Berlusconi all’attacco del Pd
E da grande punta al Quirinale
Veltroni: rischio di deriva autoritaria *
Ora punta al Colle. Silvio Berlusconi domenica compie 72 anni e inizia a pensare al futuro. Cosa farò da grande? Il presidente della Repubblica. Ma anziché usare i toni distesi di chi vorrebbe proporsi a garante della Costituzione, torna ad attaccare il Pd. «Non parliamo più di dialogo, per favore, perché con quello che dicono, hanno detto, e per come si sono comportati, è una cosa addirittura ridicola pensare che con gente del genere si possa collaborare». Insomma, il paese è mio e lo governo io.
Una conferma, l’ennesima, di quanto ha ribadito il segretario del Pd Walter Veltroni in un’intervista al Corriere della Sera: in Italia, ha detto, c’è il rischio di una deriva autoritaria: «Se non ci sarà una sufficiente controreazione - spiega - rischiamo di veder realizzarsi anche in Italia il modello Putin. È il rischio di tutto l’Occidente. Una democrazia sostanzialmente svuotata, una struttura di organizzazione del potere che rischia di apparire autoritaria».
Veltroni è preoccupato perché «vedo un cambio di passo in questa legislatura, uno scarto rispetto ai governi della storia repubblicana, uno stato di angoscia che non ho mai visto da quando sto al mondo».
La responsabilità di questo clima, spiega ancora il leader Pd, è del centrodestra che si comporta «come gente che ha preso il potere: il capo del governo - ricorda - oscilla dal discorso alla Adenauer del primo giorno a una quotidianità in cui il capo dell’opposizione è definito ora un fallito, ora un funanbolo, ora inesistente. L’hanno fatto con Rutelli, con Prodi, ora con me: una cosa che non avviene in nessun paese al mondo».
Veltroni elenca punto per punto i sintomi di questa democrazia malata. Primo, il legiferare a colpi di decreti legge: «Il governo tratta il Parlamento come fosse una perdita di tempo, una rottura di scatole, un impedimento». Poi, l’attacco all’editoria, con i tagli al finanziamento pubblico: «È giusto - si chiede Veltroni - che, in questo clima asfissiante, chiudano Il Manifesto, Il Secolo, Liberazione, Europa?».
Ma anche tanti altri piccoli segnali: «Il premier non va all’Onu - ricorda ancora Veltroni - non partecipa alla trattativa Alitalia, per andare al centro Messeguè, senza che nessun tg lo dica. Leggo sull’Espresso che a San Giuliano c’è stata una selezione tra gli operai, per fargli incontrare solo quelli più bassi di lui. Non so come li abbiano trovati: so che queste cose accadono nei sistemi autoritari».
Intanto, però, la scalata al Quirinale di Berlusconi ha già trovato rinforzi con il via libera di Umberto Bossi: «Noi lo voteremo». Più cauto invece il segretario della Dca, il ministro Rotondi, che giudica «inopportuno parlare di Berlusconi al Quirinale perchè c’è un impegno assunto con gli elettori a governare cinque anni e inoltre il Quirinale è occupato da un presidente degnissimo e gradito agli elettori di centro-destra». Non esclude l’ipotesi, però, nemmeno Massimo D’Alema, secondo il quale «se si arrivasse a un sistema presidenziale, Berlusconi potrebbe concorrere alla massima carica dello Stato perchè ci sarebbero quei pesi e quei contrappesi che consentirebbero anche a lui di governare meglio il paese».
* l’Unità, Pubblicato il: 28.09.08, Modificato il: 28.09.08 alle ore 19.40
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Pd: Bindi, lascio la politica, il partito è di un uomo solo
La parlamentare: ’Le primarie? Tutti i miei amici sono con Orlando’
di Redazione ANSA *
ROMA "Ho lavorato in questo Palazzo per ventitre anni, e prima ancora altri cinque a Strasburgo. La passione mi ha tenuta viva e integra. Fare politica non è un mestiere, ed è impossibile servirla senza quel fuoco che arde. Finita questa legislatura lascerò il campo". Lo afferma al Fatto Quotidiano Rosi Bindi che annuncia così il suo addio alla politica.
"Ho lasciato una casa incompiuta - dice Bindi sul Pd - e ora la ritrovo un po’ diroccata. Il Pd come si è visto non funziona se si trasforma in un carro al seguito dell’uomo solo al comando. Non era nato per stare tutto il tempo ad applaudire il leader ma per essere la sintesi di diverse culture: socialista, cattolica, ambientalista, liberale. Se riprende quella strada, forse avrà vita".
All’osservazione che Matteo Renzi ha comunque già ipotecato la vittoria bis, Bindi osserva: "Non è detto. La partita è ancora aperta, sia Andrea Orlando che Michele Emiliano sono due competitori veri. La poltrona di segretario non è già assegnata. Chi vuol far passare questo messaggio rende le primarie inutili".
"Tutti miei amici - aggiunge - sono con Orlando". "Non si può andare a votare con due sentenze della Consulta - avverte comunque -. Se la sera delle elezioni vogliamo sapere chi governerà bisogna avere una legge che dia il premio alla coalizione. È un obiettivo possibile e Orlando ha preso questo impegno se diventa segretario". Bindi è critica anche sull’atteggiamento del Pd nei confronti del M5s: "Troppo spesso li inseguiamo sul loro terreno. Ieri sullo streaming e sui costi della politica, oggi sulla legge elettorale. Si chiama sudditanza".
Da D’Alema a Veltroni così il dialogo col Cavaliere ha “incantato” la sinistra
E ora tocca a Renzi sfidare l’Ammaliatore
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 17.01.2014)
NESSUNO potrà mai dubitare che Berlusconi sia il più grande incantatore. Non si dice qui di serpenti, ma solo per rispetto riguardo ai leader della sinistra che lo hanno sempre sottovalutato come antagonista e perciò si sono fatti da lui regolarmente ammaliare nel corso di incontri, cene, crostate bipolari, commissioni bicamerali, bla-bla istituzionali ed elettorali, tele-smancerie, presentazioni di Vespa e quanto ha reso suicida qualsiasi forma di collaborazione.
TOCCA adesso a Matteo Renzi, la cui audacia è indiscutibile come la baldanza che accompagna il suo esordio alla guida del Pd. Rispetto ai suoi predecessori, ha qualche vantaggio: il Berlusconi di oggi è più vecchio, alcuni dei suoi l’hanno tradito, ha diverse condanne sulle spalle, lo stanno per spedire ai servizi sociali, insomma quanto mutato dal Berlusconi che tre anni orsono lo invitò ad Arcore, pure congedandolo con una lusinga che davvero deve averlo fatto pensare: «Ti apprezzo perché mi assomigli».
Nel grande gioco del potere la magia dell’incanto si risolve più spesso di quanto s’immagini nell’arte del raggiro. Da Rutelli a Fassino, da Amato a Bersani l’hanno certamente avvertita. Ma gli annali della Seconda Repubblica, pur nella loro spumeggiante contraddittorietà, dicono che ogni tentativo di circonvenzione d’incapace ai danni di Berlusconi è destinato a fallire per il semplice motivo che questi è tutto fuorché incapace.
E infatti ha attratto a sé prima D’Alema, in un periodo che va dall’inverno del 1997 alla primavera del 1999 (elezione di Ciampi al Quirinale); e dopo aver infinocchiato il machiavellico leader Maximo, circa dieci anni dopo, tra l’autunno del 2007 e l’inverno 2008 (caduta di Prodi bis), ha nuovamente e con fredda efficacia dato fondo alla sua virtù abbindolatrice nei riguardi di Veltroni, leader buonista, che nella susseguente campagna elettorale, sia pure con nobili intendimenti, nemmeno voleva chiamare il Cavaliere per nome e allora usava una lunga e complessa formula, «il leader della parte a noi avversa». Che, stravinte le elezioni, fece puntualmente del-l’Italia carne di porco.
Magari a Renzi andrà bene, ma prudenza vorrebbe che ripassasse un po’ di storia e di psicologia, individuale e sociale. Forse proprio perché figlio di un Pci ormai morto e sepolto, a un certo punto della sua vita e della sua carriera D’Alema fu attratto da quello stesso Berlusconi di cui pure per qualche tempo aveva detto le peggio cose. Il destino delle tv del Biscione e l’eccessivo potere dei giudici divennero le basi di un accordo che si cementò in Bicamerale.
Ma poi i due si trovarono anche vicendevolmente simpatici. «Il mio più intimo nemico» scherzava Silvione. In una interminabile intervista Emilio Fede mostrò ai telespettatori la collezione di civette di Max, che intanto cominciò a pubblicare con Mondadori. Un giorno si disse che Veronica avesse confezionato con le sue mani delle marmellatine per la famiglia del leader pds. Non era vero, ma non molto prima che il Cavaliere buttasse tutto all’aria, ci fu la crostata costituzionale ed elettorale a casa Letta, venne al mondo il grazioso termine «inciucio», mentre si deve a Giampaolo Pansa il battesimo di una creatura invero poco rassicurante, «Dalemoni».
Nell’immaginario di questo tempo visionario l’ibridazione è sintomatica costante, per cui si rinvia brevemente a un irresistibile, impressionante e come tale assai diffuso fotomontaggio on line, il «Renzusconi». Anche «Uolter» Veltroni, d’altra parte, ebbe il suo morfologico incrocio, addirittura sulla copertina di Newsweek, «Veltrusconi».
A differenza di D’Alema, il primo leader del Pd conosceva talmente bene il Cavaliere da avergli perfino dedicato in gioventù un libro dal titolo «Io e Berlusconi(e la Rai)» (Editori riuniti, 1990). Dunque questioni di tv. Sull’argomento catodico e gli accordi anzitempo vedi, assai bene informato, «Il baratto» di Michele De Lucia (Kaos, 2008). Ma non appena Veltroni fu eletto leader del Pd, insieme a tante pregevoli intenzioni stabilì che per il bene dell’Italia era di capitale importanza aprire, tanto per cambiare, un bel tavolo istituzionale ed elettorale. Con tutti. Quindi con Lui. Solo.
E in pompa magna si videro, alla Camera, accordandosi quindi su una specie di Vassallum con correttivo di Quagliariellum, o forse no, comunque erano le europee - e Vendola ancora oggi protesta. A distanza di sette anni la conferenza stampa del lieto evento, tenuta fianco a fianco su un podietto con eleganti fregi dorati, restituisce a chi c’era la magia delle happy hours: due leader cortesi, sorvegliati nel linguaggio, ispirati da spirito costruttivo e compresi nel loro ruolo di rifondatori della democrazia italiana.
Particolare significativo, o meglio maliziosa coincidenza: sia nell’incantesimo con D’Alema che in quello con Veltroni a Palazzo Chigi c’era Prodi, il povero Prodi, l’unico che di Berlusconi non s’è mai fidato. Adesso, guarda caso, c’è un suo allievo, Enrico Letta. Che Qualcuno lo protegga dalle ricorrenze e dalle regolarità di un potere purtroppo sempre abbastanza uguale a se stesso.
