Se il prete non sa più parlare dal pulpito
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 6 gennaio 2010)
C’era una volta il pulpito. Da lassù il prete predicava contro le braccia nude delle donne, meno contro gli ebrei nudi che si scavavano la fossa. Inveiva contro la costruzione dei ponti sui fiumi veneti, che avrebbero favorito l’emigrazione delle ragazze dei paesi in città, ove avrebbero "perso la purezza" a servire i ricchi. A metà del Novecento, in piena crociata anticomunista, cacciava dalla chiesa Augusta, una ragazza di cui molti in paese erano innamorati, solo perché si era presentata a messa vestita di rosso, il colore proibito. Altro che "poltiglia insulsa" e "melassa", come ha deplorato Mariano Crociata, segretario della Cei, che qualche giorno fa ha invitato tutti i sacerdoti a rivedere il loro impegno nell’annuncio della Parola di Dio. La predica della domenica funzionava fino a qualche tempo fa (con rare eccezioni) per il buon costume, l’ordine pubblico e la lotta al comunismo. Usava l’al di là come chiave di accesso ai terreni dell’al di qua. Il pulpito mandava in scena al dì di festa l’emissario di un Dio implacabile che assumeva normalmente le fattezze del predicatore-tipo fustigato da Padre Davide Maria Turoldo, il Savonarola della Milano degli ultimi anni Quaranta.
Non è più una questione di tecnica e di eloquenza, come si insegnava nelle vecchie scuole di pastorale. Nessuno oggi immagina il ritorno ai modelli retorici lanciati nel XVII secolo dai Bossuet, dai Bourdaloue e dagli altri campioni del pulpito. È presumibile che nella bolla mediatica anche la loro arte di mischiare la "verità piena" e le applicazioni morali farebbe un flop. Le inchieste disponibili concordano sul dato che la gente che va a messa - ormai una minoranza - ricorda con difficoltà la predica all’uscita dalla chiesa, come se avesse staccato l’audio. La causa non è solo l’affollamento dei messaggi tv o internet che ingombrano i fedeli e nemmeno la cultura secolarizzata dominante, che potrebbe ostacolare la percezione del linguaggio simbolico. «Diamo l’impressione di recitare una lezione imparata a memoria - dice il cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo emerito di Firenze - Le parole passano sopra la teste senza entrare nella vita, percuotono le orecchie senza toccare il cuore. Siamo maestri, e neppure bravi, ma non siamo testimoni. La gente ascolta ma non si convince e non cambia in conseguenza la propria vita».
Il dato di partenza è che le aspettative, i linguaggi, i bisogni collettivi, anche del pubblico praticante, sono radicalmente cambiati. Mentre la predica «è ancora molto danneggiata dall’incapacità di molti pastori a scendere dalla loro astrattezza e genericità» ammette il "Dizionario di omiletica” (Editrice Elle Di Ci, Leumann 1998). Il punto critico principale è considerato la riluttanza del clero a prendere atto che il mondo a cui rivolge le sue prediche non è più una cristianità. Numerose le inchieste che indicano che, anche in Paesi di vecchia tradizione cristiana come l’Italia, il linguaggio cristiano non coincide più, se mai sia coinciso, con quello dominante nella società.
È una condizione che riporta la Chiesa ai primi secoli, con lo statuto della prima evangelizzazione. Come alle origini la predicazione diventa ora un rendere ragione della fede dei cristiani ad un mondo non cristiano. Questa condizione "iniziale" è una chance: determina la necessità di riqualificare la predica come strumento di evangelizzazione, sia di primo annuncio, in un ambito di esplicita missione, sia di ripresa di esso.
La "Scuola della Parola" tenuta dal cardinale Martini nel Duomo di Milano è stato il principale esperimento formativo in questa direzione in Italia dopo il Concilio: un approfondimento biblico nella comunità cristiana come chiave di lettura dei "segni del tempo". Nella crisi del regime di cristianità, Martini capiva che l’urgenza principale di una Chiesa divenuta "piccolo gregge" era di formare convinzioni e coscienze, non di organizzare manifestazioni.
