Le idee di Peter Sloterdijk hanno conquistato Habermas e gli studiosi francesi
La filosofia è un personal trainer
Ora esce in Italia uno dei suoi saggi più importanti. Per "allenarci" a un’altra vita
"Non si può sperare di cambiare il mondo ma solo di migliorare se stessi"
"Si deve ritrovare il senso della disciplina come pratica e come metodo"
di Marco Filoni (la Repubblica, 22.10.2010)
Quando Peter Sloterdijk scrive un libro, in Germania e in Francia, diventa un evento. Da noi non è ancora così noto. Eppure il filosofo di Karlsruhe, classe 1947, domina la scena tedesca come non succedeva da decenni. Già nel 1983, il suo esordio con la Critica della ragion cinica viene definito dal decano Jürgen Habermas come l’avvenimento più importante dopo il 1945. Perché mina i principi dell’Illuminismo e propone un maquillage del cinismo greco per uscire dallo stallo del moderno.
Da quel momento diventa un riferimento: con le sue eccentriche, ma solidissime, ricerche colma il vuoto di tante asfittiche variazioni filosofiche. Affrontando, anche in modo provocatorio, la concretezza dei problemi attuali. Lo dimostra il suo ultimo libro, Devi cambiare la tua vita, in libreria per Raffaello Cortina. In Germania ha venduto 50.000 copie in soli due mesi. Un record per un libro di filosofia di quasi 600 pagine. Un libro nel quale, analizzando la condizione umana, Sloterdijk ci dice che siamo alla deriva. Ma possiamo salvarci con l’allenamento, praticare esercizi che ci migliorino. Dobbiamo cambiare vita.
Professore, cosa significa questo imperativo?
«È quello che io chiamo imperativo assoluto. Una sorta di provocazione insormontabile. Che si muove su una sconvolgente scoperta, fatta agli inizi delle così dette civiltà avanzate: l’uomo è un essere stratificato. Del resto l’idea è presente, ai giorni nostri, nell’opera di Freud. Quando descrive l’anima la raffigura come una regione su tre piani: nel solaio, al primo piano, abita il super-io; nel pianoterra c’è l’io; nello scantinato c’è l’es. Da questa stratificazione si sviluppa quella che chiamo tensione verticale».
Lei raffigura questa tensione come una scalata, un’ascensione verso il miglioramento di noi stessi. Ma quali sono i mezzi per compiere questa scalata?
«La vita dell’essere umano non è soltanto una vita omogenea, pacificata e felice. Sente una tensione verso l’alto, una competizione a essere migliore rispetto ai suoi simili e a sé stesso. Un’idea espressa nei sistemi di esercizio antichi. I primi a incarnare questo modello, nella tradizione occidentale, sono stati gli atleti. Ma poco a poco si è generalizzato, è diventato un’ambizione di vita che ha formato il nucleo della nostra concezione filosofica della paideia, l’educazione. La paideia classica dei greci è una sorta di democratizzazione delle pretese atletiche. Non a caso Platone ha forgiato il termine philo-sofia sul modello della parola più antica philo-timia, che designava la virtù degli atleti a lottare per l’amore della gloria».
È una tradizione riscontrabile solo nei greci?
«No, affatto. La storia continua con il cristianesimo. I primi monaci orientali si erano denominati atleti di Cristo. E vivevano nell’asketeria, cioè luogo di allenamento: questo il primo nome di quello che più tardi avremmo chiamato monastero. Perciò i primi cristiani si allenavano a imitare il Cristo, l’essere umano che ha raggiunto la cima dell’autoperfezione divenendo il figlio di Dio, sviluppando la facoltà di vincere la morte e realizzare così l’ascensione verso il cielo. In questo senso la verticalità è l’idea più radicale della nostra storia. Imitare il Cristo è partecipare a un gigantesco esercizio di antigravitazione umana. I primi cristiani erano tutti discepoli dell’arte dell’antigravitazione».
Eppure nelle sue pagine lei ipoteca la religione. Addirittura sembra voler spogliare la teologia del suo carattere divino.
«Il mio proposito è far cadere il concetto di religione. È una conseguenza che traggo dalla teoria generale dell’esercizio. È più giudizioso descriverla con una terminologia legata all’allenamento. Quindi propongo una naturalizzazione del concetto di religione per esprimere la sua verità in termini immunitari. La religione è il primo sistema immunitario dei gruppi umani, un sistema d’immaginazione che promette loro la salvezza. Ma la salvezza non è gratuita: è il risultato di un’attività permanente, uno sforzo di solidarizzazione collettiva che dovrà essere regolarmente ripetuto. Solo così gli uomini possono immunizzarsi contro la paura della morte e della dannazione eterna. E questa immunità è acquisita attraverso l’allenamento».
Il sottotitolo del suo libro è Sull’antropotecnica. Cos’è?
«La definisco come la somma degli esercizi e delle pratiche attraverso le quali gli esseri umani elaborano il loro potenziale. Allo stesso tempo è la somma delle tecniche che gli individui utilizzano per mettersi in forma. Quindi un ambito della conditio humana che bisogna finalmente integrare nell’antropologia generale».
E quali sono le conseguenze politiche?
«L’antropotecnica nasce nella sfera politica durante la rivoluzione russa. I rivoluzionari sono stati i primi a fare apertamente la propaganda del miglioramento dell’uomo. In origine il termine compare nell’enciclopedia sovietica del 1926. Nasce dall’ideologia di Trotsky, che voleva creare una nuova umanità con un livello medio più elevato. Ovvero un mondo di geni, in cui al confronto Goethe o Michelangelo apparissero addirittura mediocri. Si può dire che è la ricezione dell’idea nietzscheana del superuomo asservita all’ideologia rivoluzionaria. In rapporto a ciò, oggi l’ideologia cattolica predica la modestia: l’uomo è così com’è. Anzi, meglio che vi rimanga più a lungo possibile. È un atletismo piatto, uno sport di massa senza vere ambizioni. Si è perduta la grande tensione dell’età classica. La generazione contemporanea ha dimenticato il concetto di antigravitazione e di tensione verticale. E se vi è un elemento pedagogico nel mio libro, consiste nella volontà di ricordare questa dimensione».
Quindi il filosofo oggi è una specie di allenatore che deve contribuire a indicare gli esercizi per esser migliori. C’è una certa assonanza con l’idea di Alexandre Kojève, che diceva di non esser più interessato ai filosofi ma soltanto ai saggi...
«In un certo senso ha ragione. La filosofia in quanto tale ha già giocato la sua ultima carta. E non ci si può più attendere molto da lei. Ma bisogna dire che il saggio kojèviano è legato al compimento del sapere, alla chiusura del grande ciclo della riflessione umana. Dopo il desiderio, dopo la storia, dopo la lotta, il saggio partecipa al Sapere Assoluto o lo realizza lui stesso. Un’idea molto stimolante e seducente, ma riservata a chi oggi può permettersi di vivere di rendite, senza la costrizione del lavoro. Ma tutti noi che invece continuiamo a lavorare siamo fuori portata dalla tentazione kojèviana. Per noi la storia continua, il lavoro continua...».
Quindi oggi a che serve la filosofia?
«Ci sono due risposte contrastanti. Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, e negli anni che seguirono, la risposta era: la filosofia serve a interpretare e preparare il miglioramento del mondo. Così però la filosofia è una sorta di serva della sociologia, come nel Medioevo si diceva lo fosse della teologia. C’è poi una seconda risposta, accennata nel secolo scorso e che va ripresa: prima di migliorare il mondo esterno, l’individuo deve migliorare sé stesso».
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa
FLS
Socrate, Gesù, Alessandro Magno: la Storia è una rottura generazionale
Dal mondo antico ad oggi, l’uomo si compie nel momento della cesura della trasmissione culturale con gli avi
di Pietrangelo Buttafuoco (Il Fatto, 10.12.2018)
I parenti meno prossimi sono proprio i più intimi, il padre e la madre: “Quale bambino”, si domanda Zaratustra, “non avrebbe ragione di piangere per i suoi genitori?”.