Se all’analisi di Veltroni manca Berlusconi
di Furio Colombo (il Fatto, 24.06.2013)
C’è differenza fra un libro serio, pensoso e intelligente sul dramma dell’Italia di oggi e la mappa che indica dove, come uscire dalla crisi. C’è differenza fra una meditazione e un “che fare”. Walter Veltroni, in questo suo E se noi domani, L’Italia e la Sinistra che vorrei (Rizzoli) si ferma a riflettere in una meditazione in pubblico ricca di dati, fatti, notizie, ricordi, preannunci, desideri, attese. Ma una meditazione non è un programma. È vero che l’autore non promette mai ciò che non può mantenere. È vero che fin dall’inizio non gioca con abilità (il tipico gioco della politica) e non esibisce carte che non vuole usare. Il libro è onesto, è in parte (sia pure in modo implicito) un diario. C’è in ogni pagina un desiderio sincero di “uscire a riveder le stelle” (cito più Benigni che Dante). È anche vero che, fatalmente, i lettori, nonostante la lealtà dell’autore e la chiarezza del libro, aspettano fatalmente la risposta alla domanda: come mi salvo? E chi mi salva?
PROVO A DIRE che cosa c’è e che cosa manca (manca, naturalmente, in una attesa che non ha niente a che fare con il progetto dell’autore e che però non può essere cancellata) in questo libro di Veltroni. C’è una buona analisi del precipitare nella crisi, non solo, non tanto numeri, quanto constatazioni e confronti, un inedito modo di narrare in modo letterario una crisi che viene rappresentata sempre e solo con cifre.
C’è una sosta sulla parola e sul concetto di sinistra. Troppa o troppo poca? Compare, più o meno al centro, la parola “riformismo” come il luogo e la pietra magica del cambiamento dal peggio al meglio. C’è una sosta sul sistema elettorale che non appartiene a questa “meditazione” perchè o si entra nel labirinto tecnico del bene e del male che c’è in ciascuna proposta o si è costretti a sostare in una zona di buon auspicio. Veltroni qui si accosta al semipresidenzialismo. Sono le uniche pagine che mi sembrano appartenere a un altro libro.
QUI INVECE CI SONO tre parole, responsabilità, comunità, opportunità che possono aprire un discorso interessante, ma con chi? Neppure il senso di preoccupazione e di affetto che passa nelle pagine di questo libro diminuisce la solitudine, che resta la sindrome prevalente di questa crisi.
Ma il problema più grave a me sembra il non avere affrontato la clamorosa deformazione di tutto imposta all’Italia dalla lunga e pesante egemonia di Berlusconi. Il conflitto di interesse e la potenza illegale si rovesciano da 20 anni su tutto e cambiano e peggiorano ogni scena, in ogni campo. Vorrei chiedere a Veltroni di non continuare a pensare che il berlusconismo sia nella testa di chi lo denuncia. Il Berlusconismo è Berlusconi. E il Paese ne sta morendo.
Suicidio collettivo
di Antonio Padellaro (il Fatto, 20.04.2013)
L’unico consiglio che ci sentiamo di dare al Pd (o forse all’ex Pd) è quello di evitare con tutti i mezzi e in tutti i modi nuove elezioni, barricandosi magari tra le macerie di largo del Nazareno, poiché a questo punto per Berlusconi e per Grillo sarebbe un gioco da ragazzi spartirsi le spoglie di un partito tenacemente proiettato verso un suicidio politico collettivo. Con l’imperdonabile colpa di aver coinvolto nella propria autodissoluzione la passione e le speranze di milioni di elettori e militanti che da giorni assistono sgomenti a quella specie di vendetta tribale che è diventata l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Un “tutti contro tutti” dove killer e vittime si scambiano di ruolo a giorni alterni con il risultato condiviso di sputtanarsi (e sputtanarci) davanti al mondo intero.
Dopo aver affondato l’anziano e incolpevole Franco Marini, hanno coinvolto in una situazione umiliante che certo non meritava un altro padre fondatore, Romano Prodi, ormai da anni lontano dal maleodorante cortile italiano, mandato a schiantarsi mentre operava nel Mali come inviato speciale dell’Onu.
Non serve a nulla adesso domandarsi chi abbia armato la mano dei 101 cecchini irresponsabili: se il disinvolto Renzi, se l’astuto D’Alema, se gli obliqui margheriti o se addirittura il pugile suonato Bersani. Forse neppure loro sanno quello che fanno. Dio acceca chi vuole perdere.
Come uccidere il riscatto morale
Cari D’Alema e Vietti, rischiate il disgusto
di Roberta De Monticelli (il Fatto, 25.06.2011)
C’è un grande equivoco, che la parte più ambigua della classe politica e dirigente italiana sta alimentando, a rischio di disgustare di nuovo e irreversibilmente quelle centinaia di migliaia di persone, giovani soprattutto , che si erano appena riaffacciati all’impegno della partecipazione civile e politica. Non parlo del bell’ambientino dei ministri di questo governo, e neppure della banda allo sbando che puntella disperatamente le poltrone della legislatura, poche delle quali sono ancora a rischio perdita vitalizio.
Parlo di uomini come D’Alema, Vietti, e molti altri, che avranno la responsabilità storica terribile di aver ucciso la speranza di un riscatto morale e civile per via democratica, e di aver ricacciato nel qualunquismo dell’antipolitica la generazione che avrebbe potuto nutrire il rinnovamento. Si dice: che le indagini si facciano, ma le intercettazioni non vengano pubblicate. Si aggiunge: perché non hanno rilevanza penale. Questo è un ragionamento palesemente incongruo, dato che non si può decidere per legge, e anticipatamente, che cosa ha rilevanza penale e che cosa no, e la legge semplicemente cancella tutta l’informazione, preventivamente, salvo permettere che arrivi quando avrà perduto ogni interesse, cioè a processi conclusi. Dunque l’argomento dell’irrilevanza penale è di per sé invalido. Ma ora supponiamo che davvero molte delle intercettazioni pubblicate non abbiano rilevanza penale. Quanti comportamenti per i quali esistono molti aggettivi, da “ignobili” a “mafiosi”, non hanno specifica rilevanza penale, semplicemente perché il legislatore presuppone rispettato l’ovvio limite della decenza?
Ad esempio: che un ministro della Repubblica non prenda ordini da un condannato per truffa che non ha nessun titolo ufficiale per fornirli, che un Direttore di servizio pubblico non si faccia correggere le lettere aziendali da un qualunque occulto portavoce di interessi non pubblici, che chi è preposto alla nomina di esperti alla guida di aziende e servizi pubblici non sottostia ai ricatti o alle pressioni di chi dispone di armi di pressione e ricatto per far nominare invece suoi amici e parenti. Basterebbe rileggere qualche articolo della Costituzione, e non soltanto il celebre articolo 54 sulla disciplina e l’onore con cui i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle.
Ad esempio tutto il Titolo III della Parte Seconda, dove fra i nove articoli che disciplinano le funzioni del governo non se ne trova uno solo che preveda consiglieri occulti, revisori telefonici e informatori segreti degli umori e delle volontà del Capo. Faccio un altro esempio. Anche nel sistema universitario dei concorsi non è affatto previsto come reato che i membri della commissione decidano al telefono chi sarà promosso in un dato concorso: perché ovviamente poi tutte le procedure concorsuali saranno seguite a puntino - e serviranno a rendere tutto “penalmente irrilevante”.
Ora, magari lo specchio del cielo potesse rispecchiare e svergognare pubblicamente le innumerevoli consorterie e “cordate” (questo è il termine tecnico) che hanno fatto tanto male all’Università italiana, dove i migliori lottano perché, a seguito di questo male, non vada semplicemente distrutto il sistema dell’insegnamento e della ricerca. Lo volesse il cielo, lo volesse Iddio. Quanto meglio si lavorerebbe, allora. E come è possibile che, dove le proporzioni del verminaio sono immensamente maggiori, e incomparabile la gravità del male fatto alla cosa pubblica, si dica con convinzione e amore di verità che il verminaio va nascosto agli occhi del pubblico, e al giudizio dei cittadini? Vergogna.
Giustizia, ma quale dialogo: dieci ragioni per dire no
di Furio Colombo (il Fatto, 13.03.2011)
“Gentile Furio Colombo, sono una casalinga demoralizzata e incazzata, ma purtroppo del tutto impotente. Mi permetto un piccolo sfogo sulla sua pagina perché mi fa sentire un po’ meno sola di fronte all’attuale, allucinante situazione italiana. Ma come è possibile, mi chiedo, che a un presidente del Consiglio imputato in quattro processi sia offerta collaborazione per riformare ‘insieme’ la giustizia? Curatola Gabriella”.
L’osservazione è semplice e netta e difficile da eliminare. Penso che rappresenti lo stato d’animo di tanti cittadini, che forse voteranno a sinistra e forse no e stanno col fiato sospeso per vedere se il brusio di favore alla grande riforma di Berlusconi, che comincia a sentirsi tra le file dell’opposizione e nelle dichiarazioni di alcuni con nome e ruolo di prima fila nel Pd, diventerà davvero un modo di partecipare alla grande riforma costituzionale della Giustizia italiana. Ovviamente, in tempo di elezioni, la grande riforma apparirà in testa alla lista dei successi del gruppo Berlusconi (inteso sia come partito sia come azienda) e tra le colpe non perdonabili dell’opposizione in generale e del Pd in particolare.
Bisogna ammettere che l’infiltrazione nelle file e nelle teste dei parlamentari e degli opinionisti di area Pd dell’idea, dopotutto, sulla giustizia si può collaborare, è avvenuta con cautela e bravura , cominciando dalle colonne del Riformista, dai suoi opinionisti di prima fila e dai suoi ex, molto stimati e molto invitati nella vetrine Tv come “rappresentanti della sinistra”. La trovata è stata di iniziare subito il dialogo, (ma anche la zuffa va bene, l’importante è partecipare al gioco) sulle singole parti, innovazioni, trovate e articoli del progetto di legge Berlusconi-Ghedini-Alfano. Qui l’importante è di impedire che si manchi di rispetto al grandioso evento che cambierà la vita italiana, e che tutti, anche gli avversari, prendano sul serio la prova di forza (e di vittoria) che sta per attraversare come una valanga non resistibile il Parlamento mercenario che oggi decide a nome della Repubblica italiana.
MERITA UNA riflessione la possibilità che i Radicali eletti nel Pd, alla Camera e al Senato, accettino di lavorare alla riforma della Giustizia secondo Berlusconi. Penso che sia un errore, che però è coerente con tutte le cose dette e fatte dal partito di Pannella e Bonino (condivise o no dai compagni di strada dei Radicali in tutti questi anni). Infatti i Radicali, che si battono da decenni per una loro riforma della Giustizia (molto prima del 1994, anno che l’uomo di Arcore indica come data di nascita del suo progetto) vedono Berlusconi accostarsi al loro percorso e non viceversa.
Io non accetterei monete da un falsario, persino se sembrano identiche a quelle vere, e credo che a un certo punto scatterà la ben nota intransigenza di quel gruppo politico, e ci sarà una netta rottura, come è accaduto in passato. O almeno lo spero.
Meno facile è mobilitare contro Berlusconi le piazze, le donne, la raccolta di firme, una platea vasta e diversa, come sono gli elettori e I cittadini vicini al Pd, per poi chiedergli all’improvviso di rassegnarsi a discutere di giustizia “insieme”, mentre cominciano, a uno a uno, i processi a carico del grande timoniere della giustizia italiana. E infine, eventualmente, tornare in piazza e poi mobilitarsi per votare contro.
