LE STORIE
In un librettino di poche pagine (ma di notevole successo) lo scrittore non credente eppure innamorato della Sacra Scrittura enuncia le «penultime notizie» pervenute sul Messia di Nazaret Una «vita di Cristo» non definitiva perché da 2000 anni siamo ancora ai tempi supplementari
Erri De Luca: vi racconto il mio Ieshu
«Noi siamo in un tempo ciarlatano, nel quale i discorsi vengono pronunciati e smentiti il giorno dopo; frasi che contano esattamente lo sputo, il fiato che ci vuole ad emetterle...
Invece la parola detta dal Nazareno, cioè dalla voce giusta e nel momento opportuno, è capace di far breccia molto più delle armi.
Le parole di Gesù non solo muovono, ma addirittura commuovono ancora le generazioni; in specie il messaggio lanciato dalla montagna delle letizie, quello dei sovvertimenti dei valori e delle gerarchie, in cui fa sapere che gli ultimi sono i primi, è fresco di stampa e di speranza»
di Alessandro Bottelli (Avvenire, 18.10.2009)
Sarà per l’aria che lassù si respira, per quel limpido impasto di luce e di cielo che affonda radici in radiose, non misurate lontananze, e in cui la vista, smarrita, a tratti acuisce nel pallido sforzo di intravederne i confini. Sarà per quella fraterna alleanza alle cime, alle vette, ai pinnacoli, sillabati unghia a unghia per grazia di chiodi e piccozza, che ancora una volta la prosa di Erri De Luca, scrittorescalatore educato da strade in salita a risparmiare sui fiati, fa solchi e allunga ponti là dove più pensavamo aver accumulato il nostro piccolo fardello di sapienza quotidiana. Penultime notizie circa Ieshu/Gesù (Edizioni Messaggero Padova, pagine 96, euro 5) offre a chi lo attraversa il versante opposto d’orizzonte, dilagando con lo sguardo innamorato sopra estesi panorami di parole, rese eterne però dal fitto intrico d’echi e quiete risonanze, o, forse più semplicemente, dal dono azzurro delle nuvole.
Nel libro, dai alcune tornite definizioni dell’amore. Scrivi: «Chi dà tutto in amore non si ritrova sul lastrico, ma più fornito di prima». E all’inizio: «L’amore è questa incomprensibile energia per la quale più se ne spende, più se ne riproduce nelle fibre. Al contrario, chi lo risparmia lo spreca, se lo ritrova inutile e marcito». Tu hai fiducia nell’amore? E che idea ti sei fatto, attraverso lo studio della Bibbia, dell’amore divino?
«Personalmente ho fatto un uso improprio del verbo ’amare’. Ma quando ho trovato queste notizie nella scrittura sacra, ho capito che cos’era quel verbo, e come mai con la forza di quel verbo il monoteismo era riuscito a soppiantare le altre religioni precedenti. E a farlo dentro il Mediterraneo, cioè nel mare più politeista e più abbondante di divinità di tutta la storia dell’umanità. Quel mare veniva rigirato da questa notizia monoteista che si fondava sull’amore. Era una forza di impianto, perché si impiantava su un terreno di idoli che mai avevano chiesto niente di simile ai propri praticanti di culto, ma nello stesso tempo possedeva anche una forza di espianto, capace di sbaragliare, di estirpare dal suolo e dal cuore degli uomini gli idoli precedenti.
Tutto ciò è avvenuto grazie a quella energia superiore fornita dal verbo ’amare’. Ecco, io le notizie sul verbo ’amare’ le ho imparate nella scrittura sacra».
Un verbo indispensabile, che nutre e sostenta la pratica della fede: «Voi credete con la sovrabbondanza dell’amore, non con la carestia della sapienza», viene detto a Ioséf/Giuseppe, dopo che gli è stata annunciata la nascita di un figlio non suo. Credere dovrebbe essere, come per Abramo, «scatto di totale» e fiducioso «affidamento», in cui le inquietudini del dubbio non possono né devono avere alcun diritto di cittadinanza?
«La lingua italiana ha un unico verbo per indicare il credere. Sia se crediamo nella divinità o nella buona sorte o nella estrazione dei numeri del lotto, il verbo che usiamo è sempre uguale. In questo, è più preciso l’inglese, che adopera il verbo think per esprimere un’opinione, per dire ’io credo che’, e il verbo trust quando vuole indicare ’io ho fede’. Sulle banconote americane c’è pure scritto ’In God we trust’, ’Noi crediamo in un Dio’. Ma messa lì, quella frase occupa davvero un posto improprio.
