Il Papa ai lettori: "Liberi di contraddirmi"
La fatica letteraria del professor Ratzinger
In dieci capitoli la storia della vita di Gesù. Rinviata l’infanzia.
"Gesù è ebreo ma è andato oltre l’ebraismo" *
ROMA - Correggetemi, se volete. Assomiglia a Wojtyla quando appena nominato Pontefice disse: "Se sbaglio mi corigerete" , l’affermazione di Benedetto XVI contenuta nella prefazione del suo libro che uscirà il 16 aprile, giorno del suo ottantesimo compleanno, e che è stato presentato oggi a Roma: "Siete liberi di contraddirmi". Il libro s’intitola Gesù di Nazaret, che, precisa il Pontefice, si scrive senza acca.
"Questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale ma è unicamente l’espressione della mia ricerca personale del volto di Cristo" si legge nella premessa. "Perciò ognuno è libero di contraddirmi. Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione".
Benedetto XVI lo ha sempre detto: il volume potrà essere discusso liberamente da chiunque "perché non vincola all’infallibilità pontificia, non trattandosi di un testo inserito nel Magistero Papale nè in atti ufficiali del Mandato Petrino".
Il libro - Il Papa ha dedicato alla stesura del libro "tutti i momenti liberi" fino al settembre 2006, data in cui ha completato le bozze. Si tratta di un volume diviso in 10 capitoli dedicati alla figura umana di Gesù, dal battesimo fino alla trasfigurazione. La parte relativa all’infanzia è stata "rimandata" dal Pontefice alla seconda parte del libro di cui però non è ancora nota la data di uscita. Per ora, il Papa teologo ha preferito quindi concentrarsi sull’attività "pubblica" di Cristo. Il libro, soprattutto, pur affrontando tutte le questioni più spinose, a cominciare dalla stesura dei Vangeli, archivia tutte le immagini fantasiose su Gesù di cui pullula la letteratura degli ultimi anni.
"Gesù non è mito ma storia" - Tutta la storia del Dio che muore e che risorge "è accaduta realmente". "Gesù non è un mito, è un uomo fatto di carne e sangue, una presenza tutta reale nella storia". E’ uno dei passaggi più delicati e importanti del libro di Benedetto XVI. "Possiamo visitare i luoghi e seguire le vie che Egli ha percorso - scrive Ratzinger nella sezione dedicata alle Grandi immagini del Vangelo di Giovanni -. Possiamo, per il tramite dei testimoni, udire le sue parole. Egli è morto ed è risorto".
Il vangelo di Giovanni - Parlando della questione giovannea, cioè di chi sia effettivamente l’autore del Vangelo di Giovanni, Benedetto XVI sostiene che "il quarto Vangelo poggia su conoscenze straordinariamente precise dei luoghi e dei tempi, e pertanto può solo essere opera di qualcuno che aveva grande familiarità con la Palestina dei tempi di Gesù". "Il testo - prosegue - ci guida verso la figura di Giovanni di Zebedeo, ma non procede esplicitamente a questa identificazione". E se L’Apocalisse "nomina espressamente Giovanni come suo autore", "rimane aperta la domanda se l’autore sia il medesimo". Ratzinger ricorda che "dai tempi di Ireneo di Lione (morto nel 202 circa), la tradizione della Chiesa riconosce all’unanimità Giovanni di Zebedeo come il discepolo prediletto e l’autore del Vangelo". Tuttavia "in epoca moderna sono sorti dubbi sempre più forti riguardo a questa identificazione".
"Allo stato attuale della ricerca - aggiunge - è senz’altro possibile scorgere in Giovanni di Zebedeo quel testimone che difende solennemente la sua testimonianza oculare", ma "la complessità nella redazione del testo solleva tuttavia ulteriori domande". Benedetto XVI afferma che "dietro il testo vi è, ultimamente, un testimone oculare, e anche la redazione concreta è avvenuta nella vivace cerchia dei suoi discepoli e con l’apporto determinante di un discepolo a lui familiare".
"La vera pretesa del Vangelo - spiega - è quella di aver trasmesso correttamente il contenuto dei discorsi, l’autotestimonianza di Gesù nei grandi confronti svoltisi a Gerusalemme, affinchè il lettore incontri davvero i contenuti decisivi di questo messaggio e in esso l’autentica figura di Gesù".
"Gesù dà la vita" - E’ uno dei concetti-chiave dell’insegnamento di Benedetto XVI: "Questa è la grande promessa di Gesù: dare la vita in abbondanza". E tramite questo Gesù dà all’uomo "l’unica cosa di cui ha bisogno".
Il Papa ne parla a partire dalle "grandi immagini" del Vangelo di Giovanni (l’acqua, la vite e il vino, il pane, il pastore), da cui nel libro Ratzinger fa discendere la sua interpretazione del mistero dell’Eucaristia. "Gesù - spiega - promette di mostrare alle pecore il ’pascolo’, ciò di cui vivono, di condurle davvero alle sorgenti della vita".
Ampia e profonda la visione teologica in cui il Pontefice dispiega la sua esegesi degli episodi evangelici, dalla simbologia dell’acqua al miracolo di Cana passando del pane.
"La nuova bontà di Dio non è acqua zuccherata"- Il cristianesimo non è buonismo e non è una morale. E anche se oblio di Dio e mito del successo hanno trasformato la "giusta laicità" in un profano laicismo, la ricerca della verità di Dio resta un "segnavia" per la ragione dell’uomo. La verita di Dio va cercata "nella comunione con Gesù".
"Gesù è ebreo ma è andato oltre il giudaismo" - Pur essendo stato "un vero israelita", Gesù "è andato oltre il giudaismo". Questa distinzione ricorre più volte nel libro testo, dove Ratzinger si inserisce esplicitamente nel dibattito tra Cristo e il rabbino di cui parla Jacob Neusner in A Rabbi talk with Jesus.
"Dio non è madre" - Lo scrive Benedetto XVI: "Nonostante le grandi metafore dell’amore materno, madre non e’ un titolo di Dio, non e’ un appellativo con cui rivolgersi a Dio’’. Il papa si pone la domanda se ’’Dio non è anche madre’’ visto che ’’il paragone dell’amore di Dio con l’amore di una madre esiste’’ e appare già nell’antico Testamento e nella tradizione ebraica. Ma aggiunge subito il papa ’’resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia’’ dove ’’l’immagine del padre era ed è adatta a esprimere l’alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo’’.
* la Repubblica, 13 aprile 2007
Ieri, a Parigi, l’arcivescovo emerito di Milano ha offerto una sua analisi del libro del Papa
«Ammiro il Gesù di Ratzinger, ma non è l’unico»
Martini: «Una lettura alla luce di Fede e Ragione, che si oppone al metodo storico-critico»
Cercherò di rispondere a cinque domande:
1. Chi è l’autore di questo libro?
2. Qual è l’argomento di cui parla?
3. Quali sono le sue fonti?
4. Qual è il suo metodo?
5. Che giudizio dare sul libro nel suo insieme?
1. L’autore di questo libro è Joseph Ratzinger, che è stato professore di teologia cattolica in varie Università tedesche a partire dagli anni Cinquanta e, in questa veste, ha seguito l’evolversi e le diverse vicissitudini della ricerca storica su Gesù; ricerca che si è sviluppata anche presso i cattolici nella seconda metà del secolo scorso. L’autore ora è Vescovo di Roma e Papa con il nome di Benedetto XVI. Qui si pone già una possibile questione: è il libro di un professore tedesco e di un cristiano convinto, oppure è il libro di un Papa, con il conseguente rilievo del suo magistero? In verità, per quanto riguarda l’essenziale della domanda, è l’autore stesso nella prefazione a rispondere con franchezza: «Non ho bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del "volto del Signore". Perciò, ciascuno è libero di contraddirmi. Chiedo soltanto alle lettrici e ai lettori di farmi credito della benevolenza senza la quale non c’è comprensione possibile» (p.19). Siamo pronti a fare questo credito di benevolenza, ma pensiamo che non sarà facile per un cattolico contraddire ciò che è scritto in questo libro. Comunque, tenterò di considerarlo con uno spirito di libertà. Tanto più che l’autore non è esegeta, ma teologo, e sebbene si muova agilmente nella letteratura esegetica del suo tempo, non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento. Infatti, non cita quasi mai le possibili varianti dei testi, né entra nel dibattito circa il valore dei manoscritti, accettando su questo punto le conclusioni che la maggior parte degli esegeti ritengono valide.
2. Di cosa parla? Il libro ha come titolo Gesù di Nazaret. Penso che il vero titolo dovrebbe essere Gesù di Nazaret ieri e oggi. E questo perché l’autore passa con facilità dalla considerazione dei fatti che riguardano Gesù all’importanza di quest’ultimo per i secoli seguenti e per la nostra Chiesa. Il libro è pieno di allusioni a problematiche contemporanee. Per esempio, parlando della tentazione nella quale dal demonio viene offerto a Gesù il dominio del mondo, egli afferma che il «suo vero contenuto diventa visibile quando constatiamo che, nella storia, essa prende continuamente una forma nuova. L’Impero cristiano ha cercato molto presto di trasformare la fede in un fattore politico per l’unità dell’Impero... La debolezza della fede, la debolezza terrena di Gesù Cristo doveva essere sostenuta dal potere politico e militare. Nel corso dei secoli questa tentazione-assicurare la fede mediante il potere-si è ripresentata continuamente» (p. 59). Questo genere di considerazioni sulla storia successiva a Gesù e sull’attualità, conferiscono al libro un’ampiezza e un sapore che altri libri su Gesù, in genere più preoccupati dalla discussione meticolosa dei soli eventi della sua vita, non hanno. L’autore dà anche volentieri parola ai Padri della Chiesa e ai teologi antichi. Per esempio, per quanto concerne la parola greca epiousios, egli cita Origene, il quale dice che, nella lingua greca, «questo termine non esiste in altri testi e che è stato creato dagli Evangelisti» (p. 177). Circa l’interpretazione della domanda del Padre Nostro «E non indurci in tentazione», egli richiama l’interpretazione di San Cipriano e precisa: «Così dobbiamo riporre nelle mani di Dio i nostri timori, le nostre speranze, le nostre risoluzioni, poiché il demonio non può tentarci se Dio non gliene dà il potere» (p. 187). Quanto alla storia di Gesù, il libro è incompleto, perché considera solo gli eventi che vanno dal Battesimo alla Trasfigurazione. Il resto sarà materia di un secondo volume. In questo primo volume sono trattati il Battesimo, le tentazioni, i discorsi, i discepoli, le grandi immagini di San Giovanni, la professione di fede di Pietro e la Trasfigurazione, con una conclusione sulle affermazioni di Gesù su se stesso. L’autore parte spesso da un testo o da un evento della vita di Gesù per interrogarsi sul suo significato per le generazioni future e per la nostra generazione. In questo modo il libro diventa una meditazione sulla figura storica di Gesù e sulle conseguenze del suo avvento per il tempo presente. Egli mostra che, senza la realtà di Gesù, fatta di carne e di sangue, «il cristianesimo diviene una semplice dottrina, un semplice moralismo e una questione dell’intelletto, ma gli mancano la carne e il sangue» (p. 270). L’autore si preoccupa molto di ancorare la fede cristiana alle sue radici ebraiche. Gesù, ci dice Mosè, «è il profeta pari a me che Dio susciterà... a lui darete ascolto» (Deuteronomio, 18,15) (p. 22). Ora, Mosé aveva incontrato il Signore.EIsraele può sperare in un nuovo Mosè, che incontrerà Dio come un amico incontra il proprio amico,ma al quale non sarà detto, come a Mosè, «Tu non potrai vedere il mio volto» (Esodo, 33,20). Gli sarà dato di «vedere realmente e direttamente il volto di Dio e di potere così parlare a partire da questa visione» (p. 25). E’ quel che dice il prologo del Vangelo di Giovanni: «Dio, nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). «E’ qui il punto a partire dal quale è possibile comprendere la figura di Gesù» (p. 26). E’ in questo reciproco intrecciarsi di conoscenze storiche e di conoscenze di fede, dove ognuno di questi approcci mantiene la propria dignità e la propria libertà, senza mescolanza e senza confusione, che si riconosce il metodo proprio dell’autore, di cui parleremo più avanti.
3. Quali sono le sue fonti? L’autore non ne tratta direttamente, come spesso avviene in diverse opere dello stesso genere. Forse ne parlerà all’inizio del secondo volume, prima di affrontare i Vangeli dell’infanzia di Gesù. Ma si vede con chiarezza che egli segue da vicino il testo dei quattro Vangeli e gli scritti canonici del Nuovo Testamento. Egli propone anche una lunga discussione sul valore storico del Vangelo di Giovanni, respingendo l’interpretazione di Rudolf Bultmann, accettando in parte quella di Martin Hengel e criticando anche quella di alcuni autori cattolici, per poi esporre una propria sintesi, vicina alla tesi di Hengel, sebbene con un equilibrio e un ordine diversi. La conclusione è che il quarto Vangelo «non fornisce semplicemente una sorta di trascrizione stenografica delle parole e delle attività di Gesù, ma, in virtù della comprensione nata dal ricordo, ci accompagna, al di là dell’aspetto esteriore, fin nella profondità delle parole e degli eventi; in quella profondità che viene da Dio e che conduce verso Dio» (p. 261). Penso che non tutti si riconosceranno nella sua descrizione dell’autore del quarto Vangelo quando egli dice: «Lo stato attuale della ricerca ci consente perfettamente di vedere in Giovanni, il figlio di Zebedeo, il testimone che risponde con solennità della propria testimonianza oculare identificandosi anche come il vero autore del Vangelo» (p.252).
4. Tutto questo rivela con chiarezza il metodo dell’opera. Si oppone fermamente a quello che recentemente è stato chiamato, in particolare nelle opere del mondoanglosassone americano, «l’imperialismo del metodo storico-critico». Egli riconosce che tale metodo è importante, tuttavia corre il rischio di frantumare il testo come sezionandolo, rendendo così incomprensibili i fatti ai quali il testo si riferisce. Egli piuttosto si propone di leggere i vari testi rapportandoli all’insieme della Scrittura. In questo modo, si scopre «che esiste una direzione in tale insieme, che il Vecchio e ilNuovo Testamento non possono essere dissociati. Certo, l’ermeneutica cristologica, che vede in Gesù Cristo la chiave dell’insieme e, partendo da lui, comprende la Bibbia come un’unità, presuppone un atto di fede, e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questo atto di fede è intrinsecamente portatore di ragione, di una ragione storica: permette di vedere l’unità interna della Scrittura e, attraverso questa, di acquisire una comprensione nuova delle diverse fasi del suo percorso, senza togliere ad esse la loro originalità storica» (p. 14). Ho fatto questa lunga citazione per mostrare come, nel pensiero dell’autore, ragione e fede siano implicate e «reciprocamente intrecciate», ciascuna con i suoi diritti e il proprio statuto, senza confusione né cattiva intenzione dell’una verso l’altra. Egli rifiuta la contrapposizione tra fede e storia, convinto che il Gesù dei Vangeli sia una figura storica e che la fede della Chiesa non possa fare a meno di una certa base storica. Ciò significa, in pratica, che l’autore, come dice egli stesso a pagina 17, «ha fiducia nei Vangeli», pur integrando quanto l’esegesi moderna ci dice. E da tutto questo scaturisce un Gesù reale, un «Gesù storico» nel senso proprio del termine. La sua figura «è molto più logica e storicamente comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni» (p. 17). L’autore è convinto che «è soltanto se qualcosa di straordinario si è verificato, se la figura e le parole di Gesù hanno superato radicalmente tutte le speranze e tutte le attese dell’epoca che si spiega la sua crocifissione e la sua efficacia», e questo alla fine porta i suoi discepoli a riconoscergli il nome che il profeta Isaia e tutta la tradizione biblica avevano riservato solo a Dio (cf. pp.17-18). Applicando questo metodo alla lettura delle parole e dei discorsi di Gesù, che comprende parecchi capitoli del libro, l’autore rivela di essere persuaso «che il tema più profondo della predicazione di Gesù era il suo proprio mistero, il mistero del Figlio, nel quale Dio è presente e nel quale egli adempie la sua parola» (p. 212). Questo è vero per il Sermone della montagna in particolare, a cui sono dedicati due capitoli, per il messaggio delle parabole e per le altre grandi parole di Gesù. Come dice l’autore affrontando la questione giovannea, cioè il valore storico del Vangelo di Giovanni e soprattutto delle parole che egli fa dire a Gesù, così diverse dai Vangeli sinottici, il mistero dell’unione di Gesù con il Padre è sempre presente e determina l’insieme, pur restando nascosto sotto la sua umanità (cf. p. 245). In conclusione, bisogna «che noi leggiamo la Bibbia, e in particolare i Vangeli come unità e totalità -come richiesto dalla natura stessa della parola scritta di Dio - che, in tutti i suoi strati storici, è l’espressione di un messaggio intrinsecamente coerente» (p. 215).