Propongo dunque le dieci ragioni da offrire al Pd per non partecipare in alcun modo alla riforma della Giustizia Berlusconi-Ghedini-Alfano. 1) La riforma nasce come “punizione” e come “vendetta”, e come tale viene annunciata. Anzi è stata rilanciata di colpo dopo l’incriminazione del premier per l’affare Ruby (concussione e prostituzione minorile); 2) Le imputazioni contestate al capo del governo italiano sono troppo gravi, anche come simbolo e immagine del Paese nel mondo, per poter intrattenere una discussione “insieme” sui problemi della giustizia e dei giudici; 3) Berlusconi ha invocato come ragione fondante della sua riforma la vicenda di “Mani Pulite”, il maggior evento di lotta contro la corruzione in Italia. Con la sua nuova legge - promette - la lotta giudiziaria alla corruzione non potrà mai più verificarsi in Italia; 4) Berlusconi è stato coinvolto, in accertate vicende giudiziarie (alcune ancora in corso) nel reato di corruzione di giudici. In altre parole, ha pagato e comprato giudici. Il suo partito-azienda, i suoi avvocati-deputati e lui stesso non possono accostarsi all’argomento “giustizia” e “riforma della Giustizia”, senza suscitare, sospetto e discredito; 5) La maggioranza di cui Berlusconi dispone è una maggioranza in parte comprata. La mancanza di “vincolo di mandato”, indicato dalla Costituzione, non sana questo grave aspetto o sospetto di corruzione. Meno che mai in una legge che riforma vita e attività dei giudici; 6) Berlusconi, personal-mente e attraverso il suo Giornale, ha definito i giudici “un cancro”, “un gruppo eversivo”, una “associazione a delinquere”, una aggregazione di poveri matti. Ci si può associare?; 7) Nell’annunciare che la legge costituzionale di riforma della Giustizia era sul punto di essere presentata in Parlamento, Berlusconi ha detto, riferendosi alla sua “persecuzione: “Così questa storia indegna finirà per sempre”. In tal modo e intenzionalmente, ha voluto rendere chiara per tutti la natura della nuova legge costituzionale: non renderà mai più possibile l’incriminazione dei potenti; 8) È evidente, ripetuta e vistosa la intenzione del premier e dei suoi avvocati di sterilizzare uno dei tre poteri su cui si fonda lo Stato democratico, il potere giudiziario, dopo avere ottenuto il controllo del Parlamento attraverso una poderosa e sfacciata campagna acquisti, e avere stabilito un record di ore di presenza su tutte le reti televisive, di Stato e private, e mentre sono in corso attività finanziarie per alterare gli equilibri di potere in uno dei due maggiori quotidiani italiani ancora indipendenti; 9) Berlusconi ha bisogno di complici. L’Italia è oggetto di scrutinio attento da parte delle democrazie e dell’opinione pubblica democratica del mondo. Una legge che riformi drasticamente il sistema giudiziario italiano, sotto bandiera Berlusconi, sarebbe guardata, fuori dall’Italia, con il sospetto che merita. È indispensabile per lui e i suoi avvocati, avere ben più che i “responsabili” a tariffa che hanno abbandonato altri partiti per offrirgli reputazione, lealtà e voto. Ora occorrono complici che siano la prova della buona fede di questa avventura; 10) La legge di riforma costituzionale della Giustizia non può arrivare sul tavolo del capo dello Stato senza i nomi e le firme di almeno una parte della opposizione e, soprattutto, di una parte del Pd in funzione di garanzia notarile.
Ecco dove il Pd si presenta al Paese come una opposizione invalicabile oppure come il complice necessario di Berlusconi. La campagna elettorale che ci sarà subito dopo si decide qui.
“La riforma si fa solo con noi”
Bersani attacca la Lega e avvisa il Terzo polo: attenti che ci ritroviamo Berlusconi al Quirinale
di Car. Ber. (La Stampa, 05.02. 2011)
Al padiglione nove della nuova Fiera di Roma Pierluigi Bersani arriva bello carico dopo lo stop giunto all’ora di pranzo dal Colle al decreto del governo sul federalismo. Un buon viatico per cominciare nel migliore dei modi quest’assemblea programmatica con cui il Pd intende lanciare la sua «proposta al paese». Tanto più che dalla minoranza di Veltroni il segretario non si aspetta troppi sgambetti in una fase così scivolosa dal richiedere il massimo di unità sotto l’ombrello della «ditta». E dunque ha buon gioco Bersani a lanciare la domanda retorica su «cosa succederebbe in Italia se sul Colle non ci fosse una persona consapevole della sua funzione istituzionale come lo è Napolitano». Così come ha buon gioco nel lanciare l’appello «Fermatevi! Non si può forzare la mano su un tema così delicato». Attaccando subito la Lega che sulla Padania ha fatto pubblicare le foto di tutti i parlamentari del Pd e del Terzo Polo che hanno votato contro il federalismo, sotto il titolo minaccioso ed eloquente «Ecco chi ci ha tradito».
«Se la Lega - reagisce il segretario - pensa di intimorirci, ci metta pure la mia di foto, perché noi abbiamo respirato autonomia fin da piccoli e le lezioni non le accettiamo, tanto meno da chi da 10 anni puntella palazzo Grazioli». Con una chiosa che vuole essere un avvertimento, «il federalismo non lo farete mai con Berlusconi, perché a lui non interessa il federalismo, ma i vostri voti, e li userà per il processo breve o per difendere la cricca di Roma. E dunque il federalismo non si fa senza di noi e senza le nostre proposte». In realtà a stemperare la baldanza del leader ci pensa un altro dei leader della minoranza Pd, Beppe Fioroni, convinto invece che «l’atto dovuto di Napolitano» non si trasformerà in uno stop alla riforma, che sarà varata lo stesso nei passaggi in aula con i voti della maggioranza. Con quelli che il costituzionalista Stefano Ceccanti vicino a Veltroni definisce «otto spot per la Lega alla Camera e al Senato per i quattro decreti sul federalismo da qui al prossimo autunno».
Ma al di là della controversa riforma, il leader del Pd alza i toni quando mette il dito nella piaga del caso Ruby, sfoderando una serie di battute che infiammano la platea dei mille delegati. Fino alla standing ovation quando annuncia «noi maschi saremo con le donne in piazza perché conosciamo le nostre mogli, le nostre compagne, le nostre amiche, le nostre figlie. Le rispettiamo come persone e non accettiamo che siano merce da vendere. Non è accettabile dare questo messaggio alle giovani generazioni, qui non c’entra la magistratura: non è accettabile!».
Un passaggio obbligato per lanciare il messaggio che il Pd è pronto a chiedere le elezioni, perché «se ci fosse un passo indietro di Berlusconi, tutti dovrebbero garantire responsabilità, perché oltre Arcore si potrebbe vedere finalmente vedere l’Italia. Se invece prevarranno arroganti tattiche di arroccamento, allora, data l’emergenza, noi chiederemo di restituire agli elettori la parola». E in quel caso per battere l’asse Pdl-Lega, l’unica strada è quella che la Bindi chiama «una grande alleanza civica e democratica».
Quindi, avverte Bersani, i terzopolisti «siano responsabili», perché altrimenti il rischio è che Berlusconi poi vada al Quirinale (la domanda «Cosa ne pensano i radicali?», provoca Pannella che risponde: «Prima di rivolgersi a noi, Bersani si faccia uno spinello»). «Voglio una risposta da queste forze politiche e non la devono dare a me, la devono dare al Paese. Si assumano le loro responsabilità e noi tireremo le somme», spiega Bersani annunciando che dopo questa assemblea il Pd presenterà il suo programma e chiederà un confronto «a tutte le forze di opposizione».
Ma sulla stesura di questo programma pesano alcune iniziative non di poco conto: come quella dei laici che fanno capo a Ignazio Marino che hanno presentato un documento sul riconoscimento delle unioni di fatto firmato anche da Massimo D’Alema. Il quale definisce questo testo «un contributo alla ricerca di una posizione condivisa», ricordando che il tema era già all’ordine del giorno del governo Prodi e che la Bindi ha annunciato che il Pd avvierà un gruppo di lavoro su laicità e diritti. E se invece sul caso Mirafiori Veltroni già ha detto la sua al Lingotto, stavolta toccherà invece all’ex leader Cgil Cofferati che oggi dovrebbe intervenire dal palco per esporre con forza le ragioni del «no». Al punto che dietro le quinte si vocifera che il «cinese» sarebbe pronto a dar vita ad una corrente della sinistra del Pd più incline a dialogare con Vendola.
Il suo destino non è quello del paese
di Luigi La Spina (La Stampa, 20 gennaio 2011)
Il videomessaggio con il quale il presidente del Consiglio ha comunicato agli italiani la decisione di non presentarsi alla procura di Milano e la volontà di varare una legge per punire quei pm che lo accusano annuncia, purtroppo, una linea di difesa inquietante. Destinata ad aggravare sia lo stato di turbamento del Paese, sia l’immagine di discredito internazionale che, in questi giorni, si sta riversando sull’Italia.
Berlusconi ha lanciato un appello drammatico alla maggioranza che lo ha eletto perché, in maniera compatta, unisca il destino della nazione al suo destino personale. Senza comprendere che l’istituzione che presiede, il governo della Repubblica, deve rappresentare non solo coloro che l’hanno votato, ma tutti gli italiani. Ecco perché la sua sfida alla magistratura, in nome del consenso popolare, rischia di aver gravi conseguenze sull’ordinamento e sull’equilibrio dei poteri dello Stato, fondamenti della nostra democrazia.
Il presidente del Consiglio ha diritto, come tutti i cittadini, di veder rispettata la presunzione d’innocenza davanti alle infamanti accuse che la procura di Milano gli ha rivolto. Un principio costituzionale di elementare civiltà giuridica, ma che ha come corrispettivo naturale lo stesso rispetto sia verso il magistrato che lo indaga, sia verso i cittadini italiani che hanno diritto di conoscere la sua versione dei fatti contestati. Anche perché non sarà la procura di Milano a considerare la fondatezza della sua difesa, ma i giudici di un tribunale che, in passato, ha dimostrato indipendenza di valutazione rispetto alle richieste del pm. Né sarà la procura di Milano a decidere sulle questioni di competenza territorialee funzionale avanzate dai suoi avvocati. Fa parte, poi, di una strategia difensiva puramente mediatica, utile ad aumentare la confusione polemica, ma dalla logica avventurosa,l’invocazionealla cosiddetta privacy. Per due elementari ragioni: le indagini, innanzi tutto, sono nate dal sospetto di gravi reati e, quindi, la verifica di tali ipotesi non si può fermare davanti a quei limiti. La valutazione delle conseguenze, se questa obiezione venisse accolta, nelle inchieste sui comuni cittadini potrebbe equivalere alla dichiarazionedi una sostanziale impunità estesa a tutti gli italiani.