Insomma, noi abbiamo una debolezza di vocabolario: usiamo un solo verbo per le opinioni e per la temperatura della fede. E il credere della scrittura sacra, il credere della fede comporta una elevata temperatura corporea».
In quest’ottica, quindi, l’intelligenza potrebbe essere un ostacolo per vivere con pienezza sia il dono dell’amore sia quello della fede?
«No, non è un ostacolo. Semplicemente non è richiesta. Nella scrittura sacra la divinità chiede di essere amata in tutto il cuore, in tutto il fiato e in tutte le forze. Se voleva metterci anche in tutta l’intelligenza lo poteva fare benissimo, non le mancava l’iniziativa né lo spazio. E invece sono quelle le caratteristiche dell’amore richiesto: il cuore, il fiato, le forze. Per credere non c’è bisogno di essere non dico intelligenti, ma nemmeno istruiti».
Quello di Gesù, pur essendo in sé qualcosa di estremamente nuovo e rivoluzionario, «era un annuncio che riscaldava il cuore senza armarlo d’ira e di rivolta». Tu che vieni anche dai giorni della rabbia e dello scontro, come giudichi il messaggio assolutamente non violento portato in mezzo agli uomini dal Redentore?
«Intanto bisogna immaginarsi il suo tempo, raffigurarselo. Gesù abitava in un paese occupato dalla più forte potenza militare straniera, quella romana. Prima e dopo di lui migliaia di giovani ebrei finivano impalati sulla croce, sullo strumento di tortura e di supplizio inventato ed esportato lì proprio dai Romani. Lui stesso era nato in un momento in cui gli invasori chiedevano un censimento e facevano spostare la popolazione ebraica per poterla meglio contare. E, di conseguenza, meglio spremere. Egli si trova dunque in una situazione di oppressione e di rivolte continue contro l’occupante romano, che, d’altronde, non ha trovato mai così tanta resistenza ostinata come da quelle parti. Questo si spiega col fatto, appunto, che gli abitanti della zona erano titolari del monoteismo, del Dio unico, e si trovavano invece il faccione di Giove Iuppiter piazzato sopra il tempio di Gerusalemme, sopra la casa di quella loro divinità che non voleva nemmeno essere raffigurata. Quindi non solo l’occupazione militare era un’ulcera per l’anima ebraica, ma altrettanto lo era quel politeismo imposto.
In questa situazione, nella Pasqua finale della vita di Gesù a Gerusalemme, quando tutto il popolo va lì e converge e manca quasi niente perché scoppi un’insurrezione contro l’occupante romano, lui non dice parole di pace, ma che smontano in un attimo la tensione e l’ostilità. Già prima però, con la frase: ’Date a Cesare quel che è di Cesare’, aveva chiarito che il potere politico, il potere degli uomini sugli uomini è qualcosa di effimero, che sta bene sopra una moneta e che non decide né della libertà né della vita di un uomo. Lì Gesù disinnesca una miccia che contava anche su di lui per innescare la rivolta. A Gerusalemme, infatti, viene accolto in maniera trionfale. Entra come un re, in groppa a quella cavalcatura speciale che era l’asina. Senza dubbio c’è grande attesa nei suoi confronti. E lui disarma quell’attesa, la riporta al suo messaggio di salvezza indipendente dalla scelta delle armi».
Ieshu/Gesù «dimostrava senz’armi il sovvertimento delle gerarchie e delle potenze», attraverso la forza dirompente della sua predicazione. La parola, dunque, è capace, da sola, di modificare la realtà?
«La parola pronunciata da quella voce, e cioè dalla voce giusta e nel momento opportuno, certamente è molto più capace delle armi di fare breccia. Non tutte le parole hanno però un simile potere. Noi siamo adesso in un tempo ciarlatano, in cui le parole vengono pronunciate e smentite il giorno dopo. Queste parole qui contano esattamente lo sputo, il fiato che ci vuole a pronunciarle e scadono subito dopo».
Pensi che il messaggio di Gesù Cristo possa ancora farsi largo e attecchire nel cuore degli uomini del ventunesimo secolo?
«Evidentemente sì. Le sue parole non solo muovono, ma addirittura commuovono ancora le generazioni che le ascoltano e che le leggono. Specialmente il messaggio lanciato dalla montagna delle letizie, quello che io dico dei sovvertimenti dei valori e delle gerarchie, in cui lui fa sapere che gli ultimi sono i primi, beh, quel messaggio è fresco di stampa e di speranza in ogni generazione».
Ma il tempo che noi stiamo vivendo, affermi, è un prolungamento di ciò che in realtà si è compiuto con la morte e la risurrezione di Cristo. Che significato assume questa coda temporale, questo strascico di giorni lungo ormai duemila anni?
