoni
preziosi e finemente cesellati?
E’ che i Barbari arrivano oggi
e questi oggetti costosi abbagliano i Barbari.
Perche’ i nostri abili retori non perorano
con la loro consueta eloquenza?
E’ che i Barbari arrivano oggi.
Loro non apprezzano le belle frasi ne’ i lunghi discorsi.
E perche’, all’improvviso, questa inquietudine
e questo sconvolgimento? Come sono divenuti gravi i volti!
Perche’ le strade e le piazze si svuotano cosi’ in fretta
e perche’ rientrano tutti a casa con un’aria cosi’ triste?
E’ che e’ scesa la notte e i Barbari non arrivano.
E della gente e’ venuta dalle frontiere
dicendo che non ci sono affatto Barbari...
E ora, che sara’ di noi senza Barbari?
Loro erano comunque una soluzione.
Konstantinos Kavafis(1908)