Angeli nel fango di Firenze per salvare l’Italia ferita
di Giorgio Bocca *
Le due grandi alluvioni della Repubblica, la prima nel Polesine nel novembre del ’51, la seconda a Firenze in quello del ’66. Poi venne il Vajont ma non fu un’alluvione: fu una gigantesca bomba d’acqua che spinta da una frana scavalcò una diga e precipitò sulla valle del Piave, schiacciando tutto ciò che incontrava, campi e abitato, e nella valle rimase solo una grande macchia bianca, vetrificata.
Diverso il Polesine. Il Po, rotti gli argini a Occhiobello, si riversò nella pianura della bonifica di Rovigo e in pochi giorni creò un lago che arrivava fino al mare. In breve le acque si placarono, rimasero in vista solo i campanili e il nuovo paesaggio, sotto le montagne del Veneto e del Friuli già innevate, assunse una serenità virgiliana. Quella distesa d’acqua sembrava naturale, solcata da barche e vaporetti.
Firenze è un’altra e più drammatica cosa, è una battaglia cittadina, di una città con mezzo milione di abitanti che strada per strada, sempre le anguste strade medievali, combatte contro il mostro di acqua fango e nafta sceso nella notte dalla valle dell’Arno, una battaglia con morti e feriti e persino i carri armati dell’esercito. Nella sua storia Firenze ha subito un centinaio di alluvioni ma questa è la peggiore: ci sono nelle strade cinquemila automobili parcheggiate, ci sono nei musei e nelle biblioteche i tesori accumulati nei secoli.
Ci sono le migliaia di negozi, di alberghi, di ristoranti, c’è il turismo perenne della città che appartiene al mondo. E il mostro di fango e di olio, di acqua fetida e di detriti sommerge i ponti, devasta i lungarni e penetra nel cuore antico della città dove cercano di resistergli i fiorentini, umili o famosi che siano, i professori dei musei e delle biblioteche che mettono in salvo centinaia di quadri, di tomi preziosi, quelli che alzano ripari, svuotano le cantine, salvano gli ammalati e gli anziani e anche i cronisti come Franco Nencini che va instancabile per la città dove le luci si sono spente, piove a dirotto per ore, esplodono le caldaie, cadono le case e anche i carcerati devono mettersi in salvo sui tetti.
La mobilitazione dei cittadini è totale. È in prima fila Enrico Mattei direttore della Nazione, il più famoso pastonista d’Italia, cioè uno che ogni sera mette insieme in un unico pastone tutto ciò che è accaduto in politica, e i maggiorenti, il sindaco Bargellini, il presidente Spadolini, i ministri accorsi da Roma. È saltato il gruppo elettrogeno dell’ospedale San Giovanni di Dio, l’acqua sale nei piani, le grida dei duecento malati, sommerse tutte le scorte di viveri salvo venti bottiglie di acqua minerale e dieci polli. Resiste il Ponte Vecchio, ma l’acqua ha distrutto i negozi degli orafi. Sui Lungarni Ferrucci, Serristori, delle Grazie la piena spara le automobili nel fiume o contro le case e dovunque si alza il lamentoso suono dei clacson.
Agli Uffizi sono arrivati il sovrintendente Procacci e il direttore del restauro Baldini. Ci si organizza per il recupero, si porta in salvo tutto ciò che sta nei laboratori: l’Incoronazione di Filippo Lippi, la Madonna del Masaccio, due Simone Martini, un Giotto, formando una catena si portano via i trecento quadri della Galleria dei ritratti compresa l’Incoronazione del Botticelli. Sono in pericolo i ventiquattromila manoscritti della Biblioteca nazionale, i tremila e ottocento incunaboli, le sessantottomila opere musicali.
Ricorda una guardia: dal carcere di Santa Teresa arrivarono dei colpi e la gente si mise a gridare: «La rivolta, la rivolta!». Il terrore regnava nel carcere dove l’acqua aveva raggiunto i quattro metri. Sopraffatte le guardie, un centinaio di detenuti aveva raggiunto il tetto. Alcuni scesero l’angolo e poi si tuffarono nelle acque vorticose, la gente dalle case circostanti li incoraggiava. Arrivò un tronco e una donna gridò a un evaso: «Buttati, buttati!». Lui si buttò, si chiamava Luciano Sonnellini e aveva vent’anni. Il suo cadavere fu trovato ad un chilometro dal carcere in una cantina di via dei Papi. Alcuni riuscirono a entrare in un alloggio vicino, la gente li guardò per un po’ spaventata, ma lo erano di più loro che cominciarono a scusarsi e a spiegarsi. In alcune case finì con conversazioni da salotto: «Prego signora, non vorremmo disturbarla. Appena è possibile ce ne andiamo». «Ma figuratevi ragazzi, siamo tutti figli di Dio». Ce ne erano di quelli con la faccia da far spavento, ma altri come i nostri figli.