Friedrich Nietzsche fa un ammonimento a se stesso. Cestina, tra le ingenuità, il divieto biblico - “Tu non ucciderai” - e ai décadents raccomanda una rottura rispetto all’ascendenza: “Voi non procreerete!”. Anche la preghiera più sentita, il Pater, segna una cesura verso il continuum genealogico - “lo spezza”, dice Peter Sloterdijk, filosofo - e un padre differente, che sta nei cieli, si accompagna a un figlio differente.
Nel Corano è così recitato: “Da Lui veniamo a Lui torniamo”. Nella civiltà cristiana questa prossimità celeste si alimenta - grazie all’esemplarità dei santi, Francesco d’Assisi su tutti - con l’imitatio Christi, e ancora Sloterdijk, nel suo I figli impossibili della nuova era, un’indagine sul ruolo del bastardo nella frattura generazionale, così s’interroga: “Ogni persona ragionevole non farebbe bene a fare ritorno in Lui e ‘in lui’ il più presto possibile?”.
L’editrice Mimesis ha dato alle stampe la traduzione italiana di questo saggio - Sull’esperimento anti-genealogico dell’epoca moderna è il sottotitolo - attraverso cui, Sloterdijk, autore celebrato di Critica della Ragion cinica e di Sfere, già rettore a Karlsruhe della Staatliche Hochschule fur Gestaltung, indaga i processi generazionali e i loro esiti teorici. Socrate, Edipo, Gesù - ma anche con il Sikander, ovvero Alessandro il Macedone, con Giove Ammone, suo diretto padre, ancor più che il genitore Filippo - i modelli fondati da antenati remoti, trovano un’altra scelta.
Le riproduzioni decisive, infatti, trovano fonte sempre nell’oltretomba, ma gli imperativi rituali, veicoli di doveri essenziali, nella frattura “bastarda”, adottano un’ulteriore opzione. E così è nel palcoscenico della storia.
Il passaggio dal mondo degli avi a quello dei discendenti è una catena di imitazioni confidante in una stabilità che eviti, in qualunque modo - al prezzo di una totale appartenenza - un’esclusione mortale: “Non esistono pensieri più bui”, scrive il filosofo, “di quelli per cui i divini antenati, a cui si deve ciò che si è, non siano stati altro che gocce nell’oceano di possibilità migliori”.
L’avvento del bastardo - la cesura generazionale, la frattura che sorge dalla scoperta di un altro mondo possibile - riavvolge il filo genealogico al punto di “non lasciare intentato nulla di ciò che favorisca, per quanto lo riguarda, l’ascensione al cielo”.
La crisi immedicabile dell’umano è nell’estrema misura del possibile. Il possibile si misura nell’esatto computo di ciò che sta in terra. La paternità è radice, gea è generatrice. L’ulteriore decantazione impegna l’oscuro oggetto della continuità. Appunto, Francesco, un figlio impossibile in questa nostra nuova era: “Finora su questa terra ho chiamato Pietro Bernardone padre mio, d’ora in avanti io voglio dire Padre nostro che sei nei cieli...”.
Imprigionato nei Quaderni neri
di Peter Sloterdijk (Le parole e le cose, 9 dicembre 2016)
In Fichte si deve scorgere il fondatore della filosofia della storia, sia sotto un profilo cronologico sia sotto un profilo logico. Nella sua opera del 1804 I tratti fondamentali dell’età presente Fichte descrisse lo schema della storia mondial-filosofica come quel processo del mentale perdersi e ritrovarsi, che diventò matrice di tutto ciò che più tardi, in diverse declinazioni, e gradi differenti, fu chiamato filosofia della storia, processo progressivo, storia dello spirito e infine storia dell’essere.
In quell’opera Fichte delinea uno schema della storia spirituale del mondo in cinque gradi. Spetta un rango intermedio all’epoca presente, concepita come terzo atto del grande dramma. Il presente coincide con una crisi di civiltà senza quartiere. Nel terzo stadio dello spirito Fichte vuole riconoscere «l’epoca della piena peccaminosità», cioè l’era della estraneazione assoluta e della sottrazione violenta del singolo da ogni verità unificante. Questo eccesso di critica torna in Heidegger che, in una citazione quasi letterale da Fichte, definisce il proprio presente «l’età del pieno oblio dell’essere». La prossimità di Heidegger a Fichte affiora inoltre nella possibilità, prospettata sia da lui che dal furioso idealista, di pensare il risanamento dell’«oblio» (della «peccaminosità») solo come opera del ricordo. Fichte concepisce ovviamente il ricordo come l’esito del progresso del genere umano: è così che, nel quarto e nel quinto atto del dramma, l’umanità riesce a liberarsi dall’aberrazione. Dopo la discesa sino alla estraneazione estrema, è l’ascesa in programma verso la riappropriazione.
Heidegger, invece, delinea all’orizzonte un ricordo salvifico inteso come evento di cui, da parte umana, non si può disporre. Non siamo noi a ricordarci, quando ci piace e pare di ricordarci. L’Essere si ricorda di noi, mediante noi - o forse no. Questa prospettiva non vale, inoltre, per gli appartenenti a quel genere, cui non è possibile comunque prestare soccorso, bensì solo per quei “pochi” assennati, che chiama anche gli «unici».
Alla fine degli anni Trenta Heidegger sviluppò una forma di critica del presente che non ha quasi precedenti. Dopo il 1933 aveva sperimentato come i suoi interventi dilettanteschi negli sconvolgimenti politici del tempo erano finiti sotto le ruote delle reali battaglie di potere. Fu in seguito che emerse un nuovo modo di discutere la situazione del presente in cui il suo errore avrebbe dovuto divenire la chiave per decifrare la storia del mondo. Si possono leggere i passi corrispondenti dei Quaderni neri come una rimobilitazione delle tesi sul “si”, sul Man, in Essere e tempo. Verso la fine degli anni Trenta si produce nel Man una polarizzazione dove i molti e i pochi si separano, senza cessare per questo di essere Man.
Nelle Überlegungen di Heidegger risuonano le reminiscenze dell’antica distinzione tra hoi polloi e hoi oligoi. Se nel pensiero classico, però, i molti giocano la parte della volgarità e dell’esistenza vegetativa, mentre i pochi rappresentano l’aristocrazia e l’esistenza piena di spirito, con un golpe Heidegger finisce per abrogare questa distinzione. Deluso dalla sua escursione nella “politica”, stabilisce che i pochi (in termini moderni le élites), quanto a smarrimento, non sarebbero da meno dei molti. Al contrario, i pochi - gli oligarchi della modernità - rappresentano la punta della lancia di quel che tradizionalmente si imputa ai molti inconsapevoli. I pochi sono i molti, ma nel modo peggiore.
Per Heidegger l’essenza della modernità, così come si rivela nel bolscevismo, nel nazionalsocialismo, nell’anglicismo o nell’americanismo, è una oligarchia onnicomprendente. Questa nuova tesi sull’oligarchia consente a Heidegger di proporre le sue famigerate equiparazioni tra grandezze ineguali: comunismo e liberalismo sono tutt’uno. L’agricoltura meccanizzata e la produzione di cadaveri nei lager vengono dalla stessa fonte. Fascismo e democrazia sono la stessa cosa. «Gli antifascisti sono gli infimi schiavi di quel grande fascismo che in America e in Russia si chiama democrazia»[1]. Il mondo viene accecato da differenze apparenti e perciò trattenuto dal riflettere su ciò che è propriamente vero.
I Quaderni neri appartengono al patrimonio della de-differenziazione. Gli oligarchi sono per Heidegger non già i ricchi (per i quali il termine adeguato sarebbe plutocrati), bensì tutti coloro che figurano in cima a quelle piramidi di potere dimentiche dell’essere. La moderna oligarchia costituisce un mob ontologico che non si ferma davanti a niente e a nessuno[2]. E non importa che parli inglese, russo, tedesco o francese.