Il Concilio aveva raccomandato di affidare il ministero della Parola anche ai laici, ma di fatto esso è rimasto riservato al clero. Oberato dal carico pastorale di tre, quattro messe ogni domenica per altrettante parrocchie, il prete non può che sbrigare la predica in modo seriale. La proposta di formare gruppi che condividano con i ministri ordinati il peso dell’omelia nella propria comunità, con apporti veramente laicali, è rimasta largamente inevasa. Il risultato è che la predica difficilmente somiglia a quella raccomandata da Padre Turoldo, cioè totalmente immersa nella Sacra Scrittura e insieme nella storia, con tutta la criticità necessaria. "Il Predicatore - diceva - è condannato a entrare con la Parola nella carne e nel sangue della storia».
Poi c’è il riflesso sulle prediche degli standard gerarchici per la selezione del clero, in una fase di restaurazione: netta la preferenza delle curie per i curricula esenti da stili profetici o da creatività apostoliche. Proprio quando, paradossalmente, le teorie manageriali d’impresa puntano sulle leadership creative, abili a inventare nuovi modi di considerare la realtà, di mobilitare energie e immettere nuova linfa nelle strutture organizzative.
Il linguaggio del clero ripiega invece su moduli conformisti, destorificati, a-critici, attenti a non disturbare il senso comune, piuttosto ad accodarsene. Proprio quando, per usare formula di Marcel Gauchet, l’aspettativa spirituale collettiva è per un "Messia alla rovescia", per un cristianesimo non rinunciatario. Di minoranza certo, ma significativo, anche per i non credenti, purché osservi le condizioni indicate da Albert Camus quando diceva: «Io prenderò la Chiesa sul serio quando i suoi capi spirituali parleranno il linguaggio di tutti e vivranno anch’essi la vita pericolosa e miserabile condotta dai più».
Pier Giorgio Rauzi ha registrato l’insorgenza di nuovi codici nelle omelie del clero nel Trentino, città e valli. Quattro anni di indagine del suo Istituto di Sociologia Religiosa a Trento hanno verificato un mutamento di paradigma precisamente nelle prediche delle liturgie dei defunti, le più esposte al rischio del linguaggio ovattato dello spiritualismo consolatorio in funzione della rielaborazione del lutto.
Il risultato è stato che l’universo simbolico tradizionale, imperniato sulla figura del Dio giudice implacabile del "Dies Irae", è stato abbandonato. In cento prediche analizzate non ricorrono mai le parole inferno, dannazione, morte eterna. Mai "purgatorio". Raro anche il riferimento al Paradiso. Rarissimamente la parola "giudice". Anzi, in 21 casi su 24 ricorre l’affermazione che "Dio non è giudice", è invece padre misericordioso. Il giudizio finale è evocato per il mondo, mai per il defunto. «Non una evoluzione, ma una discontinuità radicale di linguaggio» assicura Rauzi. «Cambia la visione del divino e dell’al di là. E abbiamo anche notato un certo imbarazzo del clero di dover parlare nella liturgia dei defunti: come se il silenzio fosse il modo più appropriato per condividere l’angoscia dinanzi alla morte. Infatti l’omelia non era prevista nelle liturgie dei defunti prima del Concilio».
Ciò che fatica a emergere, piuttosto, è il riferimento nelle prediche, per i vivi e per i defunti, della verità centrale della fede cristiana, la Resurrezione.
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!:
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"Deus caritas est". Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, il "Logo" del Grande Mercante!!!