«Sì, questi tempi supplementari infiniti tra l’annuncio e la sua manifestazione finale durano da duemila anni. È un po’ quello che, in scala più grande, viene comandato a Noè, quando gli viene commissionata un’arca gigantesca, superiore per dimensioni a un campo di calcio, alta tre piani e piantata in mezzo alle montagne e ai boschi. Insomma, un lavoro enorme, portato poi a termine da solo. Un’opera visionaria, molto più della torre di Babele, che voleva costringere l’umanità sua contemporanea a interrogare Noè su quel manufatto.
Serviva a far sapere agli uomini del tempo che c’era una possibilità di ravvedersi e di rendere inutile quell’arca. Tutto il lavoro di costruzione dell’arca è dunque un tempo supplementare concesso all’umanità contemporanea di Noè per ravvedersi. Cosa che però non avviene e allora il diluvio ha inizio - così è scritto nel libro Genesi/ Bereshìt. Ecco, questi tempi supplementari del cristianesimo sono i tempi della costruzione dell’arca di Noè».
In uno degli scritti contenuti nel libro dai nuova collocazione al Paradiso: non più sospeso ad altitudini incommensurabili, bensì ubicato in qualche luogo reale, qui, sulla terra, ripristinando quella che dici essere la sua sede originaria, etimologica, e cioè in un giardino di alberi da frutta.
Ma oggi potrebbe ancora esistere sul pianeta un luogo degno di ospitare il Paradiso?
«Immaginata come una residenza non definitiva ma provvisoria, ci sono tanti piccoli giardini in cui improvvisamente è possibile realizzare quella concordia e quella unità che c’è nel paradiso. Insomma, è continuamente possibile, su piccola scala e in circostanze minime, in brevi momenti, anticipare quel luogo. Oggi lo possiamo trovare dentro a un ospedale di brava gente nostrana in certi posti dell’Africa, o magari nel comportamento eroico di qualche sacerdote in una parrocchia sgangherata».
Lì c’è un frammento di Paradiso...
«Sì, lì c’è la costituzione di un paradiso in terra».
*
L’AUTORE
Vangelo & farfalle
Cinquemila copie vendute in due settimane. Certo, il libretto è esiguo (92 pagine) e anche il prezzo (5 euro) invoglia all’acquisto; però il successo editoriale di «Penultime notizie circa Ieshu/Gesù» (Edizioni Messaggero Padova) dipende soprattutto da nome del suo autore, Erri De Luca, e dalla sua fama di affabulatore, da anni impegnato in un corpo a corpo con la Bibbia come traduttore autodidatta.
Qui, forse per la prima volta in modo così compiuto, lo scrittore napoletano si misura con i Vangeli, tracciando alla sua maniera una «vita di Cristo» nella convinzione che comunque «tutte le informazioni su di lui sono penultime. Manca quella annunciata e ancora differita: la fine del frattempo, tra la sua prima vita, provvisoria, e la seconda, la definitiva. Il tempo della cristianità dopo di lui è prolunga di supplementari, in attesa di compiersi del tutto».
Dell’autore sta per andare in libreria un nuovo romanzo, «Il peso della farfalla» (Feltrinelli, pp. 88, euro 7,50), in uscita l’11 novembre e ambientato in una delle scenografie preferite dallo scrittore: la montagna.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DEUS CARITAS EST": LA VERITA’ RECINTATA!!!
"Dopo la "Deus caritas est", la seconda enciclica: "Spe salvi".
"CARITAS IN VERITATE": FINE DEL CRISTIANESIMO.
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
una marcia per Erri De Luca (in Francia)
Marcia sulla St. Victoire in sostegno di Erri De Luca e della Libertà di parola
La marcia si svolgerà il 4 ottobre 2015, con partenza dal Barrage du Bimont (Aix-en-Provence, Francia) alle 10h30 e arrivo in cima della Sainte-Victoire previsto per le 12h30. Una volta raggiunto il punto più alto verranno recitati da attrici francesi e italiane alcuni brani tratti dall’opera di Erri De Luca, che parlano di montagna e libertà di espressione.
È nata in ambito accademico francese, da un’iniziativa di Chiara Milanesi e Carlo Baghetti, l’organizzazione di una marcia in montagna per sostenere simbolicamente Erri De Luca e la Libertà di parola, nella triste vicenda che vede coinvolto l’autore, molto tradotto e letto oltralpe, in un processo, per aver espresso la sua opinione circa la costruzione della Tav Torino-Lione e le lotte ambientaliste in Val di Susa. Grande alpinista e ambientalista convinto, De Luca ha spesso descritto la montagna nei suoi romanzi; per questo motivo, l’organizzazione di una camminata fino in cima al monte più simbolico dell’intera Provenza è sembrato il modo più naturale di esprimere il dissenso verso l’imbarazzante situazione in cui si trova la democrazia italiana, che processa i suoi scrittori.
