La società non può essere sacrificata al dio mercato
di Giorgio Ruffolo
Mercato, PIL, competitività: proviamo a criticare questi idoli e a ragionare sul benessere. Una proposta di ieri (la Repubblica, 14 agosto 2001), più attuale che mai *
Per il povero Marx è proprio una nemesi. Lo hanno crocifisso per quel suo determinismo economico: che vergogna, ridurre tutta la lussureggiante fioritura delle idee al cieco brancolare degli interessi! Engels si provò a spiegare che non era proprio così: che bisognava intendere la cosa con un po’ più di un grano di sale. Ma invano. E la vulgata staliniana del marxismo finì poi, compitando in modo barbarico la lezione dei maestri, per ribadire quella versione semplificata. Ma poiché la storia, come il buon Hegel sapeva, si vendica, il goffo catechismo deterministico di Stalin battezzò la più colossale e disumana impresa volontaristica della modernità: l’Unione Sovietica.
Ma ora, che succede? Che il determinismo economico risorge dalle sue ceneri: però, da destra. Una nuova vulgata neoliberista (pare che la nostra epoca non ci lasci che dei nei!) si afferma sotto forma di quello che potremmo chiamare un determinismo mercatistico. A dire la verità, più che di una teoria si tratta di una fede: perché - così come il complesso pensiero marxiano fu pietrificato nelle litanie staliniane - anche la lucida aritmetica degli economisti classici e le geometrie eleganti dei marginalisti sono state immerse in un brodo mistico.
Mercato e Mercati non sono più modelli di scuola, ma divinità imperscrutabili. Così, le società più ricche e più potenti della storia si paralizzano all’inizio di ogni settimana, nell’attesa trepidante dell’apertura delle Borse, le nuove ambigue Pizie del turbocapitalismo.
Quest’ansia è però controllata da una incrollabile certezza. Per sottrarsi allo stress, bisogna essere e mantenersi competitivi. Questo è il Verbo del nostro tempo turbinoso: correre come Alice sul tappeto perverso. Sacrificare ogni lusso - l’educazione, la salute, l’aria pulita, la sicurezza della vecchiaia e una decente prospettiva di lavoro stabile - all’esigenza di stare al passo. E questo passo si misura ormai alla stregua del mondo intero: la competitività è internazionale, o non è.
Ma che cos’è questa competitività internazionale che sola può propiziare la grazia imperscrutabile dei Mercati? Il fatto sorprendente è che nessuno l’ha mai definita. Proprio come Dio. Secondo Paul Krugman, insigne economista americano, che ha scritto nel 1997 un libro brillante sull’argomento, è "un’ossessione pericolosa". E prima ancora, è un concetto vuoto di senso. Non significa niente se applicata, come si fa spesso del suo proprio campo - che è quello del mercato in senso stretto - ai paesi, alle nazioni. Non c’è, del resto, metafora più fuorviante e melensa insieme di quella che rappresenta una economia nazionale come una impresa. L’azienda Italia diventò di moda nei tardi anni Settanta, anche tra gli allora giovani socialisti rampanti: li faceva sentire più moderni, più fichetti. Poi si è banalizzata, è diventata un must del linguaggio politico-manageriale. Più che una moda, però, questa metafora costituisce, dice Krugman, una vera ossessione: pericolosa, se la si prende sul serio. Se davvero si pensa che le nazioni competono tra loro come le imprese; e che ci siano imprescrittibili vincoli dettati da questa gara alla allocazione delle risorse tra usi pubblici e privati o alla distribuzione del reddito tra gruppi sociali.
Il fatto è che un paese non è un’azienda, non è mosso dalle sue motivazioni, non è sottoposto ai suoi limiti. Certo, sono entrambe forme di organizzazione sociale. Ma anche la gallina e l’uomo sono entrambi bipedi. L’impresa è un’attività strumentale promossa e diretta da soggetti precisi rivolti al fine del profitto. Ciò le impone dei vincoli, violati i quali fallisce; e la pone in concorrenza con altri soggetti rivolti allo stesso fine. La comunità nazionale è una collettività esistenziale dalla formazione e dai fini largamente indeterminati. Non ha una posta specifica da perseguire.
Non ha una linea di galleggiamento precisa da mantenere. Le nazioni, ovviamente, possono scomparire in una guerra o in una rivoluzione, ma non in un’Opa. Le società possono disgregarsi, ma non portano i libri in tribunale.
Insomma, le nazioni non corrono su una pista, testa a testa, per massimizzare una performance, perché non c’è nessuna misura di quella performance. Qual è la misura della competitività? A prima vista, sembrerebbe ovvio: il saldo della bilancia dei pagamenti correnti. Ma se così fosse l’economia americana, con il suo deficit esterno mostruoso, sarebbe la meno competitiva del mondo, mentre l’Europa, col suo rilevante avanzo commerciale, se la caverebbe brillantemente.
Non c’è dunque un concorso internazionale che ci obbliga a correre tutti nella stessa direzione. C’è - meglio, ci dovrebbe essere - una gara tra le nazioni per conseguire livelli sempre più alti di benessere. E per concorrere a questa gara, un’alta produttività, garantita da un elevato tasso di innovazione tecnologica, è vitale. Ma questa esigenza, che deve ovviamente tener conto dei risultati del mercato, deve essere armonizzata con le altre che assicurano la coesione sociale: la formazione, la salute, il lavoro, la sicurezza, oggi l’ambiente. Ora, lo stabilire i termini di questa combinazione - questo è il punto - è responsabilità politica della collettività. Essi non possono essere dettati dalle imperscrutabili leggi del mercato: anche perché ci sarebbe - come dire? - un grosso conflitto d’interessi.
Facciamo una congettura. Suppose that, (come diceva il grande Ricardo, per spiegarsi): supponiamo che gli economisti, stanchi di perseguire la cometa fuorviante del Pil (o Pirl che dir si voglia) inventino un metodo nuovo di contabilità sociale, che permetta ad ogni paese di costruire e di scegliere democraticamente la sua propria - diciamo così - WWW (Welfare Wishful Way, un indicatore desiderabile di benessere): una combinazione, necessariamente diversa per ogni paese, di obiettivi riguardanti lo stato auspicabile della ricchezza, della fiscalità, della disuguaglianza, della protezione sociale, della salute, dell’educazione, dell’ambiente. Coerente e, naturalmente, aggiornabile. Il successo di un paese sarebbe misurato non dalla sua capacità di crescere come Frankenstein, senza sapere perché e verso dove; ma dalla misura in cui si avvicina a quell’indice. La sua competitività reale con gli altri paesi sarebbe misurata dallo scarto relativo rispetto a quell’indice. Finalmente sapremmo davvero chi è il più bravo. E gli economisti recupererebbero pienamente la "degnità" sociale di una scienza che è sorta al servizio dell’uomo e non dei ricchi e potenti.
* eddyburg, 10.06.2007
La controffensiva capitalistica
di Giorgio Ruffolo
Una sintetica definizione del neoliberismo, l’avventura del dominio globale iniziata alla fine degli anni 70, in un paragrafo del libro Lo specchio del diavolo, Torino 2006. *
Da: Giorgio Ruffolo, Lo specchio del diavolo. La storia dell’economia dal Paradiso terrestre all’inferno della finanza , Torino, Einaudi 2006, pp. 131, 9,00 €
Il capitalismo privo di mura
Alla parola globalizzazione, ormai inflazionata, si danno molti, troppi significati. Ne sottolineiamo uno che ci sembra cruciale: la controffensiva capitalistica. Perché? E contro chi ?
Abbiamo già raccontato l’inizio di questa offensiva, quando, nei primi anni Settanta, gli Stati Uniti di Nixon si sottrassero alla disciplina monetaria di Bretton Woods, imponendo di fatto al mondo il dollaro come moneta universale.
Verso la fine degli anni Settanta si scatena la seconda parte della controffensiva, contro lo Stato sociale. Il capitalismo «avanzato» si sottrae alla pressione del lavoro organizzato e dello Stato, esercitata nel quadro del compromesso socialdemocratico.
