Il Terzo Paradiso (2003)
Che cos’è il Terzo paradiso? E’ la fusione tra il primo ed il secondo paradiso. Il primo è il paradiso in cui la vita sulla terra è totalmente regolata dall’intelligenza della natura.
Il secondo è il Paradiso Artificiale, quello sviluppato dall’intelligenza umana attraverso un processo lentissimo che ha raggiunto nel corso degli ultimi secoli una dimensione sempre più invasiva.
Questo paradiso è fatto di bisogni artificiali, di comodità artificiali, di piaceri artificiali e di ogni altra forma di artificio. Si è formato un vero e proprio mondo artificiale che continua a crescere degradando e inquinando il pianeta naturale. Il pericolo di una tragica collisione tra queste due sfere è ormai annunciato in ogni modo.
Di fronte all’universale bisogno di sopravvivenza del genere umano si concepisce il progetto globale del Terzo paradiso che consiste nel condurre l’artificio, cioè la scienza, la tecnologia, l’arte e la cultura a restituire vita alla Terra. Questo non può che realizzarsi attraverso un passaggio evolutivo nel quale l’intelligenza umana trova il modo di sviluppare una creatività responsabile per convivere con l’intelligenza della natura.
Il Terzo paradiso è il nuovo mito che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità in questo passaggio epocale.
Il riferimento biblico non ha finalità religiose, ma è assunto come messaggio per dare senso e forza al concetto di trasformazione sociale responsabile e per motivare un grande ideale che unisca in un solo impegno le arti, le scienze, l’economia, la spiritualità e la politica
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO PISTOLETTO (Wikipedia).
PASQUA IN ARRIVO. IL TERZO SARÀ REGNO DELLO SPIRITO SANTO: "TERTIUS IN CHARITATE".
"X" - FILOSOFIA. A FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
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Venere degli stracci: più che opera d’arte è l’oggetto di una furba operazione commerciale
di Alberto Cuomo (Le Cronache, 18 Luglio 2023)
Quasi sia stata un’opera di Fidia, a proposito della “Venere degli stracci”, incendiata da un povero clochard, il suo autore, l’artista milionario Michelangelo Pistoletto ha chiosato: “La mia Venere è stata data alle fiamme. È un gesto che spaventa perché il rogo di un’opera d’arte racconta di una società stracciona che purtroppo ha preso il sopravvento”. A fine giugno, quasi offendendo i napoletani, aveva confidato a “Elle” una sofisticata rivista femminile di alta moda, che con la sua installazione voleva mostrare “come anche in una città come Napoli due elementi come bellezza e miserabilità dell’esistente possano essere, attraverso quest’opera, stimolo di connessione e rigenerazione...La Venere che viene dalla storia della bellezza rigenera questi stracci, che di colpo diventano opera d’arte e ritornano a vivere”.
C’è da dire, subito, che la Venere di Pistoletto più che opera d’arte è l’oggetto di una furba operazione commerciale. Infatti l’opera risale al 1967 ispirata alla Venere con mela dello scultore neoclassico danese Bertel Thorvaldsen e replicata più volte, per motivi commerciali appunto, tanto da essere presente alla Fondazione Pistoletto di Biella, con copie vendute al Museo d’arte contemporanea Donnaregina di Napoli, al Museo d’arte contemporanea del castello di Rivoli, alla Tate Gallery di Liverpool e ad altre esposizioni.
Quella installata in piazza Municipio è costata 200mila euro, in un prezzo eccessivo per la materia prima, la resina usata e gli stracci, il cui plusvalore deriva dal riconoscere, falsamente, sia un’opera d’arte. Da tempo, almeno dal 1935, dal noto saggio su “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin, sappiamo che l’arte ha perduto la sua “aura”, il suo tradizionale valore cultuale, per divenire, con la riproduzione, da un lato accessibile alla fruizione collettiva, e, dall’altro, proprio nella fruizione di massa, strumento della politica.
Beniamin faceva l’esempio del cinema per rilevare l’azione di propaganda dei prodotti d’arte, affermando che la politica, quella di Hitler, con le grandi parate e l’uso di dispositivi artistici, si fosse estetizzata, cui doveva contrapporsi un’arte politicizzata, laddove, avendo perduto il suo valore cultuale, religioso, era divenuta culto per se stessa, arte per l’arte, con tutti i riti tradizionali, le processioni dei cultori nei musei e nelle gallerie che ne determinavano i falsi valori.
Fu pertanto in un’epoca di forte attività politica, alla metà degli anni sessanta, che l’arte operò una scelta di campo verso una visione alternativa della società. Quindi gli artisti, che Germano Celant riunì sotto l’etichetta “Arte povera”, rifiutarono in primis le tecniche e gli strumenti tradizionali dell’arte privilegiando le installazioni che interagissero, anche polemicamente, con i contesti, nell’uso di materiali poveri, terra, legno, ferro, stracci onde, nelle parole di Celant, “impoverire i segni per ridurli ai loro archetipi”.
I segni, quelli anche dell’arte, tanto più nell’arte tradizionale, necessitano di un veicolo materiale, la tela le paste colorate etc. ma, se appariva provocatorio esporre nel luogo sacralizzato della galleria, materiali deprivati dei segni, ad esempio un cumulo di terra o di gesso, rotoli di cordame, e, nella provocazione, non solo la contestazione al sistema dell’arte, quanto allo stesso sistema sociale che ne riconosceva i valori, esporre solo i materiali privi di ogni denotazione rendendoli al mercato finiva con l’essere un modo di mercificare la stessa contestazione.
Del resto per rendere palese il loro rifiuto politico del sistema dei valori borghesi molti di essi si esposero anche su terreni tipicamente politici, così come accadde proprio a Pistoletto con un’opera sul Vietnam, e tuttavia oggi vendere ed esporre repliche, secondo la richiesta del mercato, come è accaduto per la Venere degli stracci, non ha alcun significato contestativo ed anzi quello di una totale omologazione dell’arte, avendola ridotta a produzione di gadget per turisti accaldati e forse, nel loro girare inebetiti per le città, affetti da una particolare forma della sindrome di Stendhal.
L’uomo che avrebbe incendiato la Venere di Pistoletto è Simone Isaia, fermato nel centro di accoglienza di via Marina e ora in custodia cautelare in carcere, non agli arresti domiciliari, dal momento vive senza casa in strada. L’azione di Isaia non è paragonabile a quella degli ambientalisti che imbrattano i monumenti e le fontane storiche, perché mentre i loro interventi oltraggiano opere storiche eiconosciute che costituiscono un unicum, distruggere una replica facilmente ripetibile è solo un atto dimostrativo. Simone è un giovane di 32 anni contro cui si sono associati tutti, esponenti del mondo politico e culturale.
Un ambaradan probabilmente allestito ad arte al fine di valorizzare tutte le copie, non solo della Venere, di opere di proprietà di musei, istituzioni e privati. Il sindaco Manfredi ha sostenuto che l’opera, a conferma del suo essere mera riproduzione, sarà rifatta e rimessa in sito. È partita quindi la raccolta di altri 200mila euro, non si sa bene per cosa, dal momento gli stracci saranno regalati e la resina da utilizzare con il calco, di proprietà di Pistoletto, non costa molto.
Sarebbe forse piuttosto opportuno devolvere i 200mila euro per in centro di accoglienza di via Marina, che a stento racimola i pasti per i tanti poveri che vi accorrono, e, se proprio si vuole mettere un nuovo monumento a Napoli sarebbe giusto celebrare Simone Isaia nell’atto di appiccare il fuoco, come un Pietro Micca che ha fatto deflagrare la finzione dell’arte attuale.
Nota:
ARTE, DISAGIO DELLA CIVILTA’, E STORIOGRAFIA.
PER LA RIPRESA DELLO SPIRITO DELLA SCUOLA SALERNITANA (VECCHIA E NUOVA),
OLTRE LA LOGICA DELLA RIPETIZIONE.
Condivido pienamente l’articolo (e le precisazioni) di Alberto Cuomo. A mio parere senza una ri-comprensione dello spirito critico di Gioacchino da Fiore non si dà alcun "Terzo Paradiso": solo solo colpi di pistola nel buio della notte sempre più buia (su questo aveva ragione Hegel)!
A livello storico-europeo, mia convinzione, è da riprendere il filo antropologicamente "eretico" (al di là dell’ateo e del devoto) della Salerno dell’età del Principe di Salerno, Ferrante Sanseverino e dello spirito di Shakespeare che emerge dal dramma storico "The Book of sir Thomas More".
Federico La Sala
La miseria del simbolico tra arte, estetica, politica e consumo
Il lavoro artistico è originariamente impegnato nella questione della sensibilità dell’altro e la questione politica è essenzialmente la questione della relazione all’altro in vista di un sentire insieme
di: Bernard Stiegler
La questione politica è una questione estetica, così come, inversamente, la questione estetica è una questione politica.
Uso qui il termine estetica nel suo significato più vasto, per cui l’aisthésis è la sensazione, e la questione estetica è quindi quella del sentire e della sensibilità in generale.
Sostengo che la questione estetica vada posta nuovamente e in rapporto alla questione politica, per invitare il mondo dell’arte a riprendere una comprensione politica del proprio ruolo. L’abbandono del pensiero politico, da parte del mondo dell’arte, è una catastrofe.
Così come, l’abbandono della questione estetica, da parte della sfera politica, alle industrie culturali e alla sfera del mercato in generale, è anch’esso catastrofico.