5. Se tale è il metodo di lettura dell’autore, cosa dobbiamo pensare della riuscita globale dell’opera, al di là del numero di copie vendute nel mondo intero, che tutto sommato non è un indice particolarmente significativo del valore del libro? L’autore confessa che questo libro «è il risultato di un lungo cammino interiore» (p. 19). Se pure ha cominciato a lavorarvi durante l’estate 2003, il libro è tuttavia il frutto maturo di una meditazione e di uno studio che hanno occupato un’intera vita. Ne ha tratto la conseguenza che «Gesù non è un mito, che è un uomo di carne e di sangue, una presenza tutta reale nella storia. Noi possiamo seguire le strade che ha preso. Possiamo udire le sue parole grazie ai testimoni. E’ morto ed è risuscitato ». Questa opera è quindi una grande e ardente testimonianza su Gesù di Nazareth e sul suo significato per la storia dell’umanità e per la percezione della vera figura di Dio. E’ sempre confortante leggere testimonianze come questa. A mio avviso, il libro è bellissimo, si legge con una certa facilità e ci fa capire meglio Gesù Figlio di Dio e al tempo stesso la grande fede dell’autore. Ma esso non si limita al solo dato intellettuale. Ci indica la via dell’amore di Dio e del prossimo, come quando spiega la parabola del buon Samaritano: «Ci accorgiamo che tutti noi abbiamo bisogno dell’amore salvifico che Dio ci dona, al fine di essere anche noi capaci di amare, e che abbiamo bisogno di Dio, che si fa nostro prossimo, per riuscire ad essere il prossimo di tutti gli altri» (p. 226). Pensavo anch’io, verso la fine della mia vita, di scrivere un libro su Gesù come conclusione dei lavori che ho svolto sui testi del Nuovo Testamento. Ora, mi sembra che questa opera di Joseph Ratzinger corrisponda ai miei desideri e alle mie attese, e sono molto contento che lo abbia scritto. Auguro a molti la gioia che ho provato io nel leggerlo.
(traduzione dal francese di Daniela Maggioni)
Carlo Maria Martini
* Corriere della Sera, 24 maggio 2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Relazione per il gruppo biblico della CdB di S. Paolo sul libro di J. Ratzinger : “Gesù di Nazareth”
Una domanda, molte risposte.
di Antonio Guagliumi *
Secondo il ben noto passo dell’evangelista Matteo (cap. 16, versetti 13 e seguenti) Gesù, a un certo punto delsuo cammino, chiese ai suoi discepoli: “Chi dite voi che io sia?” Pietro rispose: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente”. Sempre secondo Matteo, Gesù si complimentò vivamente con lui e per quella risposta lo costituìfondamento della sua Chiesa. Subito dopo, però, annunciò che sarebbe andato a Gerusalemme per soffrire e morire, e lo stesso Pietro si scandalizzò, perché evidentemente aveva in mente un’idea di Messia diversa da quella del suo Maestro. Gesù allora lo trattò duramente, chiamandolo Satana e invitandolo ad andare dietro di lui e seguirlo invece di metterglisi di fronte. La domanda di Gesù non si è spenta. Essa continua a essere rivolta a tutti noi e chi in un modo, chi nell’altro, chi esplicitamente e chi silenziosamente ha tentato qualche volta almeno di dare o di darsi una risposta, cercando magari aiuto tra gli “addetti ai lavori”. Fra gli interventi di rilievo apparsi di recente in merito ci sono due libri: Quello di Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI, intitolato appunto “Gesù di Nazareth” e quello di Giuseppe Barbaglio: “Gesù ebreo di Galilea”. Nel primo la risposta è la stessa di Pietro: Egli è il Cristo, il Figlio del Dio vivente; nel libro si cerca poi di spiegare come e perché. Nel secondo non si dà direttamente una risposta, ma si forniscono notizie e strumenti lasciando che questa risposta scaturisca eventualmente dal lettore.
Il libro del nostro indimenticabile amico e Maestro GiuseppeBarbaglio (EDB, 2002; 5° 2005) tutti lo conosciamo; quello di Joseph Ratzinger “Gesù di Nazareth” (Rizzoli - 2007) l’ho letto anche per poter confrontare le mie impressioni con le vostre, se lo leggerete; ma la massa delle annotazioni a margine è diventata così ingente che ho pensato di raccoglierle in questa sorta di relazione, che troverete pesante per le continue, inevitabili citazioni e i confronti tra i due libri e con gli scritti di vari autoriche sono intervenuti in merito (tra i quali spicca, come molti già sanno, l’articolo di Flores D’Arcais su “Micromega” 3/2007). E’ un documento di lavoro dal quale partire per una discussione tra noi, e, se sarà il caso, con la Comunità ed oltre.
L’essenza del libro di Joseph Ratzinger
Il libro di papa Ratzinger è molto più di un libro su Gesù, è una “summa” programmatica del suo pontificato e un attacco durissimo all’autonomia della politica e della ricerca scientifica.
La sua tesi di fondo, e cioè che (1)il mondo senza Dio (il Dio della Chiesa cattolica) è una realtà totalmente negativa, viene esposta in quanto tale specialmente alle pp. 77 e sgg. e 117 dellibro ed è applicata poi, in particolare, (2)all’esegesi biblica, la quale, senza la fede nella divinità di Gesù, non avrebbe alcun senso.
Sotto il primo profilo(1) è significativa l’argomentazione contenuta nelle pagg. 76-78: “Nel frattempo si è sviluppata in estesi circoli della teologia, in modo particolare in ambito cattolico, una reinterpretazione secolaristica del concetto di “regno”... Si asserisce che prima del Concilio avrebbe dominato l’ecclesiocentrismo... poi si sarebbe passati al cristocentrismo. Ma -si dice- non solo la Chiesa separa, anche Cristo appartiene solo ai cristiani. Pertanto dal cristocentrismo si sarebbe saliti al deocentrismo...Con ciò tuttavia non sarebbe ancora raggiunta la meta, perché anche Dio può essere un elemento di divisione tra le religioni e tra gli uomini. Per questo bisognerebbe fare un passo verso il regnocentrismo...”Regno” significherebbe semplicemente (sottolineatura mia) un mondo in cui regnano la pace, la giustizia e la salvaguardia della creazione...Questo “regno” dovrebbe essere realizzato come approdo della storia. E questo sarebbe il vero compito delle religioni: lavorare insieme per la venuta del “regno”. Per il resto esse potrebbero ben mantenere le loro tradizioni ...Osservando però con maggiore attenzione, si resta perplessi: chi ci dice infatti cos’è la giustizia?... Come si costruisce la pace? A un’osservazione più attenta l’intero ragionamento si rivela un insieme di chiacchiere utopistiche prive di contenuto reale, a meno che sotto sotto vengano presupposte...dottrine di partito. Un punto emerge su tutto: Dio è sparito.” ( a pag. 117 lo stesso concetto è espresso più duramente; a pag.198 si precisa che “quando hai perduto Dio hai perduto te stesso: allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell’evoluzione: Allora il “drago” ha vinto davvero”). Come si vede, pessimismo totale su ogni sforzo, ogni iniziativa, dei singoli o delle piccole o grandi organizzazioni, anche internazionali, che non si pongano sotto il patrocinio di Dio o, per essere chiari, dell’unico organismo che sembra autorizzato a darne un’interpretazione autentica: la Chiesa cattolica romana. E scetticismo sulla “buona novella” portata da Gesù: “Il regno di Dio è tra voi” (o “dentro di voi” secondo un’altra traduzione.) in attesa della sua escatologica realizzazione.
Vengono in mente i “profeti di sventura” che Giovanni XXIII si era illuso di mettere a tacere nella prolusione al Concilio Vaticano II. Con tanti saluti allo spirito innovatore del Concilio medesimo e ai molti passi evangelici che indicano il regno come meta prioritaria e come accessorio tutto il resto (Mt. 6,33; Lc., 12,31); si veda ancheMt. 25, 31 sgg dal quale pare che, giunti di fronte al giudice supremo, non saremo interrogati sulla nostra appartenenza o sulla nostra fede ma sul fatto se abbiamo dato da mangiare agli affamati e da bere agli assetati ecc., cose che ogni persona dotata di buona volontà può fare o tentare di fare e che sostanziano il regno, mentre lo stesso evangelistamette in guardia al cap. 7, vv.21 e sgg. dal confidare troppo nel solo fatto di essere cristiani, anche ferventi, e addirittura facitori di miracoli! Per non parlare poi della circostanza non contestabileche la storia dei secoli in cui Dio “c’era” e laChiesa dominava non ci dà esempi di mondi nel complesso migliori del nostro. Questo vuoto tra Istituzione e prassi d’amore il povero Gesù (come molti profeti prima di lui) aveva sperimentato nel suo ambiente e condannato duramente: l’uomo aggredito dai briganti e lasciato morente sulla strada da Gerusalemme a Gerico non viene aiutato dai rappresentanti del Dio vivente (il sacerdote e il levita) ma da un samaritano, notoriamente considerato eretico in Israele. Un solo cenno infine alla convinzione, diffusa nell’epistolario cristiano canonico ma espressa in modo particolarmente toccante dall’apostolo Paolo nella I Cor., 13,13, che l’amore sia più importante della stessa fede.
Punto (2): applicazione della tesi all’esegesi biblica.
Mentre noi sappiamo con quanta coerenza e chiarezza Barbaglio ha insistito sulla necessità di distinguere i due livelli di approccio alle scritture cristiane (storico e della fede), lasciando al lettore, informato su quanto si può umanamente sapere circa i fatti accaduti, la scelta di varcare o no il “fossato della Pasqua”, cioè di credere o di non credere, (pag.594), questa distinzione è rifiutata in radice dal papa, e talvolta con toni violenti: “I peggiori libri distruttori della figura di Gesù, smantellatori della fede, sono stati intessuti con presunti risultati dell’esegesi”... “E l’Anticristo ci dice allora, in atteggiamento di grande erudito, che un’esegesi che legga la Bibbia nella prospettiva della fede nel Dio vivente, prestandogli ascolto, è fondamentalismo; solo la sua esegesi, l’esegesi ritenuta autenticamente scientifica, in cui Dio stesso non dice niente e non ha niente da dire, è al passo coi tempi”(pag. 58). In un attacco così duro e indiscriminato, come non sentire obbiettivamente coinvolto anche il libro di Barbaglio, la cui sorprendente e inattesa diffusionenellestesse università cattoliche dà forse fastidio a qualcuno? Ha ben da dire Ratzinger che “questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale...perciò ognuno è libero di contraddirmi” (pag. 20). Le prime reazioni di vescovi e cardinali dicono il contrario; vorrei vedere quale biblista o teologo di università pontificie che la pensi diversamente dal papa avrà il coraggio di contraddirlo o anche solo di continuare a insegnare tesi di fatto, ma in modo così veemente riprovate al massimo livello della gerarchia; la sintesi delle opinioni del papa farà sicuramente parte del bagaglio non sempre ricchissimo degli insegnanti di religione, dei parroci, dei catechisti ecc. La cosa non è affatto da prendere sottogamba. Il sapere di una persona libera come Barbaglio sarebbe certamente stato sollecitato ad una risposta, ma non può più farlo né possiamo farlo noi per lui: parlano invece ancora, ed in modo che a me sembra efficacissimo, i suoi scritti.
Il metodo storico-critico nell’esegesi della Bibbia.
Citando le scritture del canone cristiano si tocca iltema della loro interpretazione, intuitivamente delicatissimo perché, se su queste scritture si basa tutto l’edificio ecclesiastico, è di fondamentale importanza per la Chiesa che esse vengano rettamente comprese. A questo proposito si afferma innanzi tutto nel libro che il metodo storico-critico, ormai generalmente applicato anche nella ricerca sul Gesù storico, non è da rifiutare in sé (pag. 11; esso del resto è stato accettato da vari documenti del magistero ivi citati) ma dev’essere correttamente inteso. E’ lo stesso ragionamento che, in altre occasioni, il pontefice o i suoi portavoce hanno applicato alla coscienza, che resta, sì, l’ultima istanza delle nostre scelte, ma va illuminata dai dettami della Chiesa, o alla libertà dei parlamentari cattolici, che è fuori discussione purché rispetti i principi e i valori che la Chiesa ritiene irrinunciabili.
Nel suo articolo di commento al libro del papa, Paolo Flores D’Arcais ha perfettamente percepito la insanabile contraddizione insita nel tentativo di J. Ratzinger: l’esegesi biblica che voglia correttamente utilizzare il metodo storico-critico può farlo servendosi solo degli strumenti e dei metodi propri della ricerca storica; inserendovi l’elemento “fede” si fa un’altra cosa, forse teologia, forse omiletica, ma non si può pretendere di presentarne i risultati come “verità” storica e i metodi usati come “retto” illuminismo, una sorta di illuminismo illuminato dalla fede. Eppure il tentativo è chiaro: “Il mondo è ora presentato nella sua razionalità: proviene dalla Ragione eterna e solo questa Ragione creatrice è il vero potere sul mondo e nel mondo: solo la fede nell’unico Dio libera e razionalizza veramente il mondo” (pag. 207), e ancora (pag.146): “E’ decisiva la fondamentale comunione di volontà con Dio donata per mezzo di Gesù. A partire da essa gli uominie i popoli sono ora liberi di conoscere che cosa, nell’ordinamento politico e sociale, corrisponda a questa comunione di volontà, perdare poi essi stessi forma agli ordinamenti giuridici”.