Degli evasi ciascuno seguiva il suo destino. Un gruppo andò a svaligiare le armerie, e sapeva dove trovarle. Alcuni si arresero al primo carabiniere, altri tornarono addirittura in carcere. Ce ne furono che raggiunsero in via Manzoni l’istituto delle suore domenicane e per farsi aprire battevano ai vetri del lucernario, chiedevano acqua e cibo. Ma non gli fu aperto. Fu più coraggioso il signor Lumachini che stava in via Manzoni. «Vogliamo solo raggiungere la strada», gli dicevano e lui li fece entrare. Anche qui dal Lumachini comincia una conversazione assurda, quasi salottiera, di grazie e di prego, di fiammiferi che passano da una mano all’altra. Gli evasi offrono sigarette e gli ospiti di casa Lumachini qualcosa da mangiare.
Intanto si conclude felicemente a Ponte Vecchio l’avventura degli orafi che nel ponte hanno negozi e magazzino, tutte le loro fortune. Qualcuno li ha avvertiti dell’alluvione che arriva: Romildo Cesaroni, una vecchia guardia notturna che sorveglia il Ponte Vecchio. Sarà stata la mezzanotte del 3 e Cesaroni telefona a casa della signora Piccini, che ha negozio sul ponte: «Signora è meglio che venga, l’Arno si sta gonfiando da fare impressione». Cesaroni è in attesa della signora all’ingresso del ponte ma in quella arrivano una quindicina di nottambuli, corrono in girotondo e cantano beffardi: «Tra due minuti crolla tutto, è meglio che li diate a noi i vostri gioielli». Arriva il marito della signora, nell’ansia non riescono a aprire il negozio.
Il ponte trema, si sentono terribili tonfi, il vento e l’acqua sbattono sulle casette dei negozi che sembrano sul punto di volar via, la corrente che trascina alberi passa un metro sotto ma la voglia di salvar la roba è più forte di tutto. Baldino, il marito della signora, le dice: «Tu scappa e intanto porta questa roba a casa». «Vien via, vien via!», implora lei. Erano arrivati dei carabinieri e anche loro dicevano di andare via, ma fuori c’erano ancora quei giovanottacci. «Tornai al ponte con altre valigie, saranno state le tre e mezza, era saltata la luce e nel buio pauroso diluviava. Si vedevano dei fari accesi, erano altri gioiellieri. Si prese qualche altra cosa e poi il ponte tremava così forte, sembrava dovesse crollare da un momento all’altro. L’ultima cosa che ricordo è un tronco gigantesco e un’auto che con il muso sbatteva contro il davanzale di una finestra». Ma altri gioiellieri arrivavano e correvano ai loro negozi. Si sentivano i carabinieri gridare: «A vostro rischio e pericolo, a vostro rischio e pericolo!».
Quando a ottanta anni ti entra un fiume in casa. A Montedomini, quartiere di povera gente, c’è il ricovero per gli anziani. L’alluvione ti viene incontro con la figura di un vecchio con il pigiama a righe e la papalina in testa che si è messo a spazzare l’acqua del cortile. Lavora piano, senza espressione in volto, non si capisce se sia un’immagine di speranza o di rassegnazione. Tutti i vecchi sembrano in stato confusionale, non fanno nulla, come annichiliti dalla sciagura. Oppure si perdono in lavori minuti, in gesti senza senso, cercando di togliere l’acqua dalla scala mentre tutta la casa è un lago, o cercando un gatto. Quando hai ottant’anni e un fiume ti entra in casa non è facile capire, muoversi.
Firenze ha anche una guida spirituale, il professor Giorgio La Pira, evangelico e poeta, che dice: «E così si risorge, un mattone dopo l’altro, un mattone per ciascuno senza discriminazioni. Firenze è un’isola, un esperimento nuovo, prezioso. Presto presto, tutto il mondo ora è Firenze, la Russia manda aerei carichi di aiuti, i parroci collaborano con i comunisti». Si impegna un grande laico, il professor Carlo Ludovico Ragghianti, lo storico dell’arte, che esorta uomini di cultura e giovani a soccorrere la città. Il mondo raccoglie la sua voce, arrivano studenti a migliaia. Dormono nelle cuccette dei vagoni abbandonati su un binario morto, salvano quadri preziosi e vite umane.
