[...] Nell’annunciare il premio, Jagland ha precisato che forse ad alcuni l’assegnazione al neopresidente americano può essere considerata prematura, ma per statuto il premio va assegnato a chi ha fatto il massimo per la pace nell’anno precedente.
Il premio verrà consegnato ufficialmente il 10 dicembre a Oslo, nell’anniversario della morte del fondatore, l’industriale e filantropo svedese Alfred Nobel. Il riconoscimento consiste in una medaglia, un diploma ed un assegno da 10 milioni di kronor (circa un milione di euro) [...]
Obama Nobel per la Pace 2009
Al presidente Usa il prestigioso riconoscimento *
ROMA - Barack Obama ha vinto il Nobel per la pace 2009. Il presidente Usa è stato insignito del premio "per i suoi sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli", si legge nella motivazione.
"Il Comitato ha dato grande importanza all’impostazione di Barack Obama ed ai suoi sforzi per un mondo senza armi nucleari", ha detto il presidente del Comitato per il Nobel, Thorbjoern Jagland. Nell’annunciare il premio, Jagland ha precisato che forse ad alcuni l’assegnazione al neopresidente americano può essere considerata prematura, ma per statuto il premio va assegnato a chi ha fatto il massimo per la pace nell’anno precedente.
Il premio verrà consegnato ufficialmente il 10 dicembre a Oslo, nell’anniversario della morte del fondatore, l’industriale e filantropo svedese Alfred Nobel. Il riconoscimento consiste in una medaglia, un diploma ed un assegno da 10 milioni di kronor (circa un milione di euro).
IL PROFILO - Barack Obama è presidente degli Stati Uniti dal novembre del 2008, dopo una clamorosa vittoria contro lo sfidante repubblicano, John McCain. Obama è divenuto così il primo presidente afroamericano nella storia degli States. La speranza e l’idealismo unificatore sono i grandi temi che hanno richiamato grandi folle ad ogni sua apparizione pubblica, evocando paragoni con Martin Luther King e John F. Kennedy. L’atmosfera intensa dei comizi di Obama, che spinge qualcuno ad ascoltare a mani giunte le sue parole, non è dovuta solo alla sua indubbia abilità oratoria, ma anche al contenuto del suo messaggio.
La promessa di "cambiare" le cose a Washington é per Obama solo il primo passo verso il progetto ben più audace ed ambizioso di "cambiare l’America e poi il resto del mondo". A porlo sulla mappa politica degli Stati Uniti e nel cuore della gente fu uno straordinario discorso alla Convention Democratica del 2004, intitolato ’L’Audacia della Speranzà, dove l’idealismo di stampo kennedyano era esaltato da una oratoria alla King. Nato il 4 agosto 1961 a Honolulu (Hawaii) da un padre di colore (giunto negli Usa dal Kenya con una borsa di studio) e da una madre bianca (nata in Kansas e poi trasferita nelle Hawaii con i genitori) Barack Hussein Obama ha avuto una infanzia instabile: a due anni ha perso la figura del padre (andato via da casa per studiare ad Harvard), a sei anni è finito in Indonesia (col nuovo marito della madre), a dieci anni è tornato da solo nelle Hawaii per vivere con i nonni materni. E’ molto bravo a scuola: entra alla Columbia University a New York, lavora come assistente sociale a Chicago, viene accettato alla prestigiosa Harvard Law School. Rifiuta le offerte d’impiego delle corporation di New York per tornare a Chicago per inseguire una missione sociale e anche l’amore: qui vive infatti Michelle Robinson, la ragazza che dopo un paio di anni diventerà sua moglie e la madre delle loro due bambine, Malia e Natasha.
A Chicago svolge opera di assistenza legale per i poveri ed insegna legge. Ma i suoi obiettivi sono più ambiziosi. Nel 1996 viene eletto al Senato dell’Illinois. Nel 2000 si candida al Congresso Usa come deputato ma viene battuto. Nel 2004 ci riprova, stavolta per il Senato Usa, e vince alla grande diventando il quinto senatore nero nella storia del Congresso americano. Nel 2007 alza il tiro candidandosi alla Casa Bianca: l’annuncio ufficiale arriva il 10 febbraio dalla stessa piazza davanti al Campidoglio di Springfield (Illinois) dove Abramo Lincoln quasi 150 anni prima aveva pronunciato uno storico discorso sulla necessità di restare uniti. Un simbolismo perfetto. Il 4 novembre del 2008 la trionfale vittoria che lo porta alla Casa Bianca, da dove, in pochi mesi, rilancia il dialogo con il mondo musulmano, affronta il delicato tema dei rapporti con l’Iran, avvia una intensa campagna contro la proliferazione nucleare, solo per citare i principali temi della sua azione in ambito internazionale.