Affermando che i vangeli, una volta ammessa la divinità di Gesù, sono in toto affidabili come fonte storica ( perfino quello di Giovanni: pag. 275)il papa fa correre un grosso rischio alla sua Chiesa, che dai vangeli trae legittimazione, perché, dimostrato falso un segmento, tutto il resto crolla. Proprio una esegesi storico-critica scevra da contaminazioni, paradossalmente rispetto alle opinioni del papa, offre una via d’uscita da questa impasse perché aiuta a capire, per quanto è umanamente possibile, le evidenti e altrimenti insanabili contraddizioni delle scritture collocandole nel loro contesto, nel loro tempo, nel loro genere letterario, ecc. Finché non si accetterà senza riserve la comune base di discussione che la più accreditata ricerca storica offre, si continuerà a colpi di ping-pong opponendo versetto a versetto in una sorta di eterna diatriba, simile a quella che Mt., 4,1 e sinottici immaginano sia avvenuta nel deserto tra Gesù e il diavolo, con l’aggravante che la Chiesa istituzionale ha spesso la tentazione di applicare la parte del diavolo a chi non la pensa come lei. La eventuale scelta di fede sarà pure folle come dice Fl. D’Arcais al termine del suo articolo, e di fatto per certi aspetti lo è, ma io preferirei comunque che si basasse su dei presupposti almeno ragionevoli se non altro per non correre il rischio che, diventata potere, costringa i sani a diventare folli. Ma facciamo qualche esempio.
L’interpretazione letterale o fideistica non spiega le contraddizioni. Qualche esempio.
Come si può ragionevolmente sostenere (pp. 34-38 del libro) che i rapporti tra Gesù e Giovanni il battista si sono svolti sin dal primo momento sotto il segno della prescienza che costui possedeva della messianicità di Gesù quando gli stessi vangeli ricordano (Mt., 11,2 sgg.; Lc. 7,18 sgg) che poco tempo dopo il battesimo Giovanni manda a chiedere a Gesù: “Sei tu che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”
Come si fa a scartare quasi con disprezzo (pag. 44) l’opinione generalmente diffusa tra i biblisti secondo cui i rapporti tra Giovanni il battista e Gesù, quali risultano dalle scritture canoniche, sono frutto di pesanti interventi della comunità primitiva, imbarazzatanell’ammettere una subordinazione (nel battesimo) del suo Maestro al profetadel deserto, il suo mischiarsi con i peccatori, forse un suo discepolato iniziale? E non è vero che “niente di ciò si trova nei testi” (ivi): a parte i già citati brani sui dubbi di Giovanni, i qualidimostranoche nulla di speciale era accaduto al momento del battesimo, i sinottici concordemente ricordano che Gesù iniziò la sua attività pubblica subito dopo l’arresto di Giovanni e raccogliendone pari pari il programma: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino!” (Mt., 3,2 per Giovanni e 4,17 per Gesù).
Come si fa a sostenere la piena, consapevolee originaria “comunione ontologica” di Gesù con il Padre (p. 390 e passim) senza nemmeno farsi sfiorare dal dubbio che si tratti qui di una cristologia “alta” frutto di elaborazione della Comunità post-pasquale la quale nel fervore dell’annuncio del Cristo risorto trascura alcune contraddizioni oggi a noi chiare, come quei brani in cui Gesù si confessa candidamente inferiore al Padre (Mt. 24,36 e Mc., 13,22 : nessuno, neanche il Figlio, ma solo il Padre sa quando verrà il giudizio; Mt. 10, 18 e Lc., 18,19 “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo”; e si vedano anche Mt. 20,23 e Mc. 10,40). Questi brani, che sono poi quelli sui quali si fondavano tutte le “eresie” minimaliste (ebioniti, adozionisti, cristiano-giudei osservanti, ecc.) avrebbero dovuto, in una corretta esegesi, almeno essere portati a conoscenza del lettore e discussi. Tanto più che essi non possono essere frutto della elaborazione della comunità, la quale non aveva alcun interesse a inventarli, e quindi risalgono molto probabilmente a Gesù.
Gesù, pur non essendo egli a conoscenza della data precisa del Giudizio finale, risale anche conogni probabilità l’errata convinzione che tale giudizio fosse imminente. “In verità vi dico, vi sono alcuni dei presenti che non moriranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” (Mt., 16, 18 e sin.); “Io vi dico che da ora non berrò più diquesto frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio” (Mt., 26,29 e sin.,nel contesto dell’ultima cena); “In verità vi dico, non passerà questa generazione prima che tutto questo accada” (Mt., 24, 36 e sin.); “In verità vi dico: non avrete finito di percorrere le città di Israele prima che venga il Figlio dell’uomo” (Mt., 10, 23).
Nonostante questo chiarissimo blocco di testimonianze, che alimentava ancora vivamente la speranza dei cristiani degli anni ’50 (cfr. I Ts. 4,5 e I Cor., 7, 29-31) e che richiedeva inviti alla pazienza alla fine del secolo per l’evidente ritardo (Gc., 5,8; 2° Pt., 3,8 sgg.) J. Ratzinger mette in guardia(p. 81, in parte attenuato a p. 224) dall’interpretare le parole di Gesù come se orientassero ad una attesa ravvicinata. Esclusa ogni verosimiglianza al tentativo di sostenere che la promessa di vedere il Regno si fosse realizzata con la Trasfigurazione (definito “patetico escamotage” da Fl. D’Arcais nel suo articolo: pag. 51) resta una lettura metaforica: ogni giorno possono capitarci occasioni uniche e irripetibili, di fronte alle quali le nostre scelte sono definitive e il giudizio su di esse è già pronunciato. Sulla probabile idea che Gesù si era fatto del regno e sulla necessità di portarne avanti i germi iniziali nella storia senza sostituirsi al giudice finale, si veda quanto dice Barbaglio nel suo “Gesù” alla pagine 339-342.I generi letterari: la metafora.Questo discorso dei generi letterari, cui si fa appena cenno a pag. 11 della prefazione del libro del papa, per poi subito metabolizzarlo nella tesi di fondo, è l’unico che si possa utilizzareper conservare valore, metaforico appunto, ad alcuni passi dei vangeli dell’infanzia. Infatti, appena si tenta di dare loro un valore storico le incongruenzesaltano agli occhi e su queste sarà interessante conoscere il pensiero di Joseph Ratzinger nel preannunciato secondo volume su Gesù, nel quale si spera che il “Gesù di Nazareth” non diventi il “Gesù di Betlemme”.
Un anticipo sui vangeli dell’infanzia
Per esempio, se veramente vogliamo dare credito, come si torna a fare oggi(Catechismo della Chiesa cattolica - Compendio, nn. 94 e sgg), contro la generalità degli esegeti, alla nascita verginale di Gesù e a tutto il contorno fantasmagorico che l’ha accompagnata, come si spiega che poi la madre, che “conservava tutte queste cose meditandole in cuor suo” (Lc., 2,19) non comprenda perché il figlio si stesse trattenendo con i sapienti nel tempio ( nell’episodio di assai dubbia storicità di Lc., 2, 41- 50) o lo ricercasse coi fratelli perché lo ritenevano impazzito (Mc., 3,20, racconto assai più verisimile perché “imbarazzante”)? E poi perché Gesù, nel pieno della sua attività pubblica, chiede ai suoi “chi dite voi che io sia?” (Mt.16, 13-15 e sin.) quando di un fatto tanto straordinario come la sua nascita miracolosa avrebbe dovuto trapelare qualcosaalmeno nella cerchia dei discepoli?
Vangeli verità rivelata e prassi difforme.
A queste ed altre “incongruenze” delle scritture, che costringono gli studiosi a sceverare i vari livelli e contesti della loro formazione, se ne aggiungono altre quando si confrontano brani di per sé chiarissimi con la frequente prassi in contrario della Chiesa che pure dice di possederne l’autentica interpretazione.
Per esempio, commentando la risposta sdegnata data da Gesù al diavolo che gli offriva i regni della terra nel loro splendore si dice (pag. 62): “Il Regno di Cristo non ha questo genere di splendore...cresce attraverso l’umiltà della predicazione di coloro che acconsentono a farsi suoi discepoli”, umiltà che chiunque conosca un po’ la storia delle conversioni al cristianesimo stenta a trovare. Ma ecco l’esempio classico di tale umiltà: Francesco d’Assisi. Figura luminosa, fiore all’occhiello di una Chiesa che poco però ha seguito il suo esempio. E nulla si dice dei movimenti pauperistici che più o meno nello stesso tempo percorrevano l’Europa (Catari, Valdesi ecc. ) e che furono sanguinosamente perseguitati perché chiedevano che la Chiesa si convertisse.
Sull’alta “autocoscienza” che Gesù aveva di sé secondo Joseph Ratzinger e che si dedurrebbe da numerosi passi evangelici si può rinviare, oltre che all’ampio commento che ne fa Flores D’Arcais nel suo articolo (spec. pagg. 39-44) all’intero capitolo XIV del libro di Barbaglio su Gesù, il quale può essere sintetizzato da quanto l’autore dice a pag. 572: “ Non la natura, ma la storia è la radice della paternità di Dio.” Si aggiunga un’osservazione alla quale di solito non si fa caso: la confessione di Gesù come Messia (qualunque cosa intendessero con ciò i confessanti) era stata fatta, prima che da Pietro in Mt. 16,16, da tutti gli apostoli nell’episodio della tempesta sul lago (Mt. 14, 33). In Gv. 20, 28, la stessa confessione è fatta da una donna, Marta; ma solo quella di Mt. 16,16 è diventata famosa al punto di essere scritta a lettere d’oro sulla fascia a mosaico che circonda la navata centrale della basilica di S. Pietro e ciò solo grazie alle già citate parole “di investitura” (presenti solo in Matteo e di assai dubbia autenticità).
L’immagine maschile di Dio e la donna nella Chiesa.
Per quanto concerne poi la corrente immagine maschile di Dio, che tanto occupa e giustamente preoccupa la teologia femminile per gli effetti devastanti che essa ha proiettato e in parte continua a proiettare sulla società, il papa, premesso che “naturalmente Dio non è né uomo né donna” (pag. 170) e citati alcuni passi delle Scritture ebraiche nei quali Dio è percepito come “madre” (Is. 49,15, ma più ancora si sarebbero potuti citare Gn., 1,27: Dio crea l’essere umano a sua immagine, maschio e femmina, e Is. 44, 2 e 24) conclude però (ivi): “Ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normale il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, come detto or ora, nonostante le grandi metafore dell’amore materno, “madre” non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio” (come forse ingenuamente pensava papa Luciani).
A proposito di donne, è interessante che il papa si occupi, in coda al capitolo sui discepoli, dei versetti di Luca che ricordano il seguito femminile di Gesù (pag. 216): “C’erano con lui i dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con il loro beni” (Lc., 8, 1-3). Joseph Ratzinger, in linea con i più recenti documenti magisteriali sul problema delle donne nella Chiesa, riconosce che “il loro accompagnare Gesù nella fede era essenziale alla costituzione di questa comunità” ma, a scanso di equivoci precisa subito che : “La differenza tra il discepolato dei dodici e il discepolato delle donne è evidente; i duecompiti sono decisamente diversi”(ivi). Ora, se con ciò si vuole intendere che le donne non facevano parte dei dodici in quanto rappresentanti delle 12 tribù d’Israele, questo è lapalissiano, e corrisponde alla mentalità del tempo che non avrebbe certo capito come una tribù potesse essere rappresentata da una donna; ma se si ha riguardo al significato più ampio del termine “discepolo” nel quale pure i 12 erano compresi, non è detto che anche le donne (oltre a fornire mezzi materiali al gruppo, almeno le benestanti), non facessero proselitismo nei modi e nei contesti loro più congeniali. Nessuna meraviglia che la loro attività, come spesso è accaduto nella storia, non sia stata registrata negli annali, che non si sia svolta nel cortile del Tempio o sulle piazze, ma questo non esclude che essa sia stata capillare e incisiva sia nei rapporti interpersonali, sia in quellifamiliari.Le tracce di una elevata considerazione delle donne da parte di Gesù e dellacomunità primitiva sono evidenti: lo stesso Nazareno, nell’episodio narrato ancora da Luca in 10,38 sgg. mostra di preferire il discepolato “spirituale” di Mariaai “servizi domestici” della sorella Marta. Non faceva scandalo pensare che alle donne Gesù risorto avesse affidato il compito di annunciare ai discepoli la suaresurrezione (Mt, 28, 1 sgg. e sin.) come non faceva scandalo che nelle prime comunità, almeno in quelle paoline, le donne esercitassero funzioni di responsabilità (I Cor., 16, 19; Rom: 16, 1-2;At., 18, 1-3).Più in generale può citarsi il famoso brano di Gal., 3,20: “In Cristo non c’è più giudeo né greco, libero o schiavo, uomo o donna”. Cui non può contrapporsi l’altrettanto famoso brano di I Cor. 14., 34-35 “Le donne tacciano nell’assemblea” che è una tardiva interpolazione, come ha ampiamente dimostrato Giuseppe Barbaglio ne: ” La prima lettera ai Corinzi”, EDB, 1996, pagg.764-768).
Notevole scandalo dovrebbe invece aver provocato tra i contemporanei di Gesù vedere che un certo numero di donne lo seguivano dopo aver lasciata, anche temporaneamente, la casa e la famiglia, cosa inaudita presso gli altri “Rabbi”. Ma di questo non c’è menzione nel libro del papa.
Una domanda che ci viene spontanea sin da ora, ma che riguarda un periodo non contemplato in questo primo volume su Gesù, è se nel cenacolo ci fossero solo i dodici o anche gli altri discepoli, tra i quali naturalmente le donne che erano salite con lui a Gerusalemme per fare la Pasqua e che ritroviamo sotto la croce quando tutti gli altri erano spariti: questa circostanza ha importanti riflessi anche sul problema del sacerdozio (si veda in proposito l’ancora attualissimo libretto di Maria Caterina Jacobelli: “Sacerdozio, donna, celibato” Borla, 1981).
La missione dei discepoli tra Israele e il mondo.
Anche il capitolo 6 dell’opera di Ratzinger “I discepoli” è pieno di contraddizioni e di affermazioni apodittiche che derivano dal rifiuto dei metodi dell’analisi storico-critica. Si comincia col ritenere che risalga a Gesù una visione universale della sua missione ed il conseguente invito agli apostoli a portare “il suo messaggio nel mondo; innanzi tutto alle pecore smarrite della casa di Israele, ma poifino agli estremi confini della terra” (pp. 204 e 205). In altre parole tra brani come quello di Mt. 10,5.24 “ Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani, ma rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele” ... “ in verità vi dico, non avrete finito di percorrere le città di Israele prima che venga il Figlio dell’uomo” e brani come quello di Mt.: 28,19 nel quale il Gesù risorto dice ai suoi: “ Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo” non vi sarebbe contraddizione, ma solo differenza cronologica. Giudichi qualsiasi persona di buon senso se tra i due inviti non vi sia di mezzo tutta la faticosa esperienza della Chiesa primitiva, dipanatasi con vari esiti per alcuni decenni attraverso, per esempio, i conflitti tra Paolo e i giudeo-cristiani, discussi nel c.d. Concilio di Gerusalemme, chiaro indizio delle difficoltà incontrate nell’ammettere i pagani al cristianesimo e del fatto che non vi erano in proposito indicazioni certe da parte di Gesù. Una timida ammissione del ruolo avuto da Paolo in tutto questo si incontra a pag. 215, ma tra parentesi e in modo da non intaccare la tesi fondamentale. In realtà è molto più probabile che le parole di Mt. 28,19 non siano mai uscite dalla bocca di Gesù e nemmeno riflettessero le sue intenzioni.