L’iniziativa ha incontrato subito il sostegno entusiasta e l’adesione di molte persone, tra cui artisti e intellettuali, diffondendosi tramite il web e il passaparola.
Tra gli obiettivi dell’iniziativa il collegamento con altri “camminatori” delle montagne ovunque essi si trovino.
NdR: segnaliamo, a proposito di De Luca, e tra le tante cose apparse in questi giorni, il bellissimo pezzo di Evelina Santangelo su Minima&Moralia: http://www.minimaetmoralia.it/wp/li-dove-finisce-il-discorso-comincia-la-violenza/
***
Dunque, da una parte c’è uno scrittore che, in merito alla vicenda che lo vede imputato per istigazione a delinquere, pronuncia in aula e scrive (nel suo libro-difesa La parola contraria) parole di questo tipo: «Io, se istigo, istigo alla lettura. Al massimo alla scrittura». «L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria. Il verbo sabotare ha vasta applicazione in senso figurato e coincide con il significato di ostacolare. I pubblici ministeri esigono che il verbo sabotare abbia un solo significato. In nome della lingua italiana e del buon senso nego il restringimento di significato».
Dall’altra, c’è un pubblico ministero, Antonio Rinaudo, che chiede per De Luca 8 mesi di reclusione con argomentazioni serrate di questo tenore: «Mi pare inevitabile che le parole di De Luca (“sabotaggi e vandalismi sono necessari per comprendere che la Tav è nociva”) siano dirette a incidere sull’ordine pubblico...». «Quando il signor De Luca parla, le sue parole hanno un peso specifico rilevante, soprattutto sul movimento No Tav». «Se, come ha chiesto la difesa, avessimo trovato qualche riferimento diretto alle sue pubblicazioni per esempio nelle perquisizioni degli arrestati saremmo qui a celebrare un processo per concorso nei reati commessi».
Affermazioni e argomentazioni, da una parte e dall’altra che, accostate, potrebbero benissimo evocare certi dialoghi surreali, grotteschi, kafkiani.
Da una parte, dunque, c’è uno scrittore che difende la libertà della parola, la sua irriducibilità, meno che mai entro griglie giudiziarie. Dall’altra c’è la legge che segue una logica ferrea conseguenziale tra parole e azioni.
Chi scrive non condivide i metodi di una parte del movimento No Tav, e ne condivide solo in parte le ragioni, come non sottoscriverebbe le dichiarazioni rilasciate da Erri De Luca all’«Huffington Post» nel settembre del 2013, ma questo poco importa.
Quel che importa invece è la natura dell’accusa rivolta a Erri De Luca in quanto scrittore e poeta, perché, a quanto pare, se a pronunciarle fosse stato il «barbiere di Bussoleno» sarebbero state perdonate, come sono perdonate quotidianamente parole di violenza inaudita (come «e ora mandiamo le ruspe sui campi» o «sparare ai barconi») e feroce, non solo perché rivolte contro i più indifesi ma anche perché pronunciate a fini propagandistici, per ottenere e alimentare consenso, non per creare scandalo, dissenso, e spesso immense solitudini, come è sempre accaduto alle parole scomode di poeti, scrittori e spiriti liberi.
Eppure non ci vorrebbe molto a comprendere un paio di considerazioni fatte da una delle menti più lucide del nostro Novecento, Hannah Arendt, quando dice che: «La violenza è muta», che «la violenza comincia laddove il discorso finisce», quando spiega che: «Il declino delle nazioni comincia con il venir meno della legalità, o perché vi è un abuso delle leggi da parte del governo in carica o perché viene messa in dubbio o contestata l’autorità della loro fonte».
Perché è proprio questo il punto. Il «discorso» in Val di Susa è finito, o si è fatto di tutto per farlo tacere, nel momento stesso in cui dinanzi a una comunità che (a torto o a ragione) si difende, come ha spiegato il sociologo Marco Revelli, e si difende pacificamente, con marce, fiaccolate, presìdi, con una resistenza passiva, dunque, che coinvolge intere comunità montane di migliaia di persone, con in testa i sindaci, il governo nazionale risponde con ottusità, violenza: imponenti dispiegamenti di forze dell’ordine, ruspe, lacrimogeni... O con la logica dei contentini: un tavolo di confronto come L’Osservatorio presieduto da chi ha tutto l’interesse a difendere le ragioni delle aziende coinvolte a vario titolo nel progetto, escludendo la maggior parte dei sindaci No Tav.