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Ansa, 09 ottobre, 11:38
LA LEZIONE DI BARACK OBAMA: L’IMPORTANZA DELLA PAROLA. "Dove porta l’odio dell’altro".
Nobel per la pace a Barack Obama
OSLO - Il premio Nobel per la pace 2009 è stato conferito al presidente degli Stati Uniti Barack Obama "per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli". Il presidente del comitato norvegese, Thorbjoern Jagland, ha citato anche "la visione e gli sforzi di Obama per un mondo senza armi nucleari"
Il premio, che sarà consegnato a Oslo il 10 dicembre, consiste in una medaglia, un diploma e un assegno da dieci milioni di corone (circa un milione di euro).
In battaglia lottando per il bene
di BARACK OBAMA (La Stampa, 11/12/2009)
Ho ricevuto questo onore con grande gratitudine e grande umiltà. È un riconoscimento che parla alla nostra più alta ispirazione: quella per la quale, nonostante tutta la crudeltà e durezza del mondo, sappiamo che non siamo semplici prigionieri del fato.
Le nostre azioni contano, e possono indirizzare la storia nella direzione della giustizia.
E tuttavia sarei reticente se non riconoscessi la considerevole controversia che la vostra generosa decisione ha generato. In parte, è dovuta al fatto che io sono all’inizio, e non alla fine, del mio impegno sullo scenario mondiale. Paragonato ad alcuni giganti della storia che hanno ricevuto questo premio - Schweitzer e King, Marshall e Mandela - i miei risultati sono minimi. E poi ci sono uomini e donne nel mondo che sono stati incarcerati e percossi perché cercavano giustizia, ci sono quelli che lavorano duramente nelle organizzazioni umanitarie per portare sollievo ai sofferenti, i milioni che, senza riconoscimenti, con la loro calma e il loro coraggio sono fonte di ispirazione anche per i più cinici. Non posso contraddire chi trova che questi uomini e donne - alcuni conosciuti, altri ignoti a tutti tranne a quelli che aiutano - si meritano di gran lunga più di me questo onore.
Ma forse l’argomento più profondo che accompagna la consegna di questo premio riguarda il fatto che io sono il Comandante in capo di una nazione in mezzo a due guerre. Una di queste sta finendo. L’altra è un conflitto che l’America non ha cercato, un conflitto nel quale siamo stati affiancati dalle altre 43 nazioni - Norvegia compresa - nello sforzo di difendere noi stessi e tutte le nazioni da altri attacchi. Siamo ancora in guerra, e io sono responsabile del dispiegamento di migliaia di giovani in una terra lontana, a combattere.
Nel corso della storia umana, filosofi, religiosi e uomini di Stato hanno cercato di regolare il potere distruttivo della guerra. È emerso il concetto di «guerra giusta», che suggeriva che una guerra è giustificata soltanto quando rispetta alcune precondizioni: se è l’ultima risorsa rimasta o è autodifesa, se l’uso della forza è proporzionato e se, per quanto possibile, i civili sono risparmiati. Per la maggior parte della Storia il concetto di guerra giusta è stato raramente osservato. La capacità degli esseri umani nell’escogitare nuovi modi per uccidersi l’un l’altro si è dimostrata inesauribile. Le guerre tra eserciti cedettero il passo alle guerre tra nazioni, guerre totali in cui la distinzione tra combattenti e civili divenne confusa. Nello spazio di trent’anni, questa carneficina sommerse due volte questo continente.
[...] Dobbiamo riconoscere la dura verità: non potremo sradicare durante la nostra vita i conflitti violenti. Ci saranno momenti in cui le nazioni - individualmente o in concerto con altre - troveranno che l’uso della forza non è solo necessario ma moralmente giustificato. Faccio questa affermazione con in mente quello che Martin Luther King disse in questa stessa cerimonia anni fa: «La violenza non porta mai a una pace permanente. Non risolve i problemi sociali, ne crea solamente di nuovi e più complicati». Come persona che sta qui come diretta conseguenza dell’azione di King durante la sua vita, sono un testimone vivente della forza morale della non violenza. So che non c’è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di naïf, nel credo e nelle vite di Gandhi e King.