Con questo non voglio dire che gli artisti debbano “impegnarsi”. Voglio dire piuttosto che il loro lavoro è originariamente impegnato nella questione della sensibilità dell’altro. Ora, la questione politica è essenzialmente la questione della relazione all’altro in vista di un sentire insieme, una sim-patia in questo senso. Il problema del politico è di sapere come stare insieme, vivere insieme, accettarsi come un insieme attraverso e a partire dalle nostre singolarità (ben più profondamente ancora che a partire dalle nostre differenze) e oltre i nostri conflitti d’interesse. La politica è l’arte di garantire una unità della città nel suo desiderio di avvenire comune, la sua in-dividuazione, la sua singolarità come divenire-uno. Ora, un tale desiderio presuppone un fondo estetico comune. L’essere insieme è quello di un insieme sensibile. Una comunità politica è dunque la comunità di un sentire. Se non si è capaci di amare insieme le cose (paesaggi, città, oggetti, opere, lingue, ecc.), non ci si può amare. Questo è il senso della philia in Aristotele. Amarsi è amare insieme cose diverse da sé.
La questione “culturale”, per come è posta in modo essenziale dall’arte, è più che mai al cuore tanto dell’economia e dell’industria quanto della politica: la comunità sensibile è oggi interamente attraversata dalle tecnologie di ciò che Deleuze chiamava le “società di controllo”. E l’essenziale della lotta economica internazionale si combatte su questo fronte.
Jaques Rancière ha giustamente ricordato che la “politicità” è sensibile, vale a dire che la questione politica è immediatamente estetica. Ma egli ha stranamente ignorato che, nell’epoca iperindustriale, la sensibilità martellata dal marketing è diventata la posta in gioco di una vera guerra, le cui armi sono le tecnologie e le cui vittime sono le singolarità, individuali o collettive (“culturali”), al punto che si produce una immensa miseria del simbolico.
Oggi, nelle società di modulazione che sono le società di controllo, le armi estetiche sono divenute essenziali (ciò che Jeremy Rifkin chiama “capitalismo culturale”): si tratta di controllare queste tecnologie dell’aisthésis che sono per esempio l’audiovisivo o il digitale, e, attraverso questo controllo delle tecnologie, controllare i tempi di coscienza e di inconscio dei corpi e delle anime che li abitano, modulando, con il controllo dei flussi, questi tempi di vita. È anche così che si sviluppa il concetto di life time value (come valore economicamente calcolabile del tempo di vita di un individuo, ossia come de-singolarizzazione e de-individualizzazione del suo valore intrinseco) recentemente introdotto dal marketing.
Manet, che rompe con la tradizione, è l’avanguardia di un sentire che non è condiviso da tutti - da cui i conflitti estetici che si moltiplicano a partire dal XIX secolo. Ma questi conflitti, che si producono sul fondo di una colossale trasformazione industriale della società, intessono un processo di costruzione della simpatia che caratterizza l’estetica umana, una creatività che trasforma il mondo per realizzare una nuova sensibilità comune, formando il noi interrogativo di una comunità estetica a venire.
Ed è quanto possiamo chiamare esperienza estetica per come l’arte la produce, così come si parla di esperienza scientifica: per scoprire l’alterità del sentire, il suo divenire portatore di avvenire.
Ora, io credo che, attualmente, l’ambizione estetica sia da questo punto di vista ampiamente crollata. Perché una immensa parte della popolazione è oggi priva di ogni esperienza estetica, interamente sottomessa, com’è, al condizionamento estetico in cui consiste il marketing, che è diventato egemonico per l’immensa maggioranza della popolazione mondiale; mentre gli altri, quelli che ancora sperimentano, hanno elaborato il lutto della perdita di coloro che si sono persi in questo condizionamento.
La questione mi è balzata agli occhi all’indomani del 21 aprile 2002. Quel giorno mi è stato evidente, in una paurosa chiarezza, come le persone che allora avevano votato per Jean-Marie Le Pen siano persone con cui io non senta affatto, come se noi non condividessimo alcuna esperienza estetica comune. Mi è stato evidente come questi uomini, queste donne, questi giovani non sentano ciò che accade, e in questo non si sentano più appartenere alla società; come siano rinchiusi in zone (commerciali, industriali, “sistemative” o rurali, ecc.) che non sono più un mondo, essendosi dis-tratte esteticamente. Il 21 aprile è stato una catastrofe politico-estetica. Queste persone, che sono in una situazione di grande miseria del simbolico, detestano il divenire della società moderna e prima di tutto la sua estetica, quando essa non è industriale. Poiché il condizionamento estetico, che costituisce l’essenziale della chiusura in queste zone, viene a sostituirsi all’esperienza estetica per renderla impossibile.
Occorre dire che l’arte contemporanea, la musica contemporanea, lo spettacolo e le “intermittenti” dello spettacolo contemporaneo, la letteratura contemporanea, la filosofia contemporanea e la scienza contemporanea provocano sofferenza al ghetto costituito da queste zone.
Questa miseria non colpisce semplicemente le classi sociali povere: la rete televisiva, in particolare, infesta dappertutto come una lebbra, concretizzando il motto di Nietzsche: “Il deserto cresce”. Eppure non sono tutti esposti ugualmente a questa malattia: immensi lembi della popolazione vivono in spazi urbani privi di ogni urbanizzazione, tanto che solo una minuscola parte può godere di un ambiente di vita degno di questo nome.
Non bisogna pensare che i nuovi miserabili siano barbari abominevoli. Essi sono il cuore stesso della società dei consumatori. Essi sono la “civiltà”. Ma in modo che, paradossalmente, il suo cuore è divenuto un ghetto. Ora, questo ghetto è umiliato, offeso da questo divenire. E noi, reputati colti, sapienti, artisti, filosofi, lucidi e informati, dovremmo renderci conto che la maggior parte della società vive in questa miseria del simbolico fatta di umiliazione e di offesa. Tali sono le devastazioni prodotte dalla guerra estetica, divenuta il regno egemonico del mercato. L’immensa maggioranza della società vive in zone esteticamente disastrate, dove non è possibile vivere e amarsi perché vi si è esteticamente alienati.
Io conosco bene questo mondo: ne provengo. E so che è portatore di insospettabili energie. Ma se esse sono lasciate all’abbandono, diventeranno essenzialmente distruttive.
Nel XX secolo, si è fatta largo un’estetica nuova, capace di funzionalizzare la dimensione affettiva ed estetica dell’individuo trasformandolo in un consumatore. Ci furono altre funzionalizzazioni: certe ebbero come scopo quello di fare dell’individuo un credente; altre un ammiratore del potere; altre ancora un libero-pensatore, che esplora l’illimitato risuonante nel proprio corpo all’incontro sensibile del mondo e del divenire.
Non si tratta, però, di condannare il destino industriale e tecnologico dell’umanità. Si tratta, piuttosto, di reinventare questo destino e, perciò, di comprendere come si sia arrivati a tale condizionamento estetico, sapendo che, se questo non sarà superato, condurrà alla rovina della stessa società del consumo e a un disgusto generalizzato.
Si possono distinguere almeno due tipi di estetica, quella degli psico-fisiologi, che studiano gli organi di senso, e quella della storia dell’arte, degli artefatti, dei simboli e delle opere. Mentre l’estetica psico-fisiologica sembra stabile, l’estetica degli artefatti non smette di cambiare nel tempo. Ora, la stabilità degli organi di senso è una illusione per il fatto che essi sono sottomessi a un processo incessante di defunzionalizzazioni e rifunzionalizzazioni, precisamente legato all’evoluzione degli artefatti.
La storia estetica dell’umanità consiste in una serie di disallineamenti successivi entro tre grandi organizzazioni che formano la potenza estetica dell’uomo: il suo corpo con la sua organizzazione fisiologica, i suoi organi artificiali (tecniche, oggetti, utensili, strumenti, opere d’arte) e le sue organizzazioni sociali che risultano dalla articolazione degli artefatti e dei corpi.
Bisogna immaginare una organologia generale che studi la storia congiunta di queste tre dimensioni dell’estetica umana e delle tensioni, invenzioni e potenziali che ne risultano. E sono proprio le considerazioni preliminari di un tale progetto, quelle che io tento di abbozzare qui.
Solo un tale approccio genealogico permette di comprendere l’evoluzione estetica che conduce alla contemporanea miseria del simbolico, dove, è da sperare e affermare, una forza nuova deve nascondersi: nell’immensa apertura di possibili, dischiusi dalla scienza e dalla tecnologia, e nell’affetto della sofferenza stessa.
Cosa è successo nel XX secolo all’affettività? Negli anni ’40, per assorbire una superproduzione di beni di cui nessuno aveva bisogno, l’industria americana mette in opera delle tecniche di marketing (immaginate già dagli anni ’30 da Edward Barnay, un allievo di Freud) che non cesseranno di intensificarsi durante tutto il secolo, mentre il plusvalore dell’investimento si produce sulle economie di scala che necessitano di mercati di massa sempre più vasti. Per guadagnare questi mercati di massa, l’industria sviluppa una estetica che fa appello in particolare ai media audiovisivi, i quali, rifunzionalizzando la dimensione estetica dell’individuo secondo gli interessi dello sviluppo industriale, fanno sì che egli adotti dei comportamenti di consumo.
Ne consegue una miseria del simbolico che è anche una miseria libidinale e affettiva, e che conduce alla perdita di ciò che io chiamo il narcisismo primario: gli individui sono privati della loro capacità di attaccamento estetico a delle singolarità, a degli oggetti singolari.
