MILANO
Addio a Giorgio Bocca
una vita per la scrittura *
MILANO - E’ morto oggi pomeriggio nella sua casa di Milano, dopo una breve malattia, Giorgio Bocca. Il grande giornalista e scrittore era nato a Cuneo il 28 agosto del 1920.
Bocca, uno dei fondatori di Repubblica, è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Al suo attivo, in una carriera più che cinquantennale, anche una vasta produzione saggistica che spazia dall’attualità politica e dall’analisi socioeconomica all’approfondimento storico e storiografico.
Il suo trascorso di partigiano nelle file di Giustizia e Libertà lo ha portato a studiare a lungo il periodo della resistenza e del fascismo, mentre per quanto riguarda l’attualità si è occupato in particolare dei fenomeni come Tangentopoli e l’ascesa del movimento leghista.
* la Repubblica, 25 dicembre 2011
UNA VITA DA GIORNALISTA
Bocca, il cronista dell’Italia liberata
dalla Resistenza al nuovo millennio
Comandante in GL, dopo la guerra rifiutò incarichi politici per fare il giornalista. Prima alla Gazzetta del Popolo, poi all’Europeo, al Giorno, fino all’avventura di Repubblica con Scalfari. Testimone attento e scomodo di oltre sessant’anni di storia italiana
di FABRIZIO RAVELLI *
"NELL’ITALIA liberata prima ci disarmarono, parlo di noi partigiani, e poi ci chiesero di tenere in qualche modo in piedi la baracca dello Stato. A me, che avevo comandato una divisione di Giustizia e Libertà, offrirono, a scelta, un posto da vicequestore o da sindaco. Dissi che preferivo un posto da giornalista a GL, l’edizione torinese di Italia Libera, il quotidiano del Partito d’Azione a Torino". Nel fiume sterminato della vita professionale di Giorgio Bocca è raro trovare lezioni di uno che si impanca a maestro di giornalismo. C’è questo momento fondamentale: il partigiano Bocca che, deposte a forza le armi, decide che per "tenere in piedi la baracca" c’era di meglio che buttarsi in politica. C’era da raccontare un Paese, da viaggiare e riferire, da incontrare gente e interrogarsi.
E’ quello che ha fatto per tutta la sua seconda vita, mai dimenticando quella prima da partigiano che l’aveva formato per sempre. La sua unica, sbrigativa lezione, risale sempre a quegli anni: "Il mestiere del giornalista è molte cose che si imparano: scrivere chiaro e in fretta, avere capacità di sintesi, non perdersi nei dubbi e nelle esitazioni, ma anche essere colto, aperto al mondo e alle sue lezioni, capace di emozioni, di solidarietà umana": E ai giovani che gli chiedevano quale fosse il segreto (e si chiamavano Egisto Corradi, Bernardo Valli, Angelo Del Boca, Alberto Cavallari, Gigi Ghirotti), Bocca riservava una piccola rivelazione: "Non preoccupatevi, se un segreto c’è, è quello che avete già in testa, il segreto di chi ha orecchio per i suoni del creato, di chi ha occhio per la caccia, dello schermidore che sa parare e tirare".
Da GL a un giornale vero, la Gazzetta del Popolo, nei tumultuosi anni del primo dopoguerra, e sono gli anni in cui Bocca scopre la cronaca barricadiera, le corse avventurose sui luoghi dei delitti, "la politica è spesso un alibi per continuare a uccidere. E noi che raccontiamo sui giornali ciò che accade viviamo ubriachi di gioventù fra i delitti e le macerie dei bombardamenti, nelle tane urbane lasciate libere dagli sconfitti". La saponificatrice di Correggio. Gli scioperi contadini e le lotte operaie. I tardivi ritorni alle armi di piccoli gruppi partigiani, come quello "di un certo Tek Tek che si trincerò in un castello del Monferrato", e la visita di Bocca finì a tavola con una bagna caoda. Le vendette del "triangolo rosso". La strage di Villarbasse. L’alluvione del Polesine, via di corsa nella notte alla notizia che il Po ha rotto gli argini a Occhiobello, "la mia auto è una Topolino rossa, cinquecento di cilindrata, due posti, ma va sul ghiaccio e nel fango e non si rompe mai". E poi in barca sulle acque che sommergono i paesi, "navighiamo a raccoglier naufraghi mezzi morti e mezzi vivi e ad ascoltare le loro storie".