[...] Per cominciare, credo che tutte le nazioni - forti e deboli - debbano aderire agli standard che regolano l’uso della forza. Io - come ogni capo di Stato - ho il diritto di agire unilateralmente se è necessario a difendere il mio Paese. Tuttavia sono convinto che aderire agli standard rafforza chi lo fa e isola, e indebolisce, chi non lo fa. Il mondo si è stretto al fianco dell’America dopo l’11 settembre, e continua a sostenere i nostri sforzi in Afghanistan, a causa dell’orrore di questi attacchi insensati e riconosce il principio dell’autodifesa. Allo stesso modo, il mondo riconobbe la necessità di contrastare Saddam Hussein quando invase il Kuwait: un consenso che mandò un chiaro messaggio riguardo ai costi di un’aggressione. Al contrario, l’America non può insistere che altri rispettino le regole che essa stessa rifiuta di seguire. Perché quando non le seguiamo, la nostra azione può apparire arbitraria, e indebolire la legittimità di futuri interventi, non importa quanto giustificati.
[...] Da qualche parte, oggi, un giovane dimostrante attende la brutalità del suo governo, ma ha il coraggio di manifestare. Da qualche parte, oggi, una madre, affrontando il fardello della povertà, trova lo stesso il tempo di istruire i suoi bambini, c’è qualcuno che crede che nel mondo crudele ci sia lo stesso posto per i suoi sogni.
Viviamo seguendo il loro esempio. Possiamo riconoscere che l’oppressione sarà sempre con noi, e ugualmente lottare per la giustizia. Possiamo capire che siamo in guerra, e ugualmente lottare per la pace. Possiamo farlo perché è la storia del progresso umano, perché è la speranza di tutto il mondo. E in questo momento di sfide deve essere il nostro lavoro qui sulla Terra.
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 11/12/2009)
Barack Obama non ha nascosto il padre spirituale di cui si sente figlio e erede, ieri a Oslo ricevendo il premio Nobel della pace: se non ci fosse stato prima di lui Martin Luther King, a battersi per i diritti dei neri e a ricevere nel 1964 lo stesso premio, lui non sarebbe alla testa degli Usa.
Se sono qui è in conseguenza diretta del lavoro che King svolse un’intera vita. Sono la viva testimonianza della forza morale della non violenza». Il Presidente ha parlato anche della purezza dell’indignazione che le guerre, sempre, suscitano nell’animo umano: «Non c’è nulla di debole, nulla di passivo, nulla d’ingenuo, nel credo e nell’esistenza di uomini come Gandhi e King».
Ma pace e guerra sono immerse nella storia, e di quest’ultima lo statista deve tener conto. Deve esser cosciente che la storia non è lineare e progressista, non conferma la perfezione umana, non produce pace universale con mezzi sempre pacifici, non è gravida di guerre che mettono fine a tutte le guerre. Non è neppure una storia di rivoluzioni che cambiano la stoffa di cui è fatto l’essere umano, rendendolo infine buono, mite, ed estromettendo con un gesto volitivo il male dalla terra. Sogni simili furono alla base delle guerre sante quelle cristiane di ieri, quelle di chi pretende oggi di combattere in nome dell’Islam e sempre precipitarono in disastri, tanto più devastanti quanto più predicavano l’amore: «Le crociate ci ricordano che nessuna Guerra santa può mai essere guerra giusta».
Dopo anni di visioni apocalittiche del mondo l’umanità va piegata sotto il giogo di un’unica verità straboccante, va condotta anche contro voglia verso nuove rive dell’essere l’America di Obama ripensa il passato, riscopre il concetto di guerra giusta che il cristianesimo teorizzò nel IV secolo, fa propria infine la visione, kantiana, di un mondo non perfetto ma fallibile e perfettibile, che ha diritto a non esser piegato ma illuminato.
