[...] L’unico rimedio che resta alle autorità per resistere al global gossip è praticare l’autorevolezza personale e responsabile nell’esercizio del potere. Perché in futuro sarà impossibile essere pervertiti e apparire puri o essere guerrafondai e apparire pacifisti. L’era di Internet non fa più sconti a nessuno. Non tanto perché l’apparire conti più di essere, quanto piuttosto perché essere è diventato inseparabile dall’apparire stesso. Può sembrare buono solo chi lo è realmente e apparire cattivo anche chi fa di tutto per sembrare buono. Un paradosso che, tuttavia, mette molto più in fuga l’ipocrisia di quanto non svigorisca l’autorità [...]
Il potere messo a nudo
di Joaquín Navarro-Valls (la Repubblica, 10.12.2010)
Non tutte le scoperte umane hanno eguale importanza. Non tutte le trovate rispondono ad un medesimo intento positivo. Molto dipende dagli effetti che ne derivano. Certamente, la diffusione di Internet è stata una grande svolta del millennio.
Ovviamente, tante incognite restano sul tappeto. La prima e più importante è quella della privacy. Con la comparsa, ad esempio, dei social network si è resa lampante ai frequentatori di Facebook e di Twitter quanto sia fragile il confine che separa la curiosità dal voyeurismo, il comunicare dal vilipendere, e così via. In questi giorni, poi, si è presentato un nuovo caso inerente, per l’appunto, all’uso e abuso della rete. Si tratta, come si sa, del sito web WikiLeaks, fondato da Julian Assange, che sta pubblicando ormai da una settimana una serie di documenti riservati.
Lasciando a margine le singole pubblicazioni, molte delle quali considerate illegali perché coperte dal segreto di Stato, il fenomeno stimola una riflessione generale sui rapporti tra la dimensione pubblica e quella privata, oltre che tra i fatti che possono essere resi noti e quelli che non dovrebbero esserlo affatto. In questo caso, in effetti, si ha a che fare con un discredito riguardante sia l’esercizio del potere e sia la sovranità delle istituzioni.
Non a caso, in italiano esiste una distinzione linguistica tra l’autorità e l’autorevolezza. La prima compendia esattamente il compito e il ruolo di chi detiene una carica, la seconda la credibilità effettiva delle persone che ricoprono specifiche funzioni. E’ difficile dire se la campagna di pubblicazione dei dossier che sta facendo WikiLeaks riguardi più il primo o il secondo di questi aspetti. Probabilmente, entrambi. Anche se si tratta di due temi profondamente diversi che devono restare nettamente distinti.
Prendendo ad esempio la notizia più importante che il sito web ha reso pubblica, vale a dire la richiesta saudita agli americani di bombardare l’Iran, è logico presumere non solo che i protagonisti ne escano male, ma anche che i governi rispettivi siano delegittimati nel loro prestigio e nella loro facoltà.
Il punto vero è che ritornano costantemente i due livelli di giudizio sulla messa in piazza delle pratiche politiche e personali dei governanti. Il primo riguarda la riservatezza come tale. E’ evidente che nella gestione di uno Stato non tutto può essere reso pubblico. Ciò non in ragione di un chissà quale mistero, ma perché esistono delle trattative e degli accordi che per funzionare e garantire la democrazia devono restare lontani dal clamore pubblico.
Non si tratta, in questo caso, di difendere la vita privata delle persone al governo, ma di salvaguardare una prassi politica e diplomatica che è bene per tutti se rimane discreta. L’efficacia di un’autorità, a questo livello, si esprime non solo nella dinamica comando-obbedienza, ma più ancora nell’incisività di una linea negoziatrice che evidentemente non può filtrare per intero all’opinione pubblica.
Vi è, poi, un secondo livello che coinvolge la vita privata dei politici. Spiace dirlo, ma nel nostro tempo, con o senza WikiLeaks, sarà assai difficile lasciare separata la sfera personale dall’immagine pubblica dei protagonisti. Appunto perché oggi è non solo conoscibile ma comunicabile tutto, nascondere il privato è un’utopia irrealizzabile.