Nel ’54 il salto a Milano, all’Europeo di Rizzoli, "l’Europeo, scuola di giornalismo. A scuola dalla Camilla Cederna, che era una gran signora milanese, una donna elegante e curiosa, di una curiosità inesauribile, che la manteneva indenne dal tempo, senza una ruga, senza un’ombra di stanchezza, testimone attenta con il gusto di raccontare". E Oriana Fallaci: "Ero nell’atrio della Rizzoli in piazza Carlo Erba, e dall’alto mi arriva la voce dell’Oriana che grida all’impaginatore: Riva, ma che fai? A quel bischero del Bocca un titolo a tutta pagina e all’Oriana due colonne?". I viaggi per il mondo in compagnia del fotografo Moroldo, "che non era solo un bravo fotografo, era anche la mia guardia del corpo: più alto degli altissimi watussi, nerboruto e scattante. A cercare la Begum moglie dell’Aga Khan, a intervistare il Negus re dell’Etiopia, in Israele per le Guerra dei sei giorni.
Poi per Bocca venne la stagione del Giorno, chiamato dal direttore Italo Pietra, ex-partigiano come lui: "Avevo quarant’anni, conoscevo il mestiere, Pietra mi aveva assunto, doveva aiutarmi, capii che era arrivato il momento di impormi e nel giornale delle notizie brevi chiesi pagine intere, come il primo servizio su Vigevano, la città dei calzolai". L’incipit di quel servizio è rimasto memorabile nel giornalismo italiano: "Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una". Sono gli anni in cui, sul Giorno che rappresentava il nuovo, le inchieste di Bocca raccontano l’Italia del boom economico. Cronache magistrali, che hanno fatto scuola per efficacia, personalità, curiosità. Più preziose di un libro di Storia. "Allora, quando giravo l’Italia per le mie inchieste, mi ero quasi convinto di essere uno che incuteva paura ai potenti, che poteva dirgli in faccia quel che pensava di loro. La megalomania dei giornalisti è quasi sopportabile nella sua ingenuità. La verità è che ero il giornalista di Enrico Mattei, del potentissimo Eni con cui i ’padroni del vaporè dovevano fare i conti".
Così Bocca racconta i capitalisti alla Pesenti, ma anche i nuovi ricchi come gli ex-mezzadri di Carpi diventati industriali della maglia, e poi la Lombardia dei treni operai, il processo Eichmann in Israele, il ’68 francese, la strage di Piazza Fontana, le Olimpiadi di Monaco. "Nel ’64 ero a Tokyo per seguire le Olimpiadi e il Giorno, con la disinvoltura geografica tipica dei giornalisti, mi fece sapere ’Visto che sei lì, fai un salto a Saigon’. Tornerà poi altre quattro volte a raccontare la guerra del Vietnam.
Nel ’76 Giorgio Bocca è fra quelli che si imbarcano nella nuova avventura di Repubblica, accettando la scommessa di Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo, quella di un quotidiano nazionale che vada a sfidare il radicamento di concorrenti storici, il Corriere della Sera, la Stampa, il Messaggero. Bocca racconta gli anni di piombo del terrorismo: "Era molto difficile fare il giornalista nei giorni del terrore. Il nemico che poteva ucciderti o gambizzarti poteva essere il signore della porta accanto, o un amico di tuo figlio. Un giorno vado a un’assemblea studentesca, si avvicina un giovane e mi chiede: ’Tu sei Giorgio Bocca, il giornalista?’. Sì, rispondo. ’Spiegami una cosa: perché nei tuoi articoli dici che non sai chi sono e dove vivono i brigatisti rossi? Vedi, in quest’aula ce ne sono almeno cinque, tre regolari e due ausiliari, non ancora clandestini, vivono a casa loro e collaborano quando occorrono’".