Ma la seconda ragione dell’insostenibilità della tesi che in questi giorni viene ripetuta dai fan di Berlusconi, senza un minimo di riflessione, riguarda proprio il fatto che il presidente del Consiglio non è, appunto, un comune cittadino italiano, ma rappresenta una delle più alte cariche dello Stato. La nostra Costituzione, come quelle di tutti i Paesi non retti da una dittatura, impone una trasparenza, una dignità di comportamenti, anche personali, che non sono richiesti a coloro che non hanno i doveri dell’uomo pubblico.
Al di là della fondatezza delle accuse, della solidità delle prove raccolte, delle competenze delle procure, il presidente del Consiglio dovrebbe rendersi conto che l’unico modo per arginare il mare, montante e inquietante, dei giudizi sprezzanti che si sta abbattendo, da parte dell’opinione pubblica internazionale, sul nostro Paese è fornire ai magistrati una versione, credibile e accettabile, di quanto avvenuto sia nelle sue ville private, sia nella famosa notte alla questura di Milano. Se davvero non ha nulla da farsi perdonare, né sul piano penale né su quello morale, non si capisce perché impedisca a se stesso, con formalismi giuridici discutibili, di convincere gli italiani, anche quelli che non sono suoi tifosi, di poter credere alla sua innocenza.
E’ arrivato il momento che anche Berlusconi, dopo quasi vent’anni, possa distinguere la sorte della sua fortuna di imprenditore, di politico, persino di uomo di grande successo mediatico e di sicurocarisma personale, da quella del suo Paese. Lui, nonostante una notevole considerazione di sé, non si può paragonare a Sansone e gli italiani non possono fare la fine dei filistei.
Psichiatria Democratica
I giovani turchi, Ferrero e i gruppi veltroniani
Fotografia di un partito perennemente in analisi
Il 25 settembre Veltroni a Orvieto
Potrebbe diventare la “Mirabello” di centrosinistra
di Luca Telese (il Fatto, 14.09.2010)
ANTEFATTO ICONOGRAFICO. Guardate per un attimo la foto di questa pagina. Pier Luigi Bersani chiude la festa di Torino. In piedi, solo. Per la prima volta un leader del Pd parla senza angeli custodi, senza alfieri, senza l’abbraccio dei due principali dirigenti del partito, immancabilmente vicini a lui. Quanta distanza dal rituale di tutti gli altri anni: il segretario sul palco, e tutti i leader, simbolicamente stretti intorno. Magari ipocritamente, stretti, ma tutti, almeno una volta l’anno, lì, come nella foto della classe all’inizio dell’anno. Ora abbandoniamo la foto, e passiamo al calvario della cronaca, dalle faide dei giovani turchi ai rumors di scissione, ai motivi per cui Orvieto potrebbe diventare una “Mirabello” di centrosinistra.
RETROSCENA REDAZIONALE. Per una volta vale la pena di raccontarvi come si può decidere un articolo nella riunione di questo giornale. Eravamo appena tornati dalla meravigliosa festa della Versilia, e già i nostri telefoni trillavano su un unico tema: il Pd. Un veltroniano ti dice peste e corna di un dalemiano e viceversa (fin qui nulla di nuovo); poi arrivano aggiornamenti, ritrattazioni, agenzie, colpi di scena. Quindi la girandola della rassegna stampa. In due giorni, dal documento dei quarantenni anti-veltroniani, alle correnti storiche, un fermento criptato e indecifrabile per chi non possiede i codici delle faide antiche.
A questo punto il direttore si mette a solfeggiare e a parafrasare: “Pi.... Di...., Pi... Dì... Psichiatria Democratica”. Ovvero: ci sono chiari segni di distorsioni dell’ego e di alterazione delle percezioni dell’io, in quel partito. Lettere para-psicanalitiche ai giornali, mezze verità, indiscrezioni pilotate, colpi bassi. Per dire. Secondo Il Corriere della sera, la settimana scorsa Bersani avrebbe stretto un patto con Paolo Ferrero per eleggere dieci parlamentari nelle liste del partito, con una “ospitata” tecnica stile radicali. Cerco il segretario di Rifondazione al telefono per capire se le sue smentite siano rituali o credibili. Lui è furibondo: “Se stiamo dialogando con Bersani? Certo! Lo dico da mesi. Se è vero che abbiamo stretto un accordo per eleggere i nostri dirigenti? Assolutamente no si indigna è una follia paranoica, messa in giro con malizia dai veltroniani, magari per far piacere a Vendola”. Chiedi: in che senso? E lui: “È una cosa che non sta nè il cielo nè in terra rincara la dose Ferrero ma che punta a farci apparire come dei dirigenti all’asta che vanno da Bersani per farsi garantire con il piattino in mano. Beh ruggisce il segretario non è così!”. In fondo basta questo sfogo per capire che la situazione è incandescente, e che la frattura interna influenza anche i rapporti con gli altri. Però restano dei fatti: le dichiarazioni entusiastiche di Ferrero e Oliviero Diliberto sul “Nuovo Ulivo” bersaniano, e gli editoriali dei giornali amici (ad esempio quello di Stefano Menichini su Europa) che la settimana scorsa davano già per certo l’accordo. Frammenti di schizofrenia?
ENDORSING FAGIOLINO.
La nostra riunione finisce così, e l’articolo, è commissionato. Ore 13.15 (non è uno scherzo), sulle agenzie arriva l’endorsement di Massimo Fagioli, psichiatra e ricercatore della mente, che ufficializza la fine del rapporto con l’ex leader presidente della Camera Fausto Bertinotti: “Attualmente la simpatia è per Bersani”. Le ironie sono fuori luogo. Sembra piuttosto un segno, la spia di un disagio, il turbinare di un cortocircuito fra politica e psiche.
Come è noto Fagioli era stato un fan accanito di Bertinotti, fino a che non era apparsa sulla scena Nichi Vendola. Dopo di allora lo psichiatra non aveva fatto mistero di considerarlo “deviante” per la sua omosessualità. Ora Fagioli spiega la sua nuova predilezione per Bersani: “È il solo in grado di provare a rimettere insieme la sinistra, l’unico che ancora mantiene laicità e saggezza”.
Ma davvero c’è una crisi di identità nel Pd? L’ultima crisi di identità, è la grottesca storia dei cosiddetti “Giovani Turchi”, un gruppo di quarantenni vicini a D’Alema, che scrivono un documento caustico contro il fondatore del Pd convocando una riunione ad Orvieto: “La politica interpretata come Hollywood, come un tour promozionale per propagandare se stessi”. La vera accusa a Veltroni è, ancora una volta, psicanalistica: quella di essere inconsapevolmente berlusconiano, affetto da protagonismo e bisogno di leadership.
Però “i giovani turchi” non hanno la tempra di Ataturk. Basta il pronunciamento di due ex veltroniane bersaniane, Stella Bianchi e Annamaria Parente perchè sia annullata l’iniziativa, prevista per il 25. Una indubbia vittoria dei veltroniani. Ma Orvieto è la città dove è nato il Pd, e dove Veltroni in un celebre discorso parlò per la prima volta della vocazione mag- gioritaria: “Non so quando saranno, so che alle prossime elezioni andremo da soli”. Lo disse il sabato, il lunedì Mastella abbandonò la maggioranza, il giovedì cadde Prodi. Il 25, a Orvieto, si tiene anche un convegno di Libertà eguale (la componente ex riformista del partito) con Veltroni e Sergio Chiamparino.
I GRUPPI AUTONOMI. Ma cosa c’è di vero nell’ipotesi avanzata ancora una volta dal Corriere, che i veltroniani vogliono fare un gruppo autonomo”. Una follia? O un inconfessabile desiderio inconscio? Walter Verini, braccio destro di Veltroni sorride: “Balle”. E in serata Veltroni interviene: “Niente gruppi: c’è bisogno che il Pd recuperi forza, si deve lavorare per fare del Pd”. Ma a Orvieto Veltroni potrebbe meditare un nuovo strappo. Magari un appoggio tecnico al sindaco di Torino, già con un piede fuori dal partito, all’insegna dello slogan: “Oltre il Pd per tornare a vincere”. Fini torna nella “sua” Mirabello per costruire un’altra destra. Veltroni nella “sua” Orvieto per un altro centrosinistra.
L’affondo di Bersani
«Il berlusconismo ci porta alla fogna»
Il segretario dei democratici invita a dar vita a una alleanza per una «nuova riscossa italiana». S’abbraccia con il sindaco “rottamatore” di Firenze Renzi ma spiega «Sì alle critiche, ma anche affetto per la ditta».
di Vladimiro Frulletti (l’Unità, 03.09.2010)
Con Berlusconi la politica è stata degradata a fogna. Il segretario del Pd non usa perifrasi. «Al di là delle denunce di un governo che si denuncia da solo, in questo agosto terrificante abbiamo visto come il secondo tempo del Berlusconismo possa far regredire la politica alla fogna» dice davanti alla folla di amministratori e dirigenti democratici accorsi a Firenze da mezza Tocana per vedere da vicino la nuova sede del partito va giù duro. Incassa applausi. Il clima è decisamente già da campagna elettorale. E infatti il leader Pd non fa previsioni sulla data in cui Berlusconi cadrà («non so dirvi giorno, mese e anno»), ma è certo che cadrà. «la crisi è ineluttabile» dice. «Non abbiamo paura delle elezioni ribadisce ma se arriviamo al voto anticipato si sappia che c’è un padre e una madre: berlusconi e il suo fallimento». Insomma c’è da tenersi pronti. Il che dovrebbe spingere tutti i democratici a convogliare le proprie energie (positive) sul Pd. «Assieme alle critiche ci vuole anche l’affetto per la ditta» spiega Bersani rivolto al sindaco di Firenze Matteo Renzi e alla sua proposta di “rottamazione” dei vertici del partito. «La gente deve stimarci, ma se non ci stimiamo fra di noi ...» aggiunge Bersani.
Con Renzi poi ci sarà anche l’abbraccio davanti alla targa che ricorda il segretario Ds di Firenze Meme Auzzi (scomparso all’improvviso 4 anni fa) che fece partire la realizzazione della nuova sede. Un gesto applaudito dalle persone. Che tuttavia non fa retrocedere di un centimetro il sindaco. Renzi infatti non solo ribadisce tutte le sue critiche, spiegando che non si sente un Maradona «ma un Bruscolotti» (il terzino del Napoli degli anni ‘80) e che voler bene alla ditta Pd significa salvarla «dal fallimento». Ma annuncia che porterà le sue tesi (ad esempio non ricandidare i parlamentari con tre mandati come stabilisce lo Statuto Pd) all’Assemblea nazionale e che le metterà ai voti. Del resto per Renzi se il “berlusconismo” è finito, e per lui è finito, anche chi fin qui gli ha fatto opposizione deve passare la mano. Posizioni che non incontrano i favori (ma è un eufemismo) dei molti amministratori e dirigenti del Pd toscano presenti all’inaugurazione. Sicuramente non quelli nè del presidente della Regione Enrico Rossi nè del segretario regionale del Pd toscano Andrea Manciulli. «Bersani spiega il governatore è il naturale candidato premier. È stato eletto segretario pochi mesi fa da milioni di persone». L’invito di Manciulli e Rossi è di abbandonare le discussioni per dedicarsi ai problemi delle persone. «Dobbiamo fare squadra dice Manciulli che sta con Bersani -. Evitiamo di litigare negli spogliatoi per chi deve indossare la fascia da capitano. C’è da vincere la partita».
