Quel prete coraggio e la forza degli ultimi
Parte della prefazione a “Qui ho conosciuto Purgatorio, Inferno e Paradiso” di Fofi e Panizza (Feltrinelli)
di Roberto Saviano (la Repubblica, 22 marzo 2011)
Ci sono delle parole che si ha pudore ad usare. Quasi ci si sofferma con una precauzione maggiore per capire se si sta utilizzando la definizione corretta. Si pronunciano quasi con colpa, scusandosi, soppesandole sulla lingua già con un misto di compassione. Diventano un bolo di saliva, scuse e imbarazzo ed escono dalla bocca con qualche sforzo. Una delle parole che si pronuncia così è "diversamente abile".
Quella di don Giacomo Panizza è una storia diversamente abile, è una storia handicappata, giusto per dirla fuori dai denti. Non è una di quelle storie che cominciano e finiscono facilmente, senza intoppi. Come una parabola lineare. È una storia sghemba, storta, fatta di conquiste faticose che ha da subito preso direzioni impreviste, che non è andata come ci si sarebbe aspettati.
Quella di don Giacomo è una storia che nasce nel Bresciano e se ne va per una strada tutta sua. Lui comincia giovane a lavorare l’acciaio in fabbrica, come tanti fanno da quelle parti, e da ragazzino partecipa alle manifestazioni sindacali, alla richiesta di diritti. Poi lì accade qualcosa, la lotta sociale, il sogno di redenzione dalla miseria e dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’idea di una società diversa a ventitré anni si concretizza nella decisione di entrare in seminario e di farsi prete. Assurdo per quegli anni, gli anni sessanta, assurdo per chi si è formato in fabbrica con l’acciaio e i sindacalisti. Ma Giacomo si innamora delle parole di colui che crede essere l’uomo più rivoluzionario che abbia mai incontrato nelle sue letture: Gesù Cristo. E lo crede al punto da voler dedicare ogni parte di se stesso nello stare al mondo in maniera diversa. Stare nel mondo con una parola nuova.
Da subito si occupa di persone diversamente abili, o di handicappati, per usare una definizione che taglia di netto le gambe ai significati positivi. A don Giacomo viene affidato un compito: una comunità in Calabria ha bisogno di aiuto. I ragazzi con problemi vengono licenziati, non trovano lavoro, le famiglie non riescono a seguirli. Ci sono molteplici difficoltà. E a loro accade quello che spesso è visto come destino ineluttabile: esser trattati come pesi, come errori, come inciampi. Serve una mano. Una mano a difendere uomini come uomini, senza altra definizione eccezionale.
Una storia che cammina dritta, per la sua semplice trama, prevederebbe a questo punto che don Giacomo porti i ragazzi al Nord e lì se ne occupi. E invece no. Invece don Giacomo pensa che niente vada sradicato da dove si trova. Soprattutto quando la radice è cosa buona, che può crescere, creare, trasformare. Allora si sposta lui a Lamezia Terme e dà vita a quella che viene chiamata la "Comunità Progetto Sud".
Quando don Giacomo ci pensa sembra davvero essere un sogno che sa di utopia, uno di quelli che mentre lo immagini sai già che impatterà contro la realtà come un bicchiere di cristallo impatta contro il cemento armato. Nessuno avrebbe mai creduto alla collaborazione di persone diversamente abili con persone normodotate che si incontrano, non solo per ricevere e dare aiuto, ma per collaborare e creare lavoro, realizzare opere, iniziative.
Chi ci avrebbe scommesso? Al Sud. In quel Sud. In quegli anni. Nessuno avrebbe visto altro che follia in questo progetto. E don Giacomo ama la follia quando è un’articolazione appassionata della fantasia e del volerci almeno provare. Eppure la Comunità inizia il suo operato e funziona, non solo aiutando chi ne ha bisogno, ma mettendo profondamente in crisi il sistema di potere di quella terra. Che nessuno riusciva ad affrontare: la ’ndrangheta.
Ho conosciuto don Giacomo l’ultima estate che ho trascorso libero in vita mia, l’ho conosciuto a un seminario di Progetto Sud. Mi invitò Goffredo Fofi, l’erede di Danilo Dolci, lo scrittore allievo di Capitini, il frate eretico, l’amico eterno, il burbero intellettuale, il combattente ammiratore dell’ostinazione e della frugalità degli asini. Un seminario dove si incontrano le esperienze, dove non c’è solo odore di idee, di metafisiche passioni, dove non ci si parla addosso e non ci si imbroda scambiando recensioni. Seminari di prassi di pensiero. Creare comunità, creare rapporti. Nella convinzione che solo dai rapporti può nascere la premessa per realizzare l’idea. E don Giacomo di questa capacità di costruire impalcature di relazioni è stato, ed è, maestro. Da lì è partito per iniziare in un Sud isolato, spinto solo all’emigrazione, un percorso che prendesse le mosse dal talento di ognuno. Le cose belle che ognuno sa fare. Il portato doloroso di ognuno. I difetti terribili di ognuno. Le debolezze di ognuno. La possibilità di interagire di ognuno.