È di Kant l’idea che nessuno sulla terra ha in mano la perfezione: «Da un legno storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire niente di perfettamente dritto». Obama sembra pensare al legno storto di cui sono fatti uomini e nazioni, quando invita a non illudersi («Il male esiste nel mondo»), e giunge alla conclusione che neppure chi dirige gli uomini, quale che sia il regime in cui si trova, possiede le chiavi appropriate del presente e futuro. Perché il perfezionamento funzioni occorre che le istituzioni prendano il posto degli uomini e dei politici, perché solo le istituzioni hanno continuità nel tempo, edificano nel lungo periodo, non dipendono né dai sondaggi né dal voto. Creare istituzioni internazionali che tengano a freno le guerre, che le prevengano, che ne disciplinino le regole evitando straripamenti destinati a mietere più vittime tra i civili che tra i guerrieri, fu la grande lezione appresa nelle due ultime guerre mondiali.
Anche le guerre giuste infatti degenerano, non rappresentano la soluzione del dramma. La guerra fra nazioni, condotta nella persuasione che la forza fondi il diritto, fu teorizzata da Thomas Hobbes nel XVII secolo ma era già invisa a Tucidide nella Guerra del Peloponneso. Anche qui è Kant che prende il sopravvento, con la sua Repubblica cosmopolita resa forte dal diritto, contro la seduzione che Hobbes ha esercitato sulle menti americane per decenni.
Obama è immerso ancor oggi in due guerre una che ha deciso di finire in Iraq, l’altra che intende inasprire in Afghanistan ma finendola nel 2011 e può apparire singolare che riceva fin d’ora il premio della pace. Tuttavia i cambiamenti ci sono, visibili. La sua non sembra essere la guerra della superpotenza che non tollera concorrenti e agisce senza curarsi del parere altrui, come nelle metafore marziane dei neo-conservatori statunitensi. Non è neppure la «guerra infinita» contro il terrorismo annunciata da Bush figlio, e del tutto svanita è l’idea che solo in tal modo con una sorta di palingenetica Guerra Santa il male sarà estirpato (un libro pubblicato nel 2004 da Richard Perle e David Frum aveva precisamente questo titolo: La fine del male, in italiano Estirpare il male. Come vincere la guerra contro il terrore). Evocando indirettamente quel che dissero Agostino e Tommaso d’Aquino sulla guerra giusta, Obama fissa le regole: l’offensiva deve essere l’ultima risorsa, deve esser proporzionata all’aggressione, non deve far vittime civili esorbitanti. E promette fedeltà alle istituzioni, alle convenzioni internazionali, alle norme etiche che Bush jr aveva ignorato nel corso delle sue guerre.
Tuttavia Obama non si accontenta di questi limiti, che sono stati fissati alle condotte belliche. Forse è l’umiltà che lo anima, forse il cammino ancora aleatorio che sta percorrendo: fatto sta che non è una certezza univoca che lo guida, ma la consapevolezza del dilemma tra pace e guerra.
Obama non sceglie la guerra giusta contro il sogno che mette fine alle guerre e le rifiuta. Vive dentro la contraddizione, considera egualmente valide ambedue le verità, accetta l’esistenza di un conflitto fra verità che non è sanabile. È vero, le guerre a volte sono non solo necessarie ma moralmente giustificate: non si poteva abbattere Hitler o il Giappone imperiale senza le armi. Non si può abbattere Al Qaeda senza le armi, probabilmente. Ma non meno vero è quello che dicevano King e Gandhi. «La guerra in sé non è mai gloriosa conclude Obama e mai dobbiamo strombazzarla come tale. (...) Per quanto giustificata, la guerra è garanzia sicura di umana tragedia».
La via di uscita dal dilemma è il paradosso: bisogna sapersi riconciliare col nemico, lasciargli fino all’ultimo una porta aperta, anche se può venire il momento in cui occorre la resa dei conti militare. Non bisogna respingere guerre che si ritengono giuste, anche se esse spargono comunque sofferenza. Pensare per paradossi la guerra e la pace comporta, secondo il Presidente, una «continua espansione della nostra immaginazione morale».