In fondo, la vita privata come tale non sembra avere oggi un grande spazio per i personaggi che hanno scelto di essere in pubblico. Esistono solo gradi diversi di vita pubblica, più o meno intimi e più o meno interiori. E dunque aspetti più o meno interessanti da sapere e esprimere. L’elisione della barriera tra il comportamento riservato e il contegno noto al pubblico deve andare a vantaggio del buon fare e della coerenza nel modo di essere, senza le quali l’autorevolezza svanisce e l’autorità rischia di essere trascinata nel pantano di un vile sciacallaggio.
Il fenomeno WikiLeaks, in fin dei conti, non è una violenta patologia del mondo della comunicazione, ma l’impossibilità della vecchia politica di essere adeguata ad una realtà in cui tutto può essere fatto circolare, tutto può essere rivelato, ogni cosa può essere affissa nel virtuale.
L’unico rimedio che resta alle autorità per resistere al global gossip è praticare l’autorevolezza personale e responsabile nell’esercizio del potere. Perché in futuro sarà impossibile essere pervertiti e apparire puri o essere guerrafondai e apparire pacifisti. L’era di Internet non fa più sconti a nessuno. Non tanto perché l’apparire conti più di essere, quanto piuttosto perché essere è diventato inseparabile dall’apparire stesso. Può sembrare buono solo chi lo è realmente e apparire cattivo anche chi fa di tutto per sembrare buono. Un paradosso che, tuttavia, mette molto più in fuga l’ipocrisia di quanto non svigorisca l’autorità.
WikiLeaks, insomma, potrebbe diventare una garanzia finale del fatto che i valori se non diventano virtù oggi non sopravvivono, perché prima o poi sono smascherati dai comportamenti incoerenti dei falsificatori del costume pubblico.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
WikiLeaks, la nuova ondata
di Stefania Maurizi *
La schedatura degli utenti di Facebook attuata da un’agenzia privata di intelligence. I soldi a Zuckerberg da un’altra azienda specializzata nel raccogliere informazioni sulle persone. I rapporti tra spionaggio privato e Cia. Il ruolo di informatore di un ambasciatore italiano. Da oggi, su l’Espresso, i ’file Stratfor’ di WikiLeaks
E’ definita ’the shadow Cia’. L’ombra della Cia. E come la più famosa agenzia di spionaggio del mondo è americana. Ma non è un ente governativo. Si chiama ’Stratfor’. E’ un’azienda privata, che vende e compra informazioni destinate a clienti ricchi e potenti. Governi, grandi aziende e multinazionali di tutto il pianeta.
Ora, per la prima volta, è possibile aprire uno squarcio nel mondo segreto di Stratfor. ’L’Espresso’ e ’la Repubblica’ hanno avuto accesso con un pool di media internazionali ai ’Global Intelligence Files’: 5,3 milioni di email interne, documenti ottenuti da WikiLeaks e che l’organizzazione di Assange inizia oggi a pubblicare sul sito (wikileaks.org/gifiles).
Non è noto come WikiLeaks ne sia entrata in possesso. L’unica cosa certa è che, nel dicembre scorso, Stratfor è stata al centro di un attacco hacker da parte del collettivo ’Anonymous’, finito per la prima volta nelle cronache dei giornali internazionali nel 2010 per aver organizzato una rappresaglia informatica a livello mondiale contro le carte di credito Visa e Mastercard, che hanno tagliato le donazioni a WikiLeaks.
Negli ultimi due anni, Anonymous ha colpito ripetutamente i siti di multinazionali e aziende che operano per il complesso militare industriale e finanziario. L’ultimo raid è proprio quello contro Stratfor: Anonymous ne avrebbe hackerato i server, prelevando milioni di comunicazioni interne dalle reti aziendali, mettendo in ginocchio per giorni il sito web. Fin da dicembre scorso i media internazionali aspettavano la pubblicazione improvvisa in rete di questi file da parte di Anonymous, che di norma spiattella tutto in rete, anche i dati delle carte di credito delle aziende e dei loro clienti.