Quella pressione, effettivamente, era aumentata d’intensità. Il riformismo aveva accentuato la sua pressione sul capitalismo: le sue istanze economiche, la spesa sociale e le istanze salariali, insomma i suoi costi; senza essere capace di aprire alla società nuove prospettive extraeconomiche ideali, nuove forme di gratificazione sociali e culturali. Era rimasto entro un contesto materialistico. Si era appannato cosí il suo carisma, mentre si erano appesantite le sue strutture e le loro conseguenze inflazionistiche.
L’aumento dei costi interni si accompagna con un aumento della pressione competitiva esterna che, nel nuovo clima di instabilità mondiale, spinge le imprese a recuperare la flessione dei profitti con forti aumenti della produttività. Questa è l’origine della «controffensiva», che si sviluppa in tre direzioni.
La prima è una nuova rivoluzione tecnologica. Una applicazione massiccia e sistematica delle innovazioni immateriali (elettronica e informatica) al processo produttivo consente non solo di aumentare la produttività rispetto all’occupazione, ma, soprattutto, di trasformare il lavoro di fabbrica, omogeneo e massiccio, dell’epoca fordista, adattandolo alle esigenze di flessibilità di una produzione altamente differenziata e «istantanea» (come si dice, just in time). 11 che significa sciogliere la falange del proletariato in un ventaglio di gruppi diversificati e mobili fortemente soggetti ai mutamenti capricciosi della domanda; e quindi privati di quella solidarietà e continuità che costituivano la forza del proletariato tradizionale. Ciò rafforza enormemente il potere contrattuale del capitale e indebolisce di altrettanto quella del sindacato.
La seconda è la liberazione dei movimenti di capitale. Ne abbiamo già parlato. È evidente che la possibilità di spostare capitali ingenti in un batter d’occhio (un clic elettronico) da una parte all’altra del mondo attribuisce al capitale un immenso potere discrezionale rispetto alle scelte politiche «democratiche» dei governi: una capacità di ricatto che ne frustra le politiche.
La terza è una controrivoluzione culturale. Il compromesso socialdemocratico si fondava sulla base ideologica del pensiero keynesiano, favorevole all’intervento pubblico sulla domanda e sulla distribuzione delle risorse. La controffensiva capitalistica cavalca la riscossa del pensiero neoliberista, «monetarista» (se vogliamo una personalizzazione alternativa possiamo dire friedmaniano, dal nome di Milton Friedman) che respinge nettamente l’interferenza dello Stato nel Mercato e riporta in auge un idolo che sembrava distrutto: la fede inconcussa nella sua capacità di autoregolazione.
Questa controffensiva assicura al capitalismo due fondamentali vittorie: la riconquista di un rapporto di forze vantaggioso rispetto al lavoro organizzato, disorganizzandolo; la conquista di una posizione di forza rispetto allo Stato nazionale.
Si può dire che nel caso degli Stati Uniti, della ormai sola Superpotenza mondiale, quest’ultimo evento non si verifica? Apparentemente sí. Ma se ne verifica uno altrettanto carico di cambiamento: la compenetrazione simbiotica tra l’élite capitalistica e il sistema politico, mai realizzatasi nel passato in una forma cosí estrema. L’America di Bush non è certo quella di Roosevelt. Somiglia piú a quella guidata da un presidente, generale e conservatore, come Eisenhower, che aveva anticipato profeticamente il predominio del «complesso militare industriale» (oggi dovremmo dire militare-finanziario) sul governo democratico. Inoltre, l’America non è solo la piú forte potenza politica e militare del mondo. È anche il Quartier Generale della finanza mondiale.
La «controffensiva» ha un altro effetto paradossale. La stessa Grande Impresa Industriale, quella cheGalbraith aveva definito la Tecnostruttura, viene invasa dal Mercato. La sua formidabile struttura gerarchica è disarticolata in una rete di centri di decisione largamente dotati di autonomia e collegati da rapporti di «convenienza», piú che di autorità. Il vero fulcro decisionale della grande impresa non è piú quello industriale, ma quello finanziario.
E finalmente, la rappresentante suprema del capitalismo globalizzato, nella società, la sua élite di classe, non è piú la borghesia nazionale, quella esaltata da Marx e da Schumpeter, ma una plutocrazia cosmopolita e apolitica. Il bisticcio si risolve se al termine «apolitica» sostituiamo quello «ademocratica».
* eddyburg, 11.06.2007
Ahi Costantin di quanto mal fu madre
di EUGENIO SCALFARI *
Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c’è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere. Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l’arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l’Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell’America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.
Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L’"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale. Tutto ciò va evidentemente al di là d’una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.
La questione cattolica è dunque quella che spiega più d’ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell’opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza. "Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".
La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.
Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall’Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.
Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l’emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.
La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall’Austria e da alcuni paesi cattolici dell’America meridionale. Le capacità finanziarie dell’episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l’esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.
A fronte di quest’offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d’intransigenza che sfiorano l’anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l’antica diffidenza di togliattiana memoria.
Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un’avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell’ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell’elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.
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Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.
Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".
L’obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.
Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l’hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un’altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.
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Un elemento decisivo della questione cattolica e dell’anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l’articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un’organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d’un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c’è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d’un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.
Questa doppia elica non esiste in nessun’altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell’impossibilità di realizzare l’unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.
Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all’interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell’episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.
Negli scorsi giorni l’atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.
Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l’otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all’episcopato italiano quell’otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.
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Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.
Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata. Quanto al grosso dell’opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.
Perciò sperare che la democrazia possa diventare l’"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
* la Repubblica, 5 agosto 2007
Il presidente Usa: "Scontro tra chi vuole vivere in una società pacifica e chi vuole imporre tetra visione"
"Veto di fronte a qualsiasi iniziativa di legge del Congresso che chiedesse un rientro delle truppe"
Iraq, Bush esclude qualsiasi ipotesi di ritiro "Siamo agli inizi di un conflitto ideologico"
Il Rapporto della Casa Bianca lo smentisce: "Raggiunti solo 8 dei 18 obiettivi posti dal Parlamento"
Pessimismo della Cia: "L’incapacità del governo di Bagdad di governare è ormai irreversibile"*
WASHINGTON - Il presidente degli Usa George W. Bush, in occasione della conferenza stampa di presentazione del viaggio in Iraq del segretario di stato Condoleezza Rice ed il ministro della difesa Robert Gates, difende la sua strategia in Iraq e avverte che "siamo nelle fasi iniziali di un grande conflitto ideologico: un conflitto tra quanti vogliono la pace e vogliono vivere in una società pacifica e normale e i radicali che vogliono imporre al resto del mondo la loro tetra visione".
Bush ha escluso ancora una volta qualsiasi ipotesi di un rientro anticipato delle forze militari statunitensi. "Un ritiro immediato delle truppe americane dall’Iraq sarebbe un disastro - ha detto il presidente - e favorirebbe solo i nostri nemici e renderebbe l’America più vulnerabile a nuovi attacchi terroristici".
Il veto al ritiro delle truppe. Di fronte a qualsiasi iniziativa di legge del Congresso che chiedesse un ritiro dall’Iraq, il presidente degli Usa ha poi ribadito che non esiterà a porre il veto. La decisione, secondo Bush "deve essere presa su basi militari riguardanti la situazione in Iraq e non su basi politiche riguardanti Washington".
La bocciatura del rapporto. Ma il rapporto della Casa Bianca che avrebbe dovuto sostenere le tesi del presidente lo smentiscono. Secondo il documento, dei 18 obiettivi posti dal Parlamento per un rifinanziamento, ne sono stati raggiunti soltanto otto. Pochi insomma i passi avanti nel disarmo dei miliziani e nella fine della violenza settaria.