Non mancano le trappole, per chi vive sì vasti dilemmi nelle vesti di Presidente e comandante in capo della potenza americana. Se si affronta l’Iran e la sua aspirazione all’atomica, non si può continuare nell’attuale finzione, e nascondere a se stessi come fa Obama che all’origine di tanti terremoti medio orientali c’è un non detto, che nessuno osa scoperchiare: l’esistenza in quella parte del mondo di una potenza atomica lo Stato d’Israele che non si dichiara tale e però incita un’intera regione al risentimento costante e al riarmo. L’altra trappola è racchiusa nella stessa umanizzazione delle guerre. La storia degli ultimi decenni ha visto molti conflitti seminare devastazioni del tutto sproporzionate fra i civili, proprio perché a puntellarli c’era una vasta rete di soccorso umanitario. Una guerra che avviene in simultanea con l’attivarsi degli organismi umanitari è la tesi del filosofo Slavoj Zizek, o dell’architetto israeliano Eyal Weizman rischia di separare ogni distinzione fra guerriero e soccorritore-infermiere: prolungando indefinitamente le attività belliche, rendendole più efficienti.
Sono trappole che possono divenire perverse, e rendere ingiusto quel che inizialmente era o appariva giusto. Se non sono riconosciute come insidie reali rischiano di dar ragione alle parole, citate ieri da Obama, di Luther King: «La violenza non genera una pace permanente. Non risolve nessun problema sociale: ne crea solo di nuovi e più complicati».
Il fardello dell’uomo diverso
di Barbara Spinelli (La Stampa, 11/10/2009)
Adesso Barack Obama andrà in giro per il mondo con quel peso: che lo premia in anticipo, lo lega, lo segna. Il comitato di Oslo non premia un’azione, una carriera compiuta. Premia forze impalpabili eppure decisive come la parola, la speranza suscitata, l’attesa che somiglia a un’enorme sete, il valore attribuito da un leader all’imperio della legge e della Costituzione, più forte di ogni convenienza. Ricompensa uno stile, un essere nel mondo che non è in sintonia con il predominio americano e la sua dismisura, la sua hybris nazionale. Siamo abituati a pensare che la speranza sia poco più di uno scintillio ineffabile, essendo fatta di cose non avvenute, malferme.
Siamo abituati a pensare che la parola, diversamente dall’atto, sia fame di vento. Che ripensare la politica e le sue routine sia vano. Non è così. Abbiamo solo dimenticato che la parola è tutto nei testi sacri che fondano le civiltà, compresa la nostra. Per il Siracide, nella Bibbia, «meglio scivolare sul pavimento che con la lingua», e «un uomo senza grazia è pari a un discorso inopportuno».
Da ora Obama porta questo fardello. Deve ancor più dar senso alla parola, e in primo luogo tenerla. Lui stesso è parso colto da tremore, all’annuncio. Era serio davanti al microfono, come Buster Keaton che non ride mai. Faceva pensare a quei profeti o sentinelle turbati dall’appello, che ammutoliscono o «hanno un gran bue sulla lingua», come nella Bibbia o nell’Agamennone di Eschilo. Ha detto: «Onestamente non credo di meritarlo», intendendo che ancora non è divenuto quello che pure già è - una transformative figure. La notizia lo ha «sorpreso e reso umile», nel Nobel vede non una gratificazione ma una «chiamata all’azione». I premi mettono sempre spavento. Se non lo mettono, più che chiamare lusingano.
La parola che già oggi fa di Obama una figura trasformativa concerne questioni essenziali: la coscienza che la solitaria superpotenza americana è un’impotenza, se non cerca la cooperazione col mondo; l’ascolto dell’altro e la mano tesa giudicati indispensabili, purché a essi non si opponga il pugno che non s’apre. E ancora: inutile provare a fermare gli Stati aspiranti all’atomica, quando il nucleare è l’unico passaporto di potenza e quando i Grandi non cominciano da se stessi, riducendo i loro esorbitanti arsenali. Anche questo cambiamento ha risonanze bibliche. Dice ancora il Siracide: «Quando un empio maledice un avversario, maledice la propria psiche». Inferni e assi del male non sono fuori: vedere anche in se stessi il male che suscita caos è inizio di conversione e guarigione.
Obama non fa discorsi facili, è un comunicatore ma non un semplificatore: il suo discorso sulla razza, a Philadelphia il 18 marzo 2008, il discorso al Cairo del 4 giugno 2009 e quello del 17 maggio 2009 all’università cattolica di Notre Dame in Indiana, il discorso infine su clima, disarmo nucleare e multilateralismo, all’Onu il 23 settembre, non sono lisci, non hanno due colori, uno puro e uno impuro. Neppure la chiusura di Guantanamo è facile e ancor meno la rinuncia agli antimissili in Est Europa, che mette fine alla strategia del divide et impera nel Vecchio Continente e sicuramente urta il complesso militare-industriale Usa. Sono discorsi che educano alla complessità, e a vedere le cose da più punti di vista, non uno solo.