Ma in qualche modo questa valanga di documenti è arrivata all’organizzazione di Assange, che oggi inizia a rilasciare i file in varie ondate successive e con un team di media internazionali.
Tra i documenti ci sono file che lasciano capire come gli analisti di Stratfor abbiano accesso a informazioni esclusive, come quelle sul materiale sequestrato nel covo di Bin Laden subito dopo l’eliminazione dello sceicco del terrore, notizie sulle condizioni di salute di capi di stato, su WikiLeaks e Julian Assange. Al centro dei segreti di Stratfor c’è una rete di gole profonde disseminate per il pianeta, che consentono all’azienda di assumere informazioni ovunque. Dal Kazakhstan alla Moldavia, dalla Cina fino all’Italia di Berlusconi. Generali, politici, accademici, hacker, giornalisti, spie e diplomatici.
Quello che lascia senza parole è che, stando a quanto che emerge dalle comunicazioni email, Stratfor non sembra aver protetto le identità di molte delle sue fonti, criptandole con robusti sistemi cifrati, che rendono inaccessibili i dati delicati. Tra i file si possono trovare nomi, cognomi, giudizi sull’affidabilità delle gole profonde, sistemi per contattarle e a volte perfino le ragioni per cui forniscono le informazioni. WikiLeaks ha fatto sapere che, per decidere quali documenti rilasciare, si baserà sui giudizi dei giornali partner. ’L’Espresso’ e ’la Repubblica’ non rilasceranno i file riguardanti le fonti. Nel database figura il nome di almeno un ambasciatore italiano.
Facebook e il mistero della Cia. Nelle email interne degli analisti di Stratfor non poteva non sbucare un fenomeno di massa come il social network Facebook. E’ il Grande Fratello che sa tutto di noi. Amicizie, foto, contatti, dati sulla nostra localizzazione geografica. E opinioni, esternazioni, adesioni a campagne sociali e politiche. A rivelare tutto questo di noi, si sa, siamo noi stessi. E’ un sistema così facile e pulito di acquisire le informazioni per una qualsiasi agenzia di intelligence che se non ci fosse, andrebbe inventato. Che ci abbia pensato proprio la Cia? Gli amanti della teoria della cospirazione ne sono ossessionati.
In ogni caso, in un’email tra due analisti fa capolino Facebook e uno di loro scrive: «Credo che Palantir sia coinvolta in cose anche meno chiare, inclusa quella di finanziare Facebook». Palantir è un’azienda pressoché sconosciuta in Italia, ma è finita nelle cronache internazionali un anno fa, quando Anonymous hackerò i server dell’impresa americana ’HBGary Federal’, che vende security a banche, agenzie del governo Usa e forze di polizia di vari governi in giro per il mondo: anche alla nostra polizia di Stato. Tra i documenti frutto di quell’incursione informatica venne fuori un piano per distruggere WikiLeaks in cui sbucava il nome di Palantir, impresa di Palo Alto, California, che ha inventato un sistema per raccogliere in potenti database informazioni su individui ’sospetti’, un po’ come avviene nel film ’Nemico Pubblico’.
* l’Espresso, 27 febbraio 2012
Italia, spesa militare record: oltre 20 miliardi di euro
Scritto il 10/12/10 *
L’Italia è ko, ma non c’è crisi che possa frenare la spesa militare: sfiora i 20 miliardi e mezzo di euro lo stanziamento per la difesa nel 2011, un aumento secco di 130 milioni rispetto all’anno in corso, pari all’1,28% del Pil. «Decine e decine di macchine da guerra, costose e inutili», che verranno costruite nei prossimi 10-15 anni nel nostro paese, accusa Luca Galassi dalle colonne di “PeaceReporter”: armi costosissime, che «invecchieranno senza essere utilizzate in teatri di guerra, foss’anche perché le nostre sono solo “missioni di pace”». Galassi ha fatto i conti in tasca alla difesa: a lievitare sono i fondi destinati agli “acquisti” per i nuovi armamenti, un incremento dell’8,4%, pari a quasi tre miliardi e mezzo, ovvero 266 milioni in più rispetto al 2010.