Il dominio dei pochi, democraticamente mascherato, non sarebbe certo praticabile, se la tendenza dell’epoca, l’oblio dell’essere che agisce autorizzando tutto, non gli spianasse la strada. Quel mob di pochi, che governano per lo più in modo anonimo (sebbene di tanto in tanto mandino avanti portatori di nomi di culto come Stalin o Hitler), è a sua volta solo strumento di una tendenza più comprensiva, di qualità “ontostorica” e con ciò destinale. Convenzionalmente viene chiamata “tecnica”. Heidegger germanizza l’espressione traducendola con la parola idiosincratica Machenschaft, macchinazione. Attraverso le accezioni dell’espressione tedesca la tecnica viene stigmatizzata come fenomeno dell’ingiustizia ontologica.
Se la modernità è l’epoca della Machenschaft, senza aggettivi, la questione che si pone è se sia concepibile un tempo “dopo di essa”. Dato che le rivoluzioni sono realizzate, secondo natura, in modo macchinoso, la svolta verso un reale “poi” dovrebbe compiersi senza macchinazione.
Chi sarebbero, però, gli agenti, ovvero i mediatori, e i mezzi, di questa rivoluzione non rivoluzionaria? Anche per questa domanda Heidegger sembra aver pronta una risposta, seppure molto provvisoria e insufficiente. Una volta che la classica distinzione tra i molti e i pochi è divenuta ai suoi occhi inutilizzabile, occorre fare una scelta ulteriore tra i pochi, per trovare quei rari che non sarebbero gli agenti della macchinazione.
I rari, scelti tra i pochi, vengono chiamati nei Quaderni neri gli «unici». Qui Heidegger sembra non darsi insolitamente cura della terminologia, come se non sapesse di calcare, con quella espressione, il terreno sdrucciolevole dello stirnerianismo. Che avesse presente il pericolo? Forse avrà pensato a Kierkegaard piuttosto che a Stirner. Il filosofo danese aveva osato opporre il singolo credente all’universo storico della chiesa, anzi all’intera communio sanctorum, per sganciarlo dal consenso del collettivo. Quel che in Kierkegaard si chiama “fede” è un “salto”, un golpe contro la verosimiglianza e suoi gruppi comunitari d’ausilio. La chiesa danese del 1848 è il prototipo del Man, del “si”.
Sotto questo aspetto Heidegger resta un kierkegaardiano e, come tale, un antisociologo senza speranza. L’unica “società”, a cui può pensare, sarebbe una “contro società” di non-seguaci della macchinazione, fra loro quasi svincolati. Come dovrebbe essere immaginata? Forse come una rete impercettibile di altruisti che, dopo essere stati eletti vescovi, sono andati a rifugiarsi nelle stalle per le oche.
La critica di Heidegger al mondo presente riprende un motivo che originariamente era stato sviluppato da Agostino, il patriarca della critica cristiana all’egoismo. Non è difficile seguire il modo in cui la prima Inquisizione cattolica andò estendendo la critica, rivolta dapprima contro il satana ispirato dall’egoismo, a una critica moderno-scettica della soggettività, in seguito a una critica della razionalità e della volontà di potenza, per sfociare poi in una critica della macchinazione. Si fa strada qui l’idea che il mondo, nel suo complesso, sia una falsificazione.
L’unica maniera per rimetterlo a posto consisterebbe in una conversione integrale dei falsificatori. Hannah Arendt ha certamente ragione quando in Heidegger vede all’opera la tradizione sotterranea della antica gnosi occidentale. Solo che in Heidegger, al posto dello stolto demiurgo, è subentrata la soggettività intramondana. Che la falsificazione del mondo sia da imputare a un dio incompetente (che poteva esercitare la creazione solo come falsificazione di quel che doveva creare) oppure a una civiltà soggettivistica, non è in fondo decisivo per il giudizio sulla falsificazione. Significativo resta invece non divenire succubi del mondo falsificato e mantenere il ricordo del dio estraneo e dell’altro inizio che ha ispirato.
Non voglio mancare qui di onorare Heidegger come autore che ha introdotto nella filosofia lo slapstick[3]. Nelle Überlegungen XIII cita indirettamente Agostino che aveva definito il peccato in senso esistenzial-formale come incurvatio in se ipsum, incurvatura in se stessi. In Heidegger ciò è reso così: «L’avvitarsi della vita su se stessa è lo scatenamento dell’esperire nell’assenza di misura e di rango di un inarrestabile sorseggio»[4].
[...] Vorrei infine aggiungere alcune osservazioni sull’“antisemitismo” di Heidegger. A tal fine occorre muovere dalla sua teoria del linguaggio. Heidegger aveva capito che un segno non equivale a un segno, il linguaggio non equivale al linguaggio. Ai suoi occhi, o alle sue orecchie, c’è un linguaggio prima del linguaggio. Prima della molteplicità delle lingue, in cui si può dire questo e quello, si muove un lógos, che dice quell’Uno, che deve essere detto. Occorre figurarsi ciò nel senso che è necessario distinguere tra la lingua come medium della comunicazione condizionata e la lingua come medium della missione incondizionata.
Se il linguaggio è medium della missione incondizionata, allora ne risulta una conseguenza inquietante. Heidegger si vede proiettato al centro di questa inquietudine, dato che intravede una lotta tra varie assolutezze. Le missioni incondizionate sono inizialmente legate alle culture che impongono ai propri membri di assumerle come tali. In seguito le missioni vengono impartite da programmi spirituali che vanno al di là dei confini delle singole culture.
Tipici commissionari sono da sempre quegli individui, disponibili nella comunicazione mediatica, i quali dalle culture provengono. Si possono in fondo distinguere tre forme di discorso che affida una missione incondizionata. -Anzitutto quello profetico, nel quale il singolo essere parlante viene chiamato a essere mezzo degli interventi di Dio nelle vicende della vita. A questo si aggiunge inoltre il discorso poetico evocativo che si rivolge a coloro che, nelle culture, sono dotati di sensibilità, per comunicare loro una disposizione d’animo comune. E infine vi è il discorso filosofico che mira al consenso degli avveduti (per non trattare qui la loro mediale figura di decadenza, cioè la moderna produzione ideologico-propagandistica di rarefatto etere di menzogne).
I tre lógoi vengono associati a tre ambiti di provenienza, ovvero a tre contesti funzionali. Al modo profetico sono da annoverare i discorsi ebraici, cristiani e islamici. Qui emerge che il monoteismo non è possibile senza collisioni interprofetiche. Al modo poetico corrispondono le opinioni pubbliche nazionali i cui membri sono in grado di comprendere entusiasmanti e spesso intraducibili tonalità musicali della lingua. La parola di Goethe Weltliteratur, “letteratura mondiale”, evoca la concertante coesistenza delle poesie. È la volta, quindi, del discorso filosofico, che pensa di poter essere efficace ovunque. Viene però privato della sua efficacia dalla entropia delle inesauste discussioni laceranti e, alla fine del giorno accademico, svanisce in scepsi.
Su questo sfondo si staglia il personaggio tragicomico di Heidegger. Pronto a fungere da medium dell’Essere, che voleva parlare, fu incapace di distinguere persino i modi contradditori della medialità. Alla fin fine sembrava come se, in un confuso slancio di profetismo, avesse voluto unificare, in un punto focale, filosofia e poesia. Per quel che attiene al rapporto tra profezia e filosofia, la sua ambizione non era del tutto priva di prospettive. In effetti si può intendere la filosofia come una forma di profezia concettuale, altrettanto entusiastica, altrettanto indispensabile, e di regola altresì vana. Sarebbe facile illustrare ciò nella produzione del neokantismo ebraico-tedesco, in particolare nell’opera di Hermann Cohen.