I cambiamenti decisivi esordiscono così: dalla parola e dallo sguardo su di sé. Non eravamo avvezzi a questo con i presidenti Bush, con Reagan e Clinton. Paziente, ostinato, Obama tenta di far capire che la potenza Usa non ha il destino manifesto che la mette sopra le altre e ne fa un’eccezione, «città sulla collina» come nel messianesimo politico teorizzato nell’800. Il punto da cui parte è il precipizio: il declino della supremazia Usa dopo la fine dell’Urss, in politica ed economia; il dominio non solo contestato ma inefficace. Come gli europei presero atto che la hybris nazionalista aveva prodotto mostri, e dopo il ’45 escogitarono l’Unione per recuperare in Europa le perdute sovranità nazionali, Obama scopre che sovrano è chi può far seguire l’azione alla parola, non opera da solo, calcola le conseguenze di quel che fa. A cominciare dalla guerre: quella finita in Iraq, e quella che stenta a finire in Afghanistan. Anche qui il Nobel è fardello. Difficile l’escalation chiesta dai militari, con un sacco sì ingombrante da trascinare.
Ma c’è anche qualcosa di conturbante nel Nobel, di ominoso. Il premio è come dato in grande fretta, come se non vi fosse molto tempo e occorresse lanciare un segnale subito. A circondare Obama infatti non ci sono solo attese, speranze. C’è, sempre più acuta, un’immensa fragilità, se non un pericolo che incombe. Thomas Friedman ha scritto un articolo impaurente, il 29 settembre sul New York Times. Racconta di un clima in America che non tollera l’intruso, che trama tribali ordalie: che ricorda, tenebroso, l’atmosfera in Israele prima dell’omicidio di Yitzhak Rabin. Rabin aveva preso il Nobel con Arafat e Peres, nel ’94. L’anno successivo, il 4 novembre, il colono estremista Ygal Amir l’uccise ma alle sue spalle c’era un’opposizione che lo demonizzava da tempo, Netanyahu in testa con il Likud e molti rabbini.
Lo stesso sta avvenendo in America. Nei manifesti ostili e in numerosi discorsi dell’opposizione e di giornalisti astiosi, Obama appare come un alieno comunista, ma secondo l’analista Philip Kennicott è altra la colpa che gli viene imputata: non il socialismo ma il suo essere afro-americano, meticcio, dunque antiamericano (Washington Post 6-8-09). Su Facebook è apparso un sondaggio che chiede se Obama debba o no essere ucciso. Con risposte a scelta tra «sì-no-forse» e «sì, se taglia la sanità».
Tutto questo il Presidente nero non l’ignora. Sappiamo che l’ha messo in conto fin dalla candidatura. Ciononostante insiste: nel voler trasformare il proprio paese, nel dire che da una specie di conversione urge ricominciare. Per questo la parola è tanto importante: perché disturba, scavando. Chi a Oslo ricompensa questa cocciutaggine sembra anche tremare per la sua vita. Chi dice che il premio giunge troppo presto non sa quel che dice e che accade, è cieco alla campagna di odio disseminata negli Stati Uniti.
Obama impersona l’America complicata, che diffida di sé. Non la nazione di Bush che si compiace nel parlar perentorio e approssimativo, ma l’America della grande contorta letteratura, della musica, del cinema, che ragiona sottile e resuscita le parole di John Quincy Adams, il segretario di Stato che nel 1821 dice: «L’America non si avventura nel mondo in cerca di mostri da abbattere. Essa auspica la libertà, l’indipendenza di tutti. È campionessa solo della propria libertà, indipendenza. Si batte per grandi cause con la compostezza della sua parola e la benigna simpatia del suo esempio. (...) Potrebbe divenire dittatore del mondo: non sarebbe più padrona del proprio spirito».