Locke intuì, nel XVII secolo, che si è singolari attraverso la singolarità degli oggetti con cui si è in relazione. Io sono il rapporto ai miei oggetti in quanto esso è singolare. Ora, il rapporto agli oggetti industriali, che peraltro si standardizzano, è ormai “profilato” e categorizzato in particolarismi che costituiscono per il marketing dei segmenti di mercato, trasformando il singolare in particolare, generando l’alveo di comunitarismi di ogni genere. Poiché la particolarizzazione del singolare è il suo annullamento: la sua liquidazione, propriamente parlando, nel flusso delle merci-feticcio.
Le tecniche audiovisive del marketing conducono d’altra parte al fatto che, progressivamente, il mio passato vissuto, attraverso tutte queste immagini e questi suoni, che io vedo e sento, tende a divenire uguale a quello dei miei vicini. E la diversificazione dei canali è anch’essa una particolarizzazione dei target, ragione per cui essi tendono tutti a proporre la stessa cosa. Essendo il mio passato sempre meno diverso da quello degli altri, perché il mio passato si costituisce sempre più nelle immagini e nei suoni che i media riversano nella mia coscienza, ma anche negli oggetti e nei rapporti agli oggetti che queste immagini mi conducono a consumare, esso perde la sua singolarità, vale a dire che io mi perdo come singolarità.
Dal momento in cui io non ho più singolarità, io non posso più amarmi: non ci si può amare che a partire dalla consapevolezza intima di avere la propria singolarità, ed è per questo che “la comunità consiste originariamente nell’intimità del legame di sé a sé”. Quanto all’arte, essa è l’esperienza e il sostegno di questa singolarità sensibile come invito all’attività simbolica, alla produzione e all’incontro di tracce nel tempo collettivo.
Ecco perché la questione estetica, la questione politica e la questione industriale non sono che la stessa questione.
La miseria del simbolico tra arte, estetica, politica e consumo
Il lavoro artistico è originariamente impegnato nella questione della sensibilità dell’altro e la questione politica è essenzialmente la questione della relazione all’altro in vista di un sentire insieme
di: Bernard Stiegler
L’ominazione, come prosecuzione della vita con altri mezzi che la vita stessa, è l’apparizione di una forma di vita in comune dove la distribuzione dei ruoli non dipende più dalla genetica ma dai destini (dalle esistenze e dalle loro genealogie, vale a dire da ciò che, del passato, agisce in esse) che si costituiscono nella storia di ciò che, come genere, non è più una semplice specie: l’ominazione è l’esteriorizzazione funzionale delle esperienze individuali e singolari, che si trasmettono a coloro che diventano per ciò stesso degli eredi: i discendenti.
Mi riferisco, qui, tanto alla singolarità dei gesti dei tagliatori di selce che a quella dei gesti, molto tempo dopo, delle pitture rupestri: è questa singolarità di esistenze (ex-sistere è rimanere fuori di sé) a essere conservata e trasmessa da questi artefatti tecnici che sono tanto le pitture quanto gli utensili appuntiti, che sono dunque gli uni e gli altri, e immediatamente, benché differentemente, dei supporti di memoria, o delle memo-tecniche propriamente dette (ma tornerò su questo tema, che fu anche quello di Nietzsche).
Ora, sembra proprio che, dall’alba dell’ominazione, l’individuazione collettiva, in cui consiste una società, presupponga una partecipazione di tutti alla produzione dell’uno, vale a dire del tutto, come fantasma e finzione necessari, in grado di installare il teatro di una presunta unità che si chiamerà “la società”; sempre attraverso una dimensione sociale che, come la lingua, la religione, la struttura familiare, i modi di produzione, ecc., sono ciò che si è chiamato strutture, o sistemi, o dispositivi, ecc., i quali sempre presuppongono l’esteriorizzazione originaria che sostiene dei destini.
Questi espedienti, attraverso cui si costituisce l’uno come fantasma del tutto, queste dimensioni significano che la società, in proprio, non esiste, né dunque la comunità, e che essa non è che un assemblaggio di tali dispositivi o sistemi, sebbene, tuttavia, questo concatenamento, per fare uno, debba esso stesso portare una singolarità che sia idiomatica, detto altrimenti: allo stesso tempo singolare e comune.
Questi assemblaggi sono supportati da ciò che ho chiamato strati epifilogenetici, o ritenzioni terziarie, vale a dire concrezioni di saperi e di poteri, negli oggetti e dispositivi tramandati come cose del mondo umano. In questo, essi comportano una dimensione mnemotecnica anche quando non sono mnemotecniche in senso stretto. Una pala da muratore o un forcone da letame, i quali mi è capitato di maneggiare, non hanno funzione mnemotecnica; e, tuttavia, esse supportano una memoria di gesti e di funzioni che li proiettano automaticamente nello strato mnemotecnico di tutte le cose in quanto cose del mondo.
Quanto alle mnemotecniche in senso stretto, esse appaiono dopo il neolitico e diventano immediatamente dispositivi di strutturazione dei poteri. Ma, a partire dalla costituzione della città greca e poi della Chiesa cristiana, questi dispositivi, che ho chiamato ritenzionali e che sono allora nelle mani dei chierici (giuristi e religiosi, politici e spirituali), i quali ne definiscono i criteri di selezione (diritto canonico, selezione dei buoni enunciati, dei buoni gesti, delle buone azioni, dei costumi e delle procedure corrette, ecc.), sono pensati come processo di individuazione che presuppone la partecipazione del molteplice alla produzione dell’uno, benché sotto l’autorità dei chierici.
Ora, nel XIX secolo, le mnemotecnologie fanno per la prima volta apparizione: tecnologie e non più semplicemente tecniche, sono prodotti industriali e macchine che inaugurano l’era dell’audiovisivo (fotografia e fonografia, cinema e radio, televisione), e poi, nel XX secolo, tecnologie del calcolo (eredi della meccanografia di Hollerith), di modo che il mnemo-tecnologico diventi il supporto stesso della vita industriale e sia integralmente sottomesso agli imperativi della divisione mondiale e macchinica del lavoro, della ricchezza e dei ruoli; a fortiori quando, attraverso la digitalizzazione generalizzata, tecnologie dell’informazione e tecnologie della comunicazione si integrano, quadro oggi denominato “capitalismo culturale” o “capitalismo cognitivo”.
Senonché, un imperativo, fino ad allora totalmente sconosciuto, è apparso tra i ruoli sociali ridistribuiti dalla rivoluzione industriale: quello della necessità di smaltire, consumandoli, i prodotti industriali provenienti dal macchinismo termodinamico, elettrico ed elettronico, in numero sempre più importante, in una diversità sempre crescente, benché al contempo sempre più standardizzati, modificando la natura stessa della diversità.
Questo ruolo di smaltimento è affidato al marketing, che si impadronisce, dal XIX secolo, delle mnemotecnologie (anche se esso non è veramente definibile come tale che nel XX secolo) per assicurare il funzionamento del sistema, vale a dire la circolazione sempre più accelerata (ed entropica: qui è la questione) delle energie che lo costituiscono.
Ma qui le energie non sono più la circolazione simbolica, in cui consisteva la partecipazione e che instaurava il sim-bolo, in greco sym-bolon, come condivisione sensibile, cognitiva e spirituale (spirituale nel senso di ciò che, come gli spiriti, riviene e differisce, perdura ripetendosi): la circolazione funzionale delle energie, nella società di controllo degli affetti e dei corpi che essi abitano e consumano, a cui giunge l’organizzazione dello smercio dei prodotti come organizzazione dell’adozione delle incessanti novità che risultano dall’innovazione che si chiamerà modernità, è ciò che genera una perdita di partecipazione simbolica, che è anche una sorta di congestione simbolica e affettiva, vale a dire, ci tornerò nel terzo capitolo, Allegoria del formicaio, una perdita strutturale di individuazione, tema di cui avevo avviato il discorso in Amare, amarsi, amarci. Ciò che così viene distrutto è un circuito del desiderio su cui tornerò in La miseria simbolica. La catastrofe del sensibile. In altri termini, è il desiderio stesso a essere distrutto, in quanto esso non può che essere un circuito: il circuito di un dono. Da qui il sentimento di sbandamento generalizzato che domina ovunque, liberando i frutti della pulsione di morte, e lo strano piacere che essi donano, che sono l’odio di sé e degli altri, e il passaggio all’atto omicida, così ben messo in scena nel film di Gus Van Sant, Elephant (2003). Con il marketing, la cui apparizione è contemporanea al fordismo, la questione non è più la sola riproduzione del produttore (della sua forza lavoro, delle energie di cui ha bisogno, delle sue materie prime, ecc.; tutto ciò che già Marx aveva pensato) ma anche la fabbricazione, la riproduzione, la diversificazione e la segmentazione dei bisogni del consumatore.
Le energie esistenziali (le energie dei produttori e dei consumatori), che assicurano il funzionamento del sistema, sono i frutti del desiderio - della libido - dei produttori da un lato, e dei consumatori dall’altro. Il lavoro e il consumo sono libido captata e canalizzata. Il lavoro in generale è sublimazione e principio di realtà; ivi compreso, certamente, il lavoro artistico. Ma il lavoro proletario o più generalmente industriale non ha niente di artistico né di artigianale: è tutto il contrario. E il consumatore, la cui la libido è captata, trova sempre meno piacere a consumare: è confuso, pietrificato dalla coazione a ripetere, rispetto a cui bulimia e anoressia sono come casi particolari (sono anche, su di un altro piano, in epoca hitleriana, età paradossale e arcaizzante dell’industria, le anguille vomitate del Tamburo di latta di Günter Grass): non è un caso, infatti, che si apra in questo momento un dibattito sull’obesità, risultato micidiale dello sfruttamento del corpo e delle sue passioni, frustrazioni e pulsioni.