Metti tutto questo assieme. E hai creato un punto di partenza. Don Giacomo l’ha fatto partendo da sud. Lamezia Terme è un territorio difficile, malato di criminalità. Il sangue scorre soprattutto tra due famiglie: i Torcasio e i Giampà. Si fanno la guerra per disputarsi il controllo del narcotraffico in quei territori. I Torcasio sono una famiglia particolarmente sanguinaria: ne diedero dimostrazione dopo uno sgarro subito per le feste. A un certo punto della loro storia, quando si tenta anche un dialogo con la famiglia Giampà, la rampolla dei Torcasio si fidanza con un Giampà. Questi le regala per Pasqua un cesto, che invece di essere pieno di uova è zeppo di tritolo. Ecco come sono le due famiglie: persone che si fanno gli auguri al veleno, gente che, in tutta risposta allo sgarro, si palesa alla porta armi alla mano e fredda il capofamiglia.
Questi sono i Torcasio. E con questi don Panizza si è trovato a interloquire. E fin dall’inizio don Giacomo viene minacciato dai Torcasio. Ma perché a un boss della ’ndrangheta dovrebbero dare tanto fastidio "gli handicappati"? Semplice: perché don Antonio, boss dei Torcasio, quei "mongoloidi" come li chiama lui, se li è trovati come vicini di casa. Alla famiglia viene infatti sequestrato uno stabile, una bella palazzina che però nessuno vuole. Come succede sempre al Sud, l’edificio viene man mano spolpato dalla ’ndrangheta di tutti gli arredi, dei bagni, di ogni cosa utile.
Le famiglie malavitose fanno di tutto per rendere inservibili i beni confiscati, lo fanno per sfregio allo stato come a dire "o nostro o di nessuno". Nemmeno il comando dei vigili vuole l’assegnazione di quello stabile per paura delle rivendicazioni della famiglia.
Invece don Panizza accetta eccome quel dono. E piano piano lo sistema, lo rende agibile e adatto a ospitare il suo Progetto Sud perché la forza di don Giacomo e dei suoi ragazzi è proprio questa: il pensare in maniera diversa e utilizzare un’abilità diversa per costruire un paese diverso.
Spari su casa-famiglia avviso a don Panizza
di Giovanni Maria Mira (Avvenire, 28 febbraio 0212)
Nuova grave intimidazione contro la Comunità ’Progetto Sud’ di Lamezia Terme, guidata da don Giacomo Panizza, direttore della Caritas diocesana. Un colpo di pistola 7,65 è stato sparato nella notte tra sabato e domenica contro l’edificio confiscato alla cosca dei Torcasio, ribattezzato ’Pensieri e parole’. Una casa di tre piani che ospita il ’dopo di noi’ per disabili non autosufficienti - e che le famiglie non possono più seguire - e una casa famiglia per immigrati minorenni. La stessa casa contro la quale la sera dello scorso Natale era stata fatta esplodere una bomba. Ora il proiettile - sembra sparato da molto lontano - che ha colpito e sfondato la finestra della cucina del ’dopo di noi’. Ma questa volta c’è qualcosa di più. «Questa volta è stata un’azione proprio contro di noi», riflette don Giacomo. Per domani, infatti, ’Progetto Sud’ e tutte le associazioni del volontariato cittadino, cattoliche e laiche, col sostegno della diocesi e del comune, hanno organizzato una giornata di mobilitazione dal titolo ’Il giorno che non c’è io ci sarò’, che prende spunto sia dalla data (29 febbraio) ma anche dalla speranza che presto si possa dire «il giorno che non c’è...più la ’ndrangheta». Anche perché a Lamezia, invece, qualcuno continua a dire che «la mafia non c’è». Una giornata che prevede incontri nelle scuole e nel tardo pomeriggio una marcia che si concluderà con gli interventi del vescovo, Luigi Antonio Cantafora, del procuratore, Salvatore Vitello e del sindaco, Gianni Speranza.
Un’iniziativa che parte dal basso per reagire a una clima pesantissimo che si è creato nel quartiere Capizzaglie, feudo storico della cosche lametine, dove nel mese di dicembre ci sono stati ben 20 attentati contro esercizi commerciali e tre agguati con ferimenti, culminati con l’ordigno contro ’Pensieri e parole’. Azioni anche in pieno giorno, tra la gente, per fare paura, riaffermare il controllo del territorio o per occuparlo da parte di gruppi mafiosi esterni. Forse per mettere le mani su importanti appalti pubblici previsti nella zona. Il risultato è che gli abitanti non girano più e le vendite dei negozi sono crollate (il quartiere è famoso soprattutto per la produzione del pane e venivano a comprarlo anche da fuori città).