Nuova decisione a settembre. Bush miminizza e dichiara che si tratta di un rapporto provvisorio e ha rinviato qualsiasi decisione alla metà di settembre. Aspettiamo, ha detto il presidente, che "il generale Petraeus ritorni a Washington a settembre per darci un rapporto su come vede la situazione". Solo dopo che il rapporto verrà presentato, il 15 settembre, si consulterà con il Congresso e con i comandanti militari per stabilire "se è necessario prendere un’altra decisione" sulla strategia da perseguire in Iraq.
Cia pessimista. Ma Bush si trova a fare i conti anche con lo scetticismo della Cia. Secondo quanto rivelato dal Washington Post, il capo della Cia Michael Hayden già a novembre scorso aveva espresso la sua convinzione in merito all’Iraq e in particolare sulla capacità del governo di Al Malikdi di guidare il paese. Secondo Hayden infatti "l’incapacità del governo di Bagdad di governare è ormai irreversibile".
* la Repubblica, 12 luglio 2007
Medio oriente
Quello che sta accadendo (e non vogliamo vedere)
di Giulietto Chiesa da E polis - 3-7-06
Postato il Tuesday, 03 July @ 09:16:16 CEST di jormi *
Il medio oriente sta entrando a vele spiegate in una nuova guerra su grande scala. Bisogna essere ciechi per non vedere i sintomi, che sono chiari: l’Autorità Palestinese non esiste più. Gaza è diventata un poligono di tiro dell’esercito israeliano. In Libano cominciano a saltare in aria le colonne UNIFIL delle forze dell’ONU (per ora agli italiani è andata bene), mentre strani gruppi terroristici attaccano l’esercito libanese. La puzza di bruciato cresce. La guerra si estende in Irak; la Turchia pensa a un prossimo intervento nel Kurdistan iracheno; gli Usa e Israele tengono i motori accesi per un prossimo intervento militare contro l’Iran.
Il governo israeliano decide di restituire, finalmente circa 600 milioni di dollari che teneva illegalmente sequestrati ai palestinesi dal gennaio 2006, data della straripante vittoria elettorale (regolare) di Hamas. Ma quei soldi non andranno ai palestinesi, bensì al signor Abbas, presidente del nuovo Bantustan della West Bank.
I palestinesi, non solo quelli che muoiono trincerati a Gaza, ma anche la maggioranza degli altri, lo considerano già un traditore della loro causa. L’Europa ha già deciso di schierarsi con Abbas, per cui condividerà con lui il disprezzo e l’odio dei disperati.
E sempre l’Europa, con notevole faccia di bronzo (quella di Javier Solana) invita alla concordia. Ma tra chi e chi? Siamo stati noi europei, insieme agli USA, a derubare i palestinesi del legittimo governo che si erano scelto, votando come gli avevamo chiesto.
Ieri International Herald Tribune scriveva: la politica israeliana, "insieme all’embargo occidentale dell’aiuto al governo di Hamas, fu messa in atto con l’obiettivo di indebolire il governo e farlo cadere".
Siamo davvero molto democratici, noi europei. Solo che i palestinesi hanno eletto i loro candidati e non i nostri, per cui li abbiamo puniti.
A Israele nessuno dice niente, nessuno rimprovera niente. Neanche l’occupazione delle terre palestinesi che continua dal 1967. Neanche gl’insediamenti dei coloni, che continuano. Neanche il muro.
Se non ci sono due stati in Palestina è perchè Israele non lo vuole e gli Stati Uniti nemmeno. L’Europa dice di volerlo, ma non ha il coraggio di essere coerente. Non ha neanche il coraggio di dire con franchezza a Israele che non potrà costruire il suo Bantustan con Abu Abbas, senza cessare l’occupazione. E se volessero ripetere le elezioni Fatah perderebbe di nuovo. Si annuncia la guerra, e una nuova Intifada.
Che tristezza, per loro e per noi. Che vergogna per noi!
http://www.giuliettochiesa.it/modules.php?name=News&file=article&sid=268
* Il Dialogo, Martedì, 03 luglio 2007
LA CHIESA, L’OCCIDENTE, E I TEOCON
“Come mai in questo Occidente idolatrico e strutturalmente ateo, in cui ogni atto sembra viziato da una colpa irredimibile, i cristiani non sono perseguitati?”
Questa la domanda che anni fa un certo Marco Guzzi rivolse ad Enzo Bianchi.
Questa la risposta di Enzo Bianchi contenuta in un suo libretto: Ricominciare - Nell’anima, nella chiesa, nel mondo.
«L’urto tra lo Spirito di Cristo e mondanità è ineluttabile, e già si vede che l’ubriacatura consumistica e eroticizzata dell’Occidente provoca una senescenza precoce dei sensi, un abitare nelle terre del nonsenso, una bulimia del “tutto e subito” che soffoca. In tale contesto oggi i cristiani non solo non sono perseguitati, ma neppure osteggiati, anzi sono invocati. Noi oggi assistiamo addirittura a un diffuso atteggiamento di benevolenza nei confronti della chiesa, da parte dei Cesari di oggi soprattutto. Il titolo di un articolo di un periodico cattolico qualche mese fa diceva quasi orgogliosamente, con stupore ingenuo: “Questa chiesa serve!”. Ma serve a chi? A chi è utile? Questo significa che noi siamo omologati all’interno del grande orizzonte occidentale capitalista e che magari siamo invocati per fornire un fondamento etico alla società, per dare un’anima alla società.
Avvenuta ormai la crisi dell’ideologia, noi cristiani siamo invocati per cantare in coro, magari con più convinzione e più forte, “la cantata dei valori comuni”, quei valori formali che piacciono a tutti. [...] Sì, questa chiesa serve al mondo se e finché resta impegnata solo filantropicamente, ma guai se la chiesa si fa profetica, se annuncia l’Evangelo con il Sì! Sì! No! No!, guai se contraddice la morale laica, perché allora si scatena la saggezza dei dominatori di questo mondo, quelli che hanno crocifisso il Signore della gloria (cf 1Cor 2,8). [...] Io sono convinto che sul tema della pace, soprattutto oggi, la chiesa gioca la sua fedeltá al Signore; su questo tema la sua scelta: o essere l’Evangelo che grida nella debolezza e nella sapienza della croce o sedere tra i dominatori di questo mondo, ma non essere più la chiesa del Signore Gesù Cristo»....
E io aggiungerei "Guai se la Chiesa si permettesse di dire solo qualche parolina su questa economia assassina che è la causa prima della Guerra e di tutti i mali del mondo, il Peccato Originale di tutto, e si permattesse di mettere sotto inchiesta il pilastro reggente di questa economia che è l’antievangelico "Diritto di Proprietà"!
Che ne direbbero i vari Bush/Berluschini/Casini/Fini e i loro chierichetti Teocon?
Noi cristiani saremmo tutti decapitati, come San Giovanni che domani festeggeremo.
Buona Domenica.
Aldo [don Antonelli]
B.I.L. e P.I.L.
Il 14 giugno vi ho inviato un messaggio sul BIL (Benessere Interno Lordo).
Oggi, mi sono ritrovato tra le mani una citazione del senatore Robert Kennedy (vi ricordate?) sul PIL (Prodotto Interno Lordo).
Lo consegno alla vostra riflessione.
Peccato che i nostri politici non osano più tanto....!
Saluti ribelli.
Aldo [don Antonelli]
«Siamo chiari fin dall’inizio: non troveremo né un fine per la nazione né la nostra personale soddisfazione nella mera continuazione del progresso economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice di borsa, né i successi nazionali sulla base del Prodotto Interno Lordo. Perché il Prodotto Interno Lordo comprende l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine. Mette nel conto le serrature speciali con cui chiudiamo le nostre porte, e le prigioni per coloro che le scardinano.
Il Prodotto interno Lordo comprende la distruzione delle sequoie e la morte del lago Superiore.
Cresce con la produzione del napalm e missili a testate nucleari, e comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica.
Il Prodotto Interno Lordo si gonfia con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte nelle nostre città; e benché non diminuisca a causa dei danni che le rivolte provocano, aumenta però quando si ricostruiscono i bassifondi sulle loro ceneri. Comprende la trasmissione di programmi televisivi che celebrano la violenza per vendere merci ai nostri bambini.