Obama dice spesso che la sua ascesa è frutto di americani come Reinhold Niebuhr, un autore che stima per aver raccomandato al paese non il messianesimo politico ma l’umile consapevolezza dei propri limiti. Solo una cultura di questo genere poteva permeare le svolte del Presidente. Solo in un’America simile, la discendente di un’adolescente schiava nera stuprata da un padrone bianco poteva divenire first lady degli Stati Uniti.
I gesti e la parole possono molto. Creano storie e cammini nuovi. Willy Brandt che il 7 dicembre 1970 cade d’un tratto in ginocchio di fronte al memoriale del ghetto distrutto di Varsavia non aveva ancora riconosciuto la linea Oder-Neisse tra Germania e Polonia. Quel gesto cambiò tutto, prima che lo scabro itinerario cominciasse. Così Obama a Philadelphia, al Cairo, a Notre Dame, all’Onu.
Obama, svegliato da mia figlia
"Papà, hai vinto"
di BARACK OBAMA (La Stampa, 10/10/2009)
Non è stato il risveglio che mi aspettavo. Appena avuta la notizia, Malia è entrata in camera e mi ha detto: «Papà, hai vinto il premio Nobel ed è anche il compleanno di Bo!». E Sasha ha aggiunto: «E poi ci sono tre giorni di weekend in arrivo». I bambini sono fantastici per mettere le cose nella giusta prospettiva.
Sono sia sorpreso che onorato dalla decisione del Comitato del Nobel. Siamo chiari: non lo considero un riconoscimento per i miei meriti personali, ma piuttosto una conferma della leadership americana e delle aspirazioni di tutti i popoli. Per essere onesti, non credo di meritare di stare in compagnia di tante figure che hanno vinto il premio in passato - uomini e donne che mi hanno ispirato, e hanno ispirato il mondo intero, attraverso la loro coraggiosa ricerca di pace. Ma so anche che questo premio riflette il tipo di mondo che questi uomini e donne - e tutti gli americani - vogliono costruire, un mondo che dia vita alle promesse della nostra Costituzione. E so che nella storia il Premio Nobel non è stato solo usato per rendere onore a una specifica conquista, ma è stato anche un mezzo per incoraggiare sfide importanti. Ecco perché accetto il premio come chiamata ad agire - una chiamata per tutte le nazioni a condividere le sfide del ventunesimo secolo.
Queste sfide non possono essere sulle spalle di un solo leader o di una sola nazione. Ecco perché il mio governo ha lavorato per creare una nuova era di impegno, in cui tutte le nazioni devono prendersi la loro responsabilità nei confronti del futuro. Non possiamo tollerare un mondo in cui si diffondono armi nucleari e dove il rischio di un olocausto atomico mette a repentaglio la vita delle persone. Ecco perché abbiamo fatto passi concreti verso un mondo senza armi nucleari in cui tutte le nazioni hanno il diritto di usare pacificamente l’energia nucleare, ma hanno anche la responsabilità di dimostrare le loro intenzioni.
Non possiamo accettare la minaccia crescente dei cambiamenti di clima che può danneggiare per sempre il mondo che lasceremo ai nostri figli - creando guerre e carestie, distruggendo le coste e svuotando le città. Ecco perché le nazioni devono accettare la loro parte di responsabilità per cambiare il modo in cui usiamo l’energia.
Non possiamo accettare che le differenze tra popoli definiscano il modo in cui ci vediamo l’un l’altro: dobbiamo cercare un nuovo inizio tra gente di fedi, razze e religioni diverse. Un inizio basato sull’interesse comune e il rispetto comune. Dobbiamo fare la nostra parte per risolvere i conflitti che hanno causato tanto dolore per così tanti anni, e questo sforzo deve includere un impegno che finalmente riconosca a israeliani e palestinesi il diritto di vivere in pace e sicurezza nelle proprie nazioni.
Non possiamo accettare un mondo in cui alla maggior parte della gente siano negate: la possibilità di avere un’istruzione e fare una vita decente; la sicurezza di non dover vivere nella paura della malattia o della violenza, senza speranze per il futuro.