«Dopo tutti questi episodi di violenza - commenta don Giacomo - ci stiamo preparando più che convinti che la città si debba rimettere in marcia, sulla strada giusta. Lamezia è da cambiare. Il 29 febbraio, alla luce di quanto avvenuto, abbiamo dei motivi in più per manifestare». Un’iniziativa che evidentemente disturba. Una settimana fa, infatti, è stata devastata da un terribile raid vandalico la scuola ’Saverio Gatti’ da cui partirà la marcia, sempre nel quartiere di Capizzaglie. Due giorni fa lo sparo contro ’Pensieri a parole’, una delle tappe della marcia.
«È chiaro che ce l’hanno con noi. Vogliono ostacolare il nostro lavoro. Sono contro la cultura della legalità e dei diritti che noi perseguiamo da anni - dice anche Nunzia Coppedè, presidente calabrese della Fish che ha sede nell’edificio e animatrice di ’Progetto Sud’ -. Comunque tutto ciò non ferma la nostra volontà ad andare avanti». E don Giacomo insiste. «Le pallottole non ci fermeranno. È il momento di resistere tutti insieme per traghettare un’altra Calabria».
Le strutture religiose accolgano gli immigrati
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 27.3.2011)
Sarebbe bello che le istituzioni religiose aprissero almeno una parte delle proprie strutture per dare un’ospitalità decente alle migliaia di immigrati, in primis ai minori non accompagnati, che arrivano a Lampedusa in fuga dall’incertezza e dai pericoli dei loro paesi in conflitto. Sarebbe non solo una doverosa compartecipazione all’azione di solidarietà collettiva cui tutti siamo chiamati a fronte di questa emergenza umanitaria, ma un atto di restituzione di un mancato introito per il bilancio pubblico (stimato in 70-80 milioni di euro) in un periodo di tagli alla spesa sociale che colpiscono soprattutto i cittadini più vulnerabili.
Soprattutto sarebbe una, sia pure temporanea, dimostrazione che effettivamente quelle strutture hanno finalità religiose e assistenziali e non commerciali e quindi la giustificazione formale del sostanzioso sconto Ici di cui beneficiano gli immobili destinati "esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive o per uso culturale" ha un effettivo fondamento.
Ricordo che, nonostante il parere contrario della Corte di giustizia Europea che giustamente ha parlato di trattamento di favore lesivo della concorrenza, il governo lo ha mantenuto e introdotto anche nel decreto sulla fiscalità municipale, anche se, specie per le "strutture ricettive", è spesso davvero difficile non definirle commerciali. Non basta la pur benemerita opera della Caritas, oggi in prima linea anche a Lampedusa, a giustificare perché i vari conventi trasformati in strutture alberghiere a Roma come a Venezia e in altre città debbano pagare meno Ici di qualsiasi altro albergo, pensione o bed and breakfast, facendo anche concorrenza sleale. Questo è il momento di dimostrare che sono innanzitutto dedicate allo svolgimento d attività assistenziali ed anche ricettive non commerciali.
Sarebbe anche opportuno che il governo ripensasse alla sua decisione di non avere un unico election day, buttando al vento centinaia di migliaia di euro. E’ stata una scelta sconsiderata in sé, appunto in un periodo di tagli dolorosi, ma lo è tanto più ora, quando le immagini dei profughi ridotti in condizioni disumane non possono non lasciarci pieni di vergogna. Lo scarto tra spreco e bisogno è letteralmente intollerabile.
Sarebbe infine bello che quest’anno lo Stato, a fronte di tagli alla spesa sociale e viceversa crescenti domande di sostegno in una situazione in cui una emergenza sociale non ne cancella un’altra, indicasse due-tre priorità sociali su cui si impegna a spendere l’8 per mille che gli verrà destinato nelle dichiarazioni dei redditi. Offrirebbe ai cittadini una alternativa effettiva, invogliando una quota maggiore di contribuenti ad indicare il proprio destinatario di elezione: tra le diverse chiese e confessioni religiose e, appunto, lo Stato.
E’ bene ricordare, infatti, che solo una minoranza dei contribuenti indica un destinatario dell’8 per mille. Chi non sceglie, è convinto che i soldi rimangano nel bilancio pubblico. Ma non è così. L’intero ammontare dell’8 per mille delle entrate è ripartito sulla base delle scelte effettuate. Chi conquista la maggioranza della minoranza che sceglie, conquista perciò anche la maggioranza dell’intero ammontare. Come nelle elezioni, chi si astiene di fatto è come se votasse con la maggioranza. In una situazione di risorse scarse e bisogni gravi crescenti, mi sembra davvero non solo poco democratico, ma uno spreco non mettere i cittadini di fronte a possibilità di scelta effettiva sugli obiettivi concreti, in campo sociale, su cui distribuire l’8 per mille.