Heidegger rovinò tutto, facendo la caricatura del profetismo ebraico ridotto a una divinazione al servizio della Machenschaft. Non entro qui nel merito della questione se questa cruda e sbagliata concezione vada attribuita al complesso dell’“antisemitismo”. Nel contesto dei Quaderni neri gli ebrei non compaiono come attori, bensì come coloro che danno l’input a fatalità che avrebbero comunque potuto abbattersi sul mondo.
Nel contesto attuale si dovrebbe dire che la scortesia di Heidegger verso «ciò che è ebraico» era espressione di una inesplicabile rivalità profetologica. Se Heidegger fosse stato capace di un confronto aperto, avrebbe dovuto dire e provare che il veggente dello spazio greco-germanico vede e sa più del profeta del Medio Oriente con tutti i suoi discendenti ecclesiali. Heidegger non ne fu capace. Restò lui stesso, da martinista qual era, essenzialmente un profeta cripto-ebraico che reca conforto ai perdenti della storia, agli umili e ai semplici. In questo ruolo gli resta una parola di conforto anche per il proprio esorbitante sé di un tempo, umiliato dal corso del mondo.
L’opera tarda di Heidegger costituisce un’opera d’arte del naufragio. È qui che mette allo scoperto le carte della sua impotenza. Cerca rifugio nella poesia, senza essere poeta. Quel che in ultima istanza postulava, senza poterlo dire esplicitamente, era diventare uno Isaia con la forza di parola di uno Hölderlin e quella di pensiero di un certo professore di Friburgo. Sembra che abbia trovato alla fine una via per perdonarsi il fallimento.
Chi era l’autore che in una poesia autobiografica aveva scritto: «Sappiamo di essere caduchi. Dopo di noi non verrà nulla degno di nota»?
[1] M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), GA 97,
Klostermann, Frankfurt 2015, p. 249. Il passo è forse del 1946.
[2] Mob vuol dire in inglese ressa, moltitudine [nota del traduttore].
[3] Slapstick (abbreviazione di slapstick comedy) è un sottogenere del film comico.
[4] M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), cit. p. 80.
La società schiumosa
Conversazione con il filosofo erede di Nietzsche: la nostra epoca è insicura, il mondo senza centro
Siamo sfere che esplodono e implodono
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 6.12.2015)
Vorrei iniziare il nostro dialogo dal tema del terrore. Ho letto in questo periodo commenti che mi sono parsi dettati da una forte reazione emotiva. Come se il clima bellico influisse anche sui media. In diverse circostanze lei ha detto che il terrore moderno ha una lunga storia e risale almeno alla rivoluzione francese e all’uso della ghigliottina. Il terrore è inscritto nella democrazia?
PETER SLOTERDIJK - Certamente. Democrazia vuol dire non avere più bisogno del terrore. Qui parla l’hegeliano che è in me: il terrore è uno stadio inaggirabile nel cammino verso lo Stato moderno. Bisogna avere attraversato il terrore per aprirsi alla democrazia. Ma proprio per questo il terrore resta un aspetto della politica nella modernità.
DONATELLA DI CESARE - Ritengo però che il terrorismo attuale sia un fenomeno postmoderno. Sbaglia chi usa con una certa facilità l’etichetta «barbarie», perché questo impedisce di considerarne la complessità. E credo che sia anche una grossolana semplificazione interpretare quel che avviene come il conflitto tra la religione (o le religioni) da un canto e la democrazia illuminata dall’altro.
PETER SLOTERDIJK - Non vorrei fare dell’islamismo una ideologia. Pur essendo un critico della religione, vedo qui un abuso della religione che, ridotta a un legame costrittivo, viene piegata a fini politici, primo fra tutti quello di costituire una comunità. DONATELLA DI CESARE - A questo proposito credo che il presunto «Stato islamico» sia anche una disposizione d’animo molto diffusa non solo in Medio Oriente, ma nelle periferie delle metropoli occidentali.
PETER SLOTERDIJK - I terroristi sono per me attivisti del «terzo sogno», del sogno islamico che si oppone a quello americano. Ecco perché sono postmoderni: da un canto abitano nella realtà virtuale del XXI secolo, dall’altro fuggono nel passato del VII secolo. Mentre usano internet, attraversano il deserto - la testa piena di miti e sogni. E a questa paranoia favolistica ed eroica convertono molti giovani.
DONATELLA DI CESARE - Che cosa li spinge a farsi esplodere? Non mi convince l’idea che - come alcuni hanno insinuato - abbiano un concetto di vita diverso dal «nostro». Ho l’impressione che ci sia un tratto apocalittico nella loro decisione di dare e darsi la morte.
PETER SLOTERDIJK - Direi che sono acceleratori dell’incendio. Per capire l’esito nichilistico delle enormi frustrazioni accumulate da questi giovani, occorre rileggere le analisi di Nietzsche e di Schiller sul risentimento. Parlerei di una fenomenologia della umiliazione. È grazie a un contatto più o meno superficiale con l’ideologia jihadista che una enorme riserva di sentimenti negativi assume una direzione politica. La criminalità spicciola assurge ad azione bellica. Il piccolo delinquente - e nessuno di questi giovani vuole esserlo, sebbene molti di loro purtroppo lo siano - si muta allora in combattente.
DONATELLA DI CESARE - Ecco allora il loro riscatto, la loro redenzione.
PETER SLOTERDIJK - Sì, vengono riscattati dalla guerra. Qualcosa di analogo è accaduto d’altronde nell’agosto del 1914, quando in migliaia celebrarono l’inizio del conflitto mondiale, pervasi quasi da un’estasi, come se, diventando vittime sacrificali, venissero nobilitati. Questo per me vuol dire che occorre evitare di conferire alla lotta al terrorismo lo statuto di guerra. E vuol dire anche che questa ondata di terrorismo non durerà più di un paio di anni. Il rischio è invece che la democrazia regredisca a non-democrazia.
DONATELLA DI CESARE - Non crede allora che ci troviamo all’inizio di una guerra globale dove non esistono più fronti?
PETER SLOTERDIJK - Certamente. Ma già da decenni siamo in questa mobilitazione totale che volge verso l’incerto, dove tutti combattono contro tutti, e dove - come aveva già detto Karl Jaspers nella sua opera del 1930 La situazione spirituale del tempo - non ci sono più fronti.
DONATELLA DI CESARE - Convivere con chi è estraneo è la sfida del nostro tempo.
PETER SLOTERDIJK - Proprio così. Il fenomeno epocale del nostro secolo è l’enorme spostamento di masse che con un termine troppo riduttivo chiamiamo emigrazione. Questo fenomeno non finirà in tempi brevi.
DONATELLA DI CESARE - Vede come causa di questo fenomeno motivi peculiari oltre, s’intende, le guerre locali, le dittature e la fame?
PETER SLOTERDIJK - Non dobbiamo sottovalutare la portata enorme del cambiamento climatico. La spogliazione della terra ha assunto proporzioni inimmaginabili. Continuiamo a chiudere gli occhi. Anche i filosofi dovrebbero occuparsi molto di più della questione delle fonti di energia. È una filosofia sociale che non è stata ancora scritta.
DONATELLA DI CESARE - E poi? Quali altri motivi scorge dietro lo spostamento di masse?
PETER SLOTERDIJK - I media occidentali non fanno che trasmettere immagini di una vita ricca e confortevole. Si tratta di una vera e propria forma di evangelizzazione. Milioni, miliardi di uomini e donne si sono già convertiti e si convertiranno a questa forma di vita.
DONATELLA DI CESARE - La religione di un capitalismo globale.
PETER SLOTERDIJK - Ho cercato di mettere tra parentesi il concetto di «religione». Perché la religione era prima il legame che teneva insieme una società. La modernità ha reso la religione una sorta di ermeneutica dell’esserci, il mezzo di una introspezione di sé. Prima non sarebbe stato possibile. Così la religione entra in conflitto con l’arte o con la filosofia.