E anche se tentiamo di costruire un mondo in cui i conflitti si risolvano pacificamente e la prosperità sia condivisa, dobbiamo confrontarci con il mondo che conosciamo oggi. Sono il comandante in capo di una nazione responsabile di aver concluso una guerra e che si è confrontata con un avversario spietato che minaccia il popolo americano e i nostri alleati. Sono anche cosciente che stiamo affrontando una crisi economica globale, che ha lasciato milioni di americani senza lavoro. Sono questioni che affronto quotidianamente, ma una parte di questo lavoro non potrà essere conclusa prima della fine della mia presidenza. Una parte, come l’eliminazione delle armi nucleari, non potrà essere finita prima della fine della mia vita. Ma so che queste sfide si possono vincere, se si riconosce che non può farlo una nazione da sola, un popolo da solo. Questo premio non è solo per gli sforzi del mio governo, ma per gli sforzi coraggiosi della gente di tutto il mondo.
Ecco perché questo premio va condiviso con chi combatte per la giustizia e la dignità: con la giovane donna che cammina nelle strade per difendere il suo diritto a essere ascoltata, anche di fronte alla violenza e ai proiettili; con la leader imprigionata in casa sua, perché si rifiuta di abbandonare la lotta per la democrazia; con il soldato che è morto per gli altri e per tutti gli uomini e le donne nel mondo che sacrificano sicurezza e libertà, e a volte le loro vite, per la pace.
Questa è sempre stata la missione dell’America. Ecco perché il mondo ha sempre guardato all’America. Ed ecco perché credo che l’America continuerà a essere una guida.
Le reazioni
Molti i commenti all’insegna della speranza anche dal Medio Oriente
Il plauso di Gorbaciov: "In questi tempi così difficili servono persone come lui"
L’Iran: "Non siamo delusi
ma ora metta fine alle ingiustizie"
I Talebani contestano: "Non ha fatto nulla per la pace in Afghanistan" *
Ora che ha vinto il Nobel per la pace, Barack Obama deve subito cominciare a lavorare per "porre fine alle ingiustizie nel mondo". E’ il primo commento iraniano alla notizia del Nobel al presidente americano. La dichiarazione è di Ali Akabr Javanfekr, consigliere del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. "Speriamo che questo gli dia l’incentivo a percorrere il cammino che porti giustizia all’ordine mondiale - ha detto Ali Akabr Javanfekr - non siamo delusi e speriamo che ricevendo questo premio egli cominci ad adottare iniziative pratiche per eliminare le ingiustizie dal mondo".
Anche i talebani hanno rilasciato un commento, contestando fortemente la scelta del Nobel a Obama. Secondo il portavoce degli insorti, il presidente Usa "non ha fatto neanche un passo in direzione della pace in Afghanistan". Il presidente afgano Hamid Karzai ha invece definito Barack Obama la "persona giusta" per il Nobel per la pace.
Nel segno delle relative, diverse aspettative sono anche le prime reazioni giunte da Israele e dallo Stato palestinese. Il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, ha detto che il suo Paese "sostiene in pieno la iniziativa di pace di Obama" e si augura che essa giunga a buon termine "anche alla luce del riconoscimento appena conferitogli".
L’Autorità nazionale palestinese si congratula con Barack Obama per il Nobel per la pace: "Io spero che questo dia al presidente Obama una motivazione aggiuntiva per lavorare ancora più duramente per la pace nella nostra regione - ha commentato un portavoce dell’Anp, Ghassan Khatib - . Questo premio gli dà una responsabilità ulteriore per lavorare per la pace nel mondo".
Chi plaude senza riserve alla scelta del comitato norvegese è l’ultimo presidente dell’Urss, Mikhail Gorbaciov, Nobel per la pace nel 1990. "Sono contento - ha detto Gorbaciov - . Quello che Obama ha fatto finora nella sua presidenza è stato quello di infondere speranza. In questi nostri tempi difficili bisogna sostenere le persone di grande risolutezza, di volontà politica, che hanno una visione dei problemi e sono capaci di assumere responsabilità".
"In consiglio dei ministri abbiamo tributato un applauso ad Obama alla notizia del conferimento del nobel per la pace. E’ un investimento per il futuro. Ora Obama sarà tenuto ad un comportamento ecumenico nei confronti di tutti". Lo ha detto il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, incontrando la stampa al termine del consiglio dei ministri. Il Nobel a Obama, secondo il responsabile esteri del Pd, Piero Fassino, è un "messaggio di speranza e un sostegno forte a un presidente che sin dal discorso d’investitura" ha fatto "della pace, della cooperazione e del dialogo i tratti salienti" della nuova America".
* la Repubblica, 9 ottobre 2009