Perché tanta ritrosia nell’Istituzione cattolica nell’ammettere che, con ogni probabilità, Gesù non aveva pensato ad una Chiesa che durasse nei secoli, visto che riteneva imminente la fine del mondo? Perché non accettare che essa sia un frutto storico dei discepolie delle discepole che volevano continuare a stare insieme, dapprima in attesa del suo “ritorno”, poi nella convinzione che fosse comunque presente tra loro e li guidasse attraverso i tempi mediante lo Spirito e gli insegnamenti che era riuscito a dare al gruppo originario? Per non ammettere una tale lacuna nel Maestro o perché il fatto di accettare che la Chiesa è nella storia comporta il rischio di metterne in discussione l’attuale struttura piramidale codificata da secoli e ritenuta immutabile “per diritto divino”, l’origine sacra dei suoi ministri, le sicurezze acquisite? Forse Gesù chiama ancora Pietro a seguirlo con fiducia fuori della barca, sulle acque dei tempi, ma Pietro continua ad avere paura (Mt., 14,31).
I “dodici”, gli “Apostoli”, i “discepoli” e altre figure della Chiesa primitiva.
Altra distinzione troppo netta e apodittica nel libro del papa è quella tra i 12, che sarebbero gli unici a potersi fregiare del titolo di “apostolo”, e gli altri discepoli, accompagnata da varie elucubrazioni sul significato recondito del numero 12 oltre a quello generalmente ammesso secondo cui esso voleva significare le 12 tribù di Israele, cioè tutto e solo Israele, mentre i non israeliti sarebbero invece contemplati nei 70 (o 72) discepoli, quindi non apostoli, citati solo da Luca, (10,1sgg.) anche qui con cabalistiche interpretazioni simboliche del numero 70 (o 72).
C’è innanzi tutto l’affermazione, cui bisogna credere per fede e non per convincenti argomentazioni che nell’espressione “Ne costituì dodici” usata solo da Mc. 3,16, sia sottintesa una “investitura al sacerdozio (pag. 205); più avanti il papa sottolinea che i 12 ( o gli 82 ovvero 84, cioè i 12 più i 70 o 72) vengono inviati innanzi tutto per diffondere l’annunzio evangelico, ma questo aspetto è espresso in poche righe, mentre 4 o 5 pagine sono dedicate a quella che sembra all’autore l’attività più significativa: la guarigione delle malattie e gli esorcismi. Certo, questa attività è intesa inmodo prevalentemente simbolico, destinata ad un mondo malato e preda del demonio, ma questa malattia e questa possessione non sono una specificità moderna: “di fatto il mondo antico...ha vissuto l’irruzione della fede cristiana come liberazione dalla paura dei demoni, una paura che nonostante lo scetticismo e l’illuminismo dominava tutto...” (pag. 208); a parte l’ambiguo richiamo allo scetticismo e all’illuminismo la cui funzione deteriore sembra anticipata all’antichità, la conclusione sembra allora che ben poco di nuovo è cambiato con il cristianesimo.
Di fatto, poco tempo dopo la morte di Gesù il gruppo dei 12 si dissolve come nebbia al sole e negli “Atti degli apostoli”, che dal titolo sembrerebbero stati scritti per raccontare le vicende di tutti, tale gruppo è ricordato solo nei primi capitoli e solo come entità indistinta, mentre i veri protagonisti, già alla fine degli anni 40, sono Pietro, Giacomo e Giovanni e un altro apostolo, Paolo di Tarso, che non era mai stato dei 12 ma che svolge una funzione fondamentale per la diffusione del cristianesimo tra i pagani. Come nebbia al sole sembra dissolversi, per ricomparire molto più tardi, anche il famoso primato di Pietro, che condivide il suo ministero con altri, sembra meno importante di Giacomo e non si appella mai al famoso “potere-dovere” delle chiavi. Nessuna menzione infine è mai fatta nel libro dei pericoli connessi al dare troppa importanza formale alla propria identità, denunciati da Mt., 7,21-23: “ Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti: allontanatevi da me, voi, operatori di iniquità” Ma non erano queste le cose che gli apostoli erano inviati a fare? Non erano queste le caratteristiche che li avrebbero contraddistinti (Mc., 16,17 sgg.)?
Per fare un po’ di chiarezza in merito occorre ancora una volta rimandare al libro di Barbaglio su Gesù, che tratta alle pagg. 365 e seguenti appunto del “seguito” del Nazareno. Qui i 12, gli apostoli,i discepoli e altri importanti figure come i “profeti” e i “responsabili delle comunità” vanno al loro postoe a queste pagine si può credere non per fede ma per gli argomenti convincenti che vengono forniti. Un cenno a proposito del seguito femminile, per dire che su questo argomento la posizione di Barbaglio è più vicina a quella del papa che non a quella qui da me esposta: è una delle poche cose sulle quali non concordavamo e sulle quali purtroppo non posso più confrontarmi con lui.
La “questione” del vangelo di Giovanni.
Alla “questione giovannea”, cioè al problema se il quarto vangelo sia o no utilizzabile per ricostruire la figura storica di Gesù, il libro di J.R. dedica l’intero, lungo capitolo 8°. La conclusione è che “Questo vangelo ci mostra il vero Gesù e possiamo usarlo tranquillamente come fonte su Gesù” (pag. 275). La generalità degli esegeti non la pensa così, anche se ammette che su alcuni punti l’autore abbia avuto a disposizione attendibili fonti antiche diverse da quelle conosciute dagli autori dei vangeli sinottici. La stessa “Bibbia di Gerusalemme” pubblicata in numerosissime edizioni EDB con l’ imprimatur ecclesiastico afferma, più prudentemente, nelle premesse al testo giovanneo: “Il IV vangelo...è un’opera complessa, imparentata alle forme più primitive della predicazione cristiana; è anche il punto di arrivo di uno sforzo, perseguito sotto la guida dello Spirito Santo, per una intelligenza più profonda e luminosa del mistero di Cristo” (pag. 2258 ed. 2002) e anche “La concezione della storia supposta dal IV vangelo differisce profondamente dall’idea che se fa lo storico moderno”( id., pag. 2262).
Il paragrafo “Giovanni e i sinottici: due vangeli incompatibili” contenuto nel citato articolo di Fores D’Arcais su “Micromega” offre numerose argomentazioni critiche contro le certezze ratzingheriane. Altre se ne possono trovare nel testo di Barbaglio, per es. allepagg. 54 e sgg. dove vi è un confronto tra i vangeli circa la loro utilizzabilità nella ricerca storica: “La storia della ricerca ha raggiunto risultati interessanti. Anzitutto, il vangelo di Giovanni, complessivamente preso, è da mettere da parte; il Gesù terreno vi è trasfigurato in un essere divino...” . Il libro del papa e il vangelo di Giovanni sono imparentati dalla stessa ansia pastorale ed omiletica, ma forse ilpapa, che ha a sua disposizione ben altri strumenti di ricerca e si rivolge ad un pubblico che dovrebbe avere ben altre esigenze di conoscenza, avrebbe potuto raggiungere il suo scopo in modo diverso, difendendo cioè la sua visione di fede senza pretendere di delegittimare tutte le altre vie di ricerca.
La morte di Gesù: violenza od offerta di sé?
Altro punto che sta molto a cuore a papa Ratzinger, come si vede anche nei più recenti documenti magisteriali sull’eucarestia, e che in questo libro è trattato come anticipo del volume che dedicherà agli ultimi momenti della vita di Gesù, è la presentazione della morte del Nazareno come offerta intenzionale (p. 324 ), cui il Nazareno sembra da sempre predestinato. “La Croce è il fulcro del discorso del pastore, e non come atto di violenza che colga Gesù di sorpresa e che gli venga inflitto dall’esterno, bensì come offerta spontanea di se stesso” (ivi) affermazione basata sulla lettera del vangelo di Giovanni, 10,17 “Io offro la mia vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso” e che sottintende la visione della morte di Gesù come “sacrificio”. L’affermazione così drastica, che farebbe pensare ad una sorta di suicidio, è attenuata subito dopo:“l’istituzione dell’eucarestia trasforma l’atto di violenza esterno della crocifissione in atto di offerta volontaria di se stesso agli altri” (ivi, sottolineature mie). Il tema è stato trattato diffusamenteda vari biblisti e teologi sull’ultimo numero della rivista dei Dehoniani “Parola, Spirito e Vita” (n° 54 - II sem. 2006) tutti unanimemente contrari ad ammettere che la visione sacrificale facesse parte della comprensione originaria dell’eucarestia. Ricordocon quanta sorpresa degli ascoltatori, e talvolta con quanto loro scandalo, Giuseppe Barbaglio nelle sue conferenze faceva all’occasione notare che la parola “in sacrificio”, entrata a far parte da secoli nel canone della messa, non si ritrovi in nessuno dei passi neo-testamentari che ci tramandano il racconto dell’ultima cena (Mc., 14, 22-25; Mt., 26, 26-29; Lc., 22, 14-20 e I Cor., 11, 23-25).
Mi piace infine citare, dalla sezione dedicata alle parabole, la migliore forse del libro, un passo che condivido pienamente: commentando la parabola“dei due fratelli” (Lc., 15, 11-32) a pag. 239 e sgg., Joseph Ratzinger si sofferma sulla figura di solito trascurata del fratello maggiore e conclude: “In questo modo, con la parabola il Padre attraverso Cristo parla a noi che siamo rimasti a casa, perché anche noi ci convertiamo per davvero e gioiamo della nostra fede” (pag. 249). Che è l’augurio e la speranza di tutti e per tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Antonio Guagliumi
La teologia di Joseph Ratzinger
di Massimo Borghesi (Insula europea, 2 gennaio 2023)
Nei commenti che si succedono sulla figura di papa Benedetto l’attenzione cade sulla sua persona, il suo stile, la sua umanità dolce e gentile. Tutto ciò è importante. Ratzinger ha saputo, nonostante il suo riserbo, conquistarsi la stima e l’affetto di milioni di uomini. E tuttavia colui che ha governato la Chiesa per otto anni, dal 2005 al 2013, è stato grande anche per il modo in cui ha percepito l’essenza del cristianesimo nel mondo contemporaneo. Un modo che si riflette nella sua scelta di scrivere tre encicliche dedicate alle tre virtù teologali: Deus caritas est (2005), Spe salvi (2007), Lumen fidei, del 2013 che esce sotto il nome del nuovo papa Francesco. Che si manifesta altresì nella decisione di scrivere e pubblicare tre volumi sulla vita di Gesù di Nazareth nel 2007, nel 2011, nel 2012. Ciò che si palesa, nelle encicliche e nei volumi è un modo storico di intendere la fede.
La teologia di Ratzinger è storica, questo è il lascito spirituale ed intellettuale che egli consegna alla Chiesa. Illuminante, da questo punto di vista, è la sua biografia, il documento che, più di altri, ci apre le porte sulla sua formazione. Qui Ratzinger chiarisce gli autori che, nei suoi studi giovanili, ha sentito affini, e quelli, invece, verso cui maturava una distanza. La teologia di Ratzinger è, da subito, una teologia esistenziale, personalistico-agostiniana, distante dai moduli astratti della neoscolastica dominante prima del Concilio: “L’incontro con il personalismo, che poi trovammo esplicitato con grande forza persuasiva nel grande pensatore ebreo Martin Buber, fu un evento che segnò profondamente il mio cammino spirituale, anche se il personalismo, nel mio caso, si legò quasi da sé con il pensiero di Agostino che, nelle Confessioni, mi venne incontro in tutta la sua passionalità e profondità umane. Ebbi, invece, delle difficoltà nell’accesso al pensiero di Tommaso d’Aquino, la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, troppo impersonale e preconfezionata. Ciò dipese probabilmente anche dal fatto che il filosofo del nostro seminario, Arnold Wilmsen, ci presentava un rigido tomismo neoscolastico, che per me era semplicemente troppo lontano dalle mie domande personali[1]“.
La distanza del giovane Ratzinger dall’intellettualismo neoscolastico non prelude ad un atteggiamento antimetafisico come documenta la sua insistenza, da Papa, sul nesso fondamentale tra fede e ragione. Indica, però, una sottolineatura particolare della dimensione storica della fede la cui attualità non può essere esaurita da nessuna trascrizione filosofica. Il primato della realtà sull’idea, che costituisce un principio fondamentale della gnoseologia di Jorge Mario Bergoglio, è un punto fermo anche in Ratzinger. Ciò implica, dal punto di vista cristiano, un accordo tra storia della salvezza e metafisica che non sacrifichi la prima alla seconda e questo senza acconsentire al fideismo tipico della posizione protestante.
Come scriverà l’autore nella prefazione americana del suo volume del 1959 San Bonaventura. La teologia della storia: “quando nell’autunno del 1953 iniziai il lavoro di preparazione per questo studio, una delle questioni che occupavano un posto di primo piano all’interno dei circoli teologici cattolici di lingua tedesca era la questione concernente la relazione tra storia della salvezza e metafisica.
Si trattava di un problema sorto soprattutto dai contatti con la teologia protestante che, sin dai tempi di Lutero, tendeva a vedere nel pensiero metafisico un allontanamento dall’istanza specifica della fede cristiana, la quale non indica semplicemente all’uomo la via verso l’eterno ma verso quel Dio che opera nel tempo e nella storia. A questo riguardo sorsero interrogativi di carattere differente e di diverso ordine.
Come può divenire storicamente presente ciò che è avvenuto? Come può avere un significato universale ciò che è unico e irripetibile? Ma, d’altra parte, la “ellenizzazione” della cristianità, che tentò di vincere lo scandalo del particolare attraverso una miscela di fede e metafisica, non ha forse portato ad uno sviluppo in direzione sbagliata? Non ha creato uno stile statico di pensiero che non è in grado di rendere giustizia al dinamismo dello stile biblico? Queste domande esercitarono su di me un forte influsso ed io intendevo dare il mio contributo per rispondere ad esse[2]“.
Il giovane Ratzinger partecipava qui ad una tendenza che qualificava la parte migliore del pensiero cattolico, unitamente a quello protestante, del Novecento. Come scriveva Hans Urs von Balthasar nel 1951: «È certamente vero che oggi la teologia cattolica è dominata dall’inarrestabile tendenza a comprendere la storicità nella sua ampiezza e profondità. Preparato in Germania dalla scuola di Tubinga, in Francia da Blondel e Laberthonnière, in Inghilterra dalla scuola di Oxford e da Newman, questo movimento è rappresentato da tutti i maggiori pensatori cattolici»[3].
Nel contesto di allora questa direzione doveva muoversi evitando due tendenze contrarie: quella modernista condannata da Pio XII con la Humani generis, che favoriva il disprezzo degli aspetti razionali e filosofici della teologia; lo scolasticismo arido e razionalistico di un certo tomismo ufficiale dimentico della storicità della Rivelazione. Fuori da questi estremi si muoveva la riflessione di colui che Ratzinger ha sempre considerato come suo «maestro»: Gottlieb Söhngen, professore di teologia fondamentale presso la facoltà teologica di Monaco di Baviera. In Germania Söhngen è uno dei primi che avvia un ripensamento della teologia come historia salutis, centrale poi nel Concilio Vaticano II.