Racconta i terroristi, andandoci a parlare, ma anche il generale Dalla Chiesa che dà loro la caccia. Nell’agosto del 1982 va a trovare a Palermo il generale, nominato prefetto antimafia: ne esce un’intervista memorabile, amarissima, rivelatrice dell’isolamento che avrebbe portato al suo assassinio soltanto un mese dopo. E ancora Bocca torna a raccontare l’Italia che cambia, la rivincita delle campagne piemontesi ed emiliane in chiave industriale. Il sindacalismo, l’ascesa di Bettino Craxi, il successo di Silvio Berlusconi con la nuova tv commerciale. Il leghismo e Umberto Bossi. Il sacrificio consapevole di Falcone e Borsellino.
E lungo tutta la carriera, i libri: dalla bellissima autobiografia Il Provinciale, al racconto della guerra partigiana, la storia della guerra fascista, la biografia di Togliatti, e i molti altri. E sempre volentieri Bocca è tornato sui luoghi della sua formazione, le montagne amate e vissute, di quando da "viaggiatore spaesato" (è il titolo di uno dei suoi libri più belli) riandava a rifugiarsi nella casa valdostana. Cercando il senso dello spaesamento nel silenzio della neve, scrutando aquile e gatti, alberi e prati. Nell’ultima pagina di "E’ la stampa, bellezza! La mia avventura del giornalismo" consegnava brusco una piccola lezione: "Ecco, la chiarezza come dote regina del giornalismo. Spesso cambiata per faciloneria o irresponsabilità, ma da cercare sempre, in modo che alla fine del viaggio uno possa dire: non ho camminato alla cieca, non ho capito tutto, ma i nostri grandi vizi e le nostre umane virtù li ho riconosciuti".
* la Repubblica, 25 dicembre 2011
IL LUTTO
Addio al giornalista Giorgio Bocca
anti-italiano tra passione e rigore
Partigiano, cronista e scrittore: era nato a Cuneo nel 1920. A gennaio esce il libro postumo *
MILANO «Tutti quelli che fanno il giornalismo lo fanno sperando di dire la verità: anche se è difficile, li esorto e li incoraggio a continuare su questa strada». Un testamento ideale quello che Giorgio Bocca, firma storica del giornalismo italiano, scomparso oggi all’età di 91 anni, affidò alle nuove generazioni nell’aprile 2008, ricevendo nella stessa casa di Milano dove oggi si è spento dopo una breve malattia, il premio Ilaria Alpi alla carriera.
Un testamento anche il titolo del libro che uscirà l’11 gennaio per Feltrinelli, «Grazie no. 7 idee che non dobbiamo più accettare». Bocca rimane l’Antitaliano, come si chiamava la sua celebre rubrica sull’Espresso, fino all’ultimo giorno. La ricerca della verità, accompagnata dal rigore analitico, dalla passione civile, da uno stile fatto di sintesi e chiarezza e fortemente segnata dal suo carattere, un mix di disciplina sabauda, curiosità severa e vis polemica: questi i valori che hanno ispirato la carriera più che cinquantennale di Bocca.