Si incomincia a far la conta dei danni. Le opere guastate sono 1.400, di cui 221 tavole, 413 tele, 39 affreschi, 122 sculture. Disfatto il Museo delle scienze, distrutta la raccolta degli strumenti musicali, danneggiati il Cristo di Cimabue e gli affreschi di Paolo Uccello, quasi distrutta la sezione etrusca, danneggiato l’Archivio di Stato che raccoglie in trecento sale la storia di Firenze, sommersi i seimila volumi e i corali miniati dell’Opera del Duomo, un milione e trecentomila pezzi delle biblioteche danneggiati, devastati, il Gabinetto Vieusseux, la Sinagoga, l’Accademia dei Georgofili, nove facoltà dell’Università alluvionate con danni irreparabili.
E si scopre l’incuria che ha permesso l’alluvione. C’è un lamento generale sulla mancanza di informazione. Enrico Mattei, direttore della Nazione, fa una pubblica denuncia: «La stanza dei bottoni c’era, ma dietro i bottoni c’era molta insensibilità, molta inefficienza. Ancora ieri mattina a sei giorni dal disastro nelle zone allagate migliaia di persone invocavano pane e acqua potabile. La vicenda di Firenze è eloquente. A una certa ora, un certo giorno, un fiume in piena si è abbattuto su una grande città. Nessuno lo ha visto salire, nessuno ha dato l’allarme, nessuno ha misurato il pericolo».
La città ha pagato errori del presente e del passato, non sono state abolite le pescaie ormai inutili, non sono stati fatti i bacini di difesa e neppure gli scolmatori. Il fiume è un budello stretto fra le colline. Durante la piena l’Arno si è trovato da sé il suo scolmatore sui Lungarni Acciarini e Archibusieri, si è riversato in città. E Firenze è stata costruita nel punto sbagliato, la cosa migliore ma non fattibile sarebbe stata spostarla.
La stampa straniera non è tenera con le nostre autorità. Scrive il Sunday Times: «La nostra inchiesta è giunta alla conclusione che il disastro è stato reso più grave dallo scarico di acqua fatto da una società idroelettrica dal suo bacino. Alle 21 del giorno 2 a trentacinque miglia dalla città sono state aperte le paratie del bacino e si è spalancata la strada a cinque milioni di metri cubi di acqua. Il bacino della diga conteneva acqua in eccedenza per nove milioni di metri cubi».
La logica di chi produce energia spesso non coincide con quella della sicurezza. L’ottimismo degli ingegneri viene spesso pagato con migliaia di morti.
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la Repubblica, 08.10.2006, pp. 40-41.
Tornano a Firenze gli “angeli del fango”
Ieri a Palazzo Vecchio si sono incontrati a quarant’anni di distanza dall’alluvione le migliaia di giovani che corsero in salvo della città.
Pecoraro Scanio annuncia: in tre anni i soldi per completare la messa in sicurezza dell’Arno
di Roberta Ronconi
(Firenze nostra inviata - Liberazione, 05.11.2006)
A Firenze ieri di “angeli del fango” ne aspettavano qualche centinaio, chiamati all’appello dalla Regione e dal Comune per ritrovarsi e celebrare insieme quel giorno a quarant’anni di distanza. Ne sono arrivati quasi duemila e hanno invaso di ricordi il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, migliaia di occhi guizzanti nella sala a frugare i volti dei vicini, a cercare lontani compagni e compagne chissà come trasformati dal tempo. Aspettando le autorità, qualcuno sale sul podio e lancia appelli dal microfono: «Quelli del 78mo reggimento dei lupi di Toscana. Vediamoci in fondo alla sala a destra!». «C’è qualcuno della sala della ventola? Vi ricordate quella stanza dove ci rifugiavamo di notte per stare al caldo? Se ci siete, raggiungetemi sotto il palco». Quaranta anni fa questo mare di uomini e donne, oggi vestiti in golfini e cappelli, formavano file e file di ragazzi impastati di fango, le calosce ai piedi e gli eskimo sulle spalle, i capelli lunghi e le mani nude a scavare negli scantinati della Biblioteca nazionale o a calarsi nei sotterranei di Palazzo Vecchio. I vecchi affacciati alle finestre li chiamavano forte, per chiedere aiuto, cibo, medicinali, acqua. E i bottegai facevano cenni agitati con le mani perché andassero lì, a rimestare con loro nell’acqua marcia infestata di cherosene e liquami di fogna, per salvare quello che si poteva di un’intera vita. Tanti non erano nemmeno maggiorenni e i vigili del fuoco, se li beccavano in situazioni pericolose, li rispedivano all’aperto, a fare da catena umana. Mano dopo mano, risalivano all’aria testi miniati, manoscritti cinquecenteschi, corazze medievali, pergamene, gioielli, dipinti del rinascimento... Il cuore di un’intera civiltà e di un’immensa cultura era stato sepolto e non c’erano che migliaia di braccia sporche a poterlo salvare. Senza acqua, senza luce, senza cibo. Solo un istinto solidale e l’entusiasmo della gioventù a combattere contro le follie della natura. Non era la prima volta che Firenze rischiava la pelle e non era la prima volta che il “torrentaccio” dava da matto. Ma una cosa così non s’era mai letta su nessun libro di storia.