I sogni dei preti nel nuovo millennio meno solitudine e più apertura alla vita
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2010)
Sognano di non vivere disperatamente soli, sognano una Chiesa lontana dai Palazzi, ma soprattutto chiedono l’ascolto di una gerarchia ecclesiastica, che appare lontana. E’ il sogno dei preti nel nuovo millennio. “Sogni da prete” (Edizioni Dehoniane) è l’inchiesta molto originale condotta da un preteprofessore, Angelo Sabatelli, convinto che il grande psicanalista Carl Gustav Jung avesse ragione quando scriveva che l’immaginazione non è un fantasticare a caso, ma il tentativo di comprendere i fatti e di rappresentarli con “immagini fedeli alla loro natura”. Docente di Psicopedagogia alla Facoltà teologica di Puglia, Sabatelli ha lavorato per tre anni, d’intesa con i vescovi, tra i preti pugliesi per far emergere la loro immagine di Chiesa e di sacerdozio.
Sono tempi difficili per la struttura ecclesiastica. A livello mondiale il clero è insufficiente per un miliardo e duecento milioni di cattolici. In Italia i preti sono circa 33.000, di cui millecinquecento stranieri, ma si prevede che in un ventennio il clero diocesano attivo si contrarrà nelle varie regioni del 25 e persino del 35 per cento.
L’inchiesta, basata su colloqui in quattordici “focus group”, cade in coincidenza con l’Anno sacerdotale proclamato da Benedetto XVI. E un primo dato, segnalato dalle conversazioni riservate, è che la maggioranza degli interrogati sono “contenti di essere prete”, di lavorare tra la gente, nelle case, con i giovani e le famiglie. Il che, d’altra parte, è avvalorato dall’indice di gradimento piuttosto alto di cui in genere godono i parroci nei sondaggi. Ma al tempo stesso è forte il bisogno di non farsi fagocitare da un lavoro di tipo impiegatizio. Il sogno di molti è di avere più tempo per pregare.
Conferma della propria missione non significa chiudere gli occhi dinanzi alla realtà. Chi era partito prima dell’ordinazione con un’ immagine di Chiesa idealizzata, in cui il sacerdote, è “adorato e venerato”, si accorge della fatica di rapportarsi alla società attuale. Confida ironicamente un prete che sarebbe utile scrivere un documento intitolato “Come annunciare il Vangelo in un mondo che se ne frega”. A contatto con i problemi quotidiani - anche quello di prepararsi un piatto in cucina! - molti si rendono conto che l’immagine del parroco piccolo monarca è irreale.
Di sicuro c’è in molti la percezione di uno stato di minoranza. Commenta un sacerdote che è ora di “iniziare a pensare che non saremo diecimila gatti, ma 2 o 3 che vogliono annunciare al mondo il Cristo Risorto”.
Tuttavia più che dalla gente gli ostacoli sembrano venire dallo stesso ambiente ecclesiastico. Sono testimonianze amare: “Le difficoltà maggiori derivano dai miei confratelli... Un uomo prete è essenzialmente egocentrico... Con gli (altri) sacerdoti scattano a volte meccanismi un po’ di gelosia, di invidia...Vorrei meno competitività, più umiltà”. Il grande spettro è la solitudine: “Sogno la possibilità di non essere più da solo in questa casa ... Il mio ideale di comunione si scontra con il fatto che sono solo in canonica e che non c’è un cane di prete che ti dice: viviamo insieme”.
E allora il sogno è di stare in mezzo agli altri, fare il “papà” della propria comunità, vedersi punto di riferimento nelle relazioni spirituali, presentarsi “più uomo di Dio che saggio”. “Ho quasi settant’anni - esclama un prete - e da dieci anni vivo in una nuova parrocchia che è nata con me e mi ha ridato carica”. Sogno ricorrente è quello di una “Chiesa che non si chiude nei suoi palazzi”. Certo, afferma un altro, “con il Concilio si sperava che le cose sarebbero andate meglio, ma credo che poi forse la Chiesa non ha avuto il coraggio di fare una scelta precisa e decisa, e viviamo in una situazione molto ambigua e confusa”.