Dove vanno questi soldi? In gran parte, spiega Galassi, saranno destinati al programma F-35, il cacciabombardiere “stealth” attrezzato per trasportare testate nucleari, che costerà 471,8 milioni di euro. Altri 309 milioni voleranno via per l’acquisto degli elicotteri Nh-90 della AgustaWestland, mentre la lista della spesa militare 2011 contempla anche due sottomarini U-212, del costo di 164,3 milioni, e di altri elicotteri Ch-47 F Chinhook (per 137 milioni), oltre all’ammodernamento dei caccia multiruolo Tornado (178,3 milioni). Per le altre acquisizioni, già avviate (il caccia Eurofighter Typhoon, il jet Aermacchi M-346 da addestramento, le modernissime fregate Fremm e i veicoli corazzati da combattimento Freccia) verranno reperite risorse dal ministero dello Sviluppo economico, chiamato a contribuire con poco meno di un miliardo di euro.
«C’è da chiedersi quale impiego strategico avrà il cacciabombardiere F-35», si interroga Galassi: lo stealth americano di ultima generazione può scagliare missili a testata atomica. L’Italia ne ha “prenotati” 131 esemplari: con quale reale obiettivo? E poi gli elicotteri: oltre ai 20 nuovi Chinhook in arrivo per il trasporto di truppe sul campo di battaglia, nel 2018 ammonterà a 116 unità la flotta di elicotteri d’assalto Nh-90. Altro capitolo iper-dispendioso, quello delle fregate Fremm: secondo il ministro Ignazio La Russa, il governo ha «rinviato la decisione» per le ultime quattro navi del programma originario, mentre le prime sei arriveranno sicuramente. Per La Russa, le Fremm «magari non sono indispensabili» per la difesa ma «può essere indispensabile costruirle», sostenendo così l’occupazione nei cantieri navali italiani, anche solo facendo crescere l’export militare.
Il settore è infatti in piena espansione: con un fatturato record da 3,7 miliardi, alla fine del 2008, come si è appreso lo scorso anno, l’Italia ha superato la Russia, divenendo il secondo esportatore mondiale di armamenti, dopo gli Stati Uniti. Tra i “gioielli” dell’industria militare nostrana, il veicolo tattico multiruolo Lince e l’elicottero d’attaco A-129 Mangusta, ma far lievitare il made in Italy sono anche armamenti meno “prestigiosi”, come le bombe a grappolo messe al bando da recenti convenzioni internazionali, non ancora ratificate nella loro piena applicazione. Un recente studio, intanto, colloca il nostro paese all’ottavo posto nel mondo per capacità di spesa militare: solo nella controversa missione in Afghanistan, l’Italia spende 65 milioni all’anno.
L’accresciuta capacità militare dell’Italia, che da anni continua a spendere in armamenti e missioni cifre da capogiro, un tempo impensabili, non stupisce esperti internazionali come Michel Chossudovsky, professore emerito dell’università di Ottawa e direttore dell’istituto canadese “Global Research”: destabilizzato il pianeta dopo la caduta dell’Unione Sovietica che mise fine alla Guerra Fredda ma anche alla pax nucleare garantita dalle due superpotenze atomiche, l’era Bush ha precipitato il mondo nella “guerra infinita”, dall’Iraq all’Afghanistan, fino alle attuali tensioni con l’Iran. Sullo sfondo, il timore dell’Occidente di perdere la propria egemonia di fronte alla potenza emergente della Cina. Da qui la caccia alle risorse, che comporta la militarizzazione del pianeta.
Chossudovsky denuncia «una escalation silenziosa ma costante», che impedisce all’opinione pubblica mondiale di percepire la reale portata del pericolo, che il “Global Research Institute” canadese non esita a definire “Terza Guerra Mondiale”, segnalando una straordinaria concentrazione di truppe, flotte navali e sistemi missilistici, armamenti dislocati nei punti nevralgici del pianeta. «Una concentrazione che non si vedeva dai tempi della Seconda Guerra Mondiale», sostiene Chossudovsky, che avverte: «Il pericolo aumenta, se consideriamo la totale indifferenza dei media», che raccontano la cronaca delle crisi locali, senza un’analisi complessiva. Il quadro è chiaro: la guerra non è ancora decisa, ma è un’opzione concreta, possibile, in avanzato stato di preparazione. Se i rapporti fra Usa e Cina dovessero precipitare, forse si capirebbe meglio anche la crescita della spesa militare italiana.