E il capitano-Bersani un’idea di come il Pd possa vincere la partita ce l’ha. E parte proprio dalla nuova sede dei democratici toscani, «la sala macchine» come la definisce, dove lavorano «tanti volontari della politica». Come quelli che incontrerà poi nel pomeriggio alla festa del Pd di Firenze e dopo cena a quella di Livorno. E quindi non un fine, ma un mezzo per tradurre in «i nostri ideali in cose visibili e utili per tutti». Del resto nel panorama italiano fatto dei partiti personali il Pd è l’unico, dice Bersani, dove il futuro va al di là del segretario del momento. «Un’idea di partito che è idea di societàspiega il segretario Pd . Come in Europa, dove ci sono leader pro-tempore di grandi collettivi e non i “ghe pensi mi” delle derive plebiscitarie». Quindi il passaggio successivo è quasi obbligato: costruire le condizioni politiche, e cioè «strutture, alleanze, proposte». In questo senso bersani rigetta le critiche sulla sua proposta di nuovo Ulivo come ammucchiata anti-berlusconiana. «Non è la vecchia Unione» spiega Bersani. I Mastella e i pecoraro Scanio non ci sono più e Rifondazione non è interessata a un accordo di governo, ma «a una battaglia democratica». «Il Nuovo Ulivo invece dice è un patto impegnativo fra forze che hanno un identico programma di governo».
L’obiettivo è dar vita a «una nuova riscossa italiana». Quella che chiedono i giovani che non solo sono senza lavoro, ma ormai non lo cercano neppure più. I precari della scuola licenziati da Tremonti-Gelmini. Le stesse aziende abbandonate da un governo che da mesi lascia vuota la carica di ministro dello sviluppo economico. E non a caso Bersani apprezza molto il richiamo rivolto dal presidente Napolitano (molto applaudito delle persone) al governo. In più c’è anche il pericolo che il berlusconismo ( per Bersani è ancora forte e ha consenso) pur di salvarsi produca «un ulteriore imbarbarimento della politica italiana» e la perdita di «pezzi di democrazia» senza che gli italiani se ne accorgano. «È già successo» ammonisce il leader Pd che annuncia «opposizione drastica» contro il processo breve, una «specie di amnistia pro Berlusconi». Ma per il premier non sarà facile ottenerla, avverte Bersani, perché non abbiamo ancora la Costituzione di Arcore».
La sinistra non tiene il passo di Fini di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 08.08.2010)
Alla fine, la rottura fra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera è avvenuta sull’elemento che più caratterizza il regime autoritario di Berlusconi: il rapporto del leader con la legalità, quindi con l’etica pubblica. È ormai più di un decennio che il tema era divenuto quasi tabù, affrontato da pochi custodi della democrazia e della separazione dei poteri.
Agli italiani la legalità non interessa, ci si ostinava a dire, né interessano la giustizia violata, la corruzione più perniciosa che è quella dei magistrati, l’obbligo di obbedienza alle leggi, il patto tra cittadini che fonda tale obbedienza. Anche per la sinistra, nostalgica spesso di una democrazia sostanziale più che legale, tutti questi temi sono stati per lungo tempo sovrastruttura, così come sovrastruttura era il senso dello Stato e della sua autonomia.
Fini ha ignorato vecchie culture e nuovo spirito dei tempi e ha guardato più lontano. Ha intuito che uscire dalla crisi economica significa, ovunque nel mondo, uscita dal malgoverno, dai costi enormi della corruzione, dall’imbarbarimento del senso dello Stato. Ha visto che il presente governo e il partito che aveva fondato con Berlusconi erano colmi di personaggi indagati e spesso compromessi con la malavita. Ha visto che per difendere la sua visione privatistica della politica, Berlusconi moltiplicava le offese alla magistratura, alla stampa indipendente, alla Costituzione, all’idea di un bene comune non appropriabile da privati. E ha costretto il premier a uscire allo scoperto: lasciando che fosse quest’ultimo a rompere sulla legalità, sul senso dello Stato, sull’informazione libera, ha provocato un’ammissione indiretta delle volontà autoritarie che animano il capo del governo e i suoi amici più fedeli.
In qualche modo, Berlusconi ha chiesto a Fini e ad alcuni finiani particolarmente intransigenti (Fabio Granata) di scegliere la cultura dell’illegalità contro la cultura della legalità che il presidente della Camera andava difendendo con forza. Non solo: più sottilmente ed essenzialmente, ha chiesto loro di scegliere tra democrazia oligarchica e autoritaria e democrazia rappresentativa. Il capo del governo infatti non si limita a anteporre la sovranità del popolo elettore alla separazione dei poteri e a quello che chiama il «teatrino della politica politicante». La stessa sovranità popolare è distorta in maniera micidiale, a partire dal momento in cui essa si forgia su mezzi di informazione (la tv) che il capo-popolo controlla in toto. La dichiarazione contro Fini dell’ufficio di presidenza del Pdl, il 29 luglio, erge i disvalori come proprio non segreto emblema quando afferma: «Le sue posizioni (sulla legalità) sono assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Libertà».
La sinistra non ha avuto né il coraggio né l’anticonformismo del presidente della Camera. Fino all’ultimo ha congelato la presa di coscienza italiana sulle questioni delle legge e della giustizia, ripetendo con pudibonda monotonia che «l’antiberlusconismo non giova al centrosinistra». E per antiberlusconismo intendeva proprio questo: combattere il Cavaliere sul terreno dell’etica pubblica, della legalità, della formazione dell’opinione pubblica attraverso i media. I problemi erano sempre altri: quasi mai erano la tenuta dello Stato di diritto, l’informazione televisiva manipolata, la corruzione stessa. C’erano sempre «questioni più gravi» da affrontare, più urgenti e più alte, prima di scendere nei piani bassi della legalità.
L’incapacità congenita della sinistra di vietare a chi fa politica un conflitto d’interessi, specie nell’informazione, nasce da qui ed è destinata a divenire il vecchio rimorso e il vizio assurdo della sua storia. In fondo, venendo anch’egli da una cultura totalitaria, Fini ha fatto in questo campo più passi avanti di quanti ne abbiano fatto tanti uomini dell’ex Pci (lo svantaggio di tempi così rapidi è che le sue truppe sono labili).
Questo parlar d’altro, di cose che si presumono più alte e nobili, è la stoffa di cui è fatto oggi lo spirito dei tempi, non solo in Italia. Uno spirito che contagia anche le gerarchie ecclesiastiche (non giornali come Famiglia Cristiana), oltre che molti moderati e uomini della sinistra operaista. È lo stesso Zeitgeist che in Francia, in pieno scandalo delle tangenti versate illegalmente da Liliane Bettencourt alla destra, spinge politici di rilievo a far propria l’indignazione dell’ex premier Raffarin contro la stampa troppo intemperante: «I francesi e i mezzi di comunicazione sono incapaci di appassionarsi per i grandi temi». Chi chiude gli occhi davanti al marcio che può manifestarsi nella politica sempre vorrebbe che i cittadini non vedessero la bestia, dietro l’angelo e i suoi grandi temi.
Invece l’imperio della legge fa proprio questo: rivela all’uomo la sua bestialità, gli toglie le prerogative dell’angelo. Nel descrivere il Decalogo mosaico, che della Legge è essenza e simbolo, Thomas Mann parla di «quintessenza della decenza umana» (La Legge, 1944). Alla stessa maniera, la quintessenza dell’esperienza berlusconiana è il rapporto distorto e irato con la legge e i poteri che la presidiano: un male italiano che non è nato con lui, ma che lui ha acutizzato. Un male che conviene finalmente guardare in faccia, perché è da qui che toccherà ricominciare se si vuol costruire meglio l’Italia. Se si vuol dar vita a un’opinione pubblica veramente informata, perché munita degli strumenti necessari alla formazione della propria sovranità democratica.
Per questo la dissociazione di Fini dai disvalori del Popolo della Libertà non è una frattura del bipolarismo, né tanto meno un ritorno a vecchi intrugli consociativi. È il primo atto di un’uscita dall’era di Berlusconi, da una seconda Repubblica che non ha riaggiustato la prima ma ne ha esasperato monumentalmente i vizi: ed è un atto che per forza di cose deve essere governato da un arco di partiti molto largo. Il termine giusto lo ha trovato Casini: si tratta di creare un’«area di responsabilità istituzionale», non diversamente dal modo di operare di chi predispose il congedo dal fascismo. Nell’inverno scorso, lo stesso Casini parlò di Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale che nel 1943 associò tutti gli oppositori al regime mussoliniano. Spetta a quest’area preparare elezioni davvero libere, dunque creare le basi perché le principali infermità della repubblica berlusconiana siano sanate. In seguito, il bipolarismo potrà ricostituirsi su basi differenti.
In effetti, Berlusconi non è una persona che ha semplicemente abusato del potere. Le sue leggi, le nomine che ha fatto, il conflitto d’interessi di cui si è avvalso: tutto questo ha creato un’altra Italia, e quando si parla di regime è di essa che si parla. Un’Italia dove vigono speciali leggi che proteggono l’impunità. Un’Italia dove è colpito il braccio armato della malavita anziché il suo braccio politico, e dove i pentiti di mafia sono screditati e mal protetti come mai lo furono i pentiti di terrorismo. Un’Italia in cui la sovranità popolare non potendosi formare viene violata, perché un unico uomo controlla le informazioni televisive e perché il 70 per cento dei cittadini si fa un’opinione solo guardando la tv, non informandosi su giornali o Internet.
Un governo che non curasse in anticipo questi mali (informazione televisiva, legge elettorale che non premi sproporzionatamente un quarto dell’elettorato, soluzione del conflitto d’interessi) e che andasse alle urne sotto la guida di Berlusconi non ci darebbe elezioni libere, ma elezioni coerenti con questo regime e da esso contaminate.
INTERVISTA
BEPPE VACCA: TUTTI SAPEVANO CHE ERA UN DITTATORE
"Quel paragone col Duce è un vero salto di qualità"
di Goffredo De Marchis (la Repubblica, 28.05.2010)
Presidente dell’Istituto Gramsci, intellettuale ex comunista e poi convinto sostenitore della svolta, Beppe Vacca non riesce a prendere sul serio Silvio Berlusconi. Soprattutto quando fa riferimenti storici. «Il Duce non aveva potere? Ha ragione. Infatti i partigiani che lo fucilarono non capivano niente».
Lei scherza, ma non è prima volta che il premier usa la storia del fascismo in maniera distorta e perlomeno singolare.
«Direi che stavolta c’è un salto di qualità. Mi incuriosisce il fatto che Berlusconi usi Mussolini per parlare di sé».
Poteva fare altri esempi?
«Se avesse un po’ a cuore la storia del socialismo avrebbe potuto citare Nenni. Il leader del Psi, quando entrò a Palazzo Chigi, disse: "Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni ma non li ho trovati"».
È giusta la citazione del Duce, sul piano storico?