Ecco, quella che poi diventò Storia, in quel momento era istinto. Sono in molti angeli a dirlo. Anzi, a ricordarlo a nome di tutti è una “mud-angel”, Susan, ragazzina londinese che si trovava a Firenze per studiare e che, invece di tornarsene di corsa a casa come la pregavano i genitori, decise di restare. «Avrei preferito rimanere nell’anonimato, anche se mi fa piacere essere qui oggi con tutti voi. Ma in quei giorni io e i miei amici, anche se avvertivamo che quello che stava accadendo sarebbe diventata una pagina di storia, facevamo semplicemente quello che era necessario fare. Ci venne spontaneo, nessuno pensava alla gloria, ma solo ad aiutare chi ne aveva bisogno e a salvare quello che si poteva di una città che amavamo e amiamo tanto, perché è la culla anche della nostra civiltà e della nostra cultura». Dopo gli appelli di Radio Londra, che all’epoca ancora esisteva e veniva ascoltata in tutta Europa e negli Stati Uniti, con la voce drammatica dello speaker che lanciava il suo appello «correte! il mondo sta per perdere una delle sue gemme più preziose!» interi licei e università e istituzioni organizzarono viaggi di giovani pronti ad arrivare a Firenze da tutto il mondo. Come quella giovanissima insegnante d’arte di Reims, l’“ange du but”Julienne che prese cinquanta dei suoi studenti, li caricò su un autobus e li portò a fare le “vacanze di natale” in mezzo alla melma. Arrivarono da New York, Philadelphia, Boston, Melbourne, Parigi, Londra, da tutta l’Italia, da tutta la Toscana. Forse diecimila, forse molti di più, chiamati dalla forza di un impulso, dalla volontà di salvare una storia comune, con radici tanto profonde da superare ogni divisione di classe, razza, lingua, età. Nessuna barriera divideva più persona da persona, improvvisamente tutti uguali, tutti uniti come non erano mai stati.
Questo il ricordo più forte, questo ciò che rende quel pezzo della vita di ciascuno di loro incancellabile. «Io partivo da Venezia dove studiavo architettura, e anche lì le acque si erano fatte pericolose - ci racconta l’angelo Sergio Staino -. Volevo raggiungere i miei, capire come stavano. Fu un viaggio di fortuna, non c’era energia elettrica e i treni si fermavano ben prima di arrivare a Firenze. Quando arrivai c’era un’atmosfera spettrale, la città era immersa nel buio e nel fango». Ma non c’era nulla che avrebbe potuto fermarli, quei ragazzi. «Avevamo imparato da poco a viaggiare, a muoverci con tutti i mezzi possibili - continua Staino -. Cominciavamo a girare per l’Europa, e credo che questo sia stato uno dei motivi per cui a Firenze arrivarono tanti giovani. Era la prima generazione ad avere consapevolezza di un’Europa terra di tutti noi, le distanze cominciavano a perdere di significato, anzi diventavano ricchezza, tempo di scoperta, dimensione di viaggio. E la spinta ideale che ci portò in massa a Firenze, la voglia di partecipazione, il senso di solidarietà, era la prima sperimentazione di ciò che poi sarebbe diventato il ’68».
Già, a guardare oggi le foto di questi uomini e donne coperti di fango, gli eskimo imbiancati dalla mota essiccata, accanto ai fiorentini, ai soldati, ai militari di leva, alle volontarie, ai pompieri, agli scout e ai prodromi della protezione civile, sembra di cogliere un passaggio di testimone. Un fotogramma preciso, di due braccia che si allungano, l’una verso l’altra, fino a sfiorarsi. Da una parte l’Italia uscita dalla guerra, con la sua tenacia di liberarsi dalla miseria e dall’orrore e dall’altra il futuro prossimo, la rivolta, l’entusiasmo, la voglia di cambiare.
Questa è stata l’alluvione di Firenze. Oltre le celebrazioni, che in fondo arrivano troppo tardi. «Perché ci incontriamo ora, che siamo tutti vecchi e vecchie, e non ci siamo incontrati trent’anni fa, quando avevamo ancora qualcosa da dire e forse ancora la forza per cambiare?», dice composto un angelo italiano. «Perché abbiamo lasciato passare tutto questo tempo e per la sicurezza dell’Arno e della città ancora non è stato fatto nulla?», gli fa eco un altro. Mancano duecento milioni di euro per finire i lavori agli argini del fiume e assicurarsi che l’Arno non faccia altri scherzi. Milioni che, assicurano i ministri presenti, saranno trovati nei prossimi tre anni.
Gli angeli non sembrano convinti. Troppo tempo è passato, quella tragedia che loro erano stati capaci di trasformare in una incredibile avventura umana ha lasciato anche qualche ferita. La storia degli esseri umani e delle loro relazioni è andata da un’altra parte. Il senso di umanità e di profonda fratellanza che per qualche mese di quel ’66 aveva contagiato tutti è forse la più grande perdita di questa nostra storia.
Raduno dei volontari che evitarono la distruzione del patrimonio della città.
Firenze riabbraccia gli «Angeli del fango».
Nel novembre del ’66 le acque dell’Arno ruppero gli argini. Migliaia di persone accorsero da tutto il mondo per salvare le opere d’arte *
FIRENZE - Una catastrofe naturale, ma non solo. Quarant’anni fa le acque dell’Arno sconvolsero Firenze, città di tesori d’arte inestimabili. L’alluvione offrì però anche l’occasione per una delle più grandi prove di solidarietà nella storia del nostro Paese. Un esercito di volontari, giovani e meno giovani di tutte le nazionalità, arrivarono a migliaia in città per salvare dipinti, sculture, dcummenti storici e libri. Li ribattezzarono «angeli del fango» perchè immersi nella melma per giorni, riuscirono a strappare all’oblio e alla distruzione gran parte del patrimonio artistico della città, un tesoro conservato e salvato per il mondo intero.
LA STORIA - Dal 25 ottobre 1966 a Firenze e nei dintorni piove ininterrottamente e dal 3 novembre violenti nubifragi si abbattono sulla città. Gli argini cedono, l’Arno a monte di Firenze si divide in due rami, riversandosi sul quartiere cittadino della sponda sinistra del fiume e l’acqua raggiunge un livello di oltre 4 metri. Poco più tardi, nella notte fra il 3 e il 4 novembre, la testa di Ponte Vecchio viene sommersa e le acque invadono il quartiere di Santo Spirito e di San Frediano. Qualche ora dopo è la volta della sponda destra del fiume. Nelle prime ore del mattino del 4 novembre l’Arno sfonda il muro della balaustrata davanti alla Biblioteca Nazionale e penetra nei depositi della biblioteca, inondando anche il quartiere di Santa Croce. La conseguenza è che si riversano sulla città dai 45 ai 50 milioni di metri cubi d’acqua: 121 persone perdono la vita durante l’inondazione, che si ritirapoi nella notte fra il 4 e il 5 novembre, lasciando nella città uno spesso strato di melma, mista a gasolio, macerie e spazzatura.
IL RADUNO - L’eco della catastrofe è enorme in tutto il mondo. In pochi giorni affluiscono a Firenze migliaia di persone. Militari, naturalmente, e forze dell’ordine in prima fila con i vigili del fuoco, inviati dal governo. Ma anche tantissimi volontari che saranno poi ricordati, appunto, come gli «Angeli del fango». E’ grazie a loro che Firenze e il suo patrimonio artistico sono state furono salvati. E proprio a loro, dopo 40 anni, è dedicato il raduno a Palazzo Vecchio, in programma sabato alle 9. Dopo il censimento promosso nello scorso gennaio dal Consiglio regionale della Toscana, ne sono stati rintracciati circa diecimila. E 2.200 «Angeli» hanno già dato la loro adesione. 02 novembre 2006
* www.corriere.it, 02.11.2006
ZEFFIRELLI: 4/11 ’DATA FELICISSIMA’, HO VISTO I FIORENTINI *
FIRENZE - Franco Zeffirelli non ha dubbi: "il 4 novembre 1966 è una data felicissima. Sembrerò pazzo ma in quei giorni ho visto una Firenze incredibile, ho visto i fiorentini". Il regista, che accorse nella sua città con una macchina da presa e portò in tutto il mondo le immagini di Firenze invasa dall’acqua, raccontata dalla voce cupa e profonda di Richard Burton, da molti è considerato uno dei protagonisti di quei giorni.
"Per Firenze", il film-documentario che raccontava il dramma e la rinascita dei fiorentini, ancora oggi viene studiato nelle scuole di cinema e sarà riproposto in questi giorni, alla sua presenza, durante le manifestazioni per i 40 anni dell’ alluvione. "A volte - spiega il maestro - la verità è impressionante se colta in momenti involontari, non preordinati. A volte è meravigliosa. Facce stupende, talvolta, ci sono anche nei telegiornali. Lì, in una città come Firenze, in una situazione di estremo disagio come quei giorni, con i fiorentini che si buttarono a capofitto nel fango per rimettere in piedi la città, le immagini per forza dovevano essere belle: bisognava essere ’grulli’ per farle brutte".
"Nelle domeniche d’estate, venivo a San Niccolò con i parenti - racconta il regista che nell’ Arno ha imparato a nuotare - e mi tuffavo nell’acqua verdissima". "Oggi invece - ha detto alcuni giorni fa in Palazzo Vecchio, in occasione della manifestazione per Oriana Fallaci - vengo spesso a Firenze per celebrare le disgrazie". Ma quella del 4 novembre, per il regista, è una "lietissima" ricorrenza perché "dimostra come una città possa risorgere da quella orrenda situazione in cui si è venuta a trovare riproponendosi in maniera festosa al mondo". Ma, insieme ai fiorentini, sono protagonisti di quella rinascita anche l’Arno ("il tema di uno dei miei primi quadretti a olio, quando avevo circa 14 anni, dipinto proprio sulle rive del fiume"), gli ’angeli del fango’, e "gli uomini e le donne di tutte le età arrivati da ogni parte del mondo con uno slancio che non ho mai visto in vita mia in nessun disastro, neppure durante la guerra". Certo, tutto questo successe perché "Firenze era Firenze, allora".
In quel novembre del ’66, ’’e nel successivo Natale, perché i ragazzi, da tutto il mondo, tornarono per passare il Natale con i danneggiati - ricorda non senza una vena polemica - é stata l’ultima volta che ho visto i giovani fare qualcosa di straordinario. Immediatamente dopo si sono guastati con il ’68 e quella roba li’ ed è finito tutto". Poi ci ripensa, e lancia un messaggio di fiducia per i giovani e per la "sua" Firenze: "Credo che nei ragazzi, se non mettono loro bastoni tra le ruote con ideologie sbagliate, con globalismi o non globalismi, ci sia ancora un tessuto popolare e culturale positivo forte. Ma non lo posso dire perché ci sono disgraziati - prosegue - che colgono ogni occasione, anche la più nobile, per fare una propaganda spaventosa dei loro gravissimi principi distruttivi della nostra cultura". E allora come risponderebbe oggi Firenze ad una nuova emergenza? "Non lo so - conclude Zeffirelli con un sorriso - Penso, e spero, che ci sia rimasto quel seme che potrebbe rifiorire, ma mi auguro non debba mai rifiorire".
* http://www.ansa.it/opencms/export/main/notizie/rubriche/approfondimenti/visualizza_new.html_2022291883.html
’COSI’ SALVAMMO IL CRISTO DI CIMABUE’ *
A 40 anni di distanza il simbolo dell’ alluvione di Firenze e della resurrezione della città è ancora il Cristo del Cimabue (1240-1302) che acqua e fango avevano quasi sommerso completamente nel cenacolo di Santa Croce, ma che un restauro difficile, guidato dal professor Umberto Baldini, fece rinascere. Il livello dell’ acqua del 4 novembre 1966 raggiunse i sei metri in città e il complesso religioso che custodiva l’ opera non fu risparmiato.
Dal legno medievale inzuppato di umidità (arrivata al 147%) si era staccato il 70% della pittura e le gravi lacune impedivano una valida lettura dell’ opera. Il disastro, ad un primo momento, aveva due soluzioni: il deposito di quanto rimaneva dell’ opera in uno scantinato della soprintendenza fiorentina e, per chi si accontentasse, le fotografie scattate in precedenza. Invece, il Cristo risorse in modo fedele alle intenzioni del suo autore. Merito di un restauro innovativo da cui scaturì un metodo, ’l’ astrazione cromatica, che per interventi di questa gravità ha fatto scuola nel mondo e che per la prima volta venne applicato sul campo.
"Fu un lavoro di recupero graduale in cui ci guidò la potenza espressiva di quanto rimaneva dell’ opera originale e che non si faceva ignorare", ricordano oggi Ornella Casazza e Paola Bracco, all’ epoca giovani restauratrici chiamate ad intervenire nel laboratorio di restauro della Fortezza. Era l’ ultima, decisiva fase, che va dal 1975 al 1976, l’ anno in cui, finalmente, il crocifisso venne riconsegnato alla basilica dopo il restauro. Quella che si preannunciava come una missione impossibile diventò un successo.