DONATELLA DI CESARE - A questo proposito vorrei rivolgerle una domanda che riguarda la sua biografia. So che lei è andato per un periodo a Poona in India; ha seguito l’insegnamento del Bhagwan Shree Rajneesh, figura di rilievo del misticismo indiano, ed è diventato sannyasin , raggiungendo dunque un grado importante dell’induismo. La teoria critica della scuola di Francoforte - almeno così mi immagino - doveva essere la sua patria teoretica. Come mai l’ha lasciata? E per seguire inoltre un’esperienza intimistica? Certo, in quel periodo era quasi ovvio passare da Marcuse al Siddharta di Hermann Hesse. Ma addirittura un viaggio in India...
PETER SLOTERDIJK - Erano gli anni della sperimentazione, della psicoterapia, della meditazione di gruppo. Il nostro viaggio a ovest era terminato da tempo; quello a est non era ancora iniziato. La mia avventura in India durò circa quattro mesi. Avevo scritto una tesi di dottorato all’Università di Amburgo sull’autobiografia come genere filosofico. Era un periodo complicato per la Germania, in cui si chiudeva drammaticamente la lotta armata della Rote Armee . Sono partito per l’India nell’autunno del 1979. Non solo ho avuto molti impulsi, ma mi sono costruito una nuova identità. In seguito sono andato in America. È stato allora che il sospetto di avere un cancro mi ha gettato nel panico. A quel punto ho pensato che non mi restava molto tempo. Prima rinviavo tutto, come fanno oggi molti giovani. Nell’inverno del 1981 ho iniziato a scrivere la Critica della ragione cinica. Quando il libro è uscito, nel 1983, è stato un grande successo. Oggi è tradotto in 32 lingue.
DONATELLA DI CESARE - Il successo è stato però anche un problema. Lei è stato coinvolto in molte polemiche, talvolta - mi sembra - scaturite da malintesi. Ha dovuto fronteggiare soprattutto Jürgen Habermas...
PETER SLOTERDIJK - Non solo lui, ma tutta la vecchia guardia dei filosofi del dopoguerra. Non credo, peraltro, che si tratti di malintesi, quanto di rivalità. Talvolta il malinteso è voluto e le differenze non sono allora eliminabili.
DONATELLA DI CESARE - Sloterdijk è il nuovo Nietzsche, lo spengleriano, l’antiumanista, lo pseudomistico, l’anarchico di stampo conservatore, la popstar del pensiero, il filosofo più in vista sulla scena mondiale. Eppure mi sembra che lei sia relativamente isolato in Germania. Il che non mi sorprende. La filosofia tedesca si dibatte in questo momento tra molte difficoltà. Lei è invece l’erede diretto di Nietzsche, di Heidegger e di tutta la tradizione.
PETER SLOTERDIJK - Ha ragione. I vecchi signori della filosofia tedesca hanno tentato di isolarmi. Ma dalla mia parte io ho il pubblico. E non mi sento in nessun modo marginale. Ho interlocutori sparsi ovunque nel mondo: Bruno Latour in Francia, Hans Ulrich Gumbrecht a Palo Alto. E i miei ispiratori sono nella storia: i grandi filosofi, ma anche i grandi narratori, da Gottfried Benn a Thomas Mann, da Robert Musil a Hermann Broch.
DONATELLA DI CESARE - In fondo lei è anche uno scrittore.
PETER SLOTERDIJK - In questi giorni sto scrivendo un romanzo epistolare che uscirà in primavera. Si intitola Das Schelling-Projekt. Più che di epistole si tratta però di email. Nella speranza di avere un finanziamento, sei studiosi lavorano a un progetto di ricerca sullo sviluppo dell’erotismo femminile. Le scienze cognitive si rivelano poco utili; decisiva è invece la filosofia della natura di Schelling...
DONATELLA DI CESARE - Le donne hanno nella sua filosofia un ruolo di primo piano.
PETER SLOTERDIJK - Sì, è vero. Anziché Essere e tempo , si può dire: Frau und Raum, «Donna e spazio».
DONATELLA DI CESARE - A questo punto non posso fare a meno di chiederle di Heidegger, il suo principale ispiratore. Lo ha conosciuto di persona?
PETER SLOTERDIJK - No. Ho letto e leggo la sua opera, per me imprescindibile. Una chiave per interpretare Heidegger mi è stata fornita da uno dei miei maestri, Hermann Schmitz, il fondatore della nuova fenomenologia. Schmitz ha tentato di portare la filosofia a una catarsi di se stessa - un po’ come quello che Papa Francesco fa oggi nella Chiesa.
DONATELLA DI CESARE - Dopo Heidegger è difficile assumere un ruolo, come filosofo, in Germania. Non crede?
PETER SLOTERDIJK - Eppure Heidegger ha visto giusto quando, nei Quaderni neri, non parla più di «chiacchiera», ma del «diffuso rumore dei media» e di quel permanente stress mediatico in cui tutti noi ci troviamo. Questo impedisce ogni riflessione filosofica.
DONATELLA DI CESARE - Heidegger è stato il fenomenologo dell’abitare. Ma nella sua filosofia ha privilegiato il tempo piuttosto che lo spazio. Anche perché ha guardato sempre con sospetto alla globalizzazione. Nella sua critica della globalizzazione lei riprende questo spunto da Heidegger, facendone il cardine del suo pensiero.
PETER SLOTERDIJK - Beh, sì. La mia opera in tre volumi, Sfere, ne è la prova.
DONATELLA DI CESARE - Il terzo volume di Sfere, intitolato Schiume, è uscito in questi giorni in italiano per la casa editrice Cortina. Nel complesso l’opera arriva a 2.500 pagine circa. In Germania è stata un bestseller (il primo volume ha venduto ventimila copie). Una volta lei ha detto che un lettore dovrebbe prendersi una vacanza per poter leggere con continuità i tre volumi.
PETER SLOTERDIJK - Viviamo nel mondo dominato dal computer, dove si legge poco perché manca l’allenamento. Ma soprattutto manca la disponibilità a pagare i costi del viaggio che la lettura impone, ad affrontare il dolore dell’esperienza - subito dopo ampiamente ripagato. Le persone più giovani credono di poter acquisire cultura così come si scarica un programma da internet.
DONATELLA DI CESARE - Quando è nata quest’opera Sfere? In quale contesto?
PETER SLOTERDIJK - L’intero progetto risale agli anni Novanta, quando insegnavo all’Accademia di belle arti di Vienna. Mi chiedevo: come posso avvicinare i giovani artisti alla filosofia? La sfera rappresenta per me la spazialità. Nel primo volume Bolle parlo delle sfere intime, della madre, della nascita, di una «ginecologia negativa», della nostra condizione non di individui, bensì di «dividui», dato che ciascuno è la metà di una coppia, di cui non si vede l’altra parte. Il modo in cui siamo stati concepiti come individui non è che una astrazione della modernità. La coesistenza precede l’esistenza. Nel secondo volume Globi rifletto su quella che Heidegger chiama l’epoca della metafisica, della razionalizzazione monosferica. Cosmologia e teologia filosofica sono i due grandi temi del secondo volume. Non solo il mondo, ma anche Dio è una sfera, una sfera infinita.
DONATELLA DI CESARE - E il terzo volume?
PETER SLOTERDIJK - Il terzo volume Schiume è venuto alla luce molto più tardi, nel 2004. L’epoca considerata è quella postmetafisica. Ricorro perciò alla metafora della schiuma per indicare le sfere pluralistiche. Viviamo negli anni della globalizzazione virtuale che ha portato a una crisi definitiva dello spazio. La schiuma rende bene questo implodere ed esplodere di sfere che si intersecano. Non c’è più un centro, perché ogni punto è virtualmente il centro. Non abbiamo più un posto saldo e sicuro sotto un cielo eterno e onnicomprensivo.
DONATELLA DI CESARE - In questo ultimo volume di Sfere lei parla di temi che ci sono molto vicini, dal terrorismo al mutamento del clima. Ma i toni non sono tragici e, anzi, malgrado l’insicurezza, si potrebbe pensare a una nuova gaia scienza suggerita dall’immagine aperta della schiuma.