Ciò accade anche perché l’industrializzazione della mnemotecnologia audiovisiva e informatica, che rende possibile la guerra estetico-industriale e che costituisce l’arsenale del marketing, conduce inevitabilmente alla divisione industriale del lavoro e dei ruoli extra-lavorativi in modo per cui il rapporto al “prodotto”, nel nostro caso al simbolo, cognitivo o estetico, finisce all’opposizione dei “produttori” e dei “consumatori” di questi simboli; e questa opposizione uccide i loro desideri.
È così che il capitalismo culturale, informatico o cognitivo, rappresenta il problema di ecologia industriale più inquietante che possa esserci: le capacità mentali, intellettuali, affettive ed estetiche dell’umanità vi sono massivamente minacciate, il momento stesso in cui la potenza di azione dei gruppi umani dispone di mezzi di distruzione senza precedenti. La crisi ecologica che risulta dalla produzione industriale dei simboli è l’epoca della grande miseria mondiale del simbolico, che colpisce (benché molto differentemente) tanto il Nord quanto il Sud e ciò che, ormai, bisogna distinguere come l’Estremo Oriente. Per miseria del simbolico intendo, dunque, la perdita di individuazione derivante a sua volta dalla perdita di partecipazione alla produzione dei simboli, designanti, questi, tanto i frutti della vita intellettiva (concetti, idee, teoremi, saperi) che quelli della vita sensibile (arti, saper-fare, costumi). E ritengo che lo stato presente di perdita di individuazione generalizzato non possa che condurre a un crollo del simbolico, vale a dire a un affondamento del desiderio, ovvero, alla distruzione del sociale propriamente detto: alla guerra totale.
* ACCADEMIA UNIDEE, 16.01.2023 (ripresa parziale).
Via Serralunga 27
Biella, Italia
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FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA: NATURA, INTELLIGENZA ASTUTA, E GRATITUDINE ...
Una sollecitazione a pensare al "mondo divenuto favola" (lezione di Esopo, Fedro, e Nietzsche): come la filosofia, la teologia, e la politica mondiale, senza più Grazia (gr.: XAPIS, "CHARIS") e senza più Grazie (gr.: XAPITES, "CHARITES") perde la testa e ricade nel sacco, nella tradizionale "luminosa" caverna dell’ "homo homini lupus est" ... Dov’è l’etica? E dove la carità (gr. XAPITAS, "CHARITAS") della stessa grazia ("charis")?!
MEMORIA (E MUSE): "L’AMORE NON è LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (W. Shakespeare, Sonetto 116).
PSICOANALISI E "DISAGIO NELLA CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929): "Il sentimento di gratitudine è una delle espressioni più evidenti della capacità di amare. La gratitudine è un fattore essenziale per stabilire il rapporto con l’oggetto buono e per poter apprezzare la bontà degli altri e la propria. (Melanie Klein).
#ANTROPOLOGIA, #ARTE, E #CONOSCENZA: IL #RINASCIMENTO DI IERI E DI OGGI.
LA #RICERCA PER UNA #RINASCITA POSSIBILE E NECESSARIA ...
#STORIA, #FILOSOFIA, #MATEMATICA E #COSMOLOGIA (#ELEUSIS2023)."DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!
MICHELANGELO PISTOLETTO. Della mostra del 2021 (Bologna, Palazzo Boncompagni), "Gregorio XIII e Michelangelo Pistoletto, dal Rinascimento alla Rinascita", la presentazione di Sonia Spiniello ("Leadership Medica")
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MICHELANGELO PISTOLETTO,
OMINITEISMO E DEMOPRAXIA
Manifesto per una rigenerazione della società
Prendete "Ominiteismo e Demopraxia" come un manuale per una trasformazione responsabile della società. Una guida necessaria all’equilibrio della convivenza civile, dove ognuno esercitando la Demopraxia, dalle piccole occupazioni del quotidiano saprà estenderla alle grandi relazioni sociopolitiche della vita comune.
Siamo giunti a un traguardo della storia ora dobbiamo compiere il passaggio necessario al proseguire di questa nostra civiltà. A Cittadellarte è nato un simbolo che indica la via verso il cambiamento della società. È il disegno del triplo cerchio. Esso rappresenta il Terzo Paradiso, ovvero il Terzo Tempo dell’umanità.
L’arte ha animato ogni passo della vicenda umana con la forza della creazione che le è propria. In questo frangente epocale essa traccia le prospettive del nuovo percorso, ne avvia il cammino e ne assume, anche praticamente, la guida.
Il cambiamento inizia da due aspetti fondamentali, la religione e la politica. L’Ominiteismo pone sia le persone sia le istituzioni religiose di fronte a se stesse per un giudizio che non arriva dall’alto, ma mette ciascuno e tutti direttamente davanti alle proprie responsabilità. La responsabilità diviene così la prassi che regola e unisce tutte le parti della società.
La Demopraxia sostituisce il termine “potere”, dal greco krátos (da cui deriva democrazia), con il termine “pratica”, dal greco pràxis (da cui demopraxia), per arrivare con la demo-pratica là dove non si è potuti arrivare con l’imposizione del demo-potere.
Questo manifesto si conclude con le indicazioni indispensabili per realizzare demopraticamente quello che è stato il sogno della Democrazia.
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NUOVE FRONTIERE
Il Rinascimento qui e ora
di Alberto Orioli (Il Sole-24 Ore, 26 marzo 2018)
Ci volevano un sudafricano professore a Oxford, ex economista della Bers (Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo), e un canadese, anch’egli professore a Oxford, curioso del mondo e capace di parlare il mandarino, per scuoterci dall’ottundimento quotidiano in questa Italia illividita e rancorosa, prigioniera di una formidabile narrativa della paura. Ed è merito di Ian Goldin e Chris Kutarna se diventa proponibile l’approccio a un altro paradigma, un glorioso amarcord verso un nuovo Rinascimento, collettivo e individuale, nuova utopia del possibile. Anzi già in atto, secondo i due studiosi, se solo volessimo avere occhi per vederlo.
La 390 pagine della Nuova età dell’oro sono un concentrato di entusiasmo e di ingenuità. È la meraviglia di chi vede il David di Michelangelo dopo averne sentito narrare il mito a 10mila chilometri di distanza. È la positività frutto di stupore genuino, tuttavia retaggio fanciullesco se osservato con gli occhi nostri, di chi il David ce l’ha dentro e lo rimira tutti i giorni in Piazza della Signoria o in qualche luogo dell’anima. Il fatto che la scultura simbolo del Rinascimento faccia parte del nostro paesaggio interiore, e sia quasi un déjà vu del vissuto giornaliero, non ci esime dal rammentare come quella statua - per dirla con il critico d’arte - rappresenti «il potenziale umano nella sua forma più vitale», icona dello sforzo di raccolta del pensiero e dell’energia che precede di poco l’atto. E che atto, quella fiondata destinata a cambiare il pensiero dell’umanità intera.
Sostituite Zuckerberg a Gutenberg, i lanci su Marte ai viaggi di Colombo, Savonarola ai leader populisti, abbinateli ai progressi scientifici nella sanità, agli sforzi per la redistribuzione delle risorse, per la connessione globale, all’aumento dell’aspettativa di vita, alle scoperte di nuovi pianeti sempre più simili alla terra. Ne avrete la fotografia di questa nostra tumultuosa contingenza così simile a quell’epoca mitica, pur se punteggiata da shock e sorprese. E forse l’ultimo è proprio lo scandalo Facebook con il mercimonio dei big data e il rischio della grande disillusione “social”. Ovviamente Goldin e Kutarna non lo potevano prevedere, ma poco cambierebbe nella loro analisi: per loro comunque il nostro tempo è il migliore della storia, un mantra non discosto da certe asserzioni popperiane. Ne risulta un tempo sospeso in cerca di una prospettiva per mettere in sequenza questa inimitabile quotidianità e delineare la rotta del nuovo Rinascimento, futuro che è già presente.
Siamo noi il David, ci dicono i due economisti, un’umanità in tensione tra la decisione e l’azione: «Le forze che 500 anni fa confluirono in Europa per scatenare il genio e sovvertire l’ordine sociale sono nuovamente presenti nella nostra vita. Solo che sono più forti e globali». Il senso del libro è tutto qui: c’è una corrente globale che porta al riscatto dell’intelligenza, a maggior gloria dell’umanità stessa.
Il resto è una cavalcata narrativa - dottrina e aneddoti popolari stile wikipedia al cubo - per dimostrare il lato buono e bello di ciò che spesso percepiamo come oscuro e nemico, quello sviluppo globale fatto di schegge all’apparenza impazzite, di egoismi e di generosità, di collaborazioni di massa e di nuove guerre. Quello schermo quotidiano definito da milioni di pixel della contraddizione e del paradosso.
La Nuova età dell’oro diventa così un manuale sovversivo e radicale, soprattutto contro l’antropologia negativa che tanta parte ha nel dibattito pubblico della contemporaneità, a partire da quello politico. Un racconto positivo dell’oggi globale non discosto dalla narrativa di Steven Pinker, il paladino della guerra comunicativa contro la società del rancore. Il libro provoca: siamo in bilico nella sfida tra la fioritura del genio e la fioritura del rischio.