In un saggio del 1967 Ratzinger osserverà come «non si è ancora studiato il problema di quando e dove precisamente abbia avuto luogo la ricezione dell’idea di storia della salvezza in ambito cattolico. A mio modo di vedere nell’ambito della lingua tedesca per primo fu Gottlieb Söhngen che individuò il problema nel dialogo con Karl Barth ed Emil Brunner»[4]. Per Söhngen, il quale sottolineava «con forza che la verità del cristianesimo non è quella di un’idea valida in generale, ma la verità di un fatto avvenuto una volta sola»[5], la complementarità tra modello metafisico-astratto e quello storico-concreto era la chiave del discorso cattolico. Sotto la guida del suo maestro anche il giovane Ratzinger avvertiva l’urgenza di una concezione storica della salvezza come correttivo di un modo di impostare le questioni eccessivamente dislocato sul terreno metafisico.
Il primo lavoro di Ratzinger, su suggerimento di Söhngen, è la dissertazione per il dottorato su Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino. Una ricerca preziosa in cui l’autore tentava «di approfondire il modo in cui la concezione storica è andata sempre più imponendosi in Agostino nei confronti di una posizione inizialmente quasi puramente ontologica»[6].
Agostino, quindi, come correttivo all’eredità della scolastica, contrassegnata da un pensiero astorico. Correttivo parziale, però, nella misura in cui «Agostino nel De civitate Dei interrompe la storia dello stato di Dio con la nascita di Cristo e non include la storia della Chiesa nella sua considerazione»[7]. Vero è che «una certa valenza propria della storia della Chiesa si afferma manifestamente nei noti racconti di miracoli del De civitate Dei, XXII 8 col 760-771. Teologicamente questi racconti significano senza dubbio un nuovo sviluppo del pensiero di Agostino»[8]. Una direzione feconda che, tuttavia, richiedeva una riflessione ulteriore.
È in questa prospettiva che si situa il secondo lavoro di Ratzinger, la tesi di abilitazione per la libera docenza in teologia, a Monaco, San Bonaventura. La teologia della storia. Il grande maestro francescano offriva, al giovane teologo, la possibilità di delineare una teologia della storia comprensiva della Chiesa, capace quindi di delineare la presenza di Cristo nel tempo. Un cristocentrismo, quello bonaventuriano, che non incorreva nella trasformazione della necessità fattuale in quella metafisica. Il che è quanto accade, nel Novecento, nella dottrina della creazione, radicalmente cristologica, di Karl Barth, e, nel Medioevo, nella teologia francescana - e qui Ratzinger pensa a Duns Scoto -, «la quale si presenta dapprima come rigorosamente storico-salvifica, cioè cristologica, poi però nella esasperazione di tale punto di partenza dà all’insieme un ruolo metafisico nell’idea della praedestinatio absoluta di Cristo e raggiunge così l’abbandono del progetto originariamente storico-salvifico»[9]. La cristologia metafisica corre costantemente il rischio di risolvere la verité de fait nella verité de raison, di schiacciare l’Evento nella struttura, l’Unico nel modello. Non così in Bonaventura, per il quale Cristo come «centro» è inizio di una storia nuova al cui culmine v’è, nel tempo a lui presente, la figura cristologica di Francesco d’Assisi, la figura della santità come dilatazione di Cristo nel tempo.
Il tragitto ideale da Agostino a Bonaventura diviene in tal modo, nel giovane teologo, la via di scoperta della teologia della storia, di un approccio storico al cristianesimo. È a questo livello che si pone la differenza tra la sua prospettiva teologica e quella di Karl Rahner: “La sua teologia [di Rahner] - malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni - era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e della sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui alla fin fine la Scrittura e i padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai padri, da un pensiero essenzialmente storico. In quei giorni [durante il Concilio, nel 1962] ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui ero passato, e quella di Rahner[10]“.
Una differenza essenziale, tra teologia trascendentale di ascendenza idealistico-kantiana e teologia realistico-storica, che attraverserà tutto il pensiero teologico post.conciliare e troverà la sua espressione dialettica nelle due riviste che qualificheranno due indirizzi ideali: «Concilium» da un lato e «Communio» dall’altro. La riflessione di Ratzinger si poneva al di là della frattura che segna la teologia cristiana odierna, divisa tra una storia della salvezza radicalmente contraria alla metafisica - come accade nella teologia protestante (Barth, Bultmann, Culmann, Moltmann) - e un cristocentrismo ontologico (trascendentale o cosmico), di matrice cattolica, che svuota la novità della storia della salvezza.
Il pensiero cristiano, secondo Ratzinger, se voleva avere un futuro doveva ritrovare la giusta «tensione fra ontologia e storia», la quale «ha il suo fondamento ultimo nella tensione dello stesso essere umano, che dev’essere fuori di sé per poter essere in sé»[11]. Si rende così manifesto come «salvezza in quanto storia dice proprio che l’uomo non trova la salvezza nel venire-a-sé della riflessione, ma nell’essere portato-via-da-sé che va oltre la riflessione»[12].
Con ciò viene in primo piano la categoria dell’extra, dell’evento, di ciò che sta fuori del cerchio dell’io. È qui che si apre la dimensione storica della fede: “La fede poggia sul fatto che ci viene incontro qualcosa (o qualcuno) a cui la nostra esperienza di per sé non riesce a giungere. Non è l’esperienza che si amplia o si approfondisce - come nel caso dei modelli rigorosamente “mistici” - ma è qualcosa che accade. Le categorie di “incontro”, “alterità” (alterité, Lévinas), evento, descrivono l’intima origine della fede cristiana e indicano i limiti del concetto di “esperienza”. Indubbiamente ciò che ci tocca ci procura esperienza, ma esperienza come frutto di un evento, non di una discesa nel profondo di noi stessi. È proprio questo che si intende col concetto di rivelazione: il non-proprio, ciò che non appartiene alla sfera mia propria, mi si avvicina e mi porta via da me, al di là di me, crea qualcosa di nuovo. Questo è ciò che determina anche la storicità della realtà cristiana, che poggia su eventi e non sulla percezione della profondità del proprio intimo[13]“.
Forte di questa prospettiva Ratzinger ha criticato, con profonda competenza, gli indirizzi razionalistici derivati da un uso improprio del metodo storico-critico in sede esegetica. Un metodo che, laddove non venga assunto con consapevolezza critica, soggiace al dualismo illuministico tra verità di ragione e verità di fatto. È quanto accade nella teologia kerygmatica di Rudolf Bultmann: “Per Dibelius, Bultmann e la corrente principale dell’esegesi moderna, l’evento è l’elemento irrazionale. Esso appartiene al dominio della pura fatticità, composta dal caso e dalla necessità. Come tale, il fatto non può essere portatore di senso. Questo senso non è che nella parola; e là dove gli avvenimenti stessi sembrano essere portatori di senso, bisogna piuttosto considerarli come illustrazioni della parola e ad essa occorre riferirli[14]“.
Questa impostazione, riducendo l’evento storico a fatto “particolare”, irrazionale, si vieta, apriori, la possibilità che Dio possa manifestarsi nella storia. L’invisibile non può farsi visibile, il Verbo non può farsi carne. Con ciò questo metodo dimostra di essere legato ad una pregiudiziale che condiziona il lavoro della ragione. Diversamente, secondo Ratzinger: “occorre considerare tanto la parola quanto l’evento come originali, se si desidera restare fedeli alla prospettiva biblica. Il dualismo tra la parola e l’evento, che relega l’evento in una regione «senza parola», cioè senza significato, in realtà toglie anche alla parola la sua forza significante, perché questa si trova allora in un mondo privo di senso. Questo dualismo conduce ad una cristologia docetista, in cui la realtà, cioè l’esistenza concreta e carnale del Cristo e quella dell’uomo in generale, è esclusa dall’ambito del significato. Ma in questo modo si perde l’essenza della testimonianza biblica[15]“.
Questa “testimonianaza biblica”, fondata sulla realtà storica, è al cuore della teologia di Ratzinger. Per essa, da teologo e da Papa, si è battuto contro le forme “docetiste”, gnostiche, che svuotano, oggi come ieri, il messaggio cristiano, che impediscono al Verbo di farsi “carne”. È il lascito che consegna alla Chiesa e al pensiero cattolico. Come ha scritto nel suo testamento spirituale: “Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita - e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo [16]“.
[1] J. RATZINGER, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 44.
[2] J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, Edizioni Porziuncola, Assisi 2008, pp. 9-10.
[3] H. U. VON BALTHASAR, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano 1977, p. 358.
[4] J. RATZINGER, Storia della salvezza ed escatologia, in ID., Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1971, p. 74.
[5] Op. cit., p. 75.
[6] J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, cit., p. 114, nota 88
[7] J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1971, p. 321, nota 27.
[8] Op. cit., p. 321, nota 29.
[9] Op. cit., p. 318, nota 15.
[10] J. RATZINGER, La mia vita. Autobiografia, cit., p. 95.
[11] J. RATZINGER, Salvezza e storia, in Storia e dogma, cit., p. 110.
[12] Op. cit., p. 109.
[13] J. RATZINGER, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, pp. 91-92
[14] J. RATZINGER, L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea, in AA.VV., L’esegesi cristiana oggi, Piemme, Casale Monferrato 1991, p. 118.
[15] Op. cit., p. 120.
[16] L’integrale. Ecco il testamento spirituale di Benedetto: “Grazie a Dio e famiglia” («Avvenire» 31-12-2022).
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 17 novembre 2021
Catechesi su San Giuseppe - 1. San Giuseppe e l’ambiente in cui è vissuto
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’8 dicembre 1870 il Beato Pio IX proclamò San Giuseppe patrono della Chiesa universale. A 150 anni da quell’evento, stiamo vivendo un anno speciale dedicato a San Giuseppe, e nella Lettera Apostolica Patris corde ho raccolto alcune riflessioni sulla sua figura. Mai come oggi, in questo tempo segnato da una crisi globale con diverse componenti, egli può esserci di sostegno, di conforto e di guida. Per questo ho deciso di dedicargli un ciclo di catechesi, che spero possano aiutarci ulteriormente a lasciarci illuminare dal suo esempio e dalla sua testimonianza. Per alcune settimane parleremo di San Giuseppe.
Nella Bibbia esistono più di dieci personaggi che portano il nome Giuseppe. Il più importante tra questi è il figlio di Giacobbe e di Rachele, che, attraverso varie peripezie, da schiavo diventa la seconda persona più importante in Egitto dopo il faraone (cfr Gen 37-50). Il nome Giuseppe in ebraico significa “Dio accresca, Dio faccia crescere”. È un augurio, una benedizione fondata sulla fiducia nella provvidenza e riferita specialmente alla fecondità e alla crescita dei figli. In effetti, proprio questo nome ci rivela un aspetto essenziale della personalità di Giuseppe di Nazaret. Egli è un uomo pieno di fede nella sua provvidenza: crede nella provvidenza di Dio, ha fede nella provvidenza di Dio. Ogni sua azione narrata dal Vangelo è dettata dalla certezza che Dio “fa crescere”, che Dio “aumenta”, che Dio “aggiunge”, cioè che Dio provvede a mandare avanti il suo disegno di salvezza. E, in questo, Giuseppe di Nazaret assomiglia molto a Giuseppe d’Egitto.
Anche i principali riferimenti geografici che si riferiscono a Giuseppe: Betlemme e Nazaret, assumono un ruolo importante nella comprensione della sua figura.
Nell’Antico Testamento la città di Betlemme è chiamata con il nome Beth Lechem, cioè “Casa del pane”, o anche Efrata, a causa della tribù insediatasi in quel territorio. In arabo, invece, il nome significa “Casa della carne”, probabilmente per la grande quantità di greggi di pecore e capre presenti nella zona. Non a caso, infatti, quando nacque Gesù, i pastori furono i primi testimoni dell’evento (cfr Lc 2,8-20). Alla luce della vicenda di Gesù, queste allusioni al pane e alla carne rimandano al mistero Eucaristico: Gesù è il pane vivo disceso dal cielo (cfr Gv 6,51). Egli stesso dirà di sé: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna» (Gv 6,54).
Betlemme è citata più volte nella Bibbia, fin dal Libro della Genesi. A Betlemme è anche legata la storia di Rut e Noemi, narrata nel piccolo ma stupendo Libro di Rut. Rut partorì un figlio chiamato Obed dal quale a sua volta nacque Iesse, il padre del re Davide. E proprio dalla discendenza di Davide viene Giuseppe, il padre legale di Gesù. Su Betlemme, poi, il profeta Michea predisse grandi cose: «E tu Betlemme di Efrata, così piccola per essere tra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele» (Mi 5,1). L’evangelista Matteo riprenderà questa profezia, la collegherà alla storia di Gesù come alla sua evidente realizzazione.
In effetti, il Figlio di Dio non sceglie Gerusalemme come luogo della sua incarnazione, ma Betlemme e Nazaret, due villaggi periferici, lontani dai clamori della cronaca e del potere del tempo. Eppure Gerusalemme era la città amata dal Signore (cfr Is 62,1-12), la «città santa» (Dn 3,28), scelta da Dio per abitarvi (cfr Zc 3,2; Sal 132,13). Qui, infatti, risiedevano i dottori della Legge, gli scribi e i farisei, i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo (cfr Lc 2,46; Mt 15,1; Mc 3,22; Gv 1,19; Mt 26,3).
Ecco perché la scelta di Betlemme e Nazaret ci dice che la periferia e la marginalità sono predilette da Dio. Gesù non nacque a Gerusalemme con tutta la corte ...no: nacque in una periferia e ha trascorso la sua vita, fino a 30 anni, in quella periferia, facendo il falegname, come Giuseppe. Per Gesù, le periferie e le marginalità sono predilette. Non prendere sul serio questa realtà equivale a non prendere sul serio il Vangelo e l’opera di Dio, che continua a manifestarsi nelle periferie geografiche ed esistenziali. Il Signore agisce sempre di nascosto nelle periferie, anche nella nostra anima, nelle periferie dell’anima, dei sentimenti, forse sentimenti di cui ci vergogniamo; ma il Signore è lì per aiutarci ad andare avanti. Il Signore continua a manifestarsi nelle periferie, sia quelle geografiche, sia quelle esistenziali. In particolare, Gesù va a cercare i peccatori, entra nelle loro case, parla con loro, li chiama alla conversione. Ed è anche rimproverato per questo: “Ma guarda, questo Maestro - dicono i dottori della legge - guarda questo Maestro: mangia con i peccatori, si sporca, va a cercare quelli che il male non lo hanno fatto ma lo hanno subìto: i malati, gli affamati, i poveri, gli ultimi. Sempre Gesù va verso le periferie. E questo ci deve dare tanta fiducia, perché il Signore conosce le periferie del nostro cuore, le periferie della nostra anima, le periferie della nostra società, della nostra città, della nostra famiglia, cioè quella parte un po’ oscura che noi non facciamo vedere forse per vergogna.
Sotto questo aspetto, la società di allora non è molto diversa dalla nostra. Anche oggi esistono un centro e una periferia. E la Chiesa sa che è chiamata ad annunciare la buona novella a partire dalle periferie. Giuseppe, che è un falegname di Nazaret e che si fida del progetto di Dio sulla sua giovane promessa sposa e su di lui, ricorda alla Chiesa di fissare lo sguardo su ciò che il mondo ignora volutamente. Oggi Giuseppe ci insegna questo: “Non guardare tanto le cose che il mondo loda, guarda agli angoli, guarda alle ombre, guarda alle periferie, quello che il mondo non vuole”. Egli ricorda a ciascuno di noi di dare importanza a ciò che gli altri scartano. In questo senso è davvero un maestro dell’essenziale: ci ricorda che ciò che davvero vale non attira la nostra attenzione, ma esige un paziente discernimento per essere scoperto e valorizzato. Scoprire quello che vale. Chiediamo a lui di intercedere affinché tutta la Chiesa recuperi questo sguardo, questa capacità di discernere, questa capacità di valutare l’essenziale. Ripartiamo da Betlemme, ripartiamo da Nazaret.
Vorrei oggi mandare un messaggio a tutti gli uomini e le donne che vivono le periferie geografiche più dimenticate del mondo o che vivono situazioni di marginalità esistenziale. Possiate trovare in San Giuseppe il testimone e il protettore a cui guardare. A lui possiamo rivolgerci con questa preghiera, preghiera “fatta in casa”, ma uscita dal cuore:
San Giuseppe,
tu che sempre ti sei fidato di Dio,
e hai fatto le tue scelte
guidato dalla sua provvidenza,
insegnaci a non contare tanto sui nostri progetti,
ma sul suo disegno d’amore.
Tu che vieni dalle periferie,
aiutaci a convertire il nostro sguardo
e a preferire ciò che il mondo scarta e mette ai margini.
Conforta chi si sente solo
e sostieni chi si impegna in silenzio
per difendere la vita e la dignità umana. Amen.
* Fonte: Vatican.va, Udienza Generale del 17 novembre 2021 (ripresa parziale).
Anteprima del terzo libro di Benedetto XVI su Gesù presentato alla Fiera internazionale del libro di Francoforte
Per Natale completata la trilogia
Sarà la Fiera internazionale del libro a Francoforte, dal 10 al 14 ottobre, la vetrina attraverso la quale l’editore Rizzoli presenterà per la prima volta il nuovo libro di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI dedicato ai racconti evangelici dell’infanzia di Gesù.
In Italia il libro L’infanzia di Gesù uscirà prima di Natale in coedizione con la Libreria Editrice Vaticana, ma in apertura della Buchmesse sono già in corso di definizione trattative con editori di trentadue Paesi per le traduzioni, dall’originale tedesco, in venti lingue tra le quali il francese, l’inglese, lo spagnolo, il polacco e il portoghese.
Come spiegato dallo stesso Benedetto XVI nella premessa al libro (che anticipiamo integralmente qui accanto) anche questa terza parte della trilogia dedicata dal Papa a Gesù di Nazaret parte dal racconto evangelico per giungere all’uomo contemporaneo. Come scrisse anche nella introduzione al secondo volume (Dall’ingresso a gerusalemme fino alla risurrezione) l’autore ha cercato di "sviluppare uno sguardo sul Gesù dei Vangeli e un ascolto di Lui che potesse diventare un incontro e tuttavia, nell’ascolto in comunione con i discepoli di Gesù di tutti i tempi, giungere anche alla certezza della figura veramente storica di Gesù". E specificava il suo intento: "spero che mi sia stato dato di avvicnarmi alla figura del nostro Signore in un modo che possa essere utile a tutti i lettori che vogliono incontrare Gesù e credergli". Proprio per questo Benedetto XVI si riprometteva, per completezza, di affrontare anche il capitolo dedicato all’infanzia di Gesù. Oggi mantiene la sua promessa.
Come una piccola sala d’ingresso
Nella premessa il Papa spiega come sia entrato in dialogo con i testi
Finalmente posso consegnare nelle mani del lettore il piccolo libro da lungo tempo promesso sui racconti dell’infanzia di Gesù. Non si tratta di un terzo volume, ma di una specie di piccola "sala d’ingresso" ai due precedenti volumi sulla figura e sul messaggio di Gesù di Nazaret. Qui ho ora cercato di interpretare, in dialogo con esegeti del passato e del presente, ciò che Matteo e Luca raccontano all’inizio dei loro Vangeli sull’infanzia di Gesù.
Un’interpretazione giusta, secondo la mia convinzione, richiede due passi. Da una parte, bisogna domandarsi che cosa intendevano dire con il loro testo i rispettivi autori, nel loro momento storico - è la componente storica dell’esegesi.
Ma non basta lasciare il testo nel passato, archiviandolo così tra le cose accadute tempo fa. La seconda domanda del giusto esegeta deve essere: È vero ciò che è stato detto? Riguarda me? E se mi riguarda, in che modo lo fa? Di fronte a un testo come quello biblico, il cui ultimo e più profondo autore, secondo la nostra fede, è Dio stesso, la domanda circa il rapporto del passato col presente fa immancabilmente parte della nostra interpretazione. Con ciò la serietà della ricerca storica non viene diminuita, ma aumentata.
Mi sono dato premura di entrare in questo senso in dialogo con i testi. Con ciò sono ben consapevole che questo colloquio nell’intreccio tra passato, presente e futuro non potrà mai essere compiuto e che ogni interpretazione resta indietro rispetto alla grandezza del testo biblico. Spero che il piccolo libro, nonostante i suoi limiti, possa aiutare molte persone nel loro cammino verso e con Gesù.
Castel Gandolfo, nella solennità dell’Assunzione di Maria in Cielo 15 agosto 2012
BENEDETTO XVI
Quando è nato Gesù
Gesù è nato in un’epoca determinabile con precisione. All’inizio dell’attività pubblica di Gesù, Luca offre ancora una volta una datazione dettagliata ed accurata di quel momento storico: è il quindicesimo anno dell’impero di Tiberio Cesare; vengono inoltre menzionati il governatore romano di quell’anno e i tetrarchi della Galilea, dell’Iturea e della Traconìtide, come anche dell’Abilene, e poi i capi dei sacerdoti (cfr. Luca, 3, 1 ss). Gesù non è nato e comparso in pubblico nell’imprecisato "una volta" del mito. Egli appartiene ad un tempo esattamente databile e ad un ambiente geografico esattamente indicato: l’universale e il concreto si toccano a vicenda. In Lui, il Logos, la Ragione creatrice di tutte le cose, è entrato nel mondo. Il Logos eterno si è fatto uomo, e di questo fa parte il contesto di luogo e tempo. La fede è legata a questa realtà concreta, anche se poi, in virtù della Risurrezione, lo spazio temporale e geografico viene superato e il "precedere in Galilea" (Matteo, 28, 7) da parte del Signore introduce nella vastità aperta dell’intera umanità (cfr. Matteo, 28, 16ss).
Da pagina 36 del manoscritto
Quel bimbo stretto in fasce
Maria avvolse il bimbo in fasce. Senza alcun sentimentalismo, possiamo immaginare con quale amore Maria sarà andata incontro alla sua ora, avrà preparato la nascita del suo Figlio. La tradizione delle icone, in base alla teologia dei Padri, ha interpretato mangiatoia e fasce anche teologicamente. Il bimbo strettamente avvolto nelle fasce appare come un rimando anticipato all’ora della sua morte: Egli è fin dall’inizio l’Immolato, come vedremo ancora più dettagliatamente riflettendo sulla parola circa il primogenito. Così la mangiatoia veniva raffigurata come una sorta di altare. Agostino ha interpretato il significato della mangiatoia con un pensiero che, in un primo momento, appare quasi sconveniente, ma, esaminato più attentamente, contiene invece una profonda verità. La mangiatoia è il luogo in cui gli animali trovano il loro nutrimento. Ora, però, giace nella mangiatoia Colui che ha indicato se stesso come il vero pane disceso dal cielo - come il vero nutrimento di cui l’uomo ha bisogno per il suo essere persona umana. È il nutrimento che dona all’uomo la vita vera, quella eterna. In questo modo, la mangiatoia diventa un rimando alla mensa di Dio a cui l’uomo è invitato, per ricevere il pane di Dio. Nella povertà della nascita di Gesù si delinea la grande realtà, in cui si attua in modo misterioso la redenzione degli uomini.
Da pagina 38 del manoscritto
*
Il Gesù storico secondo Ratzinger
di Vito Mancuso (la Repubblica, 11 marzo 2011)
Nel primo libro su Gesù pubblicato nel 2007 Benedetto XVI chiedeva ai lettori «quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione». Aveva ragione, perché occorre essere ben disposti verso l’autore di un libro o di una musica, come verso ogni persona che si incontra, per poter adeguatamente comprendere. È necessario però capire bene il senso della simpatia richiesta dal pontefice: nell’ambito teologico in cui si colloca non si tratta di un semplice sentimento, il quale peraltro c’è o non c’è perché nasce solo spontaneamente. Simpatia va intesa qui nel senso originario di patire-con, coltivando un comune pathos ideale. La domanda quindi è: qual è il pathos che ha mosso Benedetto XVI a pubblicare due volumi su Gesù di oltre 800 pagine complessive, di cui oggi arriva in libreria il secondo che riguarda, recita il sottotitolo, il periodo «dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione»?
La preoccupazione del Papa concerne il problema decisivo del cristianesimo odierno, a confronto del quale i cosiddetti "valori non negoziabili" (scuola, vita, famiglia) sono acqua fresca: cioè il legame tra il Gesù della storia reale e il Cristo professato dalla fede. Senza scuole cattoliche il cristianesimo va avanti, senza leggi protettive sulla famiglia e la bioetica lo stesso, anzi non è detto che una dieta al riguardo non gli possa persino giovare. Ma senza il legame organico tra il fatto storico Gesù (Yeshua) e quello che di lui la fede confessa (che è il Cristo) tutto crolla, e alla Basilica di San Pietro non resterebbe che trasformarsi in un museo. Nella fondamentale premessa del primo volume, una specie di piccolo discorso sul metodo, il Papa si chiede "che significato può avere la fede in Gesù il Cristo (...) se poi l’uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa", domanda retorica la cui unica risposta è "nessun significato" e da cui appare quanto sia decisiva la connessione storia-fede.
Chiaro l’obiettivo, altrettanto lo è il metodo: «Io ho fiducia nei Vangeli (...) ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio»; concetto ribadito nella premessa del nuovo volume dove l’autore scrive di aver voluto «giungere alla certezza della figura veramente storica di Gesù» a partire da «uno sguardo sul Gesù dei Vangeli». Il Papa fa così intendere che mentre l’esegesi biblica contemporanea perlopiù divide il Gesù storico reale dal Cristo dei Vangeli e della Chiesa, egli li identifica mostrando che la costruzione cristiana iniziata dagli evangelisti e proseguita dai concili è ben salda perché poggia su questa esatta equazione: narrazione evangelica = storia reale. Questo è l’intento programmatico su cui Benedetto XVI chiede la sua "simpatia".
Peccato per lui però che in questo nuovo volume egli stesso sia stato costretto a trasformare il segno uguale dell’equazione programmatica nel suo contrario: narrazione evangelica ? storia reale.
Il nodo è la morte di Gesù, precisamente il ruolo al riguardo del popolo ebraico, questione che travalica i confini dell’esegesi per arrivare nel campo della storia con le accuse di "deicidio" e le immani tragedie che ne sono conseguite. Chiedendosi "chi ha insistito per la condanna a morte di Gesù", il Papa prende atto che "nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze": per Giovanni fu l’aristocrazia del tempio, per Marco i sostenitori di Barabba, per Matteo "tutto il popolo" (su Luca il Papa non si pronuncia, ma Luca è da assimilare a Matteo). E a questo punto presenta la sorpresa: dicendo "tutto il popolo", come si legge in 27,25, "Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?".
Sono parole veritiere e coraggiose (per le quali sarebbe stato bello che il Papa avesse fatto il nome dello storico ebreo Jules Isaac e del suo libro capitale del 1948 Gesù e Israele, purtroppo ignorato), ma che smentiscono decisamente l’equazione programmatica che è il principale obiettivo di tutta l’impresa papale, cioè l’identità tra narrazione evangelica e storia reale.
Alle prese con uno dei nodi più delicati della storia evangelica, il Papa è stato costretto a prendere atto che i quattro evangelisti hanno tre tesi diverse, e che una di esse «sicuramente non esprime un fatto storico». Se questa incertezza vale per uno degli eventi centrali della vita di Gesù, a maggiorragione per altri. Ne viene quello che la più seria esegesi biblica storico-critica insegna da secoli, cioè la differenza tra narrazione evangelica e storia reale.
Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un’impresa di libertà. Non è data nessuna statica verità oggettiva che si impone alla mente e che occorre solo riconoscere, non c’è alcuna "res" al cui cospetto poter presentare solo un’obbediente "adaequatio" del proprio intelletto, non c’è nulla nel mondo degli uomini che non richieda l’esercizio della creativa responsabilità personale, nulla che non solleciti la libertà del soggetto.
La libertà di ciascun evangelista nel narrare la figura di Gesù è il simbolo della libertà cui è chiamato ogni cristiano nel viverne il messaggio. Se persino di fronte ai santi Vangeli la libertà del soggetto è chiamata a intervenire discernendo ciò che è vero da ciò che "sicuramente non esprime un fatto storico", ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato (compresa la libertà di non prendere così tanto sul serio l’etichetta "valori non-negoziabili" apposta dal Magistero alla triade scuola-famiglia-vita). Affrontare seriamente la figura di Gesù, come ha fatto Benedetto XVI in questo suo nuovo libro, significa essere sempre rimandati alla dinamica impegnativa e responsabilizzante della libertà
Ma dov’è oggi il vento della Chiesa?
di Angelo Bertani (Europa, 11 marzo 2011)
Voci di disagio nella chiesa italiana. Ma è un disagio che è anche indice di speranza che si possa cambiare, uscire dal pantano. Già qualche anno fa Luigi Bazoli, fra i protagonisti del cattolicesimo democratico a Brescia, la cui moglie fu tra le vittime di Piazza della Loggia, scriveva: «Il pericolo più grave non è quello che viene da fuori, bensì un male oscuro che insidia da dentro le istituzioni.
È un appannarsi dei valori ideali, è lo scivolare della vita politica su binari di interessi corporativi inconfessabili, è una montante mediocrità di comportamenti civili, amministrativi, politici, che allontana i giovani dalla vita pubblica, e diffonde sfiducia e scetticismo. Se resta povera di ideali, di rigore morale nella vita pubblica, ogni democrazia si corrompe».
Del resto, un laico cristiano come Nando Fabro, già ai tempi in cui finiva la prima repubblica e si cercava di dar vita a nuovi partiti, scriveva: «Vorrei un partito che prima ancora di proporsi di migliorare la società si proponesse di migliorare i suoi aderenti». Oggi la sfida è tutta qui. Non è solo la politica a preoccupare. Don Angelo Casati, scrittore e teologo, ricorda don Michele Do, altro profeta del cristianesimo conciliare, nella rivista Il Gallo (febbraio 2011), confessa il suo timore che nella Chiesa stia venendo meno il vento della libertà e dello Spirito. Ricorda le parole di Gesù e scrive: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non si sa di dove viene e dove va. Così è chiunque è nato dallo Spirito. Ma adesso dov’è il vento nella Chiesa? Io l’ho respirato a pieni polmoni nel Concilio; oggi mi manca l’aria».
Accanto al disagio anche segni di speranza. Difficoltà e sfide suscitano un impegno a capire e proporre pensieri e comportamenti nuovi. I vescovi lombardi, vincendo le tentazioni del silenzio, hanno confessato un forte disagio per la situazione socio-politica, per i temi e i toni del dibattito pubblico, per l’inquietudine diffusa.
