Torna il latino nei seminari *
La Commissione Ecclesia Dei sta scrivendo ai seminari di tutto il mondo perché insegnino il vecchio rito ai loro allievi
Torna il latino in molteplici forme. Luigi Accattoli (www.luigiaccattoli.it) è andato ad assistere alla messa di cui avevamo annunciato la celebrazione alla Trinità dei Pellegrini, a Roma, e ne ha avuto un’impressione gradevole, come potrete leggere. Da metà maggio il sito web del Vaticano offre un’edizione nella lingua di Cicerone, accanto agli idiomi moderni (italiano, tedesco, spagnolo, francese, inglese e portoghese). La Radio Vaticana infine ha messo in commercio (15 €) quattro Cd in cui Benedetto XVI recita il rosario in latino. “Abbiamo ricevuto richieste non solo dall’Italia, ma anche dalla Germania eda altri paesi. Così abbiamo deciso di usare per il rosario questa lingua che tutti capiscono facilmente e perché è la lingua universale della Chiesa”.
Ma c’è qualche cosa di più. Tre giorni fa a Londra, il cardinale Dario Castrillon Hoyos, ha partecipato a una conferenza stampa organizzata nella capitale britannica, dove si trovava su invito dalla Latin Mass Society, un’associazione per la promozione della liturgia in latino. Ha detto che è “assoluta ignoranza” sostenere che Benedetto XVI vuole rovesciare la riforma liturgica del Concilio: “Il Santo Padre, che è un teologo e che fu coinvolto nella preparazione del Concilio agisce esattamente come il Concilio voleva, offrendo libertà alle diverse forme di celebrazione”. Il Papa, desidererebbe, secondo il cardinale, che “Tutte le parrocchie, non molte, ma tutte le parrocchie fossero in grado di celebrare secondo il vecchio rito. Perché è un dono di Dio”.
Il cardinale ha detto inoltre che la Commissione che presiede, la “Ecclesia Dei”, responsabile dell’applicazione del documento “Summorum Pontificum”, di papa Ratzinger, in cui si liberalizza ulteriormente l’uso del vecchio messale, sta scrivendo ai seminari di tutto il mondo per chiedere che i futuri preti vengano addestrati non solo a celebrare la messa in latino ma anche a comprendere la teologia, la filosofia e il linguaggio specifico di quel rito. “Questo tipo di celebrazione è così nobile, così bello. La preghiera, la musica, l’architettura, la pittura creano un insieme che è un tesoro. Il santo Padre è desideroso di offrire a tutti questa possibilità, non solo ai pochi gruppi che lo chiedono”.
Il documento “Summorum Pontificum” stabilisce che se un “gruppo stabile” chiede la vecchia forma di messa, il parroco dovrebbe concedere volentieri il permesso. Secondo Castrillon Hoyos un gruppo stabile può essere costituito anche solo da tre o quattro persone, e non necessariamente dalla stessa parrocchia. Il cardinale ha poi celebrato la prima messa in latino a Westminster in 39 anni, di fronte a oltre millecinquecento persone, fra cui giovani famiglie. Nessuno dei vescovi inglesi o gallesi era presente.
* LA STAMPA, SAN PIETRO E DINTORNI di Marco Tosatti, 17/6/2008
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
L’appello: "Quel che serve è un vero rilancio del latino come palestra per le generazioni future, tenendo in conto anche le sue enormi potenzialità come piattaforma di intercomprensione fra le lingue romanze, gigantesco serbatoio linguistico da cui pescano anche le lingue germaniche e slave, apparato concettuale che favorisce la comunicazione fra le culture"
di SALVATORE SETTIS (la Repubblica, 10 agosto 2016)
La lingua più parlata del mondo? È il latino. Non quel che resta del latino ecclesiastico, né quello dei pochi filologi classici ancora in grado di scriverlo, né dei certami ciceroniani, stranamente popolari. Ma il latino che parliamo ogni giorno, con le sue trasformazioni storiche: quello delle lingue neolatine, o romanze. Lo spagnolo come lingua materna è da solo, con 500 milioni di parlanti, secondo al mondo soltanto al cinese. Se vi aggiungiamo il portoghese (230 milioni), il francese (100), l’italiano (65) e il romeno (35), si arriva a 930 milioni di “parlanti latino”.