PETER SLOTERDIJK - All’insicurezza dovremo abituarci. Fa parte integrante della civiltà. È la sfida per il futuro che potremo accogliere se, piuttosto che pretendere di immunizzarci dai pericoli che vengono dall’esterno, sapremo procedere insieme, non come rigide monosfere, ma come parti di schiume che sanno coesistere.
Tutta la verità del mondo è racchiusa in una sfera L’opera monumentale del filosofo Peter Sloterdijk rilegge l’intera avventura umana attraverso la più suggestiva delle figure geometriche: dalla polis fino all’era globale
La prima “bolla” ci fu nell’antichità: mito e trascendenza controllavano le forme sociali
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 04.11.2014)
PETER Sloterdijk è un personaggio insolito. Metamorfico. Lo conobbi una decina di anni fa. Era agli esordi di una popolarità che nel tempo sarebbe cresciuta. L’incontro avvenne nel contesto del bellissimo festival di cinema che Enrico Ghezzi organizzava a Procida. Sloterdijk si aggirava spesso solo. Timido e intimidente. Presentò un documentario su un volo spaziale. Di quelle imprese che si affrontavano negli anni Settanta.
Mi sembrò singolare che un filosofo invece di parlarci di Platone, Aristotele o Kant ci intrattenesse sulle foto della Nasa e sulla stazione spaziale Mir, vista fantasiosamente come una sfera. Quei voli - commentò Sloterdijk - dimostravano come la tecnica era diventata un’entità “trascendente”. Superava, una volta per tutte, i confini che la Terra con la sua conformità rotondeggiante si era da sempre data. Il volo spaziale aveva inoltre sciolto quel nesso gerarchico tra alto e basso di cui la metafisica era stata per lungo tempo garante assoluta.
Ho ritrovato qualche spunto di quella storia nelle parti conclusive di Sfere che esce ora nelle edizioni di Raffaello Cortina in due ponderosissimi volumi (con una intensa introduzione di Bruno Accarino e la cura ottima di Gianluca Bonaiuti). Sempre sul punto di esplodere, per eccesso di immaginazione e di stravaganza, il libro si presenta come una straordinaria nave dei folli. Del resto, la navigazione ha un posto notevole nella riflessione di Sloterdijk. Il quale - sulla falsariga del suo illustre predecessore, Oswald Spengler - prova a riscrivere la storia del mondo occidentale attraverso il nascere e morire delle civiltà delle sfere.
Perché, ci si potrebbe chiedere, Sloterdijk privilegia proprio questa forma geometrica? Nelle sfere, come pure nella trasformazione in globi, in bolle, e in schiuma (l’ultima sostanza caotica che contraddistingue, a quanto pare, la nostra contemporaneità), il filosofo tedesco simboleggia il riprodursi di certi ambienti vitali che fin dall’antichità (si pensi alla casa, al villaggio, ma anche al ventre materno) hanno immunizzato la vita sociale dell’uomo.
Ciò che Sloterdijk ci prospetta è una originalissima storia della globalizzazione, di cui conosciamo i recenti effetti, ignorandone l’origine, le scansioni, gli sviluppi nel corso del tempo. La prima globalizzazione, ci avverte Sloterdijk, il mondo antico la realizzò nel controllo che la trascendenza e il mito seppero operare sulle forme sociali. La polis greca fu la prima vera bolla democratica. Il cui spazio politico contrastò quella “scienza del soffio” cui perfino Dio non si sottrasse, almeno da quando decise di animare due esseri che da perfette sfere divennero bolle precarie. Una “catastrofe sferologica”, osserva Sloterdijk, designò la cacciata dal paradiso.
La prima grande globalizzazione, dunque, è un evento che accade sulla scena teologica della creazione del mondo e nella testa di alcuni filosofi, le cui qualità speculative servono a controllare e domare l’impetuosità del reale. Le sfere sono lo spazio ideale che regola l’andamento del mondo, le sue pulsioni, le sue inopportune fragilità.
Le sfere, in altre parole, sono un campo di forze circoscritto in grado di proteggere l’uomo da se stesso e dagli altri. Quello spazio, tutto interno, ci dice Sloterdijk, disegnò, a un certo punto, un “cerchio magico”. L’espressione oggi carica di una stanca ovvietà politica, nell’epoca premoderna, diede alla legge dell’intersoggettività - ossia ai rapporti fra gli uomini - la forma dell’incantamento. Perché contro ogni previsione illuministica Sloterdijk vede nell’uomo un essere irrazionale, esposto alla trance, al sonnambulismo, alla possessione. E quando la fascinazione era la regola tra gli uomini, il disincanto rappresentava l’eccezione.
Con l’affermazione del moderno il disincanto da eccezione diventerà il sentimento prevalente. L’uomo non si aspetta più niente che non sia prodotto dalla sua scienza e dalla tecnica. Sloterdijk fa coincidere questo processo di esteriorizzazione con le grandi avventure oceaniche che interesseranno l’Europa a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento.
Le traversate, in nome delle scoperte e del commercio, daranno vita alla seconda grande globalizzazione. Grazie alla quale “non sono più i metafisici, bensì i geografi e i navigatori ad avere il compito di disegnare la nuova immagine del mondo”. A costoro verrà affidata la pratica anticontemplativa di ridurre i rischi che ogni grande navigazione, soprattutto transoceanica, presenta. Alle società di assicurazione spetterà il ruolo che un tempo ricoprivano le religioni. La sola metafisica che viene adottata è quella del denaro. E sebbene nel mondo tutto si diversifica e cambia, continuerà a vivere un Dio la cui moneta liturgica saprà tenere insieme anche le cose più diverse.
Nell’età del moderno tutto tende a proiettarsi verso un esterno sconfinato dove possono nascere nuove e provvisorie sfere. Le sole durature, ma oggi agonizzanti, sono gli Stati nazione che proprio in quel periodo fanno la loro comparsa. Per Sloterdijk anche nello spazio post-metafisico della modernità la sfera conserva il compito di proteg- gere l’uomo, ricondurlo a una sorta di idillio materno, in quel ventre dove la nascita ha avuto luogo al riparo da tutto.
Sfere è un libro strano, esuberante, immerso in una specie di liquido barocco. Un libro che rimpiange l’uscita definitiva dalle antiche sfere, dalle antiche case. Il mondo si è ormai trasformato in un’incredibile avventura termica. Fuori incombe e si propaga il freddo raggelante che la modernità con il suo illuminismo ha creato e combattuto con il calore artificiale. «Cosa abbiamo fatto liberando questa terra dal suo sole?» si è chiesto Nietzsche. La tecnica nei suoi processi emancipatori, con le sue potenti accelerazioni novecentesche, è il tentativo di soffocare nella comodità l’interrogativo posto da Nietzsche.
La seconda parte di Sfere si conclude con un capitolo intitolato Air conditioning . L’Occidente, nei suoi sbalzi di temperatura, negli stravolgimenti climatici, non può più fare a meno delle tecniche del freddo e del caldo. «La tradizione di tutti i climi estinti pesa come un incubo sugli stati d’animo dei viventi», osserva minaccioso Sloterdijk. La sferologia di cui egli è inventore e interprete qui trova un punto di contatto con l’ecologia: con le scelte dalle quali dipenderà la salvezza del pianeta. Bisognerà rinunciare ad alcuni privilegi del passato. Siamo, quasi inavvertitamente, passati da un’epoca di grandi azioni a un’epoca di grandi temi.
Vista dal di fuori, da quelle foto satellitari che tanti anni fa il nostro commentava, ci si apre a un nuovo interrogativo di salvezza. Non c’è nulla nella tecnica che non sia già contenuto nella metafisica. Ma se quest’ultima ha fallito come immaginare che l’altra possa farcela? Come poter pensare che l’”aria condizionata” sarà un fattore di salvezza per la razza umana e non la sua definitiva condanna?
La rivincita del pensiero selvatico sulle idee che disprezzano la carne
Diogene contro Platone in un saggio del filosofo Sloterdijk
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 04.12.2013)
Quando Platone disse che l’uomo non era altro che «un animale bipede implume», Diogene di Sinope (413-323 a.C.) gli portò un pollo spennato: «Ecco l’uomo platonico!». Così racconta un altro Diogene (Laerzio, III secolo d.C.) nelle sue Vite dei filosofi. Platone non gradì, e definì sprezzantemente Diogene «un Socrate impazzito». E sappiamo come l’autore della Repubblica raccomandasse la segregazione dei folli che potevano anche venir uccisi dopo qualche anno se si ostinavano... a non rinsavire.
Nella sua Critica della ragion cinica (1983), che oggi appare in una rinnovata edizione italiana a cura di Andrea Ermano e Mario Perniola (Raffaello Cortina) il filosofo tedesco Peter Sloterdijk dispiega agli occhi del lettore i tanti modi in cui irrisione e irriverenza ci hanno «salvato la pelle dai più diversi tentativi di renderci migliori».
Però, usare il corpo come un’idea per disfare altre idee può avere conseguenze sgradevoli se non pericolose, soprattutto perché quelli che vogliono «migliorare» i propri simili sono sempre all’erta.
L’hanno provato sulla loro pelle le ragazze che nell’odierna Russia si sono servite delle loro nude carni per ridicolizzare insieme Chiesa e Stato, e hanno subito le condanne morali delle autorità ortodosse e quelle fisiche dei tribunali di Vladimir Putin. Al quale è mancata la souplesse di Alessandro il Grande, che, volendo conoscere Diogene e avendolo infine incontrato, si sentì chiedere da questi di non frapporsi tra lui e il sole, «poiché così gli faceva ombra»; e il re si era fatto garbatamente da parte!
Un po’ «selvatico» Diogene doveva esserlo per davvero, se è vero che (come ci informa l’autore delle Vite) amava «lodare quelli che pur volendo sposarsi non lo facevano, quelli che pur volendo educare i figli se ne astenevano, quelli che, preparandosi a entrare al servizio dei principi, se ne tenevano alla larga».
Diogene era uno di quei filosofi che si riunivano in un ginnasio fuori di Atene, detto Cinosarge (ovvero «il cane agile»), luogo sacro a Ercole. E come è plasticamente mostrato da una scultura antica dal significativo nome di Hercules mingens, anche questi emuli del mitico eroe non disdegnavano nemmeno di fare in pubblico i loro bisogni. La scuola dei cinici doveva, nel volgere di qualche secolo, sparire dalla scena. Ma la coraggiosa difesa dei diritti della fisicità, contro le norme astratte di qualsiasi dottrina che disprezza la carne, non è finita con loro.
Una variegata corrente di pensiero, che include Montaigne, Voltaire, Nietzsche, Feyerabend e molti altri, ci dice Sloterdijk, ha nelle forme più diverse esercitato l’arte di «pisciare contro il vento dell’idealismo», riabilitando il gesto, lo scherno, l’ironia contro qualunque seriosità filosofica; e per questo - aggiungo io - quei personaggi sono stati spesso malvisti dagli storici ufficiali della filosofia, che appena potevano li cancellavano dai loro manuali. Ma quello che gli accademici talvolta fanno male, lo fanno meglio quei «prìncipi», cioè i politici che qualsiasi Diogene si rifiuta di servire, al prezzo oggi dell’emarginazione.
Come nota Sloterdijk: «Uno di questi giorni Diogene darà magari le dimissioni; forse si leggerà accanto all’entrata dell’aula che il corso del docente X è sospeso a tempo indeterminato. E poi lo troveranno nei pressi di un bidone delle immondizie. Alticcio, ridacchiante, con la mente turbata...». Chissà se prima o poi non capiterà nell’università del nostro Paese, tra tagli alla ricerca e autorità che dichiarano che con la cultura non si mangia? D’altra parte già i gerarchi di Hitler la detestavano.
E Sloterdijk riporta nel volume una fotografia del 1934 in cui il capo nazista passa in rassegna una parata di mutilati di guerra, in sedia a rotelle, che lo salutano «festosamente». Chissà cosa ne avrebbe detto il filosofo Martin Heidegger? Ritengo che si possa sostituire al partito nazista qualsiasi altro nuovo padrone, che incanta le «masse» con questa o quella tecnica di persuasione.
Infatti, anche la ragione cinica può venir rovesciata nel suo opposto. Nel linguaggio di tutti i giorni cinismo oggi vuol dire «astuzie diplomatiche, disinnesco dei concetti morali, verità mandata in ferie», come dichiarava un politico britannico. Per eludere questa trappola l’odierno erede di Diogene deve esercitare lo stesso tipo di critica che a suo tempo Kant utilizzava contro le illusioni della metafisica, pur sapendo che è sempre presente il rischio di produrre nuove metafisiche, magari peggiori delle vecchie.
Come ha sottolineato Mario Perniola nella premessa di questa edizione, sono in gioco la nostra libertà e la nostra serenità. Sloterdijk cita la protesta dell’Ivan Karamazov di Dostoevskij: «Nel mio povero intelletto terrestre ed euclideo, io so soltanto che il dolore esiste».
Ma noi disponiamo oggi di un’audace astronomia che esplora i cieli e di una fisica che utilizza le geometrie non euclidee per capire lo spazio e il tempo.
Il pensiero unico sulla psiche che normalizza il mondo
I padroni dell’anima. Nell’era della psicocrazia
Depressione, anoressia, stress, insonnia: malattie tipiche dei paesi ricchi, che ora l’Occidente ha iniziato a "esportare". L’elenco dei sintomi si allunga sempre di più. Ogni comportamento individuale viene catalogato, chiunque può essere riconosciuto come affetto da una patologia. E l’industria dei disturbi mentali ha bisogno di nuovi "clienti". Con il rischio che il pensiero unico sulla psiche normalizzi il mondo
di Roberto Esposito (la Repubblica, 23.10.2010)
Chiesero al morente di sete se non lo disturbasse il gocciolio della cella vicina, e promisero di porre rimedio"; "Complementari ai tecnocrati gli psicocrati". Chi sa se, quando scrisse questi taglienti frammenti, Paul Celan di cui Einaudi ha appena tradotto una nuova raccolta di poesie con il titolo Oscurato (a cura di Dario Borso e con un saggio di Giorgio Orelli) avrebbe immaginato una rapida estensione planetaria di quanto gli toccava sperimentare in prima persona. Perché è proprio un crescente potere sulle menti, complementare a quello sui corpi, che sempre più si va affermando attraverso processi generalmente riconducibili alla categoria di biopolitica. Ethan Watters, in un saggio intitolato Pazzi come noi. Depressione, anoressia, stress: malattie occidentali da esportazione, già segnalato su queste pagine da Massimo Ammaniti, e ora tradotto in italiano da Bruno Mondadori, ne ha riconosciuto la fenomenologia in una sorta di globalizzazione di disturbi mentali inizialmente diagnosticati negli Stati Uniti e da lì esportati nel resto del mondo con un effetto di contagio inarrestabile.
Studiando la mutazione della percezione di determinate malattie della mente, in un primo momento catalogate secondo i parametri culturali dei paesi interessati - dalla Cina alla Tanzania - Watters osserva come, ad un certo punto, la loro definizione si omologhi a quella occidentale sotto la spinta di potenti campagne pubblicitarie promosse dalle grandi industrie farmaceutiche. A diffondersi, come in una vera e propria epidemia - i cui virus sono i nostri stessi modi di pensare - , è una catena di conseguenze, simboliche e reali, in base alle quali non soltanto la malattia in questione muta faccia, ma finisce per penetrare anche in spazi socio-culturali dove prima non aveva accesso, come se gli anticorpi socio-culturali che fino allora li avevano protetti fossero ceduti di schianto. Una volta che i malati possono conferire ai loro sintomi una definizione apparentemente oggettiva - desunta dai protocolli ufficiali elaborati di solito in America, come l’onnipresente DPM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) - , si sentono autorizzati a proiettare i propri problemi personali in qualcosa di più forte di loro, che insieme li assoggetta e li legittima come soggetti di quel male.