Il «discorso è finito», come sempre finisce - e come dimostra il prevalere a un certo punto di azioni violente antecedenti oltretutto le parole di De Luca (cui dunque si dovrebbe attribuire il dono di una forza di persuasione retroattiva...) -, quando la politica non è più in grado di comprendere le ragioni di intere realtà, non ha più l’autorevolezza per chiedere fiducia, persuadere, e dunque fa ricorso alla forza.
Certo che fa paura la parola di Erri De Luca, e non perché letteralmente istigatrice di atti violenti, ma perché la difesa di posizioni No Tav espressa da un intellettuale dà peso specifico, rilevanza, riporta sul piano del «discorso»posizioni che si vorrebbero liquidare semplicemente come forme di eversione, come espressione di quattro teste calde armate di cesoie, pietre o molotov... E questo, mentre i fatti sinora accaduti inchiodano la politica alle proprie responsabilità, alla scelta di una linea repressiva del tutto ottusa in un contesto come quello delle proteste della Val di Susa.
La colpa dunque di Erri De Luca è di riaver aperto un varco al «discorso», per quanto duro, oppositivo, e a suo modo scandaloso. E condannare uno scrittore per le sue parole e, in particolare, per «il peso specifico rilevante delle sue parole» significa, di fatto, dare ragione a chi non crede più nelle parole, ma crede piuttosto nel sabotaggio muto delle azioni violente.
Non ritengo che in questa vicenda ci sia soltanto in gioco la libertà di espressione. Qui c’è in gioco qualcosa che ha a che vedere con la natura di questo Paese, i confini del diritto e dell’espressione del dissenso,confini troppe volte impunemente violati, e con violenza inaudita proprio da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Qui c’è in ballo qualcosa che ha a che vedere, ancora una volta, con la verifica su che razza di Paese è quello in cui ci troviamo.
Ed è sintomatico il fatto che il pm Rinaudo abbia evocato a difesa delle proprie ragioni il serpente istigatore dell’Antico Testamento, non tenendo conto, o tenendo ben conto, del fatto che lì la Legge che s’istigava a violare era una Legge divina, assoluta, insindacabile, brutale, no la legge di uno stato di diritto.
«Comunque vada il caso giudiziario, ho potuto spiegare le mie ragioni», dice Erri De Luca. E basterebbe solo questa frase per comprendere la dimensione abnorme, assurda, se non grottesca, di questo processo a parole che possono suscitare un forte dissenso, ma attengono a quell’ordine del «discorso» che segna sempre il confine tra la civiltà e la violenza muta.
Il bisogno di mandare in galera gli scrittori
di Ascanio Celestini (comune-info, 21 settembre 2015)
Erri De Luca se ne va in galera?
È un bravo scrittore o un incitatore di violenti?
E quale peso hanno le parole?
E quanto ci si accanisce contro di esse per paura di confrontarsi con la realtà?
Qualche giorno fa scriveva “lunedì prossimo, 21 settembre, entra l’autunno e io rientro nell’aula del processo” questo scriveva quello scrittore qualche giorno fa.
Oggi il pm Rinaudo ha chiesto otto mesi di galera perché “nelle interviste rilasciate pubblicamente ha commesso incitazione a commettere il sabotaggio” e “quando De Luca parla, le sue parole hanno un peso determinante soprattutto sul movimento”.
Allora le scrivo io caro Rinaudo. Signor pm lei ha letto i libri che doveva leggere per passare gli esami. Certamente era uno bravo e si è preso una laurea importante. Ma davvero crede che una rete venga tagliata perché Erri De Luca dice che non è un reato farlo? È così che si gioca con la legge? Sono giochi di parole?
Io scrivo e vorrei che le parole degli scrittori fossero davvero così tanto potenti, ma purtroppo non è così. I poeti possono dire quel che vedono, ma non prevedono molto e tanto meno muovono le masse. E per fortuna!
Ora vada a farsi un giro in valle (non la sto mandando a quel paese, ma solo in quella valle). Vada a parlare con quelli che ci vivono e comprenderà che in quella valle si tagliano le reti perché gli abitanti si sentono derubati della loro terra, non perché glielo dice Erri De Luca.
Ci vada. Non ci stia a ragionare troppo. I libri con le leggi li conosce a memoria. Ora porti le sue leggi tra le persone vive e non le applichi come se fossero teorie equilibristiche buone per passare gli esami e portarsi un pezzo di carta a casa.