«Non saprei dire con esattezza. Ma era proprio come spiega Berlusconi: Mussolini non aveva alcun potere. Fu un errore gravissimo dei partigiani la sua fucilazione. Loro pensavano di ammazzare un dittatore, un uomo onnipotente invece fecero fuori un passante qualunque che non aveva nessun potere. Eppure in televisione e adesso anche in qualche dvd distribuito con i quotidiani si vede Mussolini che arringa la folla a Piazza Venezia e che dichiara guerra al mondo. Lui che non aveva potere».
Il suo sarcasmo sembra un gioco intellettuale. Non è grave l’accostamento con il Duce?
«Nulla di quello che dice Berlusconi è grave. Quando Benedetto Croce accettò di scrivere per Laterza, all’editore spiego così i motivi della sua scelta: "Perché voi avete il coraggio di pubblicare cose gravi". Grave è quindi un aggettivo importante, non si può accompagnare alle dichiarazioni di Berlusconi».
Ecco le parole del Presidente del consiglio dei ministri della Repubblica italiana, Silvio Berlusconi (da la Repubblica, 28.05 2010)
«Come primo ministro non ho mai avuto la sensazione di essere al potere, magari qualche volta quando ero imprenditore. Oggi invece tutti mi possono criticare e magari anche insultare [...] Ho letto i diari di Mussolini. Oso citare le parole di qualcuno che era ritenuto un grande dittatore: dicono che ho potere, ma non è vero, lo hanno i gerarchi. Io posso solo dire al mio cavallo se andare a destra o a sinistra».
D’Alema
"In Italia ci sono Berluschini di sinistra"
ROMA - Massimo D’Alema risponde a Carlo De Benedetti. L’Ingegnere aveva parlato dell’ex premier in un libro intervista accusandolo di molti errori, di aver fatto solo politica nella sua vita e di «ammazzare il Pd» con la sua strategia. D’Alema non cita mai espressamente l’editore di Repubblica, ma a lui si riferisce quando parla di un populismo diffuso anche a sinistra: «In nessun paese si potrebbe dire che un politico non ha combinato nulla perché ha fatto solo politica. Nessuno lo direbbe a Sarkozy. Nel nostro campo - aggiunge - tanti imprenditori vogliono fare i Berlusconi di sinistra. Ma sono dei Berlusconi di serie B, dei berluschini. Lui almeno fa le cose in grande».
* la Repubblica, 18.05.2010
L’ex presidente del Consiglio è in prima linea per guidare il delicato organismo
parlamentare di vigilanza. L’attuale presidente, Rutelli, sta per dimettersi
D’Alema alla commissione per i servizi segreti
Il Pdl: nell’opposizione è il più autorevole
di CLAUDIO TITO *
ROMA - "Sicuramente è il candidato più autorevole che l’opposizione possa presentarci". Di chi si tratta? Di Massimo D’Alema. E la candidatura riguarda la presidenza del Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti.
Sebbene nel Pd sia scoppiata una vera e propria baraonda, per le parole dell’ex ministro degli Esteri sull’"utilità di certi inciuci", il suo nome è iniziato a correre in modo sempre più insistente nei canali informali di comunicazione tra governo e centrosinistra. Al punto che uno dei ministri "competenti" conferma l’esistenza di una trattativa in corso e la approva.
La successione a Francesco Rutelli, infatti, dovrebbe presto trasformarsi in una emergenza. Il leader dell’Alleanza per l’Italia è intenzionato a lasciare l’incarico di Palazzo San Macuto già questa settimana. Il 12 dicembre scorso aveva annunciato: "in settimana le dimissioni irrevocabili". Una scelta programmata dopo aver dato l’addio al Pd, che ricopriva quell’incarico in qualità di maggior partito d’opposizione.
Se dovesse emergere una convergenza forte sul "successore", il passo rutelliano assumerebbe ancora maggiore velocità. Sta di fatto, che il nome di D’Alema è diventato ormai il primo della lista per la "corsa" alla presidenza del Comitato. "Tutti i ’sospetti’ - spiega ancora un ministro che ha un rapporto diretto con il Copasir - ricadono su di lui. Ha tutti i requisiti indispensabili per questo ruolo. È forse l’unico. Speriamo ne abbia voglia".
Del resto, la pratica è ormai da tempo nelle mani di Gianni Letta. Il sottosegretario alla presidenza del consiglio - che in questi giorni sta vestendo i panni di "vicepremier plenipotenziario" - ha messo il dossier in bella vista sulla sua scrivania. Ne ha parlato con i leader del centrosinistra - in particolare con il nuovo segretario dei Ds, Pierluigi Bersani - e anche con quelli del centrodestra.
La figura di D’Alema, come ex ministro degli Esteri ed ex presidente del Consiglio, viene considerata la più adatta per guidare una commissione bicamerale, che esercita la supervisione dei nostri 007. E avrebbe ricevuto il benestare anche dei presidenti dei due rami del Parlamento: Renato Schifani e Gianfranco Fini. "Bersani e D’Alema - diceva giovedì scorso l’inquilino di Palazzo Madama - in questi giorni sono stati apprezzabili".
E forse non è un caso che nei giorni scorsi, dopo l’aggressione a Piazza Duomo, Berlusconi abbia espresso più di una lode nei confronti dell’esponente democratico. "Si è comportato in modo corretto - si è lasciato andare con i fedelissimi -. Con lui si può sempre parlare". Tant’è che il nome dell’ex premier è risuonato pure nella cena di ieri sera ad Arcore, tra il Cavaliere e lo Stato maggiore del Carroccio.
I lumbard lo considerano un interlocutore privilegiato per le riforme. Si è accennato anche all’ipotesi del nuovo ruolo. Nessun approfondimento, però, a causa dell’assenza del ministro degli Interni, Roberto Maroni, che con il Copasir ha un rapporto di diretta competenza.
La "carta-D’Alema", fino ad ora, è stata tenuta coperta. In primo luogo perché il capo del Governo, pur considerando positivamente l’opzione, vuole precise garanzie su come verrà interpretato l’incarico all’interno del Comitato. Ma soprattutto perché non tutti nell’opposizione sono intenzionati ad accendere il disco verde per Massimo.
Nella minoranza democratica, infatti - da quando Rutelli ha fondato l’Api - sono spuntate diverse "rose" di candidati. Da Arturo Parisi a Enzo Bianco, fino a Walter Veltroni. Ma di fronte ai dubbi formulati dalla segreteria di Largo del Nazzareno, di recente era stata pure avanzata un’alternativa: quella di far cadere la preferenza sul "più esperto" degli attuali commissari.
Ossia su Emanuele Fiano. Un modo per sbarrare la strada a "concorrenti" imposti dall’alto. Ma non ha fatto presa né su Bersani, né sui rappresentanti del Governo. Berlusconi e Letta preferiscono un parlamentare con "autorevoli" esperienze all’interno dell’esecutivo.
"Se D’Alema andava bene per fare Mr. Pesc - dicono i fedelissimi del Cavaliere - può andare bene pure per il Comitato sui servizi. Senza contare che a Palazzo Chigi vedono con paura la possibilità che per il "dop-Rutelli" si affacci Antonio Di Pietro. Anche l’Italia dei Valori, infatti, sta reclamando la medesima poltrona: i "dipietristi" lamentano di essere stati esclusi da tutte le commissioni di garanzia e anche dal Consiglio di amministrazione della Rai.
Il segretario del Pd, però, dopo la bocciatura di D’Alema alla Commissione europea, non ha mai nascosto in privato di condividere l’esigenza di individuare un altro incarico di prestigio. Per l’ex premier, si era fatto avanti di recente anche il Pse offrendogli, in occasione dell’ultimo congresso di Praga, la presidenza del "Global progressive forum", la fondazione dei socialisti europei. Ma a questo punto, la guida del Copasir sta diventando la via più facilmente percorribile.
* la Repubblica, 20 dicembre 2009
D’Alema rivaluta gli inciuci: alcuni oggi servirebbero
Ma Di Pietro: non mi siedo al tavolo col Pdl
di LUCIANO BORGHESAN (La Stampa, 19/12/2009)
TORINO Inciucio. A sinistra si può di nuovo dire, è Massimo D’Alema a ricordare che «per i comunisti italiani c’è sempre stato» e che «certi inciuci sono stati molto importanti per costruire la convivenza in Italia».
Oggi? «E’ più complicato, invece sarebbero utili anche adesso. Ma questa cultura azionista radicale non ha mai fatto bene al Paese», l’ex leader del Pds contrattacca rispetto a chi - come Antonio Di Pietro - lo attacca per aver lasciato ventilare che è meglio «una leggina ad personam» piuttosto che una legge tipo «processo breve» che impedirebbe la prosecuzione di tanti percorsi giudiziari (altrui). «I comunisti italiani hanno sempre dovuto difendersi da questo tipo di accuse - dice D’Alema - C’è sempre stato qualcuno più a sinistra, una cultura azionista che ha sempre contestato questo, da quando Sofri accusò Togliatti di non voler fare la rivoluzione, dall’art. 7 (Stato e Chiesa) in giù che è stato il primo grande inciucio».
Una vigilia di Natale di dialogo in casa Pd, ma non nei toni che auspicherebbe il centrodestra: giovedì sera, Dario Franceschini e Rosy Bindi alla riunione del «caminetto» con Pier Luigi Bersani non avevano sposato la prima mossa di D’Alema, ieri anche Piero Fassino si è dimostrato perplesso: «Ogni volta che ci siamo misurati con le riforme e non ce l’abbiamo fatta, la conseguenza è stata il precipitare della situazione politica». La disponibilità di D’Alema a trattare sulla giustizia trova pronta la replica di Di Pietro che già l’aveva criticato per aver strizzato l’occhio sul «legittimo impedimento» per evitare il processo-breve: «Scandaloso pensarlo: è come dire che piuttosto che essere colpiti da uno sparo, è meglio essere accoltellati», poi ha aggiunto: «Per fortuna non passerà perché i suoi stessi elettori la bocceranno».
Di Pietro proprio non c’azzecca. Alla proposta del confronto sulle riforme in materia di giustizia, l’ex pm non crede, mette sul chi va là i possibili alleati delle prossime elezioni regionali e avverte l’elettorato: «L’Italia dei Valori vuole uscire dall’ipocrisia del dialogo a parole che serve solo a coprire azioni che di fatto sono l’esatto contrario delle riforme». L’ex pm indica i “problemi” del premier e arringa: «L’unica cosa a cui serve questo dialogo è costruire spazi di impunità, spazi di economia a disposizione di pochi e a danni di molti, spazi di totale abbandono delle classi sociali più deboli. Non è dialogo, è il consenso che il sultano di turno chiede per godere vedendo soffrire».
A Torino per un convegno sull’Europa e poi a Biella sul nucleare, Di Pietro è contro il «processo breve», contesta il provvedimento per il trasferimento di giudici nelle procure scoperte, boccia ipotesi di «legittimo impedimento»: è di traverso sulla giustizia: più se ne discute e più il suo «NO» diventa maiuscolo, urlato. E non ci sta a essere definito l’uomo-ostacolo: «Noi siamo uno stimolo alle riforme vere, non alla deformazione della Costituzione». A fianco del filosofo ed europarlamentare, Gianni Vattimo, puntualizza: «In nome delle riforme, quel che finora è stato proposto è l’abrogazione dell’articolo 3 della Costituzione, perché non si vuole accettare il principio che la legge è uguale per tutti».