Ma...
Il Prodotto Interno Lordo non tiene conto dello stato di salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro giochi.
E’ indifferente alla salubrità delle nostre fabbriche e insieme alla sicurezza delle nostre strade.
Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei nostri matrimoni, l’intelligenza delle nostre discussioni o l’onestà dei nostri dipendenti pubblici. Non tiene conto né della giustizia dei nostri tribunali, né della equità dei rapporti tra di noi.
Il Prodotto Interno Lordo non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né le nostre conoscenze, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese.
Misura tutto in pochi numeri, eccetto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta».
(Robert Kennedy)
TEOLOGIA ED ECONOMIA: Eu-charistia e eu-charitas: dono e Amore - Chi parla e che cosa dice, quando scive che "Dio mammona è". "Deus caritas est" ?! (fls)
«Il mondo inaridisce quando è mortificata la vita»
«Dove domina la logica del potere e dell’avere, dove non di rado trionfa la cultura della violenza e della morte, Gesù ci viene incontro e ci infonde sicurezza» «L’Eucaristia è per tutti Il suo passaggio tra le case della nostra città sarà per coloro che vi abitano un’offerta di gioia, di immortalità, di pace e di amore»
Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata ieri dal Papa nella solennità del Corpus Domini. (Avvenire, 08.06.2007).
Cari fratelli e sorelle!
Poco fa abbiamo cantato nella Sequenza: «Dogma datur christianis, / quod in carnem transit panis, / et vinum in sanguinem - È certezza a noi cristiani: / si trasforma il pane in carne, / si fa sangue il vino». Quest’oggi riaffermiamo con trasporto la nostra fede nell’Eucaristia, il Mistero che costituisce il cuore della Chiesa. Nella recente esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis ho ricordato che il Mistero eucaristico «è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo» (n. 1). Pertanto quella del Corpus Domini è una festa singolare e costituisce un importante appuntamento di fede e di lode per ogni comunità cristiana. È festa che ha avuto origine in un determinato contesto storico e culturale: è nata con lo scopo ben preciso di riaffermare apertamente la fede del Popolo di Dio in Gesù Cristo vivo e realmente presente nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia. È festa istituita per adorare, lodare e ringraziare pubblicamente il Signore, che «nel Sacramento eucaristico continua ad amarci "fino alla fine", fino al dono del suo corpo e del suo sangue» (Sacramentum caritatis, 1).
La celebrazione eucaristica di questa sera ci riconduce al clima spirituale del Giovedì Santo, il giorno in cui Cristo, alla vigilia della sua Passione, istituì nel Cenacolo la santissima Eucaristia. Il Corpus Domini costituisce così una ripresa del mistero del Giovedì Santo, quasi in obbedienza all’invito di Gesù di «proclamare sui tetti» ciò che Egli ci ha trasmesso nel segreto (cfr Mt 10,27). Il dono dell’Eucaristia, gli apostoli lo ricevettero dal Signore nell’intimità dell’Ultima Cena, ma era destinato a tutti, al mondo intero. Ecco perché va proclamato ed esposto apertamente, perché ognuno possa incontrare «Gesù che passa» come avveniva per le strade della Galilea, della Samaria e della Giudea; perché ognuno, ricevendolo, possa essere sanato e rinnovato dalla forza del suo amore. Questa, cari amici, è la perpetua e vivente eredità che Gesù ci ha lasciato nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Eredità che domanda di essere costantemente ripensata, rivissuta, affinché, come ebbe a dire il venerato papa Paolo VI, possa «imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale» (Insegnamenti, V [1967], p. 779).
Sempre nell’esortazione post-sinodale, commentando l’esclamazione del sacerdote dopo la consacrazione: «Mistero della fede!», osservavo: con queste parole egli «proclama il mistero celebrato e manifesta il suo stupore di fronte alla conversione sostanziale del pane e del vino nel corpo e sangue del Signore Gesù, una realtà che supera ogni comprensione umana» (n. 6). Proprio perché si tratta di una realtà misteriosa che oltrepassa la nostra comprensione, non dobbiamo meravigliarci se anche oggi molti fanno fatica ad accettare la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Non può essere altrimenti. Fu così fin dal giorno in cui, nella sinagoga di Cafarnao, Gesù dichiarò apertamente di essere venuto per darci in cibo la sua carne e il suo sangue (cfr Gv 6,26-58). Il linguaggio apparve «duro» e molti si tirarono indietro. Allora come adesso, l’Eucaristia resta «segno di contraddizione» e non può non esserlo, perché un Dio che si fa carne e sacrifica se stesso per la vita del mondo pone in crisi la sapienza degli uomini. Ma con umile fiducia, la Chiesa fa propria la fede di Pietro e degli altri apostoli, e con loro proclama: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Rinnoviamo pure noi questa sera la professione di fede nel Cristo vivo e presente nell’Eucaristia. Sì, «è certezza a noi cristiani: / si trasforma il pane in carne, / si fa sangue il vino».
La Sequenza, nel suo punto culminante, ci ha fatto cantare: «Ecce panis angelorum, / factus cibus viatorum: / vere panis filiorum - Ecco il pane degli angeli, / pane dei pellegrini, / vero pane dei figli». L’Eucaristia è il cibo riservato a coloro che nel Battesimo sono stati liberati dalla schiavitù e sono diventati figli; è il cibo che li sostiene nel lungo cammino dell’esodo attraverso il deserto dell’umana esistenza. Come la manna per il popolo d’Israele, così per ogni generazione cristiana l’Eucaristia è l’indispensabile nutrimento che la sostiene mentre attraversa il deserto di questo mondo, inaridito da sistemi ideologici ed economici che non promuovono la vita, ma piuttosto la mortificano; un mondo dove domina la logica del potere e dell’avere piuttosto che quella del servizio e dell’amore; un mondo dove non di rado trionfa la cultura della violenza e della morte. Ma Gesù ci viene incontro e ci infonde sicurezza: Egli stesso è «il pane della vita» (Gv 6,35.48). Ce lo ha ripetuto nelle parole del Canto al Vangelo: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo; chi mangia di questo pane vivrà in eterno» (cfr Gv 6,51).
Nel brano evangelico poc’anzi proclamato san Luca, narrandoci il miracolo della moltiplicazione dei cinque pani e due pesci con cui Gesù sfamò la folla «in una zona deserta», conclude dicendo: «Tutti ne mangiarono e si saziarono» (cfr Lc 9,11b-17). Vorrei in primo luogo sottolineare questo «tutti». È infatti desiderio del Signore che ogni essere umano si nutra dell’Eucaristia, perché l’Eucaristia è per tutti. Se nel Giovedì Santo viene posto in evidenza lo stretto rapporto che esiste tra l’Ultima Cena e il mistero della morte di Gesù in croce, quest’oggi, festa del Corpus Domini, con la processione e l’adorazione corale dell’Eucaristia si richiama l’attenzione sul fatto che Cristo si è immolato per l’intera umanità. Il suo passaggio fra le case e per le strade della nostra Città sarà per coloro che vi abitano un’offerta di gioia, di vita immortale, di pace e di amore.
Nel brano evangelico, un secondo elemento salta all’occhio: il miracolo compiuto dal Signore contiene un esplicito invito ad offrire ciascuno il proprio contributo. I cinque pesci e i due pani stanno ad indicare il nostro apporto, povero ma necessario, che Egli trasforma in dono di amore per tutti. «Cristo ancora oggi - ho scritto nella citata esortazione post-sinodale - continua ad esortare i suoi discepoli ad impegnarsi in prima persona» (n. 88). L’Eucaristia è dunque una chiamata alla santità e al dono di sé ai fratelli, perché «la vocazione di ciascuno di noi è quella di essere, insieme a Gesù, pane spezzato per la vita del mondo» (ibid.).