Valori che il giornalista e scrittore, medaglia d’argento al valor militare, aveva vissuto fino in fondo soprattutto nei primi anni di attività, quelli della guerra e della militanza partigiana: «I giornalisti della mia generazione - sottolineò in una delle sue ultime apparizioni in tv, ospite a Le invasioni barbariche su La7 nel novembre 2008 - erano mossi da un motivo etico: ci eravamo messi tragedie alle spalle, perciò il nostro era un giornalismo abbastanza serio. Oggi la verità non interessa più a nessuno» e «l’editoria è sempre più al servizio della pubblicità». Nato a Cuneo da una famiglia della piccola borghesia piemontese nel 1920, iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, appassionato di sci agonistico - e perciò noto nell’ambiente del Guf (la gioventù universitaria fascista) cuneese - Bocca iniziò a scrivere già a metà degli anni 30, su periodici locali e poi sul settimanale cuneese La Provincia Grande.
Durante la guerra si arruolò come allievo ufficiale di complemento fra gli alpini e dopo l’armistizio fu tra i fondatori delle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà: «L’ho fatto per pagarmi il biglietto di ritorno alla democrazia», spiegava. Riprese allora l’attività giornalistica, scrivendo per il quotidiano di GL, poi per la Gazzetta del Popolo, per l’Europeo e per Il Giorno e segnalandosi per le inchieste. Nel 1976 fu tra i fondatori, con Eugenio Scalfari, del quotidiano la Repubblica, con cui aveva continuato a collaborare fino alle ultime forze. Al suo attivo anche numerosi libri, che spaziano dall’attualità politica e dall’analisi socioeconomica all’approfondimento storico e storiografico, dalla questione meridionale alle interviste ai protagonisti del terrorismo, senza mai dimenticare la sua esperienza partigiana, in nome della quale aveva anche polemizzato di recente con alcuni tentativi di revisione critica della Resistenza e in particolare con Giampaolo Pansa.
Tra i titoli più noti di Bocca, Storia dell’Italia partigiana (1966); Storia dell’Italia nella guerra fascista (1969); Palmiro Togliatti (1973); La Repubblica di Mussolini (1977); Il terrorismo italiano 1970-78 (1978); Storia della Repubblica italiana - Dalla caduta del fascismo a oggi (1982); l’autobiografia Il provinciale. Settant’anni di vita italiana (1992); L’inferno. Profondo sud, male oscuro (1993); Metropolis (1994); Italiani strana gente (1997); Il secolo sbagliato (1999); Pandemonio (2000); Il dio denaro (2001); Piccolo Cesare (2002, dedicato al fenomeno Berlusconi, libro che segnò il passaggio di Bocca da Mondadori, suo editore da oltre dieci anni, a Feltrinelli); Napoli siamo noi (2006); Le mie montagne (2006); È la stampa, bellezza (2008). Annus Horribilis, Milano, Feltrinelli (2010). Fratelli Coltelli (1948-2010 L’Italia che ho Conosciuto), Milano, Feltrinelli (2010). Nella vita di Bocca c’è stato spazio anche per una breve esperienza televisiva su Canale 5, alla fine degli anni ’80, con la rubrica I protagonisti. «Quando andai a lavorare a Canale 5 - raccontò in un’intervista - Scalfari disse "Giorgio si è innamorato di Berlusconi". E in effetti mi piaceva la sua capacità di fare la tv sul piano tecnico e organizzativo. Ma quando si mise a far politica, cambiai idea».
Con l’abituale lucidità, così sintetizzava la sua biografia politica: «Sono uscito dal fascismo, sono entrato nella Resistenza a capo di una divisione partigiana di Giustizia e libertà e poi, pur essendo stato vicino al Psi non mi sono più iscritto ad alcun partito: non ho più voluto avere uno che decidesse sulla mia testa». Alle elezioni del 2008 non aveva neanche votato: «Mi ha stufato la politica com’è in Italia».
La famiglia di Bocca ha fatto sapere che intende essere lasciata tranquilla e affrontare la vicenda «in modo privato».
IN ONORE DEL COMPAGNO GIORGIO BOCCA di Antonio Caputo (Presidente del Movimento d’Azione Giustizia e Liberta’)
Caro compagno, mi mancherai, ci mancherai.