Sta a noi scegliere l’opzione giusta. O meglio, l’azzardo. Sta a noi - ci dicono Goldin e Kutarna - accettare di far roteare la nostra fionda fiduciosi che il futuro sarà radioso. Il refrain è sempre lo stesso: il nuovo Rinascimento è adesso. La scoppiettante rassegna che rilegge la vulgata del cammino fatto dall’umanità nelle sue diverse accezioni culturali (dalla scienza alla filosofia, dalla medicina alla comunicazione, dall’arte alla genetica) sfocia in un sincopato manifesto programmatico, una sorta di abbecedario pre-politico.
Vi si parla della necessità di recuperare il mecenatismo statale per finanziare dall’arte alla scienza (perché anche la novità del crowdfunding da sola non basta) o ancora del valore pedagogico del fallimento, unica strada per raggiungere obiettivi davvero ambiziosi, nel momento in cui i costi individuali e collettivi, grazie alle tecnologie, stanno crollando.
Il capitolo si avventura anche in un’ipotesi di riforma fiscale pur se con un enunciato assai generico e debole (spostare la base imponibile verso l’alto e usare le tasse per scoraggiare i mali pubblici); tratta l’urgenza di rafforzare la rete di sicurezza sociale allargando (senza spiegare come) la possibilità di accedere ai sussidi anche ai lavori eccessivamente precari o ancora la necessità di riequilibrare le tutele della proprietà intellettuale, declinate però secondo un programma tutto anti-industriale. Se poi si individuano i luoghi del nuovo sviluppo - le nuove Firenze, probabilmente oggi localizzabili più in Cina che in Europa - e vi si concentrano i migliori cervelli, il gioco è fatto e il Rinascimento vive.
Facile no? Facile. Ancora di più per chi usi schemi semplificati: basta avere fiducia nello spirito del cambiamento e abbinarlo al nuovo anelito verso la virtù e l’onestà (va detto che, finalmente, due economisti teorizzano e dimostrano il valore di utilità collettiva del rispetto delle regole, la convenienza pubblica e privata dell’essere onesti al di là di ogni valore etico). Nello schema semplificato è previsto anche l’uso di una dose di audacia, la più antica delle virtù da legare indissolubilmente alla dignità.
A lettura terminata si finisce col sorridere delle ingenuità e della lontananza rispetto alla comune realtà (vera, percepita?) dei due estasiati autori di questa Guida a un secondo rinascimento economico e culturale. Ma è quel sorriso che ti scava dentro. Perché tanto entusiasmo vitale diventa l’antidoto all’assuefazione del cinismo, vero cancro di una modernità solo sprezzante perché tutto sa e tutto ha già visto.
Tanto sfrontato ottimismo invece induce a riflettere su quanto siano necessari i sogni, soprattutto se ci rendiamo conto che altro non sono se non i progetti, veri e concreti o concretizzabili, di quel David che siamo noi, proteso verso un futuro che è sfida. Pico della Mirandola è il mentore dei due autori: «Ci afferri l’animo una santa ambizione di non contentarci delle cose mediocri, ma di anelare alle più alte e sforzarci con ogni vigore di raggiungerle dal momento che, volendo, è possibile».
E il sorriso scettico si fa via via complicità, fino al perdono di quell’eccessivo candore narrativo. Perché quelle energie, quelle tossine positive da orgoglio della virtù sono ciò che rimane a libro chiuso. E ciascuno così si sente più pronto ad affrontare il suo Golia.
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”.
LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali”
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
Federico La Sala
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Ripartire dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo" .... *
“È cominciata l’era dolce dell’umanità!”
di Francesco Bellusci ("doppiozero", 26 luglio 2017)
Qualche anno fa, in un breve e amichevole scambio a distanza con Michel Serres, il filosofo francese mi faceva notare la vicinanza geografica del mio paese di origine (lucano) con il rispettivo (calabrese) di Gioacchino da Fiore, confidandomi che in quel momento l’abate e teologo cistercense assorbiva i suoi interessi e le sue ore di studio nella biblioteca della prestigiosa Académie Française, fondata dal cardinale Richelieu, di cui Serres è membro da quasi trent’anni. Adesso, mi rendo conto che quella confidenza di circostanza mi avrebbe fornito la chiave segreta di accesso alla sua ultima fatica, appena edita in Italia (Darwin, Bonaparte e il Samaritano. Una filosofia della storia, Bollati Boringhieri, Torino).
Infatti, la “filosofia della storia” che Serres presenta in questo libro, ricalca lo schema dell’interpretazione storico-allegorica di Gioacchino da Fiore basata sul processo di compimento progressivo della Rivelazione e soprattutto sulla divisione in tre età o epoche (l’età del Padre, l’età del Figlio e l’età dello Spirito santo), che nel libro di Serres diventano: l’era dell’inizio, l’era dura e l’era dolce.
Non si tratta di una novità assoluta. In passato e sempre in una versione secolarizzata, lo schema era stato mutuato e riproposto, per esempio, da Lessing nell’Educazione del genere umano o da Nietzsche nelle “tre metamorfosi” (cammello, leone, fanciullo) del Così parlò Zarathustra.
È lo stesso Serres che, in alcuni punti del libro, rivela la matrice “cristiana” della griglia alla base della sua filosofia della storia, che rimane tuttavia estranea al modello escatologico di quella matrice. La confidenza evoca oggi un’ulteriore coincidenza e analogia. Tra i più ferventi aderenti alla visione di Gioacchino da Fiore ci fu il teologo e francescano parigino Gerardo di Borgo San Donnino, che in un libro intitolato Liber introductorius ad Evangelium aeternum del 1254 preconizzò l’imminente avvento dell’“età nuova” o ordine dello Spirito Santo profetizzata da Gioacchino (per l’esattezza nel 1260), con la scomparsa conseguente della Chiesa gerarchizzata sostituita da una comunità monastica di santi.
Ma San Bonaventura metterà a tacere immediatamente i fervori gioachimiti nel suo ordine, bollandoli di eresia, e il teologo parigino sarà condannato alla prigione a vita. Entrati nel terzo millennio, diverse e inquietanti nubi e minacce sembrano addensarsi e oscurare il nostro tempo: dal terrorismo globale alle guerre asimmetriche, dalle catastrofi ecologiche o umanitarie legate ai grandi flussi migratori dal Terzo Mondo alla criminalità organizzata che avvelena l’economia e la politica di alcuni Stati, in non poche parti del mondo.
Eppure, un filosofo, ancora una volta francese, di nome Michel Serres, ancora una volta, in quest’ultimo libro, ne parla come di fenomeni molto circoscritti e regressivi, enfatizzati solo dai “mercanti” del pessimismo e del catastrofismo che si annidano non a caso nel sistema delle comunicazioni di massa, e annuncia, nell’incredulità generale, che abbiamo fatto da poco il nostro ingresso nell’età più dolce dell’umanità.
È, quindi, il caso di addentrarci di più nel testo di Serres, al quale già di recente la collana “Riga” sui grandi innovatori del Novecento ha dedicato una ricca antologia critica (Michel Serres, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Marcos y Marcos, Milano 2014) e sul quale, il prossimo ottobre, la Casa della Cultura di Milano si appresta ad offrire un seminario a più voci al pubblico italiano, per accompagnarlo nel modo in cui il nuovo maître à penser francese, che parteciperà in videoconferenza, c’invita a cambiare lo sguardo sul mondo contemporaneo.
Se, come si è detto, Gioacchino da Fiore gli fornisce la tela, la tavolozza dei colori che Serres utilizza per dipingere il suo affresco ambizioso include alcune coppie concettuali-chiave: bene e male, virtuale e attuale, caos e necessità, sacro e santo, rideclinate a partire dai pensatori e scienziati che lo hanno ispirato profondamente e costantemente: Simone Weil, Henri Bergson, Jacques Monod, René Girard.
Questi riferimenti e intercessori non vanno ovviamente confusi con i “personaggi concettuali” fatti assurgere da Serres a simboli delle tre età o ere che vede succedersi nella storia e che danno il titolo al libro: Darwin, Napoleone e il Samaritano.
Il libro inizia con la precisazione di un nuovo modo di intendere e definire i confini della storia, la cui profondità temporale assume in Serres una dimensione colossale. Non è solo la storia “storica”, la storia centrata sugli uomini, la storia che ha inizio con l’invenzione della scrittura. Paradossalmente questa Storia ha una memoria corta, cortissima, anzi è un ammasso di oblii, perché dimentica e mette ai margini della storia gli ominidi o i popoli primitivi privi di scrittura, gli altri viventi, le cose inerti, il pianeta, l’universo. La storia di cui Serres vuole proporre una filosofia, infatti, ha l’estensione cronologica vertiginosa del “Grande Racconto” delle scienze, dal momento che risale fino al Big Bang, cioè a circa quattordici miliardi di anni fa.
È il racconto che unifica in un’unica serie temporale le durate che ogni singola scienza (etnologia, biologia evolutiva, fisica del globo, astrofisica, cosmologia) ha ricostruito e aggiorna con sempre maggiore esattezza per i propri oggetti, in cui è inclusa la storia degli storici. L’enciclopedia delle scienze diventa una cronopedia e scienze naturali e scienze umane si uniscono, perché, anche se raccontano cose diverse, si basano sulla stessa struttura del tempo. Questa storia, chiarisce Serres, non ha più scopo o direzione e tantomeno sono gli uomini il fine o la fine di questo racconto, che è fatto di caos e biforcazioni impreviste, è un insieme eterogeneo di paesaggi e ritmi temporali differenti, ma che si può sempre ripercorrere da valle a monte secondo il “movimento retrogrado della verità” di bergsoniana memoria, ricostruendone così catene causali e direzioni di marcia. E Serres vi scorge la successione di tre ere.