Questo invito, il nostro Redentore lo rivolge in particolare a noi, cari fratelli e sorelle di Roma, raccolti in questa storica piazza intorno all’Eucaristia: vi saluto tutti con affetto. Il mio saluto è innanzitutto per il cardinale vicario e i vescovi ausiliari, per gli altri venerati fratelli cardinali e vescovi, come pure per i numerosi presbiteri e diaconi, i religiosi e le religiose, e i tanti fedeli laici. Al termine della celebrazione eucaristica ci uniremo in processione, quasi a portare idealmente il Signore Gesù per tutte le vie e i quartieri di Roma. Lo immergeremo, per così dire, nella quotidianità della nostra vita, perché Egli cammini dove noi camminiamo, perché Egli viva dove noi viviamo. Sappiamo infatti, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella Lettera ai Corinzi, che in ogni Eucaristia, anche in quella di stasera, noi «annunziamo la morte del Signore finché egli venga» (cfr 1 Cor 11,26). Noi camminiamo sulle strade del mondo sapendo di aver Lui al fianco, sorretti dalla speranza di poterlo un giorno vedere a viso svelato nell’incontro definitivo.
Intanto già ora noi ascoltiamo la sua voce che ripete, come leggiamo nel Libro dell’Apocalisse: «Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). La festa del Corpus Domini vuole rendere percepibile, nonostante la durezza del nostro udito interiore, questo bussare del Signore. Gesù bussa alla porta del nostro cuore e ci chiede di entrare non soltanto per lo spazio di un giorno, ma per sempre. Lo accogliamo con gioia elevando a Lui la corale invocazione della Liturgia: «Buon Pastore, vero pane, / o Gesù, pietà di noi (...) Tu che tutto sai e puoi, / che ci nutri sulla terra, / conduci i tuoi fratelli / alla tavola del cielo / nella gioia dei tuoi santi». Amen!
Italietta o Italiona
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 10/6/2007)
Nelle ore che hanno preceduto l’arrivo a Roma di George Bush si è discusso molto di Italietta, per descrivere l’esecrazione dell’America che avrebbe animato di lì a poco cortei e manifestazioni contro il presidente americano. Dimostrazioni che lungo la giornata sono state pacifiche, e che non hanno turbato gli incontri con Prodi e il ministro D’Alema, conclusisi bene. Solo verso sera, in corso Vittorio, un piccolo gruppo si è ritagliato uno spazio nel corteo no-war e ha scelto la violenza, suscitando la risposta della polizia. A parlare di Italietta era stato Berlusconi e il governo ha reagito accusando l’opposizione d’aver precipitato il Paese in ben più palpabili provincialismi, negli anni in cui era ai comandi, correndo dietro alla falsa grandeur promessa da Bush.
L’epiteto Italietta fu usato prima dai nazionalisti contro l’Italia di Giolitti, poi dal fascismo che sognava un’Italiona con smanie nazionaliste. Non ne scaturirono che disastri: «l’intervento nella prima guerra mondiale e l’Italiona fascista, quella dei muscoli tesi e gonfi, degl’immancabili destini, della spada dell’Islam, degli eroi santi e navigatori», scrisse Montanelli il 10 marzo ‘96 nella rubrica delle lettere sul Corriere. La tanto sprezzata Italia dei notabili aveva compiuto in realtà miracoli, con le sue umili fatiche: «Era figlia di chi, avendola fatta dopo il Risorgimento a prezzo di uno sconquasso politico ed economico oggi difficilmente immaginabile, si trovarono poi a doverne pagare i costi, né conoscevano per questo altra terapia che la lesina».
Berlusconi imita quel disprezzo e propone un’Italia che può spendere e spandere senza mezzi. Che s’immagina grande solo perché affianca Washington incondizionatamente. Possiamo immaginare come Montanelli reagirebbe alle accuse del capo dell’opposizione: gli direbbe che l’Italia odierna è nulla, se non investe su un’Europa potente. Ricorderebbe al politico disgustato dall’Italietta che egli stesso è figura di un’Italia piccola che mente a se stessa: figura interessata non al mondo ma a un’elezione amministrativa parziale, non all’America ma alle peripezie d’un governo che l’opposizione intera s’ostina - con atteggiamento assai poco americano - a definire illegittimo. Il centro sinistra si difende ma cade spesso nella trappola: ogni giorno i suoi rappresentanti si sentono in dovere di spiegare che non sono antiamericani, quasi scusandosi. La discussione sull’antiamericanismo del governo è ideologica, senza relazione coi fatti del mondo e con le azioni di Prodi in Afghanistan e Libano.
Per capire l’importanza delle manifestazioni contro Bush non serve dunque guardare alle dispute italiane. Conviene guardare anche alla Germania e soprattutto all’America. Conviene meditare su un viaggio che vede il presidente Usa come intrappolato: impedito a Roma di andare a Trastevere, tanto grande è la sua impopolarità. Impedito di muoversi dalla cittadina balneare di Heiligendamm, perché un vertice a Berlino sarebbe stato incendiario. Tutti questi son segni del degrado che colpisce l’immagine americana in Paesi europei che in passato furono tutt’altro che antiamericani.
Qui infatti è la novità di quest’inizio secolo. Cortei contro l’America ci sono sempre stati, a cominciare dalle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, ma oggi i dimostranti non rappresentano una minoranza. Basta leggere il libro «America contro il mondo» (America Against the World: How We Are Different and Why We Are Disliked, New York 2007) di Andrew Kohut e Bruce Stokes, rispettivamente direttore e consulente del Centro indagini Pew, per rendersi conto che l’egemonia mondiale Usa vacilla straordinariamente e che la superpotenza non è in realtà più tale.
Per la prima volta i manifestanti in Germania e Italia non sono una minoranza, contrapposta a una maggioranza silenziosa filoamericana. Non esiste una maggioranza italiana o tedesca favorevole agli estremisti - alle loro violenze, alla profanazione con cui hanno offeso ieri la lapide di Aldo Moro - ma esistono maggioranze robuste che hanno smesso d’aver fiducia nell’America, che temono l’inefficacia delle sue politiche in Iraq, Afghanistan, Medio Oriente, sul clima, nei rapporti con Mosca. Questi sviluppi sono visibili in Europa e altri continenti, dopo l’intervento in Iraq. In Indonesia, l’immagine positiva dell’America è crollata nel giro d’un solo anno: dal 2002 al 2003, il favore è passato dal 55% al 15. All’origine di simili tracolli la reazione all’11 settembre, le guerre preventive, l’esportazione della democrazia. L’America è giudicata una potenza non affidabile, dopo la guerra in Iraq, dall’82% dei tedeschi: una cifra mai vista. Domandarsi se la contestazione non violenta vituperi Bush o l’America stessa non ha molto senso. La tesi di Kohut è che «a causa di Bush, aumentano sensibilmente coloro che cominciano a esecrare l’America in quanto tale», ha spiegato a maggio in una conferenza del Consiglio Carnegie a New York. Kohut parla di baratro: «Uscirne sarà difficile. Non basterà un cambio di presidenza».
Importante a questo punto non è fare la conta di chi sta in un campo e di chi sta nell’altro, ma esaminare la natura del baratro e costruire politiche su tale esame. Un compito che toccherà all’America come all’Europa. Alla prima tocca imparare dai fallimenti e chiedersi se il discorso su superpotenza e iperpotenza abbia ancora significato. Alla lunga, un potere forte esercitato senza responsabilità diventa inefficace oltre che arrogante: inefficace sino a svanire. All’Europa tocca prender atto d’un desiderio diffuso dei popoli e trarre le conseguenze da quello che per ora è più desiderio d’impotenza che di potenza. La sfiducia verso l’America non si traduce infatti in vera presa di coscienza, dunque in azione politica. Gli autori del libro sull’America contro il mondo sottolineano come tanti in Europa aspirino a un’Unione capace di controbilanciare gli Stati Uniti, senza però indicare come ciò possa avvenire. Divenire potenza comporta sforzi, spese, e gli europei (comprese le sinistre radicali che manifestano a Roma e Germania) non intendono pagare il multipolarismo che pretendono di inaugurare. Non si sforzano di smentire lo storico Michael Mandelbaum, secondo il quale molti perseguono una cosa e il suo contrario: vogliono in cuor loro che sia l’America a presidiare il mondo, e vogliono il lusso di poterla criticare gratis. Il 70% degli intervistati dal Centro Pew sostiene che il mondo funzionerebbe meglio se esistesse una seconda potenza, ma alternative non le propone né le vuole.