Senza contare le numerose lingue minori (come il ladino). Poco meno dei “parlanti cinese”, che però si suddividono anch’essi in numerose lingue diverse, non sempre mutuamente intellegibili se parlate, ma unificate concettualmente da una scrittura ideografica che non rispecchia direttamente la pronuncia. E il latino ha una presenza capillare anche fuori dell’ambito propriamente romanzo: in inglese (terza lingua materna più parlata al mondo, con 350 milioni) il 58% del lessico deriva dal latino o da lingue neolatine, specialmente francese. Lo stesso è vero di tutte le lingue europee, dal tedesco al russo: forse nessuna lingua più del latino ha mostrato forza di penetrazione e tendenza a radicarsi in sistemi linguistici di altra origine. Inoltre, anche numerose parole di matrice greca (come “filosofia”) o etrusca (come “persona”) si sono diffuse universalmente, ma passando attraverso il latino.
Fra cinese e latino c’è un abisso, ma anche qualcosa in comune: “cinese”, infatti, è la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue della famiglia sinica, “latino” può essere la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue romanze. Se usassimo una scrittura ideografica come i cinesi, potremmo leggere il portoghese e il romeno anche senza averli mai studiati. Ma davvero l’italiano è così simile al latino? Proviamo a leggere qualche verso: «Te saluto, alma dea, dea generosa, / O gloria nostra, o veneta regina! / In procelloso turbine funesto / Tu regnasti secura: mille membra / Intrepida prostrasti in pugna acerba». La metrica è italiana, ma il testo “funziona” perfettamente sia come italiano che come latino. Autore di questo poemetto in lode di Venezia fu Mattia Butturini (1752-1817), amico di Ugo Foscolo e professore di greco a Pavia. E continua: «Per te miser non fui, per te non gemo, / Vivo in pace per te: Regna, o beata, / Regna in prospera sorte, in pompa augusta, / In perpetuo splendore, in aurea sede! / Tu severa, tu placida, tu pia, / Tu benigna, me salva, ama, conserva». Perfetto italiano, perfetto latino, come in altri poemi simultaneamente bilingui, a cominciare da quello di Gabriello Chiabrera nel tardo Cinquecento.
L’ottusa lotta contro il latino e contro il liceo classico, che riemerge periodicamente con la complicità di ministri maldestri e sprovveduti, non tiene conto di questo aspetto assolutamente centrale. È vero, nella scuola sopravvive un approccio piattamente grammaticale, che nello studio del latino vede solo una sorta di astratta educazione alla precisione del pensiero, a prescindere da tutto il resto. Ma tradurre tale critica in un ripudio del latino sarebbe « un gesto violento e arrogante, un attentato alla bellezza del mondo e alla grandezza dell’intelletto umano » , come scrive Nicola Gardini in un libro bello e intenso (Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile, Garzanti). Quel che serve è un vero rilancio del latino come palestra per le generazioni future, tenendo in conto anche le sue enormi potenzialità come piattaforma di intercomprensione fra le lingue romanze, gigantesco serbatoio linguistico da cui pescano anche le lingue germaniche e slave, apparato concettuale che favorisce la comunicazione fra le culture. Ha ragione Gardini, «grazie al latino una parola italiana vale almeno il doppio».
Ma non è tutto. Le parole non sono nulla se non le vediamo agire nel loro contesto, nei testi latini da Cicerone a Newton. Lo spessore ( il valore) delle parole latine, trasmigrate in altre lingue, si può apprezzare se siamo in grado non solo di snocciolare elenchi di parole o sfogliare vocabolari, ma di leggere e comprendere Virgilio e Sant’Agostino, le lettere di Petrarca e la cosmografia di Keplero. Trama narrativa, struttura della frase, tecnica dell’argomentare danno alle parole e alle frasi quella forza che aiuta a riconoscerne la traccia in Dante, in Shakespeare, Cervantes, Goethe. Quando leggiamo un testo, scrive Gardini, « non si tratterà propriamente del latino di Cicerone né del latino di Virgilio, ma piuttosto di quel che il latino compie e ottiene quando esce dallo stilo di Cicerone o dallo stilo di Virgilio » , in termini di « capacità lessicale, correttezza sintattica e convenienza ritmica » .
Questo doppio registro del latino, in orizzontale ( lettura dei testi e rimando ai contesti) e in verticale (come piattaforma di intercomprensione fra lingue oggi parlate) ha un altro vantaggio. Funziona come macchina della memoria, ci ricorda che quel che leggiamo del latino classico è un’infima parte di quel che fu allora scritto. E che, nonostante questo, abbiamo preteso per secoli di continuare, sulla scena del mondo, la storia di Roma. Non per niente quelli che noi chiamiamo “ bizantini” chiamarono se stessi sempre rhomaioi, “ romani”, e il più intimo carattere della grecità, conservatosi anche sotto la dominazione ottomana, si esprime in neogreco con la parola rhomaiosyne, “ romanità”; eppure intanto a Istanbul i sultani, dopo aver spodestato l’ultimo imperatore romano, mantennero dal 1453 al 1922 il titolo di Kayser- i- Rum, “ Cesare di Roma”. “ Cesare”, cioè imperatore; come il Kaiser a Vienna o a Berlino, lo Czar a Mosca o Pietroburgo.