Nel viaggio verso Biella, ripete al segretario regionale Andrea Buquicchio, ai parlamentari piemontesi Renato Cambursano e Patrizia Bugnano che quel diritto-dovere deve essere fatto rispettare: «È chiaro che al tavolo per modificarlo non ci siederemo mai». Convintissimo «per valutazione giuridica», ma anche «per opportunità: non credo che gli elettori del centrosinistra possano accettare passi in quella direzione».
Marco Pannella a Pierluigi Bersani: il tuo caldo e tremendo equivoco...
Dichiarazione di Marco Pannella:
http://www.fainotizia.it/2009/11/07/marco-pannella-pierluigi-bersani-il-tuo-caldo-e-tremendo-equivoco
Discorso davvero splendido e ricchissimo quello che da Radio Radicale l’Italia ha potuto ascoltare da Pierluigi Bersani (rtsp://video-1.radioradicale.it/store-4/2009/20091107_11.15.24.mp3). Un solo, drammatico se non pestilenziale, limite: Bersani pensa e parla come se avesse dietro di sé non la politica partitocratica, per cinquant’anni, del comunismo organizzato italiano, nelle sue varie edizioni, ma come se avesse dalla sua la storia immensa di cent’anni di “Giustizia e Libertà”, di componente liberale della sinistra europea, in una parola persino il presente ideale ed esistenziale del Partito Radicale e della sua diaspora. Noi non mettiamo in discussione la personale onestà intellettuale di Bersani: tutt’altro! Ma, poche parole, il suo rischia di essere oggettivamente copertura di una espressione della vera, attuale, Peste Italiana che insidia di nuovo il mondo, in primo luogo l’Europa.
Nella candidatura assolutamente berlusconiana di Massimo D’Alema a posizione di assoluto rilievo e potere nell’Unione europea, non v’è che la parte terminale di un lungo percorso berlusconiano e d’alemiano, e di una verità così chiara da essere accecante per troppi, quasi per tutti: la regia berlusconiana e il convergere “strategico” del leader democratico D’Alema stanno per arrivare ad una tappa finale, foriera di un epocale disastro politico e istituzionale. Dalla metà degli anni ’90, gli episodi di questo sottotraccia della struttura e del percorso del Regime monopartitico italiano sono stati, ad esempio, ripeto: ad esempio, volti ad impedire dell’affermarsi della volontà popolare italiana di portare alla Presidenza della Repubblica nel 2000 Emma Bonino.
La candidatura di Massimo D’Alema ha oggi la forza esclusiva e determinante del potere di Berlusconi e della sua proclamata ossessivamente “italianità”. Rischia di trionfare, e per lo stesso Bersani rischia di esplodere come una seconda tragica illusione ed errore. Ma anche lui come per ora tutta la “Democrazia” (sic!) italiana, riedizione profonda di quell’”Unità Nazionale” che di già portò agli anni più tragici della seconda metà dei settanta e della prima metà degli ottanta il nostro Paese, sicché l’imperativo, tanto assoluto quanto celato, è, oggi come negli anni ’30 in Europa, eliminare, rendere inconoscibile al popolo la grande lotta, la grande Resistenza liberale contro lo tsunami fascista, nazista, comunista che, trionfante, temeva solo quella parola, quel pensiero, quella lotta. Oggi, amico e compagno Bersani, anche, persino per te, non deve esistere, deve essere assassinata.
E negli ultimi tre anni la storia del Partito Democratico sta riuscendo, pare, a essere lo strumento, il killeraggio necessario al Sessantennio partitocratico per continuare il suo tragico cammino, la sua tragica dittatura.
Voglia Iddio (al contrario del Vaticano) che questo disegno, come in gran parte degli anni ‘70, non vi riesca. So benissimo che tu e il tuo popolo non vorreste andare fino in fondo nel tentativo allora, fallito. Ma, davvero, so che tu credi di rappresentare, di avere dietro di te e di voi, non la vostra storia ma la nostra.
Noi Radicali - ripeto: Radicali - lotteremo per il possibile contro il probabile, per continuare per altri cinquant’anni a rendere sempre più viva e forte l’alternativa democratica, federalista, laica, liberale, nonviolenta. Anche per te e per voi.
Rivoluzione copernicana nel Pd" D’Alema "benedice" il segretario
di Goffredo De Marchis
ROMA - In prima fila, accanto al corridoio centrale. Massimo D’Alema occupa la sua poltronissima giù dal palco, sempre la stessa da quando è nato il Pd. Quella del dirigente senza incarichi, ma alla quale tutti guardano per vaticinare il futuro del centrosinistra. Da lì oggi vengono sorrisi e disponibilità. Al microfono della nuova Fiera di Roma, opera veltroniana e teatro degli appuntamenti democratici fin dagli esordi, sta parlando il neosegretario Pierluigi Bersani, il suo candidato. Missione compiuta, dunque. Partito riconquistato. «Nel discorso di Pierluigi vedo una rivoluzione copernicana», commenta l’ex ministro degli Esteri.
Lo convince il tono generale. Lo convincono alcuni passaggi-chiave. «Può nascere finalmente il Pd che parla al Paese, che si occupa dei temi concreti, quelli che toccano la vita dei cittadini», dice D’Alema giocando con un pezzetto di carta. Ma non parlava ai cittadini anche un partito del 33 per cento? Non erano quelli voti in carne e ossa? D’Alema scuote la testa: «Abbiamo preso il 33 per cento, poi siamo caduti precipitosamente verso soglie molto più basse. Non è una mia opinione. Sono numeri, dati di fatto. Qualcosa non funzionava, è evidente». Il confronto con la maggioranza così come lo ha declinato Bersani, esemplifica il superamento definitivo dell’era veltronian-franceschiniana. Una nuova fase dell’opposizione. «Su questo Pierluigi è stato perfetto. Il problema non è dialogo sì dialogo no. Il problema è: dialogo su che cosa. Su quali materie, su quali proposte. Il Pd ha le sue. Quali sono quelle del centrodestra? Vale lo stesso ragionamento sulla giustizia. Dobbiamo uscire dalla contrapposizione tra chi è pro magistrati e chi è contro. Dobbiamo metterci nell’ottica dei cittadini, di quello che serve a loro. Come ha fatto Bersani».
La testa è da un’altra parte, alla corsa per la carica di ministro degli Esteri europeo. Ma D’Alema rispetta la liturgia. Si alza solo per salutare le signore. Ascolta tutti gli interventi e li sottolinea con un’irrefrenabile mimica facciale. Si allontana, e salta alcune votazioni finali, solo per una misteriosa e lunghissima telefonata in inglese. Manifesta inedite simpatie. Pippo Civati, della mozione Marino, gli piace: «Ragazzo in gamba». Però i leader politici sono come gli elefanti. E D’Alema non dimentica le accuse di correntismo ricevute da quel fronte. «Facciamo un gioco. Se Marino è il primo a congratularsi con Civati significa che sono una corrente, giusto?». Civati scende dal palco, il senatore-chirurgo scatta dalla sedia e si affretta a stringergli la mano. «Visto...», esclama D’Alema con un sorrisetto. Conferma antiche freddezze. La memoria pachidermica si applica anche a Debora Serracchiani. Senza perdono. L’eurodeputata gli ha dato dell’antipatico, poi il voto: un bel cinque. Ma è brava, no? D’Alema fulmina con lo sguardo: «Ci siamo presentati dieci minuti fa, non la conosco abbastanza».
Ora che l’ennesimo segretario prende il timone il pericolo è che il Pd cominci subito a divorarlo. Bersani resisterà, ha davvero la stoffa del leader? «Penso proprio di sì - risponde D’Alema -. Ma la certezza ce la darà il suo lavoro, la prova del budino si fa mangiandolo. E le leadership si misurano sul campo». Dell’intervento di Dario Franceschini, l’ex segretario che si era candidato contro «quelli che c’erano prima», cioè D’Alema, apprezza le conclusioni. «Farsi carico di una responsabilità collettiva anche nei momenti difficili non appartiene solo alla demagogia, alle frasi di circostanza. Non adesso almeno perché il Pd è atteso da elezioni regionali complicate e mancano solo cinque mesi. Significa che se le cose non andassero bene, un pezzo del partito non punta a mettere in discussione il segretario subito dopo. Non si ricomincia daccapo».
Dove sarà lui tra cinque mesi è il problema di cui D’Alema si occupa pancia a terra da settimane. Mostra il palmare e dice: «Qui c’è tutto quello che occorre sapere sulla corsa a Mr Pesc. Anche un messaggio del ministro degli Esteri polacco. Ho fatto pace con loro». L’esternazione dell’ambasciatore di Polonia a Bruxelles contro il suo passato comunista è ormai un caso chiuso. Ma sono altri i problemi. D’Alema lo sa bene: «La Gran Bretagna aspira a una delle due cariche, presidente stabile della Ue o ministro degli Esteri. Dopo il no a Blair è difficile per l’Europa dire di no una seconda volta. Si rischia di alimentare il sentimento antieuropeo degli inglesi già piuttosto diffuso». Questo è lo scoglio più grande. Gli equilibri della geopolitica, non la caratura degli avversari. D’Alema non smette di fare la sua partita, anche se «arrivare secondi è peggio che arrivare sesti». Racconta alcuni particolari del suo lavoro diplomatico: «Se Blair fa qualche telefonata alle cancellerie europee anch’io sto facendo le mie. È vero che la questione interessa le famiglie politiche, ma parlare con i leader è necessario. Decide il Consiglio europeo, sono loro che siedono lì». E l’ultimatum lanciato dal Partito socialista europeo ai laburisti inglesi («ora basta, dateci un nome») aiuta fino a un certo punto.
Domani D’Alema è atteso a un convegno a Palermo. Poi comincia il rush finale. «Da martedì sono in stand by, controllo gli sviluppi e sono pronto anche a muovermi, vediamo in quale direzione...», dice alludendo a un possibile viaggio all’estero. Si sente coperto sul fronte italiano. Non ha dubbi sull’appoggio pieno di Berlusconi. E protegge questa carta. Perciò non fa polemiche, si fida anche di Antonio Tajani, commissario uscente del Pdl che certo non sta con le mani in mano per ottenere la riconferma: «Si sta comportando in maniera esemplare. Finora è stato correttissimo».
Dalla Lega a Fini passando per l’Udc molti consensi sul nome dell’ex presidente del Consiglio
Telefonata "di sondaggio" del cancelliere austriaco al capo del governo
D’Alema: "Grato al governo per l’appoggio
ma con il premier non farò inciuci"
di MASSIMO GIANNINI *
"BASTA, basta, basta. Voglio uscire dal pollaio italiano...". Lo ripete da quell’11 ottobre all’Hotel Marriott, quando si incarognì il duello tra Bersani e Franceschini per la guida del Pd. Pierluigi parlò "da leader", Dario fece "un comiziaccio". Massimo D’Alema si infuriò: "Se vincono loro mi tocca fondare un altro partito, per salvare la sinistra italiana. Ma sono sicuro, vinciamo noi. E dopo nessuna resa dei conti: faccio un passo indietro. Mi piacerebbe un incarico internazionale...". Ora sembra finalmente arrivata, la grande occasione dell’eterno Lider Maximo, che sta sempre lì anche quando perde e decide tutto anche quando non comanda.