La ricerca rivela un mondo in faticoso, ma volonteroso adattamento al mutare dei tempi. Non a caso il sociologo cattolico Luca Diotallevi parla di lifelong learning, un processo di formazione che duri tutta la vita. Traspare dalle risposte il disagio nei confronti di una gerarchia che, sbotta un prete, “tende a soffocare” la discussione dei problemi. Dice un prete, rivolgendosi nell’immaginazione ai vescovi: “Lasciate esplodere prima che diventi insostenibile la situazione. Lasciate emergere, affiorare quelli che sono i veri problemi che travagliano le parrocchie, i sacerdoti, i laici, tutti”. Perché - così emerge dai colloqui - la Chiesa parla molto di rispetto della persona umana dai pulpiti, ma fino a che punto è un ideale realizzato al proprio interno? “I preti vogliono essere ascoltati”, riassume l’autore dell’indagine.
Una gerarchia che decide tutto per conto proprio, nelle alte sfere, non è quello che si aspettano i sacerdoti nella trincea della missione quotidiana. “Chi guida - dichiara un parroco - dovrebbe essere molto più attento ad ascoltare”. Fosse così, viene da pensare, l’atteggiamento della Chiesa sarebbe stato diverso negli ultimi anni su tante questioni: dalle coppie di fatto alla fecondazione artificiale, al testamento biologico.
Appello del Papa in difesa di pace e ambiente
"Egoismo crea danni al creato e all’economia" *
CITTA’ DEL VATICANO - L’egoismo alla base della recente crisi economica è la stessa causa del degrado ambientale, secondo il Papa, che fa appello ad un accordo internazionale dopo la conferenza di Copenaghen. Facendo l’esempio dei regimi comunisti, in particolare, il Papa ha affermato: "La negazione di Dio sfigura la libertà della persona umana, ma devasta anche la creazione". In occasione del tradizionale discorso di inizio anno al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Benedetto XVI ha affrontato molti temi, legando il suo lungo discorso alle tematiche ambientali.
Crisi economica. Benedetto XVI ha citato la "drammatica crisi che ha colpito l`economia mondiale e ha provocato una grave e diffusa instabilità sociale". "Con l’enciclica caritas in veritate - ha proseguito - ho invitato ad individuare le radici profonde di tale situazione: in ultima analisi, esse risiedono nella mentalità corrente egoistica e materialistica, dimentica dei limiti propri a ciascuna creatura. Oggi mi preme sottolineare che questa stessa mentalità minaccia anche il creato".
Comunismo e danni ambientali. Il Papa, in particolare, ha citato il comunismo: "Vent’anni fa, quando cadde il muro di Berlino e quando crollarono i regimi materialisti ed atei che avevano dominato lungo diversi decenni una parte di questo continente, non si è potuto avere la misura delle profonde ferite che un sistema economico privo di riferimenti fondati sulla verità dell’uomo aveva inferto, non solo alla dignità e alla libertà delle persone e dei popoli, ma anche alla natura, con l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria? La negazione di Dio sfigura la libertà della persona umana, ma devasta anche la creazione. Ne consegue che la salvaguardia del creato non risponde in primo luogo ad un’esigenza estetica, ma anzitutto a un’esigenza morale, perché la natura esprime un disegno di amore e di verità che ci precede e che viene da Dio".
Accordo sull’ambiente. In questo senso, il Papa, dopo aver citato la conferenza di Copenaghen, ha aggiunto: "Auspico che, nell’anno corrente, prima a Bonn e poi a Città del Messico, sia possibile giungere ad un accordo per affrontare tale questione in modo efficace. La posta in gioco è tanto più importante perché ne va del destino stesso di alcune nazioni, in particolare, alcuni stati insulari".
"Corretta gestione delle risorse naturali". ’’Per coltivare la pace, bisogna custodire il creato", ha detto con forza papa Benedetto XVI. Il Papa ha ricordato ’’che la lotta per l’accesso alle risorse naturali è una delle cause di vari conflitti, tra gli altri in Africa, così come la sorgente di un rischio permanente in altre situazioni’’. ’’Vorrei sottolineare ancora che la salvaguardia della creazione implica - ha poi aggiunto il Pontefice - una corretta gestione delle risorse naturali dei Paesi, in primo luogo, di quelli economicamente svantaggiati’’. Il Papa ha voluto rivolgere un pensiero particolare al Continente africano ricordando come ’’l’erosione e la desertificazione di larghe zone di terra coltivabile’’ avviene anche ’’a causa dello sfruttamento sconsiderato e dell’inquinamento dell’ambiente’’. ’’In Africa, come altrove - ha quindi aggiunto - è necessario adottare scelte politiche ed economiche che assicurino forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti’’.
Difesa della natura e della vita umana. La Chiesa Cattolica benedice quanto viene detto e fatto a difesa della natura. "Occorre tuttavia - ha precisato il Papa - che tale attenzione e tale impegno per l’ambiente siano bene inquadrati nell’insieme delle grandi sfide che si pongono all’umanità". "Se si vuole edificare una vera pace", infatti non è possibile "separare, o addirittura contrapporre la salvaguardia dell’ambiente a quella della vita umana, compresa la vita prima della nascita". "E’ nel rispetto che la persona umana nutre per se stessa - ha spiegato agli ambasciatori - che si manifesta il suo senso di responsabilità verso il creato: l’uomo rappresenta quanto c’è di più nobile nell’universo".
Appello ai terroristi. Il terrorismo rappresenta una minaccia che "mette in pericolo un così gran numero di vite innocenti e provoca un diffuso senso di angoscia", ha sottolineato papa Benedetto XVI rinnovando il suo appello a "quanti fanno parte di gruppi armati di qualsiasi tipo affinché abbandonino la strada della violenza e aprano il loro cuore alla gioia della pace".
Stop alla produzione delle armi. Nel corso del suo lungo discorso, il Papa ha indicato ’’fra le tante sfide’’ lanciate dalla necessità di salvaguardare il pianeta, in un contesto di pace e giustizia, anche quella ’’dell’aumento delle spese militari, nonché quella del mantenimento o dello sviluppo degli arsenali nucleari. Ciò assorbe ingenti risorse, che potrebbero, invece, essere destinate allo sviluppo dei popoli, soprattutto di quelli più poveri’’, ha notato papa Ratzinger. ’’Confido, fermamente - ha quindi aggiunto - che nella conferenza di esame del trattato di non-proliferazione nucleare, in programma per il maggio prossimo a New York, vengano prese decisioni efficaci in vista di un progressivo disarmo, che porti a liberare il pianeta dalle armi nucleari’’.
’’Più in generale, deploro che la produzione e l’esportazione di armi contribuiscano a perpetuare conflitti e violenze, come quelli nel Darfur, in Somalia e nella Repubblica Democratica del Congo - ha poi detto - All’incapacità delle parti direttamente coinvolte di sottrarsi alla spirale di violenza e di dolore generata da questi conflitti, si aggiunge l’apparente impotenza degli altri Paesi e delle Organizzazioni internazionali a riportare la pace, senza contare l’indifferenza quasi rassegnata dell’opinione pubblica mondiale. Non occorre poi sottolineare come tali conflitti danneggino e degradino l’ambiente’’.
Medio Oriente. Benedetto XVI è tornato anche sul tema del Medio Oriente. "Ancora una volta - ha detto - levo la mia voce, affinché sia universalmente riconosciuto il diritto dello Stato di Israele ad esistere e a godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. E che, ugualmente, sia riconosciuto il diritto del Popolo palestinese ad una patria sovrana e indipendente, a vivere con dignità e a potersi spostare liberamente".