La prima era va dalla formazione dell’Universo e del nostro pianeta fino alla comparsa e allo sviluppo delle forme viventi pre-umane. È l’era “darwiniana”, segnata dal duello energia-entropia, che governa il mondo fisico, e da quello vita-morte, che governa la galassia dei viventi e che si rideclina in pace-guerra con la comparsa dell’Homo sapiens, il rappresentante dell’unica specie vivente a introdurre la violenza e l’omicidio intra-specie. Ha inizio adesso l’“era dura” segnata da tre morti: la morte procurata col sacrificio, prima umano poi animale, ritualizzato nelle religioni arcaiche, che coagulava e rendeva coese così le comunità col sacro e col sangue, fino a quando il cristianesimo lo sostituirà con il rito “dolce” e simbolico dell’eucarestia, per denunciare l’innocenza di ogni vittima sacrificale; la morte procurata dalle armi letali della guerra, che è apparsa perpetua lungo tutta la storia “umana”, a cominciare dalla madre di tutte le guerre, quella combattuta tra gruppi nomadi e gruppi sedentari; la morte indotta o minacciata dal meccanismo economico del prestito e del debito, regolato ma sempre impastato di violenza. L’era dura culmina nella rivoluzione industriale e si chiude con l’esplosione di Hiroshima, che inaugura la prima “globalizzazione”, perché proietta la minaccia di morte per la prima volta non più sull’individuo, sui gruppi umani o sulle civiltà bensì sull’intera specie umana, ma è contestuale all’evento che gli fa da contraltare e che apre il sipario dell’era dolce: la scoperta della penicillina.
La neghentropia, l’informazione, la cura della vita, hanno sempre opposto, infatti, resistenza alla “tanatocrazia” dell’era dura e creato le condizioni per l’avvento dell’era dolce. Le stesse rivoluzioni dolci, come quelle concernenti i segni e la comunicazione (dall’oralità alla scrittura, dalla scrittura alla stampa, dalla stampa al digitale) hanno avuto un impatto più duraturo e diffuso sull’organizzazione sociale rispetto alle rivoluzioni dure, come quella scientifico-tecnico-industriale.
L’era dolce comincia poco più di mezzo secolo fa e si connota per tre componenti: la pace, la medicina, il digitale. La pace, nuova, dura almeno in Europa ininterrottamente da settant’anni; la guerra e il terrorismo sono precipitati all’ultimo posto come causa di mortalità nel mondo; all’immensa maggioranza degli uomini ripugna uccidere, violentare, distruggere opere d’arte e stigmatizza le minoranze che adottano ancora questi comportamenti; la protezione sociale dei deboli ha capovolto il darwinismo sociale dell’era dura. Questa pace è stata la condizione principale della golden age del secondo dopoguerra, dello sviluppo economico impetuoso che ha accresciuto il benessere, l’inurbamento, e della medicina che ha aumentato considerevolmente la speranza di vita, modificando il nostro rapporto col corpo, che non soffre più i dolori quotidiani di chi viveva già fino alla metà del secolo scorso.
Nell’era dolce, il medico rimpiazza il guerriero, la pietà del buon Samaritano succede alla spietatezza di Napoleone: “Nell’era antica, che possiamo definire ‘hegeliana’, a volte gli eserciti in battaglia trascinavano dietro degli sparuti chirurghi, mal equipaggiati, con poche infermiere munite di bende sparse in un ambiente insozzato dai combattimenti. Le grandi epidemie spesso erano la conseguenza dei carnai successivi allo scontro. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che un giorno queste retroguardie avrebbero sostituito in prima linea i soldati, un tempo vittime; che l’ospedale, dove hanno luogo le sfide all’ultimo sangue per il trionfo della vita, avrebbe rimpiazzato il conflitto; che i governi, abbandonando il servizio militare, avrebbero deciso per una politica della salute; che dopo le ferite ci sarebbero state le cure; che l’assistenza sanitaria pubblica avrebbe sostituito il quartier generale e le sue strategie di morte; che l’OMS avrebbe potuto orientare la geopolitica. Ma questa utopia ha avuto luogo”.
Dopo aver letto fiumi di inchiostro sul lato oscuro e pervertibile della biopolitica moderna, Serres c’invita a coglierne il lato irenico e benigno, se ci poniamo adeguatamente dal punto di vista della lunghissima durata del “Grande Racconto”. D’altra parte, il profilo antropologico emergente dell’umanità “dolce” è convergente con quello tratteggiato già nel frammento postumo del 1887 da Nietzsche, per il quale proprio il contesto di vita reso meno insicuro e insensato e quindi addolcito dallo sviluppo della scienza e dalla tecnica, rende più ‘forti’ gli uomini più ‘moderati’, che non hanno bisogno, per rassicurarsi, di ricorrere a fedi estreme o a visioni essenzialiste e metafisiche dell’uomo.
Il motore della storia non sarà più la lotta tra servo e padrone, vinta da chi è disposto a rischiare la vita e a soggiogare quella altrui con la minaccia di morte, ma la legge del buon samaritano che s’inchina e si prende cura della vita, perché ci consentirà non solo di progredire ma di sopravvivere: “Dalla pietra tagliata alle armi nucleari, dai cacciatori-raccoglitori agli sventramenti del mondo, l’era storica contraddistinta dalle forze dure è al termine. Non può andare oltre senza avvelenare gli uomini e distruggere le cose”. E arriviamo così alle tecnologie dolci di Internet, che hanno innanzitutto il pregio di liberare la potenza del numero: tutti accedono virtualmente a tutto e a tutti.
Serres è positivamente impressionato dalla capacità di Internet di decentralizzare e democratizzare il sapere, in una misura non comparabile con quella delle altre rivoluzioni della “coppia supporto-messaggio” (scrittura e stampa) e in attesa di dispiegare ancora il suo ventaglio di effetti e opportunità per l’accesso al potere e alle istituzioni, per l’organizzazione dell’opposizione a regimi oppressivi, per nuovi modi di apprendere, di conoscere e di liberare la mente all’invenzione, per creare nuove appartenenze.
Se, come diceva Lutero, ogni uomo è Papa con una Bibbia in mano, cosa sarà l’uomo con uno smartphone in mano, cioè con il mondo intero in mano? Una molteplicità immensa e crescente è entrata in scena e in contatto in uno spazio non più cartesiano e metrico, bensì virtuale e topologico. Certo non è detto che questa possibilità incommensurabilmente accresciuta di contatto e scambio generi automaticamente, sempre e in modo più esteso comunità e pace.
Nuove forme di violenza possono essere veicolate nella e con l’uso della Rete e i più pessimisti prefigurano addirittura la fagocitazione del dolce da parte del duro con le cyberguerre. Ma al futuro dell’età dolce Michel Serres consegna l’utopia concreta di una pace universale che discenderà dalla coscienza della comune appartenenza all’equipaggio del vascello-Terra e dei rischi di affondare che esso corre: “È vero, abbiamo messo la mano sul mondo, ma il mondo tiene la sua mano su di noi. Noi lo teniamo virtualmente; lui ci tiene realmente. Noi lo teniamo realmente; lui ci tiene virtualmente. Lo teniamo grazie al facile accesso; e lui ci tiene per le nostre condizioni di esistenza - respirazione, nutrimento, salute, spostamenti... Mi sembra prevedibile che un giorno la mano del mercato dovrà adeguare la sua potenza relazionale a quella concreta del mondo, e forse adeguarvisi, cioè obbedire alla sua legge. Entriamo in un periodo in cui si gioca un mano a mano decisivo per la nostra sopravvivenza, tra l’uomo individuale o globale e l’intero pianeta. Questo mio libro sulla storia e la storia stessa tornano al punto di partenza: partiti dal mondo, vi fanno ritorno”.
Per lungo tempo oggetto ostracizzato dalla scena del discorso filosofico contemporaneo, per aver alimentato in modo sotterraneo le ideologie totalitarie (come tale è stata smascherata o messa all’indice da Hannah Arendt o Karl Popper), Serres è determinato nel riportare la filosofia della storia in auge come l’orizzonte o la bussola imprescindibile per la politica e i decision makers, che oggi, in questo inizio di secolo, se ne scoprono drammaticamente orfani, nel momento in cui necessitano di essere più lungimiranti.
E una filosofia della storia allargata e inglobante le durate colossali dell’Universo, della Terra, dell’evoluzione del vivente, oltre alla storia delle collettività umane, non è affatto un mero esercizio interdisciplinare, né solamente il frutto di quel che Serres chiamava, già alcuni decenni fa, programmaticamente “il passaggio a Nord-Ovest” tra saperi umanistici e saperi scientifici.
Risponde all’esigenza di evitare ad ogni costo l’opposizione natura/storia, il cui superamento è ormai condizione stessa della nostra sopravvivenza. I nostri nonni sapevano di avere alle loro spalle solo circa tremila anni di storia. Le “Pollicine” del futuro, i giovani dell’era dolce, sapranno di avere alle loro spalle quattordici miliardi di anni di storia e di essere entrati nell’era dell’antropocene. Questa coscienza non potrà non avere effetti sulla mentalità, sulla politica, sul diritto, sul modo di produrre. In definitiva, sul nostro essere-nel-mondo. Serres ancora una volta è ottimista: “Ecco che ne è dell’essere-nel-mondo: dolce verso il mondo, l’età dura era dura verso gli uomini; poi, dolce per gli uomini, l’età dolce è diventata dura verso il mondo. Dobbiamo lavorare per un futuro in cui i nostri comportamenti saranno dolci verso gli uomini e verso il mondo”.
L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Louis De Courcy e Guillaume Goubert intervistano Michel Serres.
Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!!!
EU-ANGELO E COSTITUZIONE . "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16).
SENZA LO "SPIRITO" DI GIOACCHINO DA FIORE, NON SI DA’ IL "TERZO PARADISO". Un omaggio critico a Michelangelo Pistoletto
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA -- IL SERPENTE DI BRONZO: MICHELANGELO, WARBURG, E UN ANAGRAMMA.
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E IL DESTINO ULTIMO DELL’UOMO *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
“Sarebbe difficile trovare un qualsiasi argomento in tutta la storia delle idee che abbia invitato a formulare così tante ipotesi, per poi smentirle tutte e renderle assolutamente inutili, come ha fatto il giardino dell’Eden (...) Sono state proposte teorie dopo teorie, ma non è stata trovata nessuna veramente convincente (...) Il luogo dell’Eden sarà sempre classificato, insieme alla quadratura del cerchio e all’interpretazione della profezia non avverata, tra quei problemi irrisolti - forse insolubili - che esercitano un fascino così pieno di mistero” (William A. Wright, Eden, in Smith, Dictionary of the Bible, 1863),
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”. E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“Per la nostra mentalità moderna, l’unico vero paradiso, per usare le parole di Proust, è sempre quello che abbiamo perduto. I Kabakov invece negano questa visione pessimistica, anche se non parlano di un paradiso celeste che ci aspetta alla fine dei tempi. Quando alzano lo sguardo verso il soffitto per superare il pessimismo di chi immagina paradisi solo remoti e inaccessibili e scoraggiare la pericolosa idolatria di chi insegue paradisi artificiali, invitandoci a vedere il cielo in una stanza, i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali. Anche per loro il paradiso perduto porta sempre con sé la promessa di un paradiso ritrovato, e anche per loro questo paradiso è accessibile in qualunque momento. Basta soltanto prendere una scala, e salirne i gradini. Qui e ora” (p. 314).
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
“L’interesse dei teologi e dei filosofi naturali per la geografia era condiviso da Dante Alighieri, che aveva una grande varietà di interessi e che nella sua Commedia (c. 1305-20) raccontava, come è noto, la sua esperienza attraverso i tre regni dell’inferno, del purgatorio e del paradiso. Il celebre poema era un’opera letteraria che esprimeva la conoscenza geografica e cosmografica del tempo (...) Per Dante la geografia era sempre subordinata alla poesia. Nel canto XXVI dell’Inferno, il poeta si riferisce al “folle volo” di Ulisse. La morale della storia del marinaio ed eroe greco che oltrepassò le colonne d’Ercole e che da lontano riuscì a gettare solo uno sguardo verso la montagna del paradiso, prima di vedersi sbarrata la strada da una tremenda tempesta, era che l’uomo non poteva penetrare, solo con le sue forze e senza il sostegno della rivelazione divina, il mistero del paradiso terrestre” (p.153).
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
“Non permetto che mi si trascini attraverso l’Inferno se non a colui che confido sappia anche portarmi attraverso il Purgatorio fino al Paradiso. Ma proprio di ciò difettano i moderni. Non dico un Paradiso dove tutti cantino salmi avvolti in bianche tuniche e privi di genitali, dove le care pecorelle si aggirino in compagnia dei bei leoni fulvi senza desideri carnali - ma disprezzo chi perde di vista l’ideale dell’homo victor”.
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
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Federico La Sala
Il Terzo Paradiso? Nel mare con i pescatori cubani
Intervista. Michelangelo Pistoletto presenta il primo Rebirth Forum all’Avana che si terrà dal 24 novembre prossimo
di Arianna Di Genova (il manifesto, 17.11.2015)
Da anni, Michelangelo Pistoletto ha smesso di lavorare «in solitudine». L’esperienza della sua adesione al poverismo, l’abitudine all’uso di materiali di riciclo, ai suoi specchi che sdoppiavano la quotidianità in disorientanti apparizioni, lo devono aver ben disposto rispetto lo studio dell’ambiente naturale e di quel consesso umano in cui tutti ci troviamo a vivere. E da un po’ di tempo, molto per la verità, parte da quella eccentrica Factory all’italiana che è la Cittadellarte di Biella (suo luogo natale) per diffondere una nuova filosofia dello stare insieme. È convinto, infatti, che l’arte sia una operazione collettiva, una pratica ermeneutica in grado di offrire i grimaldelli teorici (ma anche emotivi) per affrontare le spinose contraddizioni del mondo.
È per questo motivo che nel 2010 Pistoletto scrisse un saggio intitolato Il Terzo Paradiso: lo pubblicò in italiano, inglese, francese e tedesco e cominciò a forgiare intorno a questo concetto una serie di performance e di azioni, che sviluppava in giro per il pianeta. Un «eden» il suo che non ha niente di religioso, ma rappresenta una promessa di rinascita tutta interna a un livello di civiltà ancora da conquistare. Così se il primo paradiso vedeva gli uomini integrati nella natura, il secondo immersi dentro sfere artificiali e un po’ perduti, il terzo arriva come «zattera salvifica», per rifondare un’etica sociale e uno sviluppo sostenibile. È un segno che entra nel simbolo dell’infinito, producendo un terzo anello, all’apparenza un estraneo e scomodo cerchio in più. Non è un’anomalia, ma una traccia quasi magica che va a riconfigurare l’immagine matematica, «è il grembo generativo - dice l’artista - di una nuova umanità».
Questa è la premessa che ha condotto Michelangelo Pistoletto fino a Cuba, dove dal 24 al 26 novembre si terrà il 1° Rebirth Forum (collegato al suo terzo paradiso), che inaugura all’Avana un cantiere di arte e politica, aperto a tutti i cittadini, coinvolgendo scuole, università, istituzioni pubbliche.
In realtà, è dal 2012 che l’artista festeggia un Rebirth Day universale intorno al 21 dicembre. Quando lo celebrò nel mare caraibico era il 16 dicembre del 2014. In suo aiuto andarono i pescatori che, con le loro barche, disegnarono nel mare di fronte al Malecon i famosi tre cerchi destinati a rifondare (utopicamente) la comunità attraverso l’unione degli opposti. Fu un gesto profetico.
Il giorno successivo all’happening, Obama e Raul Castro si parlarono per tentare una ripresa dei rapporti fra i due paesi, dopo 53 anni di embargo e freezer diplomatico.
«Ho scelto Cuba perché è proprio lì che finisce una storia, quella che raccontava di un mondo diviso in due blocchi dalla Guerra Fredda, e ne comincia un’altra.. Quale luogo migliore per ripartire? Per discutere insieme di equilibri nuovi, incontri fra diverse strutture sociali?
Nell’isola caraibica può prendere forma un esempio di rinascita. Bisognerà trovare la misura giusta dell’apertura, evitando il rischio di subire l’invasione di quelle situazioni che, in qualche modo, sono le responsabili dei maggiori problemi deflagrati nel ventesimo secolo. Gli assolutismi sembravano tutti essere alle nostre spalle, ma ora assistiamo a un rigurgito delle guerre in nome della religione...Cuba dovrà trovare la sua strada di autonomia. In fondo, pur se il comunismo è finito, le cause e le ragioni che condussero alla sua nascita ancora persistono: è a quell’idea di comunità umana che oggi dobbiamo tornare».
Pistoletto è convinto che non ci sia un futuro possibile al di fuori della condivisione di obiettivi e scopi. Il triplice cerchio che viaggia insieme a lui altro non è che 1’incontro di fattori esterni collegati da una sola linea: ci sono due opposizioni collegate però da un elemento centrale. «È un segno recente, che non esisteva prima perché l’arte rimane fedele alla sua identità: è uno strumento di creazione», spiega.
Per circa un anno ha lavorato con i pescatori cubani che si sono presentati all’appello con i loro battelli. Parallelamente, mentre si compivano in mare grandi esercizi per disegnare quel «mandala» del Terzo Paradiso in terra, si prendevano accordi con le università e il governo. L’idea era quella di attivare una ricerca economica e sociologica sulla sostenibilità. La Cittadellarte di Biella è l’operatore principe di questo progetto, realizzando i suoi workshop di concerto con la galleria Continua di san Gimignano. «Vogliamo che Cuba diventi una specie di luogo-laboratorio permanente, una postazione strategica dove saremo presenti continuamente, con diverse attività. Lavoriamo a stretto contatto anche con gli artisti cubani, portando il loro lavoro alla visibilità».
Nel Forum verranno discussi i 17 punti programmatici relativi alla sostenibilità mondiale stilati dall’Onu. E proprio davanti la sua sede a Ginevra, Pistoletto ha realizzato una installazione di 55 metri che rimarrà a tempo indeterminato per invitare all’armonia delle decisioni e alla conciliazione dei punti di vista: una scultura composta di 193 pietre che traccia i tre cerchi del Paradiso. Neanche il numero è casuale, rimanda agli stati membri delle Nazioni Unite, mentre ogni pietra proviene da un differente paese.
http://it.terzoparadiso.org
SCHEDA
Presso la Galleria Mucciaccia di Roma (via Fontanella Borghese) è in corso la mostra «Ritratti al tavolo del Terzo Paradiso» (fino al gennaio 2016), l’ultima opera di Michelangelo Pistoletto ispirata al famoso tema indagato dall’artista negli ultimi anni con l’intento di svelare il passaggio evolutivo nel quale l’intelligenza umana trova i modi per convivere con l’intelligenza della natura.