Sappia che gli scrittori possono raccontare la realtà, ma difficilmente riescono a provocarla. Lei vuole condannare De Luca e si dimentica (o non lo sa e non lo vuole sapere) che ha detto semplicemente ciò che accade. Ma quale paura c’è dietro la sua richiesta di condanna? Ci pensi. Lo faccia per un minuto, poi torni alle sue sacre scritture penali. Ha paura della realtà o delle parole che la raccontano? Baci!
Un giovane arrestato di nome Gesù
di Erri De Luca (Liberazione, 11 novembre 2009)
Il potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l’aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita.
I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato.
Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato.
Non solo Stefano Cucchi, le tante morti sospette delle carceri italiane
di Francesco Costatutti *
«Che non accada mai più! Che serva da lezione!». È un copione amaro e comune quello per cui a seguito di un fatto molto grave si alzi il più scontato e disperato degli auspici. Per quanto il gesto possa dare una qualche temporanea e illusoria sensazione di speranza, dovremmo ormai aver capito che desiderarlo non basta e che forse giova di più raccontare per filo e per segno quel che succede, osservare e analizzare senza sosta le relazioni tra i fatti, coltivare l’abitudine di ricordare quel che è accaduto e si vuole non accada più.
Quando si parla di quel succede nelle carceri italiane, infatti, un ottimo punto di partenza può essere la presa d’atto che il cosiddetto “caso Cucchi” è stato tutto meno che un caso. Nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno: un terzo per suicidio, un terzo per “cause naturali” e la restante parte per “cause da accertare”. I morti per suicidio sono una cifra impressionante: con 1005 casi accertati dal 1990 a oggi, in carcere ci si suicida ventuno volte di più che fuori. Si tratta inoltre di un dato che aumenta in modo esponenziale con l’aumentare del sovraffolamento: nell’ultimo anno, a un incremento del venti per cento della popolazione carceraria è corrisposto un incremento dei suicidi vicino al 50 per cento. Il numero delle morti per “cause da accertare”, poi, nasconde spesso realtà drammatiche e inquietanti sulle quali fare luce è praticamente impossibile, anche a fronte di perizie e documentazioni inequivocabili, specie senza le attenzioni dei mezzi di comunicazione e la presenza di famiglie determinate come quella di Stefano Cucchi.
Il centro studi Ristretti orizzonti, che da anni si occupa della questione carceraria con precisione e competenza, presenta un quadro da dittatura sudamericana. «Morti per “infarto” con la testa spaccata, per “suicidio” con ematomi e contusioni in varie parti del corpo. Quello che non è possibile vedere, ma a volte emerge dalle perizie mediche (quando vengono disposte e poi è dato conoscerne l’esito), sono costole spezzate, milze e fegati “spappolati”, lesioni ed emorragie interne. Questo è quanto emerge dalle cronache, dalle perizie, dalle fotografie (quando ci arrivano) e questo è quanto ci limitiamo a testimoniare». Un rapporto mette insieme trenta casi di morti dalle dubbie circostanze avvenuti dal 2002 a oggi.
Si va da Stefano Guidotti, 32 anni, trovato impiccato alle sbarre del bagno ma col volto ricoperto escoriazioni e una serie di macchie di sangue sul pavimento, a Kolica Andon, 30 anni, albanese, che si uccide dopo 35 giorni di sciopero della fame. «Preferisco morire», aveva detto, «piuttosto che restare qui dentro da innocente». Da Mauro Fedele, detenuto nel carcere di Cuneo, al quale viene diagnosticata la morte per “arresto cardiocircolatorio” mentre suo padre denuncia un «corpo di pieno di lividi, con la testa fasciata e segni blu su collo, sul petto, sui fianchi e all’interno delle cosce, sia a destra sia a sinistra», a Marco De Simone, con problemi psichici, che viene dichiarato “incompatibile con il regime carcerario” ma viene ugualmente detenuto e si impicca 48 ore dopo essere arrivato a Rebibbia.
Poi c’è Marcello Lonzi, ufficialmente morto “per collasso cardiaco”, le cui foto raccontano di un corpo inequivocabilmente martoriato di lividi. Stessa sorte di Habteab Eyasu, 36 anni, eritreo, che si uccide impiccandosi in una cella di isolamento della Casa Circondariale di Civitavecchia. Le foto mostrano una ferita in fronte e una grande macchia di sangue dietro la nuca. C’è il caso di Aldo Bianzino, uno dei pochi che è riuscito ad avere una qualche attenzione dai mezzi di comunicazione. Bianzino viene arrestato il venerdì 13 ottobre 2007 e muore domenica 15. Quando trovano il suo corpo, i medici riscontrano quattro emorragie cerebrali, almeno due costole rotte e lesioni a fegato e milza. C’è Manuel Eliantonio, 22 anni, che scriveva: «Cara mamma, qui mi ammazzano di botte almeno una volta la settimana e mi riempiono di psicofarmaci...». Lo trovano morto in un bagno del carcere di Marassi, a Genova, con il volto coperto di ecchimosi.