Altro esempio, il diritto: i sistemi di civil law sono fondati sul diritto romano ( spesso, ma non sempre, attraverso il codice napoleonico), e oltre all’Europa continentale, inclusa la Russia, coprono l’America Latina e vari Paesi in Asia e Africa. Ma anche i sistemi di common law, pur di origine inglese, esprimono in latino molti termini- chiave, a partire dal principio fondamentale stare decisis ( conformarsi alle sentenze già emesse); perciò anche nei film americani sentiamo parlare di subpoena, affidavit, persona non grata; per non dire di habeas corpus.
Il latino come dispositivo della memoria culturale, come versatile interfaccia multilingue, come ponte o viadotto verso altre culture. Il latino come lingua viva, perché vive nelle lingue che parliamo. Questo, e non un’impalcatura di precetti, dovrebbe saper trasmettere la nostra scuola. “ Nostra”, cioè quanto meno europea. Questa Europa delle tecnologie saprà inventare una nuova didattica del latino che contribuisca all’intercomprensione culturale? E l’Italia, dove il latino è nato, avrà in merito qualcosa da dire?
Ravasi: «Ci sono vescovi che non capiscono il latino»
intervista a Gianfranco Ravasi,
a cura di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 11 novembre 2012)
«I giovani preti? Se è per questo pure diversi vescovi fanno fatica, anche all’ultimo sinodo un po’ si rideva, molti hanno una difficoltà quasi strutturale a leggere e comprendere il latino, anche fra gli europei, e dico quello ecclesiastico che è molto più semplice della lingua di Cicerone...». Il cardinale Gianfranco Ravasi sorride con una punta di mestizia, come presidente del Consiglio della Cultura vaticano sarà lui a controllare la nuova «Pontificia Accademia di Latinità» (Pontificia Academia Latinitatis) che Benedetto XVI ha istituito ieri con un motu proprio nel quale scrive (in latino, ovvio) quanto sia «urgente» contrastare «il pericolo di una conoscenza sempre più superficiale». La Chiesa, aggiunge il Papa, è da duemila anni «custode e promotrice» del latino nel mondo.
Eminenza, il Papa parla dei seminari ma in generale dei giovani e del «vasto mondo della cultura». Quale sarà il ruolo dell’Accademia?
«Esistevano già delle istituzioni vaticane come la Latinitas, da ora estinta, però adesso si vuole rivedere tutta la questione in modo diverso. Anzitutto c’è un valore che si considera permanente dell’umanità: il latino - con il greco, naturalmente - è una delle matrici assolute della cultura europea e occidentale. Per questo il Santo Padre ha nominato presidente dell’Accademia un grande latinista come il professor Ivano Dionigi, rettore dell’università di Bologna. Non è solo un problema ecclesiale».
Quindi, come si muoverà?
«Prima di tutto ci si impegnerà nella diffusione della cultura latina alta e dei suoi contenuti, che sono inscindibili dalla conoscenza della lingua. Ogni traduzione è sempre una belle infidèle, come diceva Gilles Ménage, anche se è bella è infedele. Io, per dire, penso che Agostino perda la metà. Pensi alle Confessioni, «Nondum amabam, et amare amabam... quaerebam quid amarem, amans amare...», ma come si fa?, è come tradurre Dante, Agostino sta dicendo che ancora non amava davvero perché non sapeva quale fosse l’oggetto del suo amore e c’è una bellezza musicale nella lingua, lui ne è un cultore raffinato, ci gioca. Così vogliamo recuperare tutto il grande patrimonio culturale latino, classico, patristico e medievale: per il mondo. L’Accademia si amplierà a livello internazionale, con diverse personalità laiche».
Benedetto XVI parla anche dei seminari...
«Certo, il secondo elemento è ad intra. Il latino è stato ed è la lingua ufficiale della Chiesa, in latino sono gli scritti dei Padri, i documenti della tradizione, i testi dei Concili, del magistero dei Papi, i libri liturgici... Ci vuole un impegno maggiore nei seminari, bisogna fare in modo che riescano a capirli!».
Come si è arrivati a questa situazione?
«Non è solo colpa della Chiesa, c’è un problema generale degli studi umanistici. Del resto una volta per studiare teologia nei seminari si doveva venire dal liceo classico e poi non è stato più così, i corsi integrativi non sono bastati, bisogna fare di più. Ma c’è un terzo livello...».
Quale?
«Il recupero del latino nella modernità. Oggi c’è il gusto di ritornare alla lingua, lo sa che in Finlandia esiste un quindicinale per ragazzi in latino? Perché il latino ha una funzione formativa. L’inglese parlato - non dico quello alto - è una semplificazione, quasi un "twitteraggio" del pensiero. Mentre il latino ha una forte impronta razionale, la costruzione dei casi, i verbi, la consecutio temporum... Per questo lo si vuole riproporre ai giovani».
C’è chi farà l’equazione latino-Chiesa preconciliare...
«Lo so, purtroppo. Se si vuole c’è un recupero del passato e del suo patrimonio, ma non reazionario né sterile. La bellezza del latino non è alternativa o contrapposta alla Chiesa postconciliare. E poi mi piacerebbe sapere se quelli che partecipano ai riti latini sarebbero in grado di tradurmi gli inni di Sant’Ambrogio, così raffinati e complessi... Anche loro ne hanno bisogno!».
Il nuovo Messale in inglese e l’eredità del Concilio
di Massimo Faggioli
in “popoli” dell’ottobre 2011
Nella prima domenica di Avvento (27 novembre) la Chiesa cattolica degli Stati uniti - al pari di quelle di Gran Bretagna, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda - inizierà a usare la nuova traduzione inglese del Messale romano.
Il cambiamento avviene dopo un lungo iter in cui non sono mancate tensioni tra Roma e la Chiesa statunitense, né divisioni all’interno di quest’ultima. È utile dunque ricostruire brevemente le tappe di una vicenda che, seppure estremamente importante per il mondo cattolico, ha avuto scarsa eco in Italia. Dopo l’approvazione, durante il Concilio Vaticano II, della Costituzione sulla Sacra liturgia Sacrosanctum Concilium (1963), avvenuta anche grazie all’appoggio decisivo dei vescovi americani, nel 1973 fu approvata da Roma e iniziò a essere usata nelle chiese statunitensi la prima traduzione del Messale dal latino all’inglese realizzata da Icel (International Commission on English in the Liturgy), commissione fondata proprio durante il Concilio dalle Conferenze episcopali anglofone.
Tra 1994 e 1998 la Congregazione per il culto divino iniziò a manifestare obiezioni nei confronti delle nuove traduzioni in lingua inglese dei testi liturgici fatte secondo il principio della «equivalenza dinamica».
Nel 1999 il cardinale Medina escluse l’«equivalenza dinamica» come metodo accettabile. Il passo successivo fu l’istruzione vaticana Liturgiam authenticam del 2001, tuttora in vigore e valida per tutte le Chiese, secondo la quale le nuove traduzioni devono seguire il principio di «equivalenza formale»: ogni parola latina deve avere un corrispondente nella traduzione, e sintassi, punteggiatura e vocabolario della lingua latina devono essere riprodotti fedelmente.
Nel 2002 iniziò l’emarginazione di Icel come luogo di elaborazione dei testi liturgici in lingua inglese, a favore di un nuovo organismo di creazione vaticana, Vox Clara, che dipende dalla Congregazione per il culto divino; Icel fu riorganizzata in modo da non rispondere più ai vescovi ma al Vaticano. Iniziò in quel periodo il lavoro per una nuova traduzione inglese del Messale.
Nel 2008 la nuova traduzione preparata da Icel fu presentata e subito subissata di critiche da parte di molti teologi e liturgisti anglofoni quanto alla qualità della traduzione; il testo fu comunque inviato a Roma per l’approvazione. Vox Clara introdusse a questo testo circa 10mila modifiche, il Vaticano approvò e inviò il nuovo Messale ai vescovi perché venisse introdotto all’inizio dell’anno liturgico 2011-2012.
Nel corso degli ultimi due anni il dibattito si è acceso in ogni Paese anglofono toccato dalla nuova traduzione del Messale. Negli Stati Uniti esso è stato particolarmente intenso non solo per la consistenza numerica della Chiesa cattolica (67 milioni di fedeli, circa il 23% dei cittadini adulti), ma anche per il ruolo decisivo giocato, tra Icel e Vox Clara, dal cardinale Francis George, arcivescovo di Chicago e fino alla fine del 2010 presidente della Conferenza episcopale Usa (Usccb), la quale è stata teatro di numerose e palesi irregolarità procedurali finalizzate a far passare il testo «romano» senza possibilità di intervento da parte dei vescovi.
Dall’assemblea della Usccb del novembre 2009 buona parte dei liturgisti americani ha cercato di rimettere in discussione il nuovo Messale. Fino all’inizio del 2011 i vescovi e teologi americani erano ancora divisi sulla sua accettabilità; negli ultimi mesi, però, i critici hanno pubblicamente rinunciato a portare avanti la loro «resistenza» in nome dell’unità della Chiesa americana. Noti liturgisti che avevano contestato la qualità linguistica e teologica del nuovo Messale si sono messi a disposizione dei vescovi, al fine di limitare i danni nel corso del delicato processo di recezione.
Anche tra il laicato statunitense le critiche sono proseguite (si veda, per esempio, il sito www.whatifwejustsaidwait.org) fino all’inizio del 2011, quando anche i più convinti oppositorihanno dichiarato la loro disponibilità a lavorare per una migliore recezione del nuovo Messale, al fine di non lacerare la comunione ecclesiale.
Ma quali sono le principali critiche rivolte al nuovo Messale? C’è anzitutto un problema di chiarezza del testo: la nuova traduzione, che ha dovuto mantenere la struttura della frase latina, è ricca di espressioni complesse non facilmente comprensibili da un anglofono medio.
C’è poi un problema di lunghezza delle frasi: per esempio, la lunghezza delle frasi delle preghiere eucaristiche del nuovo Messale (aumentate mediamente del 78% rispetto al precedente) fa diventare quei testi totalmente estranei al ritmo della lingua inglese.
Infine, ci sono rilevanti cambiamenti di formule ormai entrate a far parte della lingua liturgica dopo il Concilio. Un esempio: quando il sacerdote dice «Il Signore sia con voi», ora anche gli anglofoni, come facciamo noi italiani, risponderanno «And with your spirit» («E con il tuo spirito»), formula certo più aderente al latino, ma ben diversa dall’espressione colloquiale, «And also with you» («E anche con te»), a cui erano abituati. Ancora: durante la consacrazione del vino, al posto di «cup» ci sarà l’arcaico «chalice».
E l’espressione «For you and for all» («Per voi e per tutti») sarà sostituita da «For you and for many» («Per voi e per molti»): in quest’ultimo caso, tra l’altro, è evidente che con la nuova traduzione si è voluto trasmettere un contenuto teologico particolare, una questione che va al di là della maggiore o minore vicinanza ai testi latini.
Del resto tutta la vicenda dell’elaborazione del nuovo Messale ha significati più profondi di una semplice controversia linguistica. Colpiscono due aspetti, collegati tra loro. In primo luogo, chi vive in America sa che la qualità liturgica nelle chiese cattoliche è notoriamente molto alta: dal punto di vista della solennità, della musica, della cura delle letture e degli arredi sacri, ecc.
I motivi sono molti, specialmente per quanto riguarda la musica (tra cui un interessante fenomeno di migrazione verso la cultura cattolica di una tradizione liturgica congregazionale-protestante), ma in particolare vi è il successo del processo di recezione della riforma liturgica del Concilio negli Usa, come ha evidenziato il recente studio di Mark Massa, The American Catholic Revolution: How the ’60s Changed the Church Forever (New York, Oxford University Press, 2010).
Al contrario di altri casi additati dai nostalgici, la riforma liturgica conciliare in America non ha dato luogo ad «abusi» né alla distruzione di un patrimonio rituale - molto cattolico e molto americano - che è ancora forte e sentito. Dunque, delle tante riforme di cui gli anti-conciliari o i cattolici conservatori americani potrebbero sentire il bisogno, quella della liturgia è percepita come la meno urgente.
In secondo luogo, è evidente che al cuore delle tensioni tra Roma e le Chiese anglofone, e all’interno di queste, vi è la consapevolezza che la riforma liturgica del Concilio è «il» simbolo del Vaticano II e in qualche modo il custode della sua ecclesiologia. Quanti attaccano la riforma liturgica sanno bene che il Vaticano II è ancora sulla strada di una sua «canonizzazione», ovvero di una sua stabilizzazione culturale come nuova forma espressiva della fede cattolica.
Modificare la liturgia del Concilio (e in questo caso, latinizzarne la lingua) può essere letto come un sottinteso appello a rimettere in discussione tutto il resto del Vaticano II.
La nuova traduzione in inglese del Messale appare dunque un terreno di confronto circa l’interpretazione del Concilio: un confronto particolarmente delicato e dall’esito incerto per un cattolicesimo, come quello anglofono, culturalmente poco attaccato alle nostalgie dell’età tridentina.