Il vescovo di Brescia Luciano Monari per la festa dei patroni Faustino e Giovita (15 febbraio) aveva diffuso una bella lettera sui temi dell’immigrazione (Stranieri, ospiti, concittadini) disegnando un progetto di accoglienza certamente molto diverso da ciò che le scelte amministrative della Lega vorrebbero imporre anche in luoghi di radicata ispirazione cristiana.
Si tratta infatti di mettere in luce la contraddizione tra lo spirito evangelico e una politica gretta ed egoista. Ilvo Diamanti (Aggiornamenti sociali, febbraio 2011) l’aveva scritto: «La Chiesa in questi anni è stata nell’insieme troppo realista e molto divisa, non soltanto nei confronti della Lega ma di tutto il centro-destra, creando un forte disorientamento nei fedeli e lasciando troppi margini di strumentalizzazione ai singoli partiti».
Il nuovo libro del Papa: non furono gli ebrei a chiedere la crocifissione
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2011)
L’enigma di Giuda, il ruolo del popolo ebraico, gli equilibrismi di Ponzio Pilato. Nel secondo volume del suo Gesù di Nazaret (il primo è stato pubblicato nel 2007) Benedetto XVI si confronta con i protagonisti fondamentali della scena su cui si staglia la Passione di Cristo. E, fedele alla sua teologia, papa Ratzinger respinge decisamente ogni interpretazione razzista del “crucifige”. Non fu il “popolo ebraico” a chiedere la pena capitale - scrive il pontefice - ma l’establishment sacerdotale e la “massa” dei seguaci di Barabba, scesi in piazza per reclamare la tradizionale amnistia pasquale per il “brigante” che in realtà era un combattente della resistenza antiromana.
Per ancorare questa interpretazione Ratzinger è costretto a contraddire il Vangelo di Matteo che in realtà parla di “tutto il popolo”, ma al fondo la versione di Matteo voleva focalizzare l’eterna antitesi fra i profeti e il popolo che non li riconosce ed è pronto a lapidarli. Non era certo sua intenzione fondare l’antigiudaismo religioso cresciuto nei secoli quanto più il cristianesimo si è istituzionalizzato come potere totalitario, che escludeva ogni altra forma di fede e di pensiero, creando la figura dell’eretico da un lato e del deicida dall’altro.
IN OGNI CASO la lettura proposta da Ratzinger si colloca nella svolta del Concilio che condanna ogni interpretazione antisemita dei Vangeli. Nel secondo volume su Gesù, che apparirà in libreria la settimana prossima e di cui il Vaticano anticipa alcune pagine, Benedetto XVI esplora l’enigma psicologico di Giuda e l’atteggiamento politico di Pilato. Su di loro il pontefice non offre letture particolarmente innovative. Raccontando le vicende dei Vangeli, Benedetto XVI racconta in effetti se stesso, cioè le riflessioni che nascono in lui. Così i motivi contingenti, che spingono Giuda a consegnare Cristo, a Ratzinger, sulla traccia del Vangelo di Giovanni, non interessano molto. Non sono “psicologicamente spiegabili”.
Conta piuttosto che la slealtà, l’infedeltà, il tradimento della
missione trovino posto all’interno della Chiesa - si potrebbe dire strutturalmente e sociologicamente
sin dagli inizi dell’avventura cristiana. Non è un’assoluzione all’italiana per dire che le mele
marce ci sono ovunque, ma un monito alla comunità cristiana a liberarsi continuamente del
tradimento e della “sporcizia”, che si manifestano nell’istituzione.
L’analisi del comportamento di Ponzio Pilato, strattonato nell’animo tra carrierismo e realismo - tra la paura di essere denunciato all’imperatore di Roma per acquiescenza al “ribelle” Gesù e la consapevolezza che lui non è per niente un leader mondano - serve a Ratzinger per esaminare i rapporti tra “verità” e politica. Dove l’uomo non coglie il senso autentico dell’esistenza - rimarca Ratzinger - finisce per dare spazio al potere dei più forti.
Come sempre i passaggi più belli dell’opera ratzingeriana si manifestano nell’emozione prodotta dalla radicalità del messaggio evangelico. Il sangue della crocifissione, spiega, non è contro. Non esige vendetta né punizione. Non deve ricadere su nessuno. Perché è un sangue che redime, che è stato versato per tutti gli uomini. L’Ecce homo è l’immagine di Dio, che sta dalla parte dei sofferenti. In questo senso, afferma Ratzinger, il suo sangue ricadendo sugli uomini non porta maledizione, ma “redenzione e salvezza”.
UNA CURIOSITÀ: nel libro Ratzinger dimostra - al contrario dei Vangeli sinottici - che l’Ultima Cena non è avvenuta il giorno di Pasqua, ma alla vigilia come suggerisce evangelista Giovanni. Il giorno di Pasqua, invece, si colloca la sua morte. All’ora esatta in cui si macellavano gli agnelli pasquali. E così la simbologia dell’“Agnello di Dio” raggiunge il suo compimento.
LIBRI
esegesi
Geovisti «falsari» della Bibbia
di MAURIZIO SCHOEPFLIN (Avvenire, 20.10.2007)
Dei Testimoni di Geova - 250.000 in Italia, poco più di sei milioni nel mondo - colpisce in particolare la facilità con cui penetrano negli ambienti cristiani. Tale facilità, come nota padre Tarcisio Stramare nella presentazione del nuovo libro di Valerio Polidori, «è dovuta in gran parte al massiccio utilizzo degli strumenti cristiani - Bibbia e vocabolario - di cui essi si servono in modo equivoco come propri, creando nelle persone non preparate quella confusione che fa di ogni erba un fascio». Dunque, il primo impegno di chiunque voglia confrontarsi con i geovisti consiste nello smascherare la tendenziosità della traduzione del testo biblico di cui si essi si servono. E Polidori fa proprio questo: non a caso il suo lavoro si conclude con un indice dei principali brani biblici citati in modo alterato dalla «Traduzione del Nuovo Mondo» (il testo che i Testimoni di Geova pongono a fondamento delle loro interpretazioni), brani peraltro presi direttamente in considerazione nelle dense pagine del volume, ove vengono sviluppate analisi e comparazioni molto precise che indicano gli errori che stanno alla base della lettura geovista della Sacra Scrittura. Tali errori - sostiene Polidori - assumono una particolare gravità nell’ambito, ovviamente decisivo, della cristologia. I Testimoni di Geova, per esempio, affermano che Cristo non è coeterno al Padre e lo considerano la prima delle sue creature. Per suffragare questa dottrina, essi leggono l’inizio del Vangelo di San Giovanni nel modo seguente: «In principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era un dio». Come è facile osservare, tale traduzione del testo giovanneo è frutto di un evidente travisamento, e Polidori è bravo nel mostrare con dovizia di particolari e mediante dotti approfondimenti linguistici in quale modo si sia concretizzata una simile erronea interpretazione. Particolarmente interessante è la parte del libro dedicata all’escatologia geovista, al centro della quale sta la negazione dell’immortalità dell’anima, sostenuta a partire dalla convinzione che il concetto di anima immortale sia totalmente extrabiblico, frutto di contaminazioni greche che influenzarono il pensiero giudaico. Altre fini puntualizzazioni sono riservate alla questione del significato che i Testimoni di Geova attribuiscono al termine parousia. Il primo capitolo del libro, in cui viene ricostruita la storia del geovismo, risulta utilissimo per comprendere il contesto nel quale si è realizzata la falsificazione della Bibbia, che Polidori contesta con nitida sicurezza.
Valerio Polidori
I TESTIMONI DI GEOVA E LA FALSIFICAZIONE DELLA BIBBIA
Edb. Pagine 164. Euro 14,00.
Lo studioso ebreo citato nel «Gesù di Nazaret» di Ratzinger ha pubblicato un articolo sul «Jerusalem Post». Elogiando il Pontefice
Il rabbino sta col Papa
Neusner: «Col suo libro le dispute ebraico-cristiane entrano in una nuova era. Possiamo incontrarci in un promettente esercizio di ragione e di critica»«Negli ultimi due secoli ci siamo parlati per fare riconciliazione sociale; ora finalmente si torna a confrontarsi sulla questione della verità»
di Giorgio Bernardelli (Avvenire, 01.06.2007)
«Benedetto XVI è un cercatore della verità. Quelli che stiamo vivendo sono tempi interessanti». Parola di Jacob Neusner, il rabbino newyorkese ampiamente citato dal Papa nel suo libro Gesù di Nazaret. Parola resa ancora più significativa dall’uditorio ebraico cui è stata rivolta. Si tratti infatti del passaggio finale di un lungo articolo di Neusner pubblicato l’altro giorno sul quotidiano israeliano Jerusalem Post. Un testo in cui il rabbino ripercorre la storia dei suoi studi e il suo rapporto con Ratzinger. «Immaginate il mio stupore quanto mi è stato detto che una risposta cristiana al mio libro A Rabbi Talks with Jesus era contenuta nel capitolo quarto del libro di Benedetto XVI», scrive. Ma soprattutto l’articolo di Neusner è un invito a considerare il volume di Joseph Ratzinger come l’apertura di una pagina nuova nel rapporto tra ebrei e cristiani. Prende le mosse da lontano, l’autore. «Nel Medio Evo - scrive - i rabbini erano costretti a impegnarsi, davanti a re e cardinali, in dispute con i sacerdoti su quale fosse la vera religione, l’ebraismo o il cristianesimo. Il risultato era scontato: i cristiani vincevano perché avevano la spada. Poi nell’era del secondo dopoguerra le dispute hanno lasciato il posto alla convinzione che le due religioni dicano la stessa cosa; le differenze sono state perciò ridotte a questioni secondarie. Ora invece è iniziato un nuovo tipo di disputa, nel quale è la verità delle due religioni a essere al centro del dibattito». È la prospettiva scelta da Neusner in A Rabbi Talks with Jesus, il suo libro pubblicato nel 1993 (in italiano Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù, Piemme 1996). «Negli ultimi due secoli il dialogo ebraico-cristiano è servito come un mezzo per politiche di riconciliazione sociale - spiega l’autore -, non è stato più un’indagine religiosa sulle convinzioni dell’altro. Il negoziato ha preso il posto del dibattito, e si è pensato che la pretesa di verità della propria religione violasse le regole di buona c ondotta. Nel mio libro invece ho preso sul serio l’affermazione di Gesù secondo cui in lui la Torah trova compimento e ho messo a confronto questa affermazione con gli insegnamenti di altri rabbini, in una sorta di colloquio tra maestri della Torah. Spiego in una maniera lucida e niente affatto apologetica perché, se fossi vissuto nella Terra di Israele del primo secolo e fossi stato presente al Discorso della Montagna, non mi sarei unito al gruppo dei discepoli di Gesù. Avrei detto no (anche se in maniera cortese) e sono sicuro di avere dalla mia parte solide ragioni e fatti». È una prospettiva - precisa il rabbino - che non indebolisce il dialogo, ma all’opposto lo rafforza. «Per molto tempo - si legge ancora nell’articolo apparso sul Jerusalem Post - gli ebrei hanno lodato Gesù come rabbino, un ebreo veramente come noi; ma per la fede cristiana in Gesù Cristo questa affermazione è assolutamente irrilevante. D’altra parte i cristiani hanno lodato l’ebraismo come la religione da cui è venuto Gesù, ma per noi questo è difficilmente un vero complimento. Io - aggiunge ancora Neusner - sottolineo le scelte diverse che sia l’ebraismo sia il cristianesimo compiono davanti alle Scritture che condividono. I cristiani capiranno meglio il cristianesimo se saranno consapevoli delle scelte che hanno compiuto; e lo stesso vale anche per gli ebrei rispetto all’ebraismo. Voglio spiegare ai cristiani perché io credo all’ebraismo; e questo dovrebbe aiutare loro a identificare quali sono le convinzioni che invece li portano in chiesa ogni domenica». Un compito sul quale ora Benedetto XVI rilancia. «Quando il mio editore mi chiese di consigliargli a quali colleghi chiedere di presentare il mio libro - scrive -, suggerii il rabbino capo Jonathan Sacks e il cardinale Joseph Ratzinger. Avevo ammirato gli scritti del cardinale Ratzinger sul Gesù della storia e gli avevo scritto per dirglielo. Lui mi aveva risposto e ci eravamo scambiati scritti e libri. La sua volontà di confrontarsi co n la questione della verità e non solo con le politiche della dottrina, mi era sembrata coraggiosa e costruttiva. Ora però Sua Santità ha compiuto un passo ulteriore e ha risposto alla mia critica con un esercizio di esegesi e teologia. Col suo Gesù di Nazaret le dispute ebraico-cristiane entrano in una nuova era. Siamo in grado di incontrarci l’un l’altro in un promettente esercizio di ragione e critica. Le parole del Monte Sinai ci portano insieme a rinnovare una tradizione lunga duemila anni di dibattito teologico al servizio della verità di Dio».
RIFLESSIONE
Nel libro «Gesù di Nazaret» di Benedetto XVI la proposta di una rinnovata amicizia fra ebrei e cristiani in nome dell’unico Dio
L’unica alleanza
Il dialogo a distanza con il rabbino americano Jacob Neusner, che si pone sinceramente la domanda sulla divinità di Cristo
di Elio Guerriero (Avvenire, 29.05.2007)
Le molte religioni e l’unica alleanza, l’uomo alla ricerca del sacro e la rivelazione di Dio, le vie molteplici delle religioni e Dio che si rivela al Sinai, anzi scende dal cielo per porre la sua tenda tra gli uomini. Sto parlando dell’introduzione a Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI che la critica ha finora passato sotto silenzio. In essa il Papa accenna alla via delle religioni che in Mesopotamia, in Egitto o nel mondo indoeuropeo hanno aiutato l’uomo a scoprire la sua dignità, sono state all’origine della formazione della società, della costruzione della polis.
All’apice di questo percorso, Dio si manifesta ad Abramo. Cominciava, allora, il tempo della Rivelazione. Come scrive Julien Ries: «Alla lunga ricerca dell’uomo, Dio risponde con la sua manifestazione». Da questo momento, ha inizio il cammino della promessa che, come la stella dei Magi, sostiene il viaggio delle generazioni: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te... un profeta pari a me, a lui darete ascolto» (18,5). Il Nuovo Testamento, di conseguenza, si apre con l’annuncio che l’antica promessa si è avverata, che sul Nuovo Sinai, la Montagna delle beatitudini, siede ora il nuovo Mosè, che insegna non come un rabbi che arriva all’incarico dopo lunga preparazione, ma come l’inviato di Dio. Più di Mosè che vide Dio solo di spalle, egli può parlare del Padre, perché « Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).
Questo permette al Papa di affermare che non solo vi è concordia tra Antico e Nuovo Testamento, ma che l’alleanza stretta al Sinai e quella proclamata da Gesù sul monte delle beatitudini è unica. Gesù è venuto per portare a compimento, a pienezza l’alleanza. Così hanno insegnato quei personaggi umili e grandi (il Magnificat) che hanno adempiuto la Legge e segnato il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento. Il Papa pensa anzitutto alla Vergine Maria, ma poi anche a Giuseppe, Zaccaria ed Elisabetta, a Simeone ed Anna e agli apostoli tutti. Pii israeliti, essi non smisero di osservare la Legge e conservarono il cuore puro, che li predispose alla chiamata di Colui che è più grande. Per questo sono immagine tipo di tutti i discepoli di Gesù.