"Il Cristo di Cimabue - racconta Ornella Casazza, oggi direttrice al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti - poteva finire in un deposito, oppure diventare osservabile come era rimasto, cioé con solo il 30% della pittura che si era salvata, oppure si poteva, grazie alle immagini che avevamo, realizzare una pittura uguale a quello originale cioé fare un falso, un Cimabue-Casazza-Bracco che non avrebbe avuto senso". "Invece - prosegue la studiosa - la potenza del colore e dell’ espressione era tale da indurci a cercare una soluzione per rendere una visione dell’ opera fedele all’ intenzione dell’ autore". Così nacque l’ ’astrazione cromatica’. Lievi pennellate di collegamento da una zona superstite all’ altra permisero di ricomporre le lacune rispettando la visione di chi osserva. Fu questa la soluzione scelta e il colore usato era il risultato della media dei colori dell’ originale.
"Agimmo con un pennellino finissimo - racconta con rinnovato entusiasmo Ornella Casazza - e collegammo le parti rimaste in migliori condizioni alle lacune maggiori. Erano tratti debolissimi e finissimi che non dovevano assolutamente urtare l’ originale ma condurre l’ occhio a cogliere nell’ insieme ciò che Cimabue ci voleva trasmettere. Considerate le condizioni di rovina dovevamo interpretare e restituire all’autore ciò che egli aveva voluto che si cogliesse della sua opera".
"In modo intuitivo - spiega Paola Bracco che è ancora oggi uno dei ’pilastri’ del laboratorio di restauro dell’ Opificio delle Pietre Dure - avevamo applicato una legge dell’ ottica. Ce lo riconobbero alcuni fisici che esaminarono il crocifisso nei tempi successivi alla riconsegna. Questo restauro fu una pietra miliare anche per il tipo di approccio. Prima non c’ era l’ analisi delle grandi lacune. Dovemmo analizzare il rimanente e trovare un collegamento che non fosse imitazione di una situazione sul dipinto provocata dall’ evento, dal trauma. Riuscimmo a legare le parti sanificate a quelle perdute".
Chi, dopo il restauro, guarda la tavola a croce nel suo insieme percepisce una visione simile a quella precedente al danneggiamento e tale da trasmettere la sofferenza del Cristo. Questo è un elemento centrale perché il Cristo di Cimabue, risalente alla fine del ’200, e’ riconosciuto dagli storici dell’ arte come elemento di rottura della tradizione gotico-bizantina e di avvio della grande stagione della pittura fiorentina e italiana. Papa Paolo VI, visitando Firenze alluvionata, parlò dell’ opera di Cimabue come della "vittima più illustre". Oggi il crocifisso superstite dell’ alluvione si erge alla stessa altezza di 40 anni fa ma è protetto da un congegno a carrucola che, nel caso di nuova esondazione, lo fa alzare fino al tetto mettendolo in salvo.
* http://www.ansa.it/opencms/export/main/notizie/rubriche/approfondimenti/visualizza_new.html_2022291881.html
IL CASO
«Ci vorranno 30 anni per recuperare tutto», disse il sovrintendente all’epoca Era ottimista: 40 anni dopo, non esiste un elenco delle opere danneggiate
Firenze, ciò che resta sotto il fango
Quasi 300 dipinti (alcuni di grandi autori) aspettano ancora un intervento. Altre centinaia di sculture, affreschi e arredi sacri giacciono accatastati nei depositi sparsi anche fuori città. Almeno 15 mila i libri antichi da «lavare»
Da Firenze Riccardo Michelucci (Avvenire, 01.11.2006)
«Per recuperare il patrimonio artistico della città ci vorranno trent’anni». All’indomani dell’alluvione del 4 novembre 1966 le parole di Ivaldo Baglioni, custode della Biblioteca nazionale centrale, sembrarono ispirate da un pessimismo eccessivo. Dalla disperazione di chi aveva appena visto un diluvio d’acqua e fango abbattersi sulle principali opere d’arte. Ma mentre Firenze s’appresta a vivere il 40° anniversario della catastrofe, i bilanci sul mancato recupero del patrimonio artistico rischiano di rovinare la festa. Ad oggi è infatti praticamente impossibile quantificare con precisione il numero di opere che giace nei depositi, sotto un fitto strato di fango dell’epoca, in attesa di un restauro che in molti casi potrebbe non arrivare mai. È impossibile semplicemente perché, secondo quanto ammette la responsabile dei depositi delle opere alluvionate Matilde Simari, ancora non esiste un elenco preciso e aggiornato delle opere da recuperare. Soltanto la situazione dei dipinti appare sotto controllo, e dunque meno critica: i dati più recenti che provengono dagli archivi della Sovrintendenza ai beni storici e artistici dicono che dei 1480 esemplari danneggiati dall’alluvione ne sono stati restaurati circa 1200. Ma tra quelli che attendono un intervento ci sono opere di Giotto, Andrea del Castagno, Agnolo Gaddi, Mino da Fiesole.