In alcuni di questi casi il dramma ha persino dei risvolti paradossali, come nel caso di Gianluca Frani, 31 anni, che si sarebbe suicidato impiccandosi a un tubo dello scarico del water, nel carcere di Bari. C’è un dettaglio, però: Frani era paraplegico e semiparalizzato. Oppure il caso di Sotaj Satoj, 40 anni, albanese, che muore nel reparto Rianimazione dell’Ospedale di Lecce dopo tre mesi di sciopero della fame. Dopo la sua morte, gli agenti continuarono a piantonarlo per ore: credevano stesse fingendo, per tentare la fuga. Anche Andrea Mazzariello, 50 anni, paraplegico e costretto su una sedia rotelle, si toglie la vita impiccandosi a un tubo del water col cordone dell’accappatoio. Il suo medico di base gli aveva prescritto delle dosi di morfina, per combattere il dolore lancinante alla schiena che lo costringeva sulla carrozzella. Morfina che gli veniva inspiegabilmente negata: secondo il suo medico «per questo si è tolto la vita». E poi decine di altri casi di morti misteriose, di ragazzi in piena salute morti a causa di generici «malori», di suicidi inspiegabili e comportamenti irresponsabili da parte delle autorità. Storie orribilmente frequenti in quegli inferni in terra che sono le carceri italiane: da ricordare, raccontare e denunciare senza pause perché davvero, una volta per tutte, non accadano più.
* l’Unità, 11 novembre 2009
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“Qualcosa di anomalo nei referti. Stefano è morto nelle mani dello Stato”
di Natalia Marino *
Negli ultimi giorni, due colpi di scena sulla morte di Stefano Cucchi: la Procura della Repubblica di Roma ha acquisito nuove testimonianze sull’operato dei carabinieri - un maresciallo è indagato per falsa testimonianza e sarebbero in corso accertamenti per altri militari - e un’ulteriore consulenza medico-legale che, oltre a dimostrare la presenza di lesioni risalenti a quei giorni del 2009, pone nuovi interrogativi.
Una delle novità riguarda i carabinieri che fermarono Stefano: si ipotizza un altro pestaggio?
Siamo a un momento di svolta. Credo che il Procuratore capo della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, con il sostituto responsabile della nuova inchiesta, Giovanni Musarò, sappiano molto più di quanto noi immaginiamo. Si stanno aprendo altri scenari. Speriamo sia un nuovo inizio: sono molto grata a Pignatone. Due carabinieri ci hanno cercato e le loro dichiarazioni sono state ripetute in procura. Non so perché lo abbiano fatto, cosa sia scattato in loro. Stefano potrebbe essere stato massacrato anche prima di arrivare nelle celle del tribunale di piazzale Clodio per la convalida del fermo. L’agonia di mio fratello si allunga e aumenta anche il nostro dolore, perché è morto convinto che la famiglia lo avesse abbandonato. I magistrati dell’inchiesta-bis sono molto avanti, lo ribadisco. Però sono passati sei anni, due processi, e a dicembre si pronuncerà la Cassazione. Rimasi malissimo per la sentenza di appello che assolveva tutti. Poco dopo ho compreso che indicava chiaramente di cercare altrove. Continuavo a ripetere al mio avvocato, Fabio Anselmo, “abbiamo vinto, abbiamo vinto”. Lui diceva: “Ilaria sei matta?”. Alla fine si è convinto. Abbiamo sfondato un muro: se nelle aule di giustizia non c’era, in quel momento, la capacità di ammettere le responsabilità dello Stato, fuori da quelle aule tutti sanno e tutti hanno capito. Mio fratello sarebbe stato dimenticato come un tossico, un piccolo spacciatore di periferia che, tutto sommato, “se l’era cercata”. Oggi non è più così.
Pochi giorni fa avete consegnato in Procura una nuova consulenza medica. Smentirebbe la superperizia della Corte d’Assise: sostiene l’esistenza di due fratture vertebrali, di cui una risalente ai giorni della morte e resa “non visibile”. Come è potuto succedere?