Ci manchera’ la Tua penna asciutta e tagliente.
Ci manchera’ la tua intransigenza
La tua chiarezza nel saper distinguere senza mai confondere.
Il tuo desiderio insoddisfatto di un’epurazione che avrebbe forse consentito all’Italia e agli italiani di non imputridire, di "non mollare".
Hai visto il declino di Berlusconi, ma non dell’eterno berlusconismo che invano hai cercato di respingere.
Hai sognato un’Italia libera di italiani civili.
L’Europa dei cittadini.
Unire l’Europa per unire il mondo, secondo il motto, il Tuo/nostro motto , il grido sempre piu’ lontano proveniente da Ventotene.
Ora grido di dolore.
Partigiano delle montagne, hai sognato Giustizia e Liberta’.
Per noi il sogno continua nel ricordo della Tua persona.
Ti sia la terra lieve, come meritano i Giusti.
Antonio Caputo (Presidente del Movimento d’Azione Giustizia e Liberta’)
Il ricordo
Addio, partigiano Giorgio
di Roberto Saviano
La sua Resistenza è iniziata sulle montagne del Piemonte. Ed è continuata per i 66 anni successivi, con la penna e l’inchiostro al posto del fucile. L’omaggio dello scrittore Roberto Saviano al grande giornalista scomparso *
Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati... Quelli che parlavano erano due piemontesi e discutevano delle radici profonde del male meridionale, loro lo avevano capito e l’analisi che si scambiavano come un testimone che l’uno affidava all’altro non era disprezzo colonialista verso un popolo schiavo che non aveva la forza di riscattare i suoi diritti. No, il loro era amore per il Sud, da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi.
Quel colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Bocca è stato importante per me e per quelli della mia generazione che hanno sempre chiesto di capire. Noi che abbiamo cominciato a fare domande dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per riscoprire così il sacrificio del carabiniere diventato prefetto che aveva rinunciato alle scorte e alle blindate per essere parte della vita di Palermo, l’altra capitale del Sud, e si era imposto di cominciare la sua missione proprio dalle scuole, dal consegnare ai giovani meridionali la speranza in un futuro di legalità.
Noi volevamo capire perché senza capire non si può cambiare; capire anche a costo di specchiarsi nell’orrore di una realtà che non poteva più restare nascosta dietro slogan logori e paesaggi da soap: guardarsi in faccia, scoprire il proprio volto a costo di rendersi conto di quanto fosse brutto.
Questo è quello che Giorgio Bocca mi ha insegnato, a raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore. Lo hanno accusato di essere razzista, antimeridionale, di odiare il Sud. Sono le stesse cose che hanno detto di me, contro di me, "il rinnegato". Ci hanno dato degli "avvoltoi" che si arricchiscono con il dolore altrui. Bocca invece ha fatto dell’essere "antitaliano" una virtù, il metodo per non arrendersi a luoghi comuni. Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l’inferno l’ha indicata lui, "Gomorra" si è nutrito della sua lezione: guardare le cose in faccia, respirarle, sbatterci contro fino a farsele entrare dentro e poi scrivere senza reticenze, smussature, compiacenze.
Bocca lo ha sempre fatto, da fuoriclasse, lo continua a fare oggi a novant’anni con la curiosità e la tenacia di un ventenne; sempre pronto a mettersi in discussione come quel ragazzo che nel 1943 salì in montagna superando il suo passato e scegliendo il suo futuro.