Si inserisce a questo punto il dialogo, che ha suscitato scalpore, tra il Papa e il rabbino ortodosso americano Jacob Neusner. Autore di un volume dal titolo Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù, Neusner pone due importanti quesiti nella sua opera. Egli immagina di essere contemporaneo di Gesù e di recarsi, piacevolmente sorpreso dalla fama che precede il giovane Rabbi della Galilea, a sentire il discorso della Montagna. Non trova, tuttavia, alcunché di nuovo nella Torah di Gesù. Tutto gli era già noto dall’Antico Testamento e dalle tradizioni rabbiniche fissate nella Mishnah e nel Talmud. E’ inevitabile, allora, la domanda: perché è venuto Gesù, quale è il senso della sua Torah rispetto a quella di Mosè? Risponde il Papa: «Israele non esiste semplicemente per se stesso, per vivere nelle "eterne" disposizioni della Legge, esiste per diventare la luce dei popoli». Con il passare dei secoli era divenuto sempre più evidente che il Dio di Israele era Dio di tutti i popoli e di tutti gli uomini. Gesù è venuto per annunciare l’eudochìa di Dio, il suo beneplacito verso gli uomini tutti. Del resto una delle immagini più care alla tradizione cristiana è quella dei Magi, venuti a Gerusalemme per adorare il re dei Giudei (Mt 2,2). «Alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 528) Ricordato nell’epifania, una delle grandi feste cristiane, l’episodio manifesta il senso della venuta di Gesù: la realizzazione della promessa fatta ad Abramo per la quale la grande massa delle genti entra nella famiglia dei patriarchi e ottiene la dignità israelitica.
L’altra domanda sollevata da Neusner riguarda la divinità di Gesù. Egli legge con interesse l’episodio del giovane ricco e come il Maestro di Nazaret guarda a lui con simpatia. Ma perché il Maestro non si accontenta del suo rispetto della Legge, perché gli chiede di vendere tutto e seguirlo? Non si pone, così, allo stesso livello di Dio? San Giovanni e il Concilio di Nicea che hanno proclamato la divinità di Gesù non si sono sbagliati. Gesù chiede veramente di essere riconosciuto come Dio. Per questo il rabbino americano si allontana, mentre: «Con tanta cortesia e gentilezza, egli mi saluta con un cenno del capo e va via, per la sua strada. Senza "se" o "ma"...; proprio da amici». Al distacco, tuttavia, segue un ultimo gesto di comunione, che è particolarmente significativo per il rapporto fra ebrei e cristiani: alla sera nella sinagoga: «Noi offriamo la nostra preghiera serale al Dio vivente. E in alcuni villaggi lungo la valle, così fecero Gesù e i suoi discepoli e tutto l’eterno Israele».
La pubblicazione di Gesù di Nazaret di Benedetto XVI è stata affidata a un editore laico, forse un segnale rivolto agli uomini di cultura perché si rendano conto della portata del dialogo ebreo-cristiano. L’invito, tuttavia, è rivolto soprattutto agli ebrei. Come dicono il Papa e Neusner qui non si tratta affatto di un dibattito per stabilire la superiorità di una religione sull’altra ma di ritrovarsi nella discendenza di Abramo e di Mosè, per coltivare l’amicizia e la fraternità nel riconoscimento dell’unico Dio.
RESISTENZA E PACE
di Raniero La Valle *
La Chiesa in piazza
Se Gesù di Nazaret fosse stato così malevolo verso le convivenze di fatto, noi non avremmo una delle più belle pagine del Vangelo, quella della samaritana, che aveva avuto cinque mariti e quello con cui stava non era suo marito. Invece è proprio lei che attinge l’acqua dal pozzo per Gesù e ne ha in cambio l’acqua viva, e poi corre al villaggio ad annunziare a tutti, compresi i suoi compagni e mariti, di aver visto il messia.
Se il celibato di Gesù fosse stato tanto arcigno e schizzinoso, così da assurgere a insuperabile presidio della legge salica di successione nella Chiesa, per cui da Dio Padre al Figlio maschio unigenito ai successori degli apostoli si va per linea maschile fino all’ultimo degli accoliti, non avrebbe consentito che da lui si trasmettesse una forza all’emorroissa né si sarebbe fatto bagnare di pianto i piedi da una donna, né si sarebbe fatto cospargere di nardo né avrebbe avuto per loro parole di vita.
Se la Chiesa di Giovanni fosse stata così ansiosa e zelante come quella di Luca, che nel suo Vangelo non ha voluto includere l’episodio del perdono di Gesù all’adultera, per non indebolire il principio della fedeltà matrimoniale, noi non sapremmo, come invece sappiamo dal Vangelo di Giovanni che se n’è fatto carico, che le adultere non si uccidono, e che perfino la legge mosaica che lo prescriveva è scritta come col dito sulla sabbia, e basta una folata di vento, del vento della grazia, a spazzarla via.
Se la Chiesa che fu di Ruini non fosse così convinta che dove non basta la predicazione ci vuole il deterrente di una legge restrittiva, e che se i cattolici non obbediscono in casa sono tenuti ad obbedire almeno in Parlamento, non manderebbe le folle in piazza con preti e parroci in testa per dire “famiglia, famiglia”, e in realtà per cambiare la politica del Paese. Si rompe così l’unità del presbiterio, e si divide la Chiesa in fazioni. Per “supplicare” che essa non facesse un simile errore, Giuseppe Alberigo ci si è giocata la vita.
Ci fu un’altra volta in cui la Chiesa tentò un’operazione del genere, e fu quando fece scendere a Roma trecentomila militanti della Gioventù cattolica, con un uniforme berretto verde sul capo, perciò soprannominati “baschi verdi” (non c’era ancora la Lega), per una manifestazione di anticomunismo (che era il grande coagulante di allora). Quando De Gasperi li vide sfilare, disse: gridano per il papa, ma marciano contro di me. Da quel trauma la Chiesa si riebbe solo col Concilio, e Carretto andando nel deserto.
Certo, è molto umano che quando non ci si riesce da una parte, ci si provi dall’altra. Se non si riesce con la fede, proviamo col progetto culturale, con la politica, con la natura. E siccome la Chiesa sa cos’è la natura, non dice alla politica “segui me”, ma “segui la natura”: la famiglia naturale, la natura umana del materiale genetico che diventa uomo già sul vetrino, le relazioni naturali e perfino, com’è accaduto, la conformità alla natura della pena di morte, purché non dell’innocente. Tutte cose che varrebbero lo stesso, come diceva Grozio, “anche se Dio non ci fosse”.
Per l’appunto Dio ha fatto lo sforzo di incarnarsi quando ha visto che con la “natura” l’uomo non andava troppo lontano. Ci voleva dell’altro, ed è per quest’altro che è nata la Chiesa.
Del resto neanche alla politica basta seguire la natura. Questo lo credeva Aristotele, che pensava alla politica come all’attuazione di una scienza, di una verità, che “sta sopra” (l’epistéme), per cui sarebbe secondo natura, e necessario, che ci sia “chi comanda e chi è comandato” e che il maschio comandi sulla femmina, essendo “l’uno per natura superiore, l’altra inferiore” (vedi alla voce “politica” del Dizionario di teologia della pace, EDB). Invece la politica è un artificio, è un prodotto della cultura. Un artificio è la democrazia, e infatti rischiamo ogni momento di perderla. Ma un artificio è anche lo Stato: e perciò non può essere “perfetto”, cioè del tutto autosufficiente, come pretendeva lo Stagirita; anzi è proprio questa idea di avere per natura tutti i mezzi necessari e di non aver bisogno di nessuno, che ha fatto dello Stato un “sovrano” in guerra contro gli altri Stati.
E artificiali sono i regni. Non c’è niente di più innaturale di un re. Ma intanto, se gli uomini non si fossero inventati il re (e Dio non voleva, come disse a Samuele) Gesù non avrebbe potuto usare quella metafora per annunciare il “regno di Dio”: nella natura, oltre la natura, nonostante la natura.
* WWWW.ILDIALOGO.ORG, Martedì, 17 aprile 2007
Riceviamo da Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero.it) questo articolo che uscirà su Rocca, rocca@cittadella.org, nel n. del 1 maggio, nella rubrica di Raniero La Valle
IN 50MILA IN PIAZZA SAN PIETRO PER GLI 80 ANNI DI BENEDETTO XVI
CITTA’ DEL VATICANO - Circa 50 mila persone si sono radunate in piazza San Pietro per la messa presieduta da Benedetto XVI in occasione del suo 80/o compleanno. Mano a mano i fedeli vanno sempre più riempiendo il sagrato di San Pietro, per la cerimonia promossa dalla diocesi di Roma, mentre i pullman continuano ad arrivare. Al termine della messa con i cardinali e i vescovi, il Papa reciterà anche il Regina Coeli.
SODANO: IL PAPA CONTINUI A GUIDARCI CON AMORE DI SEMPRE
Il traguardo degli 80 anni del Papa "diviene un motivo di gaudio spirituale per tutti i suoi figli, accorsi oggi numerosi a questa storica piazza, per esprimere i sentimenti della loro comune devozione". Così il decano del Collegio cardinalizio, Angelo Sodano, si è rivolto a papa Banedetto XVI nel suo indirizzo di omaggio all’inizio della messa in piazza San Pietro per il compleanno del Pontefice. "Ci riuniamo oggi attorno all’altare del Signore - ha detto l’ex segretario di Stato, ripetutamente interrotto dagli applausi della folla - per ringraziarlo per avercelo donato, due anni or sono, come guida sicura sul nostro cammino". "Ci senta a lei vicini in questo giorno - ha aggiunto il card. Sodano - e continui a guidarci con l’amore di sempre". "Con la carità della verità, ci aiuti a seguire fedelmente il Vangelo di Cristo - ha augurato -. Con la carità della grazia, possa Vostra Santità alimentare sempre la nostra vita spirituale. Con la carità del buon governo, voglia aiutarci a vivere nella Chiesa in modo ordinato e concorde. Chinandosi, come Buon Samaritano, su tanti uomini piagati nel corpo e nello spirito, Ella voglia guidarci a compiere quelle opere di misericordia materiale e spirituale, di cui hanno tanto bisogno gli uomini d’oggi, soprattutto i poveri, gli ammalati e tuti coloro che soffrono per le prove della vita".
IL DISCORSO DEL PAPA
MISERICORDIA DIO PONE LIMITE A MALI DEL MONDO
"E’ la misericordia che pone un limite al male". Così Benedetto XVI, nella messa in piazza San Pietro in occasione del suo 80/o compleanno, ha parlato dell’odierna festa della Divina Misericordia, voluta da Giovanni Paolo II nella domenica successiva alla Pasqua. "Egli visse sotto due regimi dittatoriali - ha ricordato nell’omelia - e, nel contatto con povertà, necessità e violenza, sperimentò profondamente la potenza delle tenebre, da cui è insidiato il mondo anche in questo nostro tempo". "Ma sperimentò pure, e non meno fortemente - ha proseguito -, la presenza di Dio che si oppone a tutte queste forze con il suo potere totalmente diverso e divino: con il potere della misericordia". Secondo papa Ratzinger, nella parola ’misericordia’, il suo predecessore "trovava riassunto e nuovamente interpretato per il nostro tempo l’intero mistero della Redenzione". "Proprio in questi giorni particolarmente illuminati dalla luce della divina misericordia - ha aggiunto Benedetto XVI davanti a cardinali, vescovi, sacerdoti e a circa 50 mila fedeli -, cade una coincidenza per me significativa: posso volgere indietro lo sguardo su 80 anni di vita".
RINGRAZIO DIO PER SUOI DONI E PER MIA FAMIGLIA
Un ringraziamento a Dio per tutti i suoi doni in 80 anni di vita e, in particolare, per essere cresciuto e vissuto facendo "l’esperienza di che cosa significa ’famiglia’". E’ quanto ha voluto esprimere Benedetto XVI nell’omelia della messa. "Siamo qui raccolti - ha affermato rivolgendosi ai circa 50 mila fedeli - per riflettere sul compiersi di un non breve periodo della mia esistenza". "Ho sempre considerato un grande dono - ha spiegato - che la nascita e la rinascita siano state a me concesse, per così dire insieme, nello stesso giorno, nel segno dell’inizio della Pasqua. Così, in uno stesso giorno, sono nato membro della mia propria fami miglià; ho potuto fare l’esperienza di che cosa vuol dire paternità, cosicché la parola su Dio come Padre mi si è resa comprensibil mi si è schiuso l’accesso al grande e benevolo Padre che è nel cielo. Davanti a Lui noi portiamo una responsabilità, ma allo stesso tempo Egli ci dona la fiducia, perché nella sua giustizia traspare sempre la misericordia e la bontà con cui accetta anche la nostra debolezza e ci sorregge, così che man mano possiamo imparare a camminare diritti". Benedetto XVI ha ringraziato Dio "perché ho potuto fare l’esperienza profonda di che cosa significa bontà materna, sempre aperta a chi cerca rifugio e proprio così in grado di darmi la libertà. Ringrazio Dio per mia sorella e mio fratello - ha proseguito - che, con il loro aiuto, mi sono stati fedelmente vicini lungo il corso della vita".
Il Papa ha poi ricordato che "proseguendo nel cammino della vita mi venne incontro poi un dono nuovo ed esigente: la chiamata al ministero sacerdotale". "Sì, era una consolazione - ha sottolineato - il fatto che la protezione dei santi di Dio, dei vivi e dei morti, venisse invocata su di noi. Sapevo che non sarei rimasto solo". Senza citarla espressamente, Ratzinger è arrivato così alla sua nomina al soglio di Pietro. "Con il peso accresciuto della responsabilità - ha detto -, il Signore ha portato anche nuovo aiuto nella mia vita. Ripetutamente vedo con gioia riconoscente quanto è grande la schiera di coloro che mi sostengono con la loro preghiera; che con la loro fede e con il loro amore mi aiutano a svolgere il mio ministero; che sono indulgenti con la mia debolezza, riconoscendo anche nell’ombra di Pietro la luce benefica di Gesù Cristo". "Per questo - ha continuato - vorrei in quest’ora ringraziare di cuore il Signore e tutti voi".
Il Papa, interrotto da molti applausi, ha voluto salutare "quanti sono qui convenuti per celebrare con me questa ricorrenza": quindi i cardinali e il decano Angelo Sodano che gli ha rivolto l’iniziale indirizzo di omaggio, poi i vescovi e tutti i componenti del clero. Un "pensiero deferente e grato" lo ha rivolto alle personalità politiche e diplomatiche. "Saluto infine - ha concluso -, con fraterno affetto, l’inviato personale del Patriarca ecumenico Bartolomeo I, Sua Eminenza Ioannis, metropolita di Pergamo, esprimendo apprezzamento per il gesto gentile e auspicando che il dialogo teologico cattolico-ortodosso possa proseguire con lena rinnovata".
* ANSA » 2007-04-15 13:51
In un momento così tetro della nostra storia, dove nichilismo e relativismo la fanno da padrone, è entusiasmante riscoprire ogni giorno la bellezza della propria fede e dei suoi valori nelle parole del successore di Pietro, così limpide di saggezza e umiltà.
Buon compleanno e grazie, Santo Padre !