Fonte: http://www.libreidee.org/
Link: http://www.libreidee.org/2010/12/italia-spesa-militare-record-oltre-20-miliardi-di-euro/
Chi ha paura della glasnost
di BARBARA SPINELLI *
SOLO chi ha un’idea cupa dell’informazione indipendente, e paventa persecuzioni non appena se la trova davanti, e per di più nulla sa della rivoluzione in corso nell’universo dei blog, può parlare, come il ministro Frattini, di un 11 settembre della diplomazia scatenato da WikiLeaks contro il mondo bello, composto e civile nel quale siamo supposti vivere. Solo chi fantastica planetarie offensive contro le notizie che da tempo circolano senza confini può credere che al caos comunicativo si debba rispondere, come negli attentati del 2001, con una bellicosa e "compatta alleanza: senza commentare, senza retrocedere sul metodo della diplomazia, senza lasciarsi andare a crisi di sfiducia".
WikiLeaks non è una cellula terrorista e il suo fondatore, Julian Assange, è magari indagato per violenza privata ma comunque non è un uomo che - la fine osservazione è del ministro - "vuol distruggere il mondo". Alla mutazione mediatica nata prima di lui non si replica con un globale schieramento, per "continuare a far vivere un metodo della diplomazia" che ha fatto disastri.
Mettere insieme in una battaglia contro Internet Roma e Mosca, Berlino e Kabul prefigura il Brave New World di Huxley, fatto di gente china e sedata dalla droga, il "soma" che rilassandoti uccide ogni critica. Più che un’utopia: una distopia.
Il mostro tanto temuto è la glasnost che d’un tratto irrompe in una zona politica non solo opaca ma sommamente inefficace: la diplomazia, il più chiuso dei recinti, dove il segreto, non sempre immotivatamente, è re. La glasnost è una corrente sotterranea potente, non un breve tumulto come fu Al Qaeda, e l’unica cosa da dire è: la politica ancora non sa fronteggiarla, organizzandosi in modo da disgiungere il segreto indispensabile dal superfluo. Se quello necessario viene alla luce è sua colpa, non di WikiLeaks. In realtà i 250.000 cabli non sono affatto top secret. Sono consultabili da ben 3 milioni di funzionari americani, e disponibili in siti interni al ministero della difesa Usa (Siprnet). Nella globale ragnatela Internet le fughe di notizie (i leaks) sono inevitabili. Scrive Simon Jenkins, sul Guardian: "Un segreto elettronico è una contraddizione in termini".
Nei paesi democratici, dove l’informazione indipendente esiste, il diplomatico è alle prese con una trasparenza non di rado ostacolata come in Italia, ma tangibile. Non è cancellata dalle ghignanti foto di gruppo dei vertici internazionali, che s’accampano monotoni su giornali e tv. Gli ambasciatori a Roma o Parigi raccontano quel che leggono nei giornali più liberi, che apprendono dai blog, che ascoltano da chi non nasconde il vero.
Si dice: "Ce n’è per tutti", nei dispacci. Per il Cancelliere tedesco, il regno britannico, l’Eliseo, oltre che per Roma. Nulla di più falso. Se la Merkel appare "refrattaria al rischio e poco creativa", Berlusconi "suscita a Washington sfiducia profonda": è "vanitoso, stanco da troppi festini, incapace come moderno leader europeo". Inoltre "sembra il portavoce di Putin in Europa". Un abisso separa i due leader. Resta che nelle democrazie le rivelazioni non sono fulmini che squarciano cieli tersi, neanche da noi. I diplomatici Usa comunicano quello che da 16 anni gli italiani hanno sotto gli occhi, sempre che non se li bendino per vivere in bolle illusorie e ingurgitare "soma televisivo". Sanno dei festini in dimore private spacciate per pubbliche. Sanno che Berlusconi coltiva con Putin rapporti personali torbidi, lucrosi, di cui non rende conto né all’Europa né al popolo che pure tanto s’affanna a definire sovrano. Non c’è bisogno di WikiLeaks per conoscere la pasta di cui son fatti i governanti, per capire lo scredito internazionale che non da oggi li colpisce, per allontanarli dal potere che democraticamente hanno occupato, e poco democraticamente esercitato.