Quando era ministro delle Politiche comunitarie nel governo Berlusconi, Buttiglione disse una cosa che l’odierna maggioranza ancora non ha contestato: «I nostri elettori non sono disposti a pagare le spese di un apparato militare che ci offra possibilità di intervento paragonabili a quelli degli Stati Uniti. Non credo che si tratti semplicemente di miopia, ma di una corretta percezione del fatto che l’apparato militare americano in parte protegge anche noi. L’elettore non si sente minacciato dagli americani e anzi si sente almeno parzialmente protetto da essi. Per questo non è disponibile a pagare i costi di un massiccio riarmo europeo» (Corriere della Sera, 20 marzo 2003). I manifestanti dovrebbero rispondere a questo interrogativo: siete favorevoli a un’Europa che abbia mezzi e istituzioni per controbilanciare Washington, per una politica diversa dall’americana ma pur sempre audace? Se non sanno rispondere, la loro serietà è inesistente. Un altro problema europeo è il rapporto con Mosca e i dissidi tra europei su America e Russia.
D’Alema critica con rigore la tendenza di Bush a dividere l’Europa, trattando bilateralmente con Varsavia e Praga sullo scudo antimissilistico. Ma la questione riguarda non solo l’America ma anche la Russia. Putin ha mostrato nei giorni scorsi che l’Europa è spendibile. Ha minacciato di riattivare contro di essa le proprie atomiche per convincere gli americani a non installare scudi antimissilistici in Europa dell’Est. Poi ha sorpreso Bush, proponendo l’utilizzazione di propri radar in Azerbaigian. Ma nel frattempo aveva adoperato l’Europa alla stregua d’una pedina.
America e Italia
di Furio Colombo *
Quello che sto per scrivere è la registrazione di alcuni fatti avvenuti nelle stesse ore e negli stessi giorni (mercoledì, giovedì, venerdì) a Washington e a Roma.
La conoscenza attenta e accurata di questi due gruppi di fatti dice con chiarezza, anche a coloro che si sono sentiti in dovere di dimostrare contro l’America, che il pericolo che stiamo correndo è qui, è adesso, è in Italia e occorre una certa cecità selettiva per non vedere che un dramma pericoloso si sta svolgendo intorno a noi. Mi riferisco all’estremo rischio per una repubblica democratica: spingere le Forze armate allo scontro con le istituzioni elette, puntare sulla rivolta dei generali, che la stampa berlusconiana, infatti, chiama a raccolta con un linguaggio grave e irresponsabile.
Tutto ciò non ha a che fare con la rigorosa lealtà dei militari italiani che restano fermamente legati al giuramento costituzionale. Ma è la peggior prova che una classe politica (in questo caso tutta l’opposizione inclusi i presunti moderati di Casini) possa dare di sé. Credo di poter riassumere così, per condividere con i lettori il senso di allarme.
* * *
Primo. Per una giornata intera (mercoledì 6 giugno) quasi tutti i senatori italiani che fanno riferimento a Berlusconi (in questo non si nota alcuna differenza importante fra uomini di azienda, affiliati e presunti indipendenti) hanno spiegato a lungo che i politici eletti sono esseri inferiori ai generali e che il vice-ministro Visco è una spregevole creatura indegna anche solo di porsi accanto al generale Speciale, figuriamoci di dare su di lui un giudizio negativo e una decisione di congedo.
A lungo i senatori eletti dell’opposizione si sono impegnati a superarsi l’un l’altro nella denigrazione e nel ridicolo della politica a confronto con l’onore dei generali. «Un generale non può mentire», è stato declamato. E anche: «come può un vice-ministro osare di contrapporsi a un soldato?». Tutto ciò prima che il ministro Padoa-Schioppa, titolare della Economia e a cui risponde il corpo di polizia (tecnicamente non militare) della Guardia di Finanza, prendesse la parola per dare le sue spiegazioni, assumersi la responsabilità della destituzione di un comandante di quel corpo (che non viene dai ranghi di quel corpo e dunque, nel bene o nel male, rappresenta prima di tutto, se stesso e la sua storia) e offrire motivate ragioni.
Vorrei chiarire al lettore. Non sto tentando di discutere o di sostenere quelle ragioni. Non è questo che è avvenuto in Senato, che avrebbe avuto tutto il diritto di rivedere i particolari e le svolte decisionali della vicenda.
No. Quello che è accaduto è stata una pioggia di insulti infamanti lanciati al colmo della voce (alcuni erano afoni, quando è scesa la notte) non da tutti ma purtroppo da moltissimi membri del Senato che (fanno fede i verbali) sono incorsi anche in sgrammaticature tremende pur di superare ad ogni intervento, gli insulti di chi li aveva preceduti.
Secondo. L’intento non era - e tutt’ora non è - in questa importante e delicata vicenda, la discussione parlamentare. L’intento, fin troppo vistosamente proclamato e francamente vergognoso da parte di membri autorevoli di un Parlamento, è di tentare lo scontro, montando la scena macabra dell’offesa alle Forze armate e, dunque, di un presumibile diritto di risposta.
Se mi riferisco alla esperienza giornalistica posso dire che soltanto nel Parlamento di Atene, nel maggio del 1967, mentre ero nella tribuna stampa insieme ad Alberto Ronchey, Bernardo Valli, Luciana Castellina, ho assistito allo stesso spettacolo di denigrazione violenta di un governo e della politica. Ma eravamo a poche ore da un colpo di Stato.
Se mi riferisco a quella incredibile profezia che è stato a volte il cinema italiano, ricorderò la scena finale di «Cadaveri eccellenti», di Francesco Rosi, le urla dei dimostranti, il rombo minaccioso di motori militari.
Spesso la realtà è più squallida del cinema (almeno di quel cinema, che prefigurava tragedie civili con impressionante bellezza). Ma alcune cose, se non da cinema certo da tragico avanspettacolo, erano state previste, come le gigantografie di Visco sventolate in Aula per mostrare alle telecamere il volto ignobile di un pericolo che deve essere eliminato. Come l’idea non riuscita (c’è stata anche una protesta formale per gli intoppi burocratici che casualmente l’hanno impedita) di riempire di militari della Guardia di Finanza le gallerie del Senato, e di organizzare di fronte al Senato una manifestazione di giovani con striscioni inneggianti al generale, giovani che (avrebbero voluto farci credere) erano militari in abiti civili “decisi a difendere il loro onore”.
Terzo. La giornata del dibattito, che sarebbe stata comunque tesa e difficile anche fra parlamentari disposti, e anzi decisi, a discutere una situazione comunque complessa, comunque bisognosa di chiarimenti, è stata preceduta da una opportuna serata della Tv di Stato, nel talk show «Porta a porta». In esso il conduttore, in preda a particolare concitazione, si è assunto il compito di accusatore dei due parlamentari dell’Unione, Violante e Russo Spena presenti in studio, sopravanzando spesso in precisazioni ostili, difese dei generali e confutazioni delle affermazioni di Violante e Russo Spena, i pur abili e implacabili senatori Schifani e Castelli, portando così a tre, nel programma, il numero di militanti fermamente schierati nella stessa parte politica.
Esagero? La Rai può fugare ogni dubbio in proposito facendo pervenire (anche a spese del ricevente) un Dvd di «Porta a porta» di martedì 5 giugno. Nessuno dirà una parola perché la rappresaglia, come è noto, è non essere più invitati nel prestigioso talk show. Ma almeno potremo mettere quel Dvd nell’archivio del Senato per sapere con quale cura, la sera di martedì 5 giugno, è stata preparata la tensione che si sarebbe dovuta scatenare il giorno dopo, mercoledì 6 giugno, nell’Aula del Senato in luogo della normale discussione parlamentare.