E poi la famosa «Ultima cena» di Giorgio Vasari, sulla quale l’Opificio delle pietre dure sta ancora svolgendo approfonditi studi per individuare i metodi corretti per avviarne il complicatissimo restauro. La Protezione civile ha recentemente versato 250mila euro per realizzare l’intervento, ma le condizioni dell’opera - secondo Marco Ciatti, direttore dei restauri dell’Opificio - sono «a dir poco disastrose». Gli altri dipinti sono invece costretti a fare i conti con il bilancio risicato della Sovrintendenza. Ma se per i dipinti esistono almeno stime attendibili e buona parte delle operazioni di recupero sono state portate a termi ne, la situazione appare molto più grave per tutte le altre opere. Centinaia di tele, tavole, affreschi, sculture, arredi sacri, sinopie e rulli giacciono accatastati nei depositi sparsi anche fuori città. Nelle stanze della Villa Medicea di Poggio a Caiano, tra Prato e Firenze, si trova un numero imprecisato di arredi sacri in legno, crocifissi, sedie, candelabri, cornici. In molti casi privi di un nome e di una storia, sono tutti ammucchiati nella polvere, tra i calcinacci e il fango di quarant’anni fa. Molti altri pezzi alluvionati si trovano invece in due ville medicee nella zona di Castello, a pochi km da Firenze. Secondo calcoli approssimativi, alla Limonaia di Villa Corsini dovrebbero trovarsi circa 250 affreschi e un altro centinaio di oggetti, ma il condizionale è d’obbligo poiché il progetto di catalogazione con le ipotesi di intervento non è stato ancora ultimato. Nella vicina villa La Petraia - secondo un elenco di alcuni anni fa - si trova un’altra novantina di opere, perlopiù arredi provenienti dalle chiese del centro storico.
Ma molte situazioni critiche sono rimaste proprio in quei luoghi che furono invasi dalla piena del fiume nel 1966. Nelle rastrelliere della palazzina Poggi, a un passo da Palazzo Pitti, sono allineate circa 180 opere, tra le quali spiccano 150 tele e tavole risalenti al XV e al XVII secolo. Molte sono in attesa di restauro. I depositi sopra la Grotta del Buontalenti, al giardino di Boboli, conservano ancora ben 240 affreschi di varie dimensioni: alcuni poco danneggiati, altri in condizioni disperate. Nel vicino Palazzo Serristori si contano invece decine di cornici antiche e un’altra novantina di opere, tra tele, tavole e qualche rullo. Poiché il palazzo, recentemente acquistato da privati, dovrà essere sgomberato a breve, le opere stanno per essere impacchettate e trasferite alla Certosa del Galluzzo, alla periferia di Firenze, dove la Sovrintendenza intende riunire i suoi depositi in un unico spazio. Il sovrintendente Bruno S anti conta di farcela prima di andare in pensione, nel 2009.
Intanto di fronte ai sempre più ridotti contributi ministeriali sta cambiando anche la politica del mantenimento delle opere: il tentativo è quello di farle tornare nei luoghi di provenienza e far in modo che a restaurarle siano i legittimi proprietari. L’ultimo capitolo di questo percorso non può non portarci di nuovo in quella Biblioteca nazionale centrale che rappresenta un simbolo dell’arte fiorentina alluvionata. Le centinaia di «angeli del fango» che arriveranno a Firenze per il grande raduno di sabato non saranno contenti di apprendere che anche qui la previsione dell’ex custode si è rivelata approssimata, ma per difetto. Nonostante l’enorme impegno di un laboratorio che lavora ininterrottamente dal 1966, restano da restaurare ben 15mila dei 58mila volumi del Fondo Magliabechiano, il più antico e prezioso. E poi sono in attesa di essere recuperati anche 3mila dei 10mila volumi del Fondo Palatino, mentre 42mila miscellanee antiche devono ancora essere lavate. Il lavoro e la passione di un gruppo sempre più ristretto di operai e impiegati da soli non potranno mai farcela. Per accelerare e concludere il restauro prima dei prossimi quarant’anni servono fondi. Anche perché da 5 anni, fa notare Gisella Guasti, attuale direttrice del laboratorio di restauro, il ministero non fa più arrivare finanziamenti straordinari per le opere alluvionate.