E quando lui e Dalla Chiesa parlavano di un popolo da liberare lo facevano con l’anima dei partigiani, di chi aveva combattuto lo stesso nemico in nome dello stesso popolo. Avevano rischiato la vita e ucciso anche per consegnare un domani diverso a chi accettava passivamente la dittatura fascista e la dominazione nazitedesca; sono stati partigiani anche per chi non aveva il coraggio, la forza, la volontà, la possibilità o la capacità di lottare per i propri diritti. La loro vittoria è stata la Costituzione, quel documento vivo che dovrebbe essere il pilastro della nostra democrazia, un monumento di libertà troppo spesso ignorato o bollato di vecchiaia. No, è un testo modernissimo, come ancora oggi lo sono gli interventi di Giorgio Bocca. Essere partigiano prima con il fucile e poi per altri 65 anni con l’inchiostro significa avere la misura della libertà, saperla riconoscere ovunque.
A sud di Roma è difficile ascoltare racconti partigiani. La guerra di liberazione è stata più a nord e anche questo ha contribuito a non risvegliare coscienze già rassegnate. Napoli con le sue quattro giornate è stata una fiammata d’eroismo, l’unica metropoli europea a cacciare i tedeschi, ma la sua levata d’orgoglio è bruciata in meno di una settimana. Sembrava quasi che ad animare i napoletani diventati guerriglieri ci fosse lo stesso sentimento del tassista che Bocca descrive nell’incipit del suo "Napoli siamo Noi": "Lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi".
* l’Epresso, 25 dicembre 2011
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-partigiano-giorgio/2132791
La lotta al fascismo restò sempre la sua bussola
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 27.12.2011)
In un periodo storico caratterizzato da una crisi economica e politica difficile e dall’esito incerto, la scomparsa di un grande giornalista quale è stato per più di 50 anni il cuneese Giorgio Bocca, riporta tutti, con il pensiero, alla resistenza contro i nazisti e i fascisti di Salò. Una vicenda dura che ha segnato Bocca più di altre. In quei venti mesi, dal settembre 1943 all’aprile 1945, una parte non piccola dei giovani italiani educati dalla dittatura mussoliniana decisero di prendere le armi, salire sulle montagne e lottare per un’Italia libera. Dopo la battaglia di quasi un secolo prima per conquistare l’unificazione nazionale seguita a molti secoli di divisioni e di servitù dagli stranieri quella fu una seconda grande occasione per gli italiani di mostrare al mondo come esponenti delle nuove generazioni fossero disposti a rischiare la vita per riconquistare una libertà che mancava all’Italia dall’ottobre 1922.
Giorgio Bocca (che pure, fino al 1942, era stato legato alle parole d’ordine del regime) di fronte alle sconfitte militari e alla caduta del dittatore nel luglio 1943, si rese conto con lucidità della nuova fase che si apriva per l’Italia e della necessità di mettersi in gioco. A quella dura ma esaltante esperienza, che lo vide prima comandante di una brigata nel Cuneese e successivamente commissario politico di una divisione di Giustizia e Libertà, Bocca avrebbe poi dedicato uno dei suoi libri più riusciti, «Partigiani della montagna». Un viaggio nel significato storico e culturale della guerra armata che attraversò per quasi due anni l’intera penisola dalla Sicilia alle Alpi.
Quella esperienza compiuta da giovane lo segnò in maniera decisiva. Per tutta la vita rimase fedele agli ideali e alle battaglie che aveva combattuto, sempre vigile contro i rigurgiti di fascismo che in varie occasioni sarebbero riemersi durante la storia tormentata del settantennio repubblicano. Pensando alla sua vita mi viene in mente un altro italiano illustre, l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che ha intitolato qualche anno fa un suo libro di memorie «Non è il Paese che sognavo».
Giorgio Bocca in uno dei suoi ultimi scritti, «Annus horribilis» del 2009, ha esaminato l’epoca del trionfo dei populismi che ha caratterizzato quest’ultima fase della storia repubblicana. Un periodo di crisi per il nostro Paese, nella quale Berlusconi ha svolto, come ci ha sempre ricordato Bocca, un ruolo fondamentale e pericoloso. Insomma, il filo dell’antifascismo e della battaglia democratica restano una costante nel lungo lavoro di un grande giornalista italiano.