Non così lì dove non c’è democrazia e nelle aree di crisi, nonostante le verità siano in larga parte note anche qui, a chi voglia davvero sapere. Non c’è praticamente notizia che i blog non dicano da anni (Tom Dispatch, Antiwar. com, Commondreams, Counterpunch, e in Italia, nel 2005-2010, Contropagina di Franco Continolo).
L’altra cosa che va detta è che gli ambasciatori che divulgano informative non sono sempre di qualità eccellente, e forse anche questo, in America, crea imbarazzo. Nelle aree critiche - Italia compresa, dove gli equilibri democratici vacillano - non hanno idee meticolosamente maturate, né si azzardano in analitici suggerimenti e prognosi. Fotografano l’esistente, sono figli essi stessi di Internet, tagliano e incollano schegge di verità senza osare approfondimenti. Nulla hanno in comune, ad esempio, con l’immensa ricerca in cui si sobbarcò George Kennan nel ’44-46, lavorando per la missione Usa a Mosca. Il "lungo telegramma", che inviò nel febbraio ’46 al Segretario di Stato James Bynes, descrive la natura oscura del sistema sovietico: le sue forze, le fragilità, il suo nevrotico bisogno di un mondo ostile. Ne scaturì l’articolo scritto nel luglio ’47 su Foreign Affairs, firmato X: fondamento di una politica (il containment) che per decenni pervase la guerra fredda senza infiammarla.
Nulla di analogo nei dispacci odierni, ma messaggi raccogliticci, frammentari, pericolosi infine per le fonti, nei paesi a rischio. Non la forza americana è esposta alla luce, ma la sua inconsistenza. Non un impero nudo, ma una finzione d’impero che addirittura usa i propri diplomatici - colmo di insipienza e mala educazione da parte di Hillary Clinton - come spie all’Onu. L’occhio Usa non scruta il lontano ma l’oggi, sposando non pochi luoghi comuni locali. La glasnost online sbugiarda questo modo di scrutare, e non è male che avvenga. Fa vedere l’impotenza, l’approssimazione, l’inefficacia americana. Inefficacia pur sempre limitata, perché i dispacci non paiono contaminati dai conformismi di tanti commentatori italiani: difficile trovare accenni, nei cabli, alla "rivoluzione liberale" o all’epifanico ruolo di Berlusconi nelle crisi mondiali.
Il vero scandalo è lo spavento che tutto questo suscita, lo sbigottimento davanti a notizie spesso banali, solo a tratti rivelatrici (è il caso, forse, del nesso stretto Nord Corea-Iran), l’imperizia Usa nel tutelare confidenze e confidenti. Ora si vorrebbe fare come se nulla fosse, "tener viva la diplomazia" così com’è: ottusamente arcana, lontana dallo sguardo dei cittadini. Ma quale diplomazia? Nel caso italiano una diplomazia chiamata commerciale dal governo perché essenzialmente fa affari, e all’estero riscuote in realtà "sfiducia profonda".
Dicono che Berlusconi si sia fatto una gran risata, non appena letti i dispacci. Forse ha capito più cose di Frattini, perché lui la diplomazia classica l’ha già distrutta. E non solo la diplomazia ma l’informazione indipendente, e in Europa la solidarietà energetica. Forse ride delle banalità diffuse da WikiLeaks. Forse intuisce che se si parlerà molto di festini, poco si parlerà di conflitto d’interessi, controllo dei media, mafia. È il limite di Assange, enorme: avrà minato la fiducia nella diplomazia Usa, senza dare informazioni autenticamente nuove (la più calzante parodia del cosiddetto 11 settembre di Assange l’ho trovata su un sito di cinefili 1).