Non è difficile ricondurre queste dinamiche a ciò che filosofi contemporanei come Foucault e Deleuze hanno definito con il termine "dispositivo", intendendo con esso un apparato teso a controllare e modificare gli atteggiamenti mentali o le azioni di determinati individui - non forzandoli dall’esterno, ma rendendoli essi stessi partecipi del proprio assoggettamento. Da questo punto di vista la società contemporanea risulta un grande corpo, attraversato da un numero crescente di dispositivi destinati a caratterizzare le nostre idee ed orientare i nostri comportamenti in base ad interessi di cui è ormai difficile individuare la provenienza. Ciò non toglie che la medicina ne costituisca uno dei tratti più tipici, perché rappresenta precisamente il punto di contatto, e di crescente indistinzione, tra sfera del corpo e sfera dell’anima o come altro si voglia chiamare ciò che eccede l’ambito della mera biologia.
Non a caso la direzione sempre più mirata che vanno assumendo gli attuali processi di medicalizzazione è quella di uno schiacciamento progressivo dello psichico sul corporeo. Così ciò che inizialmente era diagnosticato come un disagio di carattere personale o sociale è sempre più spesso curato con strumenti chimici. Come attestato da numerosi studi - come quello di Philippe Pignarre su L’industria della depressione, tradotto da poco da Bollati Boringhieri o Manufacturing Depression di Gary Greenberg - i veri motivi della crescita esponenziale della sindrome depressiva, ormai diffusa quanto le malattie cardiovascolari, vanno individuati non in fattori di ordine sociologico o clinico, ma nell’uso degli stessi psicofarmaci che intendono combatterla. Ciò avviene attraverso quella sorta di circolo vizioso, implicito nel protocollo medico ufficiale, che definisce depressione "quella vasta area di disagio psichico curabile con gli antidepressivi".
E’ evidente che, una volta configurata la malattia in base alla terapia, questa, mentre la cura, è destinata a riprodurla per autoriprodursi, estendendosi a zone sempre più ampie di società. Tutto sta, per le industrie farmaceutiche e per quei medici che ne diventano sempre più i semplici terminali operativi, ad ampliare la lista dei sintomi, al punto di comprendere tra essi anche fenomeni reciprocamente contrari come l’appetito eccessivo e l’inappetenza, l’irrequietezza e la spossatezza, l’impotenza o la dipendenza dal sesso.
A questo punto ben pochi individui possono sottrarsi ad una catalogazione potenzialmente estendibile a tutti. E infatti è proprio questa la tendenza ipertrofica delle campagne di sensibilizzazione contro, ma in realtà funzionali alla diffusione della sindrome. Il cardiologo Marco Bobbio, in un libro intitolato Il malato immaginario. I rischi di una medicina senza limiti, edito da Einaudi e già recensito su questo giornale da Maria Novella De Luca, ricorda come l’Italia detenga il record europeo di consumo di farmaci pro capite e il più alto numero di medici per determinate quote di cittadini, nonostante che i tagli progressivi al sistema sanitario mettano in forse il welfare, magari negando una TAC a chi ne ha veramente bisogno.
E’ un’altra forma di quella biopolitica dei corpi e delle anime cui da tempo siamo soggetti - nel doppio senso che ne siamo prodotti e produttori: all’ipersalutismo propagandato dai media come nuovo obiettivo di una vita sempre più lunga e felice fa riscontro l’ipocondria crescente di fasce sempre più ampie di popolazione. Ad unificare, sovrapponendole, queste due spinte è l’idea della caduta di ogni limite per un uomo sottratto al suo destino di finitezza. Quella "psicocrazia" che paventava Paul Celan prima di suicidarsi è ormai diventata una compiuta biocrazia in cui mente e corpo sono insieme l’oggetto e la posta in gioco di una partita di cui è sempre più difficile riconoscere i giocatori, ma di cui è necessario prendere coscienza. Non per cercare, invano, di arrestarla, ma almeno per coglierne la logica e valutarne le conseguenze.
«La vita dell’essere umano non è soltanto una vita omogenea, pacificata e felice. Sente una tensione verso l’alto, una competizione a essere migliore rispetto ai suoi simili e a sé stesso.
Qual è l’origine delle filosofie umane? Provengono da persone che hanno delle limitazioni: La Bibbia ci dice: “Non appartiene all’uomo che cammina nemmeno di dirigere il suo passo”.
(Gli uomini sono limitati per natura. Per di più la loro esperienza di vita è relativamente breve e di solito limitata a una sola cultura o a un unico ambiente. Perciò possiedono una conoscenza ristretta, mentre le cose sono talmente collegate le une con le altre che gli uomini scoprono sempre aspetti di cui non avevano opportunamente tenuto conto. Qualsiasi filosofia elaborino rispecchierà queste limitazioni).
Sono il prodotto di uomini imperfetti: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”. “Esiste una via che davanti all’uomo è retta, ma la sua fine son poi le vie della morte”. (A causa di questa imperf) (Le filosofie che incoraggiano a disubbidire alle sane e giuste esigenze di Dio riflettono questa influenza. Non sorprende che, come attesta la storia, le filosofie e i progetti umani siano spesso stati causa di sventura per gran parte dell’umanità).
Risentono dell’influenza degli spiriti demonici: “Tutto il mondo giace nel potere del malvagio”.
“Esiste una via che davanti all’uomo è retta, ma la sua fine son poi le vie della morte”. (A causa di questa imperfezione, le filosofie umane sono spesso improntate a una forma di egoismo che permette forse di trarre un piacere temporaneo ma che rende anche frustrati e molto infelici).
State attenti che qualcuno non vi porti via come sua preda per mezzo della filosofia e di un vuoto inganno secondo la tradizione degli uomini.
La salvezza del genere umano non è mai venuta e mai verrà dal genere umano stesso, come se il genere umano si innalzasse per mezzo delle stringhe delle sue proprie scarpe. Quindi la teoria della comunistica filosofia del materialismo, cioè che non esista nulla se non ciò che è materiale, conduce a un vicolo cieco.
Secondo un’enciclopedia, la filosofia è “una forma di indagine: un processo di analisi, critica, interpretazione e speculazione”.
Una Testimone della Corea aveva studiato la Bibbia con un illustre poeta, ma la sua filosofia buddista metteva Budda al di sopra di Gesù, così egli smise di studiare. Quando si presentava il libro Il più grande uomo che sia mai esistito nel ministero di campo, la Testimone lo rivisitò e gli presentò con cautela il libro. Con sua sorpresa l’uomo lo accettò. Quando lei tornò non solo lui aveva letto il libro da cima a fondo ma si mostrò molto entusiasta di quello che aveva letto. Disse che la filosofia dell’uomo tocca solo il cervello, ma il racconto della vita di Gesù tocca sia il cervello che il cuore.
All’inizio del Rinascimento, durante il XIV e il XV secolo, ci fu un rinnovato interesse per Platone. La famosa famiglia Medici di Firenze aiutò persino a stabilire un’accademia per favorire lo studio della filosofia platonica.
La filosofia, rende le persone critiche e scettiche, incoraggia l’autodeterminazione e conduce alla rovina morale.
Non dovete fare un viaggio in qualche paese lontano, “al di là del mare”, per acquistarvi la sapienza o la filosofia degli uomini. Non dovete ottenere un’istruzione superiore né esaminare ogni religione, presente e passata, per trovare la verità.
Leggete la rivista piu’ letta e distribuita nel mondo....Distinti saluti con una bella stretta di mano. Scappo e appena entrato il mio nipotino.