Sono rimasta scandalizzata da quanto mi ha detto il professor Masciocchi, autore della perizia. È presidente della Società italiana di Radiologia Medica e dirige l’Unità operativa di radiologia della Asl 1 di Avezzano-Sulmona-L’Aquila. Dimostra che è accaduto qualcosa di molto anomalo. I periti milanesi nominati dalla Corte d’Assise chiesero a una radiologa dentista di Chieti un esame delle lesioni vertebrali di Stefano e lei nel referto, tra l’altro non firmato, scrive che non ci sono fratture recenti ed ha bisogno di esaminare altra documentazione. Stop. Il professor Masciocchi ha scoperto che rispetto alla Tac dei Pm, nella tomografia dei periti della Corte la vertebra con la lesione recente era più sottile, non era intera, l’osso era stato sezionato. Siamo in attesa di nuovi sviluppi, probabilmente ancora più clamorosi, sugli aspetti medico-legali, bisognerà stabilire la catena di responsabilità.
Continuerà ad andare avanti? Ha sempre sostenuto che è stato omicidio.
Lo dimostreremo. Stava bene quando è uscito da casa, è morto nelle mani dello Stato. Mi fidavo delle istituzioni e ho sempre combattuto per la verità. Non ho mai cercato un capro espiatorio. Condannare per lesioni gli agenti penitenziari non avrebbe rappresentato il raggiungimento della verità. Se in ultimo si dimostrasse che a pestare mio fratello sono stati i carabinieri, la notte del fermo e forse anche nei sotterranei del tribunale, gli agenti della penitenziaria però sono responsabili comunque. Quella cella l’hanno aperta loro, erano lì e non hanno fatto nulla. Stefano è morto di Giustizia. Nelle registrazioni dell’udienza di convalida del fermo lo si sente più volte scusarsi perché faceva fatica a parlare. Se quel giudice gli avesse chiesto il perché, mio fratello sarebbe ancora vivo. Sarebbe bastata una semplice domanda. Apprendemmo della morte solo quando ci contattarono per autorizzare l’autopsia. Giunti al Pertini, l’agente penitenziario fu molto vago sulle cause. E concluse dicendo: “Controlli le carte, sono a posto”. Quando ho visto quel corpo martoriato, la mia vita è cambiata in quel momento. Mi rivolsi all’avvocato Fabio Anselmo, legale di Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi. Decidemmo di pubblicare le foto che avete visto tutti.
Il 1° ottobre Stefano avrebbe compiuto 37 anni e il 22 saranno sei anni senza di lui. Sei anni di battaglie all’ostinata ricerca della verità. Ancora oggi le morti di Stefano e Federico continuano a mobilitare le coscienze. Sarà diverso questo compleanno?
Finalmente ricomincio ad avere fiducia nella Giustizia, posso contare su persone straordinarie. Sono emozionata e nello stesso tempo devastata, come se Stefano fosse morto ieri. Spesso mi sono sentita in colpa verso Stefano e la sua memoria, non riuscivo neppure ad andare al cimitero. Per il 22 vorrei organizzare qualcosa di intimo, ma non privato: se oggi qualcosa è cambiato è anche grazie all’opinione pubblica e ai mezzi d’informazione che non hanno mai taciuto. Mai, mai tacere. L’ho capito sulla mia pelle, come Patrizia e Lucia, la sorella di Giuseppe Uva. Ora altre madri, padri, fratelli e sorelle pretendono verità.
Quest’anno si celebra il 70° della Liberazione, la vittoria della Resistenza, dalla quale nacquero la Costituzione e l’Italia democratica.
Dopo sei anni passati a cercare, a studiare le carte di interminabili e grotteschi processi, oltre al lavoro, spero di poter trasmettere ai miei figli la fiducia nello Stato di diritto. Ho chiesto loro un grande sacrificio, dedicando a Stefano ogni minuto della giornata. Giulia, la più piccola, ora ha 7 anni, ma prima capitava spesso che la sera, dopo il bagnetto, dovessi vestirla già pronta per la mattina. Una volta mi chiese: “Mamma, perché non posso andare a letto col pigiama come le altre bambine?”. Valerio è più grande e Stefano era già presente nella sua vita. In principio gli dissi che era morto in un incidente stradale, poi ho dovuto spiegare che qualcuno aveva fatto del male allo zio, ma che avremmo scoperto cosa gli era successo. Sto combattendo per Stefano e per i miei figli. E anche per i figli di coloro che indossando una divisa che conferisce autorità - ma anche maggiore responsabilità - si permettono di abusarne.
Stefano Cucchi, trentuno anni appena compiuti, venne fermato dai carabinieri per possesso di sostanze stupefacenti in un parco della Capitale, la sera del 15 ottobre 2009. Morì una settimana dopo, il 22 ottobre, nel reparto di detenzione protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Dopo due controversi processi - l’appello ha assolto tutti gli imputati: medici, infermieri e agenti penitenziari - la Procura della Repubblica di Roma ha aperto un’inchiesta-bis.
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Patria Indipendente,
Pubblicato giovedì 1 ottobre 2015