Resta la sfida alla stampa: sfida al tempo stesso ominosa e straordinariamente promettente. È vero: nel medio-lungo periodo crescerà il numero di chi si informerà su Internet, più che sui giornali cartacei. Ma da quest’avventura la stampa esce come attore principe, insostituibile: messa di fronte ai 250 milioni di parole sparse come polvere sugli schermi WikiLeaks, è lei a fare la selezione, a stabilire gerarchie, a rendere intelligibile quello che altrimenti resta inintelligibile caos, ad assumersi responsabilità civili contattando le autorità politiche e nascondendo il nome di fonti esposte dai leaks a massimi rischi. Alla rivoluzione mediatica ci si prepara combinando quel che è flusso (Internet) e quel che argina il flusso dandogli ordine (i giornali scritti). L’unica cosa che non si può fare è ignorare la sfida, negare la rivoluzione, opporle sante alleanze conservatrici del vecchio.
Immagino che non fu diversa l’alleanza anti-Gutenberg quando nel XV secolo apparve la stampa, e anche allora vi fu chi, con le parole di quei tempi, parlò di un 11 settembre contro gli establishment: politici e culturali, delle chiese e degli imperi.
* la Repubblica, 01 dicembre 2010
"In molti chiedono la destituzione di Bertone"
«Il Papa irrita i politici e i giornalisti». «Più voci chiedono la destituzione di Bertone». «Il Vaticano
è una città che non comunica».
Gli ultimi dispacci diramati in ordine di tempo da Wikileaks si
concentrano sulla Santa Sede. E il giudizio che emerge dai rapporti dei diplomatici americani non è
dei più teneri.
di Marco Ansaldo la repubblica” dell’11 dicembre 2010
A diffonderli è Julieta Valls Noyes, a capo delle relazioni con il Vaticano per l’ambasciata degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Alcuni dei suoi cablo riguardano il cardinale Tarcisio Bertone, che la diplomatica giudica come «uno yes man» (un uomo che dice sempre sì), che non ha alcuna esperienza diplomatica («parla solo italiano»). «Bertone ha uno stile pastorale - dicono i dispacci Usa - che lo porta spesso fuori da Roma, in giro per il mondo, o a occuparsi dei problemi spirituali più che della politica estera e della gestione». E addirittura si legge: «Non sono poche le voci che chiedono la destituzione del cardinale Bertone».
Le carte del Dipartimento di Stato filtrate da Wikileaks che si riferiscono al Vaticano raccontano l ’incontro fra due Imperi, e svelano in realtà lo scontro culturale fra un Paese moderno, democratico e dinamico e un sistema di potere monarchico, millenario ed ermetico. Gli americani comprendono l ’importanza di tenere il Vaticano come alleato, e lamentano di non avere influenza su una Curia che i suoi diplomatici giudicano come «italiano-centrica, criptica e antiquata».
Un cablo confidenziale del febbraio 2009 qualifica il Vaticano come «not spin city» («una città che non comunica»), critica «la debolezza della leadership nella Cupola», e dice con allarme che il nucleo intimo del Papa «ha pochi consiglieri che parlano inglese», concludendo che la Curia «non sfrutta (se non le ignora completamente) le comunicazioni del XXI secolo». L’ambasciata annota inoltre «l’assenza di voci dissidenti».
In un altro cablogramma datato 27 gennaio 2009 (numero 189059), qualificato come segreto, e scritto dopo la crisi causata dal perdono del Pontefice ai lefebrviani, e intitolato "L’Unità della Chiesa", al punto 1-Relazioni fra cattolici ed ebrei, Valls scrive: «Il Vaticano è un compagno formidabile che ha bisogno di lezioni in relazioni pubbliche».