* * *
Ma adesso vediamo il confronto con corrispondenti eventi della vita politica americana. Se i giornali e le Tv italiane ne parlassero in luogo delle avventure carcerarie di Paris Hilton, alcune marce contro l’imperialismo Usa, munite anche di autorevoli presenze politiche, diventerebbero eventi in difesa della democrazia e delle istituzioni adesso, qui, in Italia.
Ecco, siamo nel Senato degli Stati Uniti. Parla il senatore Carl Levin: «Generale, ma le sembra possibile che proprio lei riuscirà a portare un minimo di coerenza a una politica militare del tutto incoerente, una politica incerta e vacillante dopo quattro anni di morti e di guerra?».
Senatore Jack Reed: «Generale, se lei va avanti ha un compito impossibile. Se lei fa un passo indietro dimostrerà in modo devastante che l’apparato politico e di sicurezza nazionale della Casa Bianca non esiste».
Senatore Carl Levin: «Ma generale, non si è accorto che Baghdad brucia? Non vede che la stanno mettendo in una situazione impossibile, di inevitabile fallimento?».
Racconta il «New York Times» (8 giugno): «Il generale Lute (definito “zar della guerra” per i compiti di completa revisione della strategia americana che gli sono stati affidati) ha risposto con candore: «Siamo in un vero rischio. Non sono certo contento di come vanno le cose. Temo anch’io che il governo iracheno non sia in grado di rispondere. Le soluzioni di rigido antiterrorismo in Afghanistan non sono la risposta giusta. Dobbiamo tentare altre strade».
* * *
Ho citato una buona pagina di civiltà democratica. Prima di assumere un incarico cruciale in due guerre in atto, il generale Lute, che ha fama di intellettuale perché, oltre a West Point, ha anche una laurea ad Harvard, si presenta ai senatori, che sono il potere politico eletto del suo Paese, per essere interrogato, valutato discusso, invitato a rispondere a domande imbarazzanti, richiesto di esporre piani e idee, di confrontarsi con il netto e diverso parere di alcuni senatori, per ore, per giorni, fino a quando la commissione Difesa del Senato non si sarà persuasa che il Presidente ha scelto l’uomo giusto per “il compito impossibile” di cui parla il senatore Levin, uno dei legislatori più risolutamente contrari alla guerra. S’intende che i senatori sanno in ogni momento di essere anch’essi sotto esame sia perché i giornali danno di queste audizioni resoconti precisi, non folkloristici, non piegati a tifoserie occasionali. Sia perché - attraverso la buona informazione che in modo assoluto evita il filtraggio di “talk show” di partito - l’opinione pubblica, in caso di errore, non fa sconti né ai senatori né ai generali. Non tollera ombre e pretende il meglio da entrambe le parti. Ma sa che tocca ai politici eletti dire l’ultima parola per poi risponderne col voto. È la condizione assoluta, ma anche la definizione, della democrazia.
È esattamente ciò che le scomposte urla in Senato, il lancio di manifesti e gigantografie insultanti, il progetto di riempire di militari - che per fortuna non sono venuti - le gallerie del Senato, hanno tentato in tutti i modi di danneggiare. È un peccato che - fra coloro che volevano dimostrare contro il “pericolo americano” - nessuno, neppure parlamentari che ormai vivono questa esperienza ogni giorno, abbia visto in tempo che il pericolo è italiano, è qui, è adesso. E non sappiamo neppure se è un pericolo scampato.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 10.06.07, Modificato il: 10.06.07 alle ore 14.14
Un ordigno trovato nella notte a Piccadilly: aveva un potenziale enorme
La seconda auto in un garage di Park Lane. Falso allarme in Fleet Street
Disattivate 2 autobombe nel centro di Londra
"Stesso esplosivo, episodi collegati"
La polizia punta il dito contro Al Qaeda: bombe simili a quelle irachene
Nella notte sul web un messaggio: "Londra sarà bombardata"
LONDRA - Londra piomba di nuovo nell’incubo attentati. Nella notte in pieno centro è stata scoperta e disattivata una potente autobomba a Haymarket. La situazione si è fatta immediatamente molto tesa e nel pomeriggio un’altra autobomba è stata trovata in un parcheggio sotterraneo di Park Lane, accanto al famoso parco di Hyde Park. La polizia spiega che in entrambi i casi è stato usato lo stesso materiale esplosivo, e che i due fatti sono "ovviamente collegati".
Nel pomeriggio anche una sagnalazione in Fleet street, la mitica strada un tempo sede delle redazioni dei principali quotidiani britannici. Ma era un falso allarme.
Prima del ritrovamento a Haymarket, su un sito spesso utilizzato da Al Qaeda per diffondere i suoi comunicati era apparso il messaggio "Londra sarà bombardata" e una critica all’onorificenza concessa dalla Regina a Salman Rushdie, autore dei "Versetti satanici". Sulla chat Al-Hesbah un certo Abu Osama al-Hazeen aveva infatti scritto: "Nel nome di Dio il più compassionevole, il più pietoso, la Gran Bretagna cerca altri attacchi diAal Qaeda? Oggi dico: gioite, nel nome di Allah, Londra sarà bombardata".
Park Lane. A Park Lane il traffico è tornato a scorrere dopo che la zona era stata chiusa, nel pomeriggio, per almeno cinque ore. L’allerta era scattata quando gli addetti del garage avevano sentito "puzza di carburante" e lo avevano segnalato alle forze dell’ordine. Che avrebbero definito l’ordigno contenuto nell’auto "di notevole interesse", senza spiegare tuttavia di cosa si tratti. Anche in questo caso, come a Haymarket, si tratta di una Mercedes, blu: l’auto sarebbe stata portata al garage sotterraneo con il carro attrezzi dopo essere stata sequestrata la scorsa notte in Cockspur street, vicino Trafalgar Square, perché in divieto di sosta, come riferisce il sito del "Daily Telegraph".
"La mano di Al Qaeda". Scotland Yard in serata è costretta ad ammettere un’unica strategia e una sola mano, "la mano di Al Qaeda". Una fonte del ministero dell’Interno spiega che "anche in passato sono stati scoperti progetti di attentati con lo stesso modus operandi - gas, benzina, chiodi e inneschi a distanza - e con analoghi obiettivi: locali notturni e discoteche". Sempre fonti di polizia sottolineano la coincidenza degli allarmi con l’incarico di primo ministro assunto da Gordon Brown, una data che Al Qaeda avrebbe voluto "battezzare".
Haymarket. Tutto è cominciato intorno all’una di questa notte a Haymarket, una zona molto frequentata e piena di locali: una potente bomba composta da 200 litri di carburante, bombole di gas e chiodi è stata trovata in una Mercedes. Gli investigatori ritengono che fosse pronta a saltare in aria con un comando a distanza attivato con un telefono cellulare. Le autorità stanno setacciando le riprese delle telecamere a circuito chiuso della zona per scoprire altri indizi. L’allarme è stato dato da un’ambulanza chiamata da un locale per un giovane che si era sentito male. I soccorritori hanno notato del fumo che usciva dalla vettura. Alcuni testimoni citati da Sky Tv hanno invece raccontato che il conducente dell’auto sarebbe scappato dopo averla fatta schiantare contro alcuni bidoni della spazzatura presso il nightclub "Tiger Tiger" di Piccadilly.
In mattinata Peter Clark, responsabile dell’antiterrorismo di Scotland Yard, ha spiegato che "l’auto, una Mercedes verde metallizzato, era piena di taniche di benzina, due cilindri di gas collegati a una carica esplosiva e di chiodi". Più che un ordigno, quindi, una vera e propria autobomba "con una elevata potenza distruttiva moltiplicata dall’effetto mitraglia provocato dai chiodi. Poteva fare danni enormi e molte vittime".
Le piste. La zona è stata isolata, e lo rimarrà a lungo. "Non vogliamo fare supposizioni adesso e lanciare allarmi terrorismo - ha aggiunto Clarke - certo molti indizi ci portano in quella direzione anche se le nostre indagini restano a tutto campo". Un’altra ipotesi, infatti, potrebbe essere quella del racket: a Londra ci sono già stati attentati contro locali notturni, ma questa autobomba sembrava puntare a una strage.
Il responsabile dell’antiterrorismo ha sottolineato l’importanza dell’intervento "chirurgico" degli artificieri che sono riusciti a preservare intatto l’ordigno. A differenza di quanto accaduto in passato, quando le bombe sono sempre andate distrutte nell’esplosione, questa volta Scotland Yard potrà ricavare molte informazioni utili per capire la natura e quindi anche l’origine dell’ordigno. Tutti elementi che potenzialmente contengono la firma dei responsabili. In particolare, secondo quanto detto a SkyNews da fonti del ministero degli Interni, si starebbero studiando eventuali similitudini con le autobombe utilizzate dagli insorti in Iraq.
Gordon Brown. Secondo il nuovo premier Gordon Brown, la scoperta dell’ordigno dimostra che il terrorismo è ancora "una minaccia grave e persistente" per la sicurezza della Gran Bretagna. "Con il mio governo", ha aggiunto il successore di Tony Blair, "sottolineerò come si debba mantenere la sorveglianza anche per i giorni a venire".
In Gran Bretagna è tuttora in vigore l’allerta sicurezza al secondo livello, quello ’grave’, introdotto due anni fa. Il 7 luglio 2005, la rete della metropolitana londinese fu il principale bersaglio degli attentatori che presero di mira anche un autobus di linea: in tutto persero la vita 52 persone, compresi quattro terroristi, e circa 700 rimasero ferite.
L’Mi5, il servizio segreto interno, valuta come "serie e persitenti le minacce del terrorismo internazionale contro gli interessi britannici, anche all’estero", con particolare riguardo ad ’’Al Qaeda e ai gruppi collegati" e "alla diffusione di armi di sterminio". Di una minaccia così ravvicinata, però, non c’era traccia nelle segnalazioni.
* la Repubblica, 29 giugno 2007
AL SERVIZIO DEL MONDO
In attivo i conti del Vaticano
A finanziare le attività degli uffici della Curia, che non producono ricavi, provvedono Conferenze episcopali, diocesi e istituti religiosi: le loro offerte sono aumentate nel 2006 passando da 73,9 a 86 milioni di euro
Da Roma Salvatore Mazza (Avvenire, 07.07.2007)
Si è chiuso in attivo, per il terzo anno consecutivo, il bilancio consolidato della Santa Sede. Entrate per 227 milioni 815 mila euro, e uscite per 225 milioni e 409 mila euro, con un saldo positivo di poco oltre i 2,4 milioni di euro. Una «buona notizia», dunque, come ha sottolineato ieri mattina il cardinale Sergio Sebastiani, presidente della Prefettura degli Affari economici, nella conferenza stampa convocata per presentare e "spiegare" i numeri del bilancio consolidato 2006, anticipati qualche giorno fa.
Un «risultato positivo», l’attivo conseguito, pur se «rappresenta il valore meno elevato» dopo quelli registrati nel 2005 (+9,7 milioni) e nel 2004 (+3,1 milioni). Nel bilancio sono conteggiati i costi «di tutte le Amministrazioni pontificie, oltre alle 118 Sedi di rappresentanza pontificia sparse in tutto il mondo e le nove Sedi presso gli organismi internazionali». Nel corso dell’incontro, introdotto dal direttore della Sala Stampa padre Federico Lombardi, e presenti monsignor Franco Croci, segretario della Prefettura degli Affari economici, e il ragioniere generale Paolo Trombetta, sono state passate in esame le diverse voci iscritte a bilancio. A iniziare ovviamente dalle attività istituzionali, ossia quelle svolte dai Dicasteri e gli Uffici della Curia Romana, ovvero dagli «organismi che assistono da vicino il Santo Padre nella missione di pastore universale a servizio delle Chiese locali, come anche a beneficio dell’umanità, come operatori di pace», e che «non producono ricavi - ha sottolineato Sebastiani - e per questo sono soggetti alla prescrizione canonica 1271 che invita i vescovi a venire incontro liberamente alle attività della Santa Sede».
Il canone richiamato è quello che invita Conferenze episcopali, diocesi, istituti religiosi, fedeli ed Enti ecclesiastici vari a farsi carico, a seconda delle proprie possibilità, dell’esercizio apostolico della Santa Sede. Ebbene, nel 2006 le offerte raccolte attraverso questa disposizione sono aume ntate, rispetto all’anno precedente, da 73,9 milioni di euro a 86 milioni nel 2006.
Quanto ai costi, sempre per l’attività istituzionale, l’aumento è stato di quasi 5 milioni, da 121,3 a 126,2 milioni di euro, variazione dovuta sia ai costi aggiuntivi per il personale, sia all’aumento delle spese generali e amministrative (da 13,4 a 15,3 milioni), e di quelle per il mantenimento di rappresentanze e nunziature (da 19,6 a 20,6 milioni). Riguardo all’attività finanziaria, l’incremento dei contributi ha permesso di assorbire il calo molto pronunciato dell’avanzo netto che è stato nel 2006 di 13,7 milioni contro 43,3 milioni nel 2005. Ciò, ha spiegato Sebastiani, in base al «principio della prudenza» che guida questo settore, per cui gran parte degli investimenti sono obbligazioni statali anziché azioni, che sono a maggior rischio.
Sempre nel 2006, il settore immobiliare ha registrato un netto di 32,3 milioni (22,4 nel 2005). Negativo, al contrario, il saldo delle "istituzioni collegate" - Radio Vaticana, Tipografia vaticana, Osservatore Romano, Centro televisivo vaticano e Libreria Editrice vaticana: il disavanzo è di 12,8 milioni di euro, in massima parte dovuti alla Radio (che però non ha entrate) e all’Osservatore.
Obolo di San Pietro: anno record
Grazie a donazioni eccezionali superata quota 100 milioni di euro
Da Roma Salvatore Mazza (Avvenire, 07.07.2007)
Ha largamente superato i 100 milioni di euro, nel 2006, il gettito dell’Obolo di San Pietro. Un risultato dovute alle donazioni «eccezionali» che si sono registrate nel corso dell’anno passato. E che mentre va - ovviamente - visto nel suo valore, non deve far immagine che si tratti di un risultato facilmente ripetibile.
Non poteva passare sotto silenzio il dato anticipato qualche giorno fa da una nota della Segreteria di Stato, che informava che la raccolto dell’Obolo aveva raggiunto nel 2006 la cifra di ben 101 milioni e 900 mila dollari. E infatti ieri, nel corso della conferenza stampa per la presentazione del bilancio consolidato 2006 della Santa Sede, è stato chiesto dai giornalisti un commento su questa straordinaria performance.
«È un fatto - ha risposto il direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi - che quest’anno ci sono state delle offerte eccezionali. Questo però è bene dirlo, perché non ci si aspetti che ogni anno ci siano. Puoi avere un anno in cui uno ti fa una grandissima offerta e questo fa salire molto l’entrata, ma se l’anno dopo quest’offerta eccezionale non c’è, tu non puoi contarci e non te ne puoi neanche stupire».
A comporre la somma che va sotto la voce dell’Obolo concorrono tutte le offerte liberali in arrivo dalle Chiese locali, dagli Istituti religiosi, dalle Fondazioni e dai singoli fedeli. La cifra non rientra dunque nel bilancio della Santa Sede, ma viene iscritta in quello del Governatorato del Città del Vaticano.
In cima alla lista dei Paesi donatori sono ancora gli Stati Uniti, e ciò «nonostante» il peso «degli scandali» che di recente hanno investito quella Chiesa locale con la vicenda dei preti pedofili, come ha rilevato il cardinale Sergio Sebastiani. Germania e Italia seguono al secondo e terzo posto.