La candidatura a "Mister Pesc", il ministro degli Esteri dell’Unione, non è ancora formalizzata. In Europa la battaglia, soprattutto tra i Paesi fondatori, è ancora lunga e difficile. Ma da Roma arrivano segnali positivi. Berlusconi non ha posto veti. Anzi, Palazzo Chigi si dichiara pronto a sostenere l’eventuale candidatura italiana. Tanto basta, per l’ex premier ed ex titolare della Farnesina ai tempi del governo Prodi, per giocarsi la partita. Una partita dura, ai limiti del proibitivo: l’Italia è ininfluente e screditata nella comunità internazionale. Ma se per qualche fortunata combinazione del destino finisse bene, sarebbe un ottimo risultato per il Paese.
D’Alema tesse la sua ragnatela da tempo, con i suoi referenti nel Partito socialista europeo. "Pochi giorni fa", diceva ieri sera, ricostruendo con il suo staff le tappe delle trattative in corso, "c’è stato un primo accordo tra i capi di governo popolari e socialisti, da Zapatero alla Merkel, da Brown a Sarkozy: ai primi toccherà il presidente, ai secondi il ministro degli Esteri d’Europa. A quel punto il Pse ha incaricato un "terzetto", formato da Zapatero, Rassmussen e Werner Faymann, di formare una rosa di nomi per "Mister Pesc", e negoziarla con i popolari. Io sono in quella rosa, e questo è un primo passo, solo un primo passo...".
È il primo passo, perché il secondo non tocca all’Europa, ma all’Italia. I socialisti francesi e quelli tedeschi hanno chiesto a D’Alema: "Ma se noi ti designiamo, poi il tuo governo ti sostiene oppure no? Perché se ti scarica, allora è inutile che ti mettiamo nella rosa...". L’ex ministro, sul punto, ha alzato le mani. "Capisco il problema: Barroso viene nominato con l’appoggio del governo socialista, è chiaro. Io non so che cosa ha in testa Berlusconi. Una cosa è certa: io non gli chiedo niente. È lui che deve valutare se un italiano, seduto su quella poltrona, è una cosa buona per il nostro Paese oppure no". Il "terzetto" ha capito. E a quel punto si è mosso in autonomia.
Il cancelliere austriaco, ieri, ha telefonato personalmente a Berlusconi e Frattini, per sondare "in via preliminare" gli umori del governo italiano. E ha trovato una disponibilità inaspettata. Così è nata la nota di Palazzo Chigi in cui si dice che "il governo valuterà con serietà e responsabilità le candidature capaci di assicurare all’Italia un incarico di così alto prestigio". Così è nata la replica di D’Alema, che si dichiara "grato al governo italiano" per questa disponibilità.
Ma questo, ancora, è solo il secondo passo. Ora manca il terzo, quello decisivo. Il sostegno di Roma non basta. E anche questo D’Alema lo sa bene. "Adesso si apre il confronto tra i partner", raccontava ai suoi collaboratori ieri sera, "e lì la strada per me è tutta in salita...". Gli inglesi sono rimasti bruciati sulla presidenza per Blair, e ora cercano una compensazione su "Mister Pesc" con Miliband. Al tempo stesso i francesi sono sparati sul loro candidato, Hubert Vedrine, che è già stato ministro degli Esteri. Poi ci sono i tedeschi, con l’altro ex ministro, Frank Walter Steinmeier. "Insomma", ragionava D’Alema, "io rischio di essere il classico vaso di coccio...". E questo rischio, ovviamente, cresce nella misura in cui non c’è un sostegno convinto da parte del governo di Roma.
In attesa di capirlo meglio, D’Alema incassa intanto il "mancato veto", che nelle condizioni date è già qualcosa. La posta in gioco è alta, più che per il Lider Maximo, per l’Italia. In questi giorni è stato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, a spiegarlo in tutti i modi al Cavaliere e a Gianni Letta, dopo aver parlato a lungo proprio con D’Alema, durante il convegno di Asolo sull’immigrazione: "Caro Silvio, metti da parte le logiche politiche: questa nomina conta per il Paese".
Forse il premier si è convinto. Ma come sempre (Bicamerale docet) quando in ballo ci sono Berlusconi e D’Alema si moltiplicano, inevitabili, i soliti sospetti. Quale "inciucio" c’è dietro, stavolta? Il dubbio alligna a destra, dove un ministro leghista come Calderoli lo alimenta: "Ora, finalmente, sarà possibile fumare il calumet della pace, e fare insieme le riforme che servono al Paese". Ma lavora come un tarlo anche a sinistra, dove un pezzo di Pd (Franceschini in testa) lo va ripetendo da due mesi: "Se vince Bersani, la grande tregua sarà cosa fatta. E la nomina di D’Alema a Mister Pesc sarà il suggello del nuovo patto...".
Adesso che il patto si profila, e secondo molti sa un’altra volta di "crostata", i malpensanti lavorano di fantasia, e cercano di immaginare su quale terreno sia avvenuto, o avverrà, lo "scambio" tra Silvio e Massimo. Fini lo ha predetto a D’Alema, sempre nei colloqui riservati di Asolo: "Capisco che aspiri a quell’incarico internazionale, ma sai meglio di me che, se Berlusconi te lo offrirà, un minuto dopo ti chiederà una contropartita. E tu, di nuovo, sai meglio di me che quella contropartita si chiama riforma della giustizia...". D’Alema era preparato, e non ci ha pensato un attimo: "E tu sai meglio di me, caro Gianfranco, che se il Cavaliere mi facesse un discorso del genere io non potrei che rispondergli un no grosso come una casa...".
Nonostante questo, nel Pd fa scuola la trita massima andreottiana: a pensar male... con tutto quel che segue. Anche su questo D’Alema sembra preparato: "Capisco tutto: la battaglia congressuale, lo scontro sulle primarie, tutto quello che volete. Ma io con Berlusconi non ho fatto e non farò mai nessun inciucio. Di "Mister Pesc" non gli ho mai parlato e non gli parlerò mai. Una nomina italiana a ministro degli Esteri d’Europa è una questione di grande interesse nazionale, non un pastrocchio da piccolo interesse di bottega. Se qualche imbecille non lo capisce, peggio per lui".
m. giannini@repubblica. it
ABUSO ISTITUZIONALE DEL NOME "ITALIA" DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: DIMISSIONI SUBITO.
A sorpresa. Insieme nei giardini di Villa Madama. L’ex leader ds scherza sul sottosegretario
Stretta di mano Berlusconi-D’Alema
Letta favorisce l’incontro. Il Cavaliere: ci vorrebbero più occasioni così
di Marco Galluzzo (Corriere della Sera, 15.10.2009)
ROMA - Gianni Letta prende per mano Massimo D’Alema. Per un attimo. Gianni conduce e Massimo lo segue. Fra le aiuole appena potate dei giardini di Villa Madama Berlusconi è circondato da una decina di persone. Spunta Letta e con lui il suo sorriso, il cordone si apre: il sottosegretario di Palazzo Chigi si fa da parte e l’ex leader dei Ds si trova davanti al capo del governo. Il Cavaliere ha un attimo d’esitazione, il corpo si sbilancia impercettibilmente, i tratti del volto tradiscono la sorpresa di un incontro inatteso.
Ieri mattina all’ora del pranzo. D’Alema e Berlusconi si stringono la mano. Agli occhi soddisfatti di Gianni Letta si aggiungono quelli dei presenti: fra gli altri il consigliere Rai Alessio Gorla, il presidente dell’Enac Vito Riggio, il presidente di Adr, Fabrizio Palenzona, la senatrice del Pdl Cinzia Bonfrisco. A rompere il ghiaccio è l’ex premier: «Sono qui perché si discute dell’interesse comune, sulle cose importanti per il Paese io ci sono...». Risponde il Cavaliere, i tratti del viso non più contratti: «Ci vorrebbero più occasioni di trovarsi insieme per cose simili, nell’interesse dell’Italia».
Fotografi e giornalisti sono lontani. Perdono i sorrisi reciproci, l’ironia della conversazione, la stretta di mano. È appena terminata la presentazione congiunta degli investimenti finanziari che Aeroporti di Roma e Sea, la società aeroportuale milanese, compiranno nei prossimi anni. Poco distante ci sono anche i sindaci delle due città, Gianni Alemanno e Letizia Moratti, il segretario generale della Farnesina, Giampiero Massolo, che ha fatto gli onori di casa. È Palenzona dal palco a introdurre l’argomento: «Ho un piccolo sogno nel cassetto - dice rivolto ai presenti, fra i quali i ministri Altero Matteoli (Infrastrutture) e Sandro Bondi (Beni culturali) - e cioè che con l’aiuto della minoranza, almeno quella responsabile, si possa fare un piano nazionale della mobilità per uomini e merci per sbloccare questo benedetto Paese » . Intorno all’interesse del Paese, a quella convergenza strategica che finora è mancata nella legislatura, per pochi attimi, a beneficio dei presenti, D’Alema e Berlusconi si trovano d’accordo. Nessun accenno alle polemiche degli ultimi giorni. «Dobbiamo fare altre cose di questo tipo - aggiunge il Cavaliere -, io sono il primo a essere felice quando in questo Paese si riesce a lavorare insieme, spero in altre occasioni». D’Alema: «Io sono sempre pronto... ». Poi, scherzando, rivolto a Palenzona, «e con te sono offeso, guarda che tutta l’opposizione, non solo una parte, è fatta di gente di buon senso». Pochi istanti dopo D’Alema si congeda citando ancora Palenzona: «Ora vado a bere un po’ d’acqua... di Letta». Il presidente di Adr poco prima ha paragonato proprio il sottosegretario all’aqua: «Come l’acqua ti accorgi quanto vale quando ti viene a mancare». D’Alema ricorda che il concetto è una parafrasi di Baudelaire, il poeta lo diceva a proposito dell’amore: «Anche se nel tuo caso - dice rivolto al sottosegretario - il paragone con l’amore mi sembra esagerato». Risate. Riggio: «Figuriamoci se non è esagerato parlare di amore oggi, visto che trattiamo di aeroporti». Chiude la riunione una battuta del premier: «Quando si parla di Letta ormai vivo una crisi di identità. È sempre più bravo di me... » .
D’Alema è già lontano, ancora poco e Berlusconi rientrerà a Palazzo Grazioli, dove l’attende il ministro della Giustizia e tutti quegli affari, correnti e straordinari, che fino a oggi non sono mai stati trattati da governo e minoranza, «nell’interesse del Paese», di comune accordo.
D’Alema: sbagliato l’antiberlusconismo che diventa anti-italiano
Sferzata di D’Alema «L’antiberlusconismo a volte è anti-italiano»
«Non siamo gli illuminati in un Paese disgraziato»
«Questo antiberlusconismo che sconfina in una sorta di sentimento anti-italiano è l’approccio peggiore alla grande sfida politica che il Paese ha di fronte». Lo ha detto ieri Massimo D’Alema, in qual che modo riecheggiando le parole pronunciate poche ore prima da Silvio Berlusconi. «L’opposizione - aveva affermato il presidente del Consiