PIANETA TERRA. ITALIA: DA BRESCIA A LAMEZIA TERME...

STARE AL MONDO CON UNA PAROLA NUOVA. Don Giacomo Panizza, "quel prete coraggio e la forza degli ultimi"! Alcune pagine di Roberto Saviano - a cura di Federico La Sala

Parte della prefazione a “Qui ho conosciuto Purgatorio, Inferno e Paradiso” di Goffredo Fofi e Giacomo Panizza
mercoledì 30 marzo 2011.
 
[...] Quella di don Giacomo è una storia che nasce nel Bresciano e se ne va per una strada tutta sua. Lui comincia giovane a lavorare l’acciaio in fabbrica, come tanti fanno da quelle parti, e da ragazzino partecipa alle manifestazioni sindacali, alla richiesta di diritti. Poi lì accade qualcosa, la lotta sociale, il sogno di redenzione dalla miseria e dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’idea di una società diversa a ventitré anni si concretizza nella decisione di entrare in seminario e di farsi prete. Assurdo per quegli anni, gli anni sessanta, assurdo per chi si è formato in fabbrica con l’acciaio e i sindacalisti. Ma Giacomo si innamora delle parole di colui che crede essere l’uomo più rivoluzionario che abbia mai incontrato nelle sue letture: Gesù Cristo. E lo crede al punto da voler dedicare ogni parte di se stesso nello stare al mondo in maniera diversa. Stare nel mondo con una parola nuova [...]


Quel prete coraggio e la forza degli ultimi

Parte della prefazione a “Qui ho conosciuto Purgatorio, Inferno e Paradiso” di Fofi e Panizza (Feltrinelli)

di Roberto Saviano (la Repubblica, 22 marzo 2011)

Ci sono delle parole che si ha pudore ad usare. Quasi ci si sofferma con una precauzione maggiore per capire se si sta utilizzando la definizione corretta. Si pronunciano quasi con colpa, scusandosi, soppesandole sulla lingua già con un misto di compassione. Diventano un bolo di saliva, scuse e imbarazzo ed escono dalla bocca con qualche sforzo. Una delle parole che si pronuncia così è "diversamente abile".

Quella di don Giacomo Panizza è una storia diversamente abile, è una storia handicappata, giusto per dirla fuori dai denti. Non è una di quelle storie che cominciano e finiscono facilmente, senza intoppi. Come una parabola lineare. È una storia sghemba, storta, fatta di conquiste faticose che ha da subito preso direzioni impreviste, che non è andata come ci si sarebbe aspettati.

Quella di don Giacomo è una storia che nasce nel Bresciano e se ne va per una strada tutta sua. Lui comincia giovane a lavorare l’acciaio in fabbrica, come tanti fanno da quelle parti, e da ragazzino partecipa alle manifestazioni sindacali, alla richiesta di diritti. Poi lì accade qualcosa, la lotta sociale, il sogno di redenzione dalla miseria e dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’idea di una società diversa a ventitré anni si concretizza nella decisione di entrare in seminario e di farsi prete. Assurdo per quegli anni, gli anni sessanta, assurdo per chi si è formato in fabbrica con l’acciaio e i sindacalisti. Ma Giacomo si innamora delle parole di colui che crede essere l’uomo più rivoluzionario che abbia mai incontrato nelle sue letture: Gesù Cristo. E lo crede al punto da voler dedicare ogni parte di se stesso nello stare al mondo in maniera diversa. Stare nel mondo con una parola nuova.

Da subito si occupa di persone diversamente abili, o di handicappati, per usare una definizione che taglia di netto le gambe ai significati positivi. A don Giacomo viene affidato un compito: una comunità in Calabria ha bisogno di aiuto. I ragazzi con problemi vengono licenziati, non trovano lavoro, le famiglie non riescono a seguirli. Ci sono molteplici difficoltà. E a loro accade quello che spesso è visto come destino ineluttabile: esser trattati come pesi, come errori, come inciampi. Serve una mano. Una mano a difendere uomini come uomini, senza altra definizione eccezionale.

Una storia che cammina dritta, per la sua semplice trama, prevederebbe a questo punto che don Giacomo porti i ragazzi al Nord e lì se ne occupi. E invece no. Invece don Giacomo pensa che niente vada sradicato da dove si trova. Soprattutto quando la radice è cosa buona, che può crescere, creare, trasformare. Allora si sposta lui a Lamezia Terme e dà vita a quella che viene chiamata la "Comunità Progetto Sud".

Quando don Giacomo ci pensa sembra davvero essere un sogno che sa di utopia, uno di quelli che mentre lo immagini sai già che impatterà contro la realtà come un bicchiere di cristallo impatta contro il cemento armato. Nessuno avrebbe mai creduto alla collaborazione di persone diversamente abili con persone normodotate che si incontrano, non solo per ricevere e dare aiuto, ma per collaborare e creare lavoro, realizzare opere, iniziative.

Chi ci avrebbe scommesso? Al Sud. In quel Sud. In quegli anni. Nessuno avrebbe visto altro che follia in questo progetto. E don Giacomo ama la follia quando è un’articolazione appassionata della fantasia e del volerci almeno provare. Eppure la Comunità inizia il suo operato e funziona, non solo aiutando chi ne ha bisogno, ma mettendo profondamente in crisi il sistema di potere di quella terra. Che nessuno riusciva ad affrontare: la ’ndrangheta.

Ho conosciuto don Giacomo l’ultima estate che ho trascorso libero in vita mia, l’ho conosciuto a un seminario di Progetto Sud. Mi invitò Goffredo Fofi, l’erede di Danilo Dolci, lo scrittore allievo di Capitini, il frate eretico, l’amico eterno, il burbero intellettuale, il combattente ammiratore dell’ostinazione e della frugalità degli asini. Un seminario dove si incontrano le esperienze, dove non c’è solo odore di idee, di metafisiche passioni, dove non ci si parla addosso e non ci si imbroda scambiando recensioni. Seminari di prassi di pensiero. Creare comunità, creare rapporti. Nella convinzione che solo dai rapporti può nascere la premessa per realizzare l’idea. E don Giacomo di questa capacità di costruire impalcature di relazioni è stato, ed è, maestro. Da lì è partito per iniziare in un Sud isolato, spinto solo all’emigrazione, un percorso che prendesse le mosse dal talento di ognuno. Le cose belle che ognuno sa fare. Il portato doloroso di ognuno. I difetti terribili di ognuno. Le debolezze di ognuno. La possibilità di interagire di ognuno.

Metti tutto questo assieme. E hai creato un punto di partenza. Don Giacomo l’ha fatto partendo da sud. Lamezia Terme è un territorio difficile, malato di criminalità. Il sangue scorre soprattutto tra due famiglie: i Torcasio e i Giampà. Si fanno la guerra per disputarsi il controllo del narcotraffico in quei territori. I Torcasio sono una famiglia particolarmente sanguinaria: ne diedero dimostrazione dopo uno sgarro subito per le feste. A un certo punto della loro storia, quando si tenta anche un dialogo con la famiglia Giampà, la rampolla dei Torcasio si fidanza con un Giampà. Questi le regala per Pasqua un cesto, che invece di essere pieno di uova è zeppo di tritolo. Ecco come sono le due famiglie: persone che si fanno gli auguri al veleno, gente che, in tutta risposta allo sgarro, si palesa alla porta armi alla mano e fredda il capofamiglia.

Questi sono i Torcasio. E con questi don Panizza si è trovato a interloquire. E fin dall’inizio don Giacomo viene minacciato dai Torcasio. Ma perché a un boss della ’ndrangheta dovrebbero dare tanto fastidio "gli handicappati"? Semplice: perché don Antonio, boss dei Torcasio, quei "mongoloidi" come li chiama lui, se li è trovati come vicini di casa. Alla famiglia viene infatti sequestrato uno stabile, una bella palazzina che però nessuno vuole. Come succede sempre al Sud, l’edificio viene man mano spolpato dalla ’ndrangheta di tutti gli arredi, dei bagni, di ogni cosa utile.

Le famiglie malavitose fanno di tutto per rendere inservibili i beni confiscati, lo fanno per sfregio allo stato come a dire "o nostro o di nessuno". Nemmeno il comando dei vigili vuole l’assegnazione di quello stabile per paura delle rivendicazioni della famiglia.

Invece don Panizza accetta eccome quel dono. E piano piano lo sistema, lo rende agibile e adatto a ospitare il suo Progetto Sud perché la forza di don Giacomo e dei suoi ragazzi è proprio questa: il pensare in maniera diversa e utilizzare un’abilità diversa per costruire un paese diverso.


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