"Mi preme inoltre - ha aggiunto - sollecitare il sostegno di tutti perché siano protetti l’identità e il carattere sacro di Gerusalemme, la sua eredità culturale e religiosa, il cui valore è universale". "Solo così - ha affermato il Papa - questa città unica, santa e tormentata, potrà essere segno e anticipazione della pace che Dio desidera per l’intera famiglia umana".
Europa e cristianesimo. In "alcuni Paesi, soprattutto occidentali, si diffonde negli ambienti politici e culturali, come pure nei mezzi di comunicazione, un sentimento di scarsa considerazione, e talvolta di ostilità, per non dire di disprezzo, verso la religione, in particolare quella cristiana", ha denunciato papa Benedetto XVI. "Urge", ha aggiunto il Papa riferendosi in particolare all’Unione europea, "definire una laicità positiva e aperta" che "riconosca il ruolo pubblico" della comunità dei credenti.
Droga. Il Papa ha chiesto alla comunità internazionale "che non si rassegni al traffico di droga e ai gravi problemi morali e sociali che essa genera". Ha sollecitato perciò, durante l’udienza concessa al Corpo diplomatico presso la Santa Sede" a "custodire il creato con la riconversione di tali attività, e ad adottare "scelte politiche ed economiche che assicurino "forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti".
Immigrati. Nuovo appello alle autorità pubbliche perché seguano la via della ’’giustizia, della solidarieta’ e della lungimiranza’’ nel trattare i migranti. ’’Le gravi violenze, unite ai flagelli della poverta’ e della fame, come pure alle catastrofi naturali ed al degrado ambientale, contribuiscono ad ingrossare le fila di quanti abbandonano la propria terra’’, ha ricordato il Papa. ’’Di fronte a tale esodo - ha quindi detto - invito le Autorità civili, che vi sono coinvolte a diverso titolo, ad agire con giustizia, solidarietà e lungimiranza’’.
Nozze gay. Benedetto XVI ha criticato le leggi sulle unioni omosessuali e sul matrimonio gay che sono state approvate in alcuni Paesi europei e americani. Il riferimento era al Portogallo, al distretto Federale di Città del Messico dove sono le nozze omosessuali sono diventate legge, e all’Argentina dove una legge in materia è in discussione mentre nello Stato della Tierra del fuego, sempre in Argentina, nei giorni scorsi è stato celebrato il primo matrimonio gay dell’America Latina con il permesso del governatore. "Le creature sono differenti le une dalle altre - ha detto il Papa - e possono essere protette, o, al contrario, messe in pericolo, in modi diversi, come ci mostra l’esperienza quotidiana. Uno di tali attacchi proviene da leggi o progetti, che, in nome della lotta contro la discriminazione, colpiscono il fondamento biologico della differenza fra i sessi".
"Mi riferisco, per esempio - ha aggiunto il Pontefice - ad alcuni Paesi europei o del Continente americano". "La libertà - ha spiegato - non può essere assoluta, perchè l’Uomo non è Dio, ma immagine di Dio, sua creatura. Per l’uomo, il cammino da seguire non può quindi essere l’arbitrio, o il desiderio, ma deve consistere, piuttosto, nel corrispondere alla struttura voluta dal Creatore".
Iran. Il Papa nel suo discorso ha fatto anche riferimento alla difficile situazione in Iran. Ratzinger ha auspicato per l’Iran che ’’attraverso il dialogo e la collaborazione, si raggiungano soluzioni condivise, sia a livello nazionale che sul piano internazionale’’. ’’Per amore del dialogo e della pace, che salvaguardano la creazione - ha poi aggiunto - esorto i governanti e i cittadini dell’Iraq ad oltrepassare le divisione, la tentazione della violenza e l’intolleranza, per costruire insieme l’avvenire del loro Paese’’.
* la Repubblica, 11 gennaio 2010