I dispacci toccano con abbondanza anche l’anno in corso, dando una visione dettagliata delle difficoltà vissute dalla Santa Sede nel 2010. E si diffondono nello spiegare i dettagli riguardanti il caso della pedofilia, il ritorno dei lefebrviani, i problemi del dialogo con gli ebrei e gli anglicani. Ma soprattutto descrive «i disastri della comunicazione». «Nel Vaticano il Papa è il responsabile ultimo delle decisioni importanti», si legge, «ma dovrebbe delegare a coloro che sanno di più oppure sono informati sulle materie specifiche».
I file Usa sul Vaticano: «Un potere antiquato ma utile come alleato»
di Viviana Mazza (Corriere della Sera, 11 dicembre 2010)
Nuovi dispacci confidenziali, compilati dall’ambasciata Usa presso la Santa Sede e diffusi da Wikileaks, rivelano che i diplomatici americani considerano la Santa Sede una fonte di informazioni importantissima per i suoi contatti che vanno dalla Cina alla Corea del Nord, dal Medio Oriente a Cuba. Ma al tempo stesso gli americani confidano nei loro rapporti che «l’influenza vaticana è sovrastimata» e che molti dei suoi esponenti sono anziani, provinciali e poco al passo con la tecnologia.
Da note redatte da Julieta Valls Noyes, vicecapo della rappresentanza Usa in Vaticano, emerge un ritratto ben poco lusinghiero della Curia: il segretario di Stato, cardinal Tarcisio Bertone, è uno «yes man» senza esperienza diplomatica che «parla solo l’italiano»; l’unico ad avere il BlackBerry è il portavoce Federico Lombardi «ma non ha accesso al Papa», e pochi hanno l’email. «Sono quasi tutti settantenni, e non capiscono i media moderni né le nuove tecnologie», osserva Noyes. La Città del Vaticano «non è una spin city», (gioco di parole che trasforma «la città senza peccato (sin) » nella «città che non sa orientare l’informazione (spin) ».
Altri dispacci, citati dal Guardian, rivelano che l’ambasciatore britannico presso il Vaticano Francis Campbell temeva che l’invito del Papa agli anglicani che si oppongono al sacerdozio femminile di convertirsi in massa al cattolicesimo avrebbe potuto portare alla violenza contro i cattolici in Gran Bretagna. Sempre secondo i file, nel 2009 il Vaticano rifiutò il permesso ad alcuni suoi funzionari di testimoniare davanti alla Commissione irlandese che indagava sull’abuso di bambini da parte di religiosi.
Ci sono però anche rapporti che testimoniano della convinzione americana del potere internazionale del Papa. Noyes dichiara che «il Vaticano contribuì a far rilasciare» i 15 marinai britannici catturati dall’Iran nel 2007. Il Papa è ritenuto responsabile della resistenza del Vaticano all’accesso della Turchia all’Ue. Già da cardinale, nel 2004 Ratzinger espresse scetticismo verso l’adesione della Turchia, mentre il Vaticano era neutrale. Il Papa voleva che ci fosse un riferimento alle «radici cristiane» dell’Europa nella Costituzione Ue. Pensava inoltre di servirsi della Polonia come cavallo di Troia per diffondere i valori cristiani in Europa. Il portavoce vaticano, padre Lombardi, ha detto ieri che i dispacci contengono «le percezioni e le opinioni di chi li ha redatti e non possono essere considerati espressione della Santa Sede».
Ci sono anche nuovi file sull’Eni. Nel 2009 l’ambasciatore Usa in Uganda scriveva di credere che l’Eni aveva pagato mazzette a ministri locali per aggiudicarsi la partita, poi persa, per acquisire i pozzi petroliferi della Heritage. Secondo altri file, Caracas manipola i prezzi del greggio e accetta ultimatum sui contratti anche dall’Eni: l’ad Paolo Scaroni avrebbe detto a Caracas «o accettate o prendo un aereo». L’Eni ha smentito e annunciato querele. Il fondatore di Wikileaks Julian Assange intanto è da ieri in cella di isolamento a Londra. Ma ha un computer con accesso limitato a Internet per preparare la difesa contro la richiesta di estradizione della Svezia, dov’è accusato di stupro e molestie sessuali. Gli avvocati temono una «imminente» incriminazione negli Usa per spionaggio per aver diffuso i file sulla diplomazia Usa.