Il Terzo Paradiso ha come simbolo una configurazione del segno matematico dell’infinito ed è formato da una linea che intersecandosi due volte disegna tre cerchi allineati. I due cerchi opposti significano natura e artificio, quello centrale è la congiunzione dei due. In una situazione di smarrimento generale e di insostenibilità che investe tutti i campi, Pistoletto ha sentito la necessità di risvegliare le coscienze, coinvolgendo tutte le persone che vogliano assumere una propria responsabilità affinché il Terzo Paradiso superi la valenza simbolica e si faccia realtà.
L’11 giugno 2015 nelle sale della Galleria, Michelangelo Pistoletto ha fatto realizzare un grande tavolo rivestito da una tovaglia appositamente creata con il simbolo del Terzo Paradiso, intorno al quale sono state riunite ventiquattro persone disposte a dibattere, a condividere questo tema: giovani amanti dell’arte e grandi collezionisti, tra cui Ottavia e Emiliano Cerasi, Clara e Giovanni Floridi, Giulia e Massimiliano Mucciaccia, Dora e Mario Pieroni, Armando Pasini, Imelda e Reza Safavi, chiamati a discutere sul ruolo dell’arte, della bellezza, della storia e dell’educazione. Appoggiati alle pareti 12 grandi specchi, rivolti verso il muro.
La conversazione scaturita da quell’incontro ha coinvolto tutti i presenti i quali, come segno della propria partecipazione, alla fine della serata hanno scritto un pensiero sul retro dello specchio, supporto dell’opera ancora non realizzata, diventando in tal modo sia il soggetto che il testimone dell’evento. La mostra segna l’ideale conclusione dell’evento iniziato cinque mesi fa, dodici opere ispirate alla performance di giugno.
In occasione della personale è stato pubblicato un catalogo Carlo Cambi Editore, con testi di Michelangelo Pistoletto e di Achille Bonito Oliva e una ricca documentazione fotografica ad illustrare tutto l’iter del progetto. Dalla condivisione dei valori del Terzo Paradiso nasce la collaborazione tra Galleria Mucciaccia e RAM Radioartemobile per la realizzazione della mostra. Si può ascoltare la trasmissione della conversazione della serata dell’11 giugno in: http://live.radioartemobile.it
Terzo Paradiso - La Mela Reintegrata *
“Il simbolo della mela attraversa tutta la Storia che abbiamo alle spalle, partendo dal morso, che rappresenta il distacco del genere umano dalla Natura e l’origine del mondo artificiale. La Mela Reintegrata rappresenta l’entrata in una nuova Era nella quale mondo artificiale e mondo naturale si ricongiungono producendo un nuovo equilibrio planetario.”
Il termine paradiso proviene dall’antico persiano e significa giardino protetto. Il simbolo del Terzo Paradiso è una riformulazione del segno matematico dell’infinito. I due cerchi opposti significano natura e artificio, l’anello centrale è la congiunzione dei due e rappresenta il grembo della rinascita.”
Michelangelo Pistoletto
Una mela di circa 8 metri di altezza per 8 di diametro, costituita da una struttura metallica rivestita da un tappeto di erba naturale e con un ‘morso’ sulla sommità, reintegrato grazie a una cucitura metallica, sarà al centro di Piazza del Duomo a Milano, circondata da oltre 150 balle di paglia disposte a creare il simbolo del “Terzo Paradiso”.
Da domenica 3 a lunedì 18 maggio volontari FAI e Apprendisti Ciceroni®, studenti formati dal FAI, spiegheranno, gratuitamente, il significato dell’opera di Michelangelo Pistoletto che sarà poi collocata definitivamente in Piazza Duca d’Aosta.
È il gesto che genera: come la nascita della vita
di Michelangelo Pistoletto (Corriere La Lettura, 02.11.2014)
Creatività è la caratteristica primaria degli umani. A un certo momento nel tempo si è prodotto un fermento che ha avviato la capacità di alcuni esseri viventi di articolare il pensiero oltre alle pratiche funzioni fisiche e mettere in connessione queste due parti, creando così la dualità corpo-mente che produce come terzo elemento l’organismo creativo.
Personalmente ho ideato un teorema, denominato «della Trinamica» che rileva e puntualizza il fenomeno stesso della creazione. Il segno-formula della Trinamica è il simbolo del Terzo Paradiso che aggiunge un terzo cerchio al simbolo matematico dell’infinito. I cerchi esterni rappresentano due elementi tra loro differenti o contrari che nel cerchio centrale trovano la loro simbiosi producendo, in tal modo, un terzo elemento che prima non esisteva, come ad esempio avviene tra un uomo e una donna che danno vita a una nuova persona. È la dinamica del numero tre, cioè la combinazione di due unità che dà origine a una terza unità distinta e inedita. Nella Trinamica il tre è sempre una nascita, dunque una creazione.
La Trinamica è la dinamica creativa, essenzialmente assunta dall’arte, si ritrova nella natura, cioè nella chimica, nella fisica e si estende nella fisiologia dei corpi semplici e complessi come due cellule o due individui e si estende nella vita sociale nei suoi aspetti culturali, politici, economici e spirituali.
Pistoletto con trombone e specchietto
di Angela Vettese (Il Sole-24 Ore, 27 febbraio 2011)
Guardo avanti e vedo me stessa e il futuro ma anche quello che mi sta dietro, le cose che i miei occhi non sanno dirmi e il presente nel suo farsi continuo. Questo è lo specchio, metafora materiale che racconta come proceda un individuo e insieme a lui la storia intera, attraversata dal caso e dalla nostra volontà.
Michelangelo Pistoletto (Biella 1933) lavora su questo tema da quando, dopo i suoi primi autoritratti dipinti su cui stendeva una superficie così lucida da renderne riflettente il fondo nero, vi vide il proprio riflesso. Decise allora di abbandonare la pittura per scegliere un disegno a matita, fondato sul realismo fotografico e realizzato su carta velina: la figura, poi, sarebbe stata incollata su acciaio specchiante. Così radicalizzati, i suoi quadri erano pronti per diventare l’autoritratto di chiunque, che si sarebbe trovato accanto e sue immagini: una donna qualsiasi, un gruppo di persone, Maria mentre cuce. Questo principio semplice contiene l’intenzione di mostrare aspetti che da fisici diventano morali: comprendere che passato, presente e futuro sono collegati, tollerare la dissonanza percettiva che deriva dal vedere una scena in cui sono compresenti immagini transitorie e permanenti, accogliere il disturbo cognitivo che ci proviene dall’accostamento di cose e persone in apparenza incompatibili, apprezzando invece le differenze che, dalla sfera del visibile, si trasferiscono in quella del vivibile: culture, razze, luoghi, tempi.
È da questo principio, con una chiara valenza politica anche se mai organica a una qualsiasi ideologia, che discende tutto il lungo percorso dell’artista; il quale, lungi dal fermarsi a quella prima invenzione - che però non lo ha mai più abbandonato - ne ha elaborato molte altre discendenti da questa.
Era figlio di un pittore che lo ha portato con sé a decorare case da quando aveva quattordici anni, ma da cui ha dovuto esautorarsi; sua madre lo iscrisse a una scuola per pubblicitari tenuta da Armando Testa, che lo avrebbe voluto nella sua squadra, ma fu presto titolare egli stesso di un’agenzia di successo; circondato da una Torino in cui arrivavano informazioni preziose, ora sui movimenti postbellici ora sulle Avanguardie storiche, Pistoletto fu capace di abbandonare la sicurezza economica per scegliere di fare solo l’artista; di lasciare, poi, il primo gallerista per bussare alla porta di Ileana Sonnabend a Parigi; di disobbedire anche a questa, quando in cambio di un successo assicurato tra le file della pop art ella gli chiese di trasferirsi in America.
Il suo realismo non era quello di Jasper Johns e degli artisti disposti a celebrare il consumismo. Al contrario, come dimostrano i suoi Oggetti in meno (1966) cercò un ritorno all’essenziale, al primario e anche a una forma di attiva partecipazione dello spettatore che invoca un atteggiamento opposto rispetto alla passività del consumatore. Il pubblicitario mancato conosceva i meccanismi della persuasione e suggerì come ribaltarli: il pensiero non dev’essere anestetizzato ma, al contrario, stimolato dalla caffeina dell’arte. Niente credo mistici o religiosi, nessuna sottolineatura del l’io, nessuna ricetta preconfezionata per un mondo migliore. Piuttosto, molte ricette da cucinare tutti insieme in un grande locale, con un tavolo su cui scambiare cibo e parole.
La vicenda di Pistoletto è connotata dall’audacia e certamente anche dalla fatica. Niente ha fermato la volontà di questo solido piemontese, che coltivò in Italia un dialogo con altri artisti sfociato nel nostro migliore movimento dopo il Futurismo. E dopo il 1967, anno di fondazione dell’Arte Povera, arrivarono i periodi dell’uomo nero, dell’anno bianco, di stanze una dentro l’altra che raccontano lo scorrere collegato di ogni cosa, di performance teatrali, fino a una filanda biellese trasformata in Cittadellarte, un luogo dove si produce di tutto purché in maniera responsabile e civile. Sapendo che ogni uomo è un frammento del tutto e che, come uno specchio, resta unitario pur diventando molteplice.
La mostra che apre al Maxxi di Roma il 3 marzo, organizzata da Carlos Basualdo insieme al Philadelphia Museum of Arts da cui proviene, finalmente ricostruisce i suoi passi con precisione dopo tre anni di preparazione alle spalle. In America ci è ritornato così, da vincitore.
michelangelo pistoletto. da uno a molti. 1956-74
Roma, Maxxi
dal 4 marzo al 15 giugno
www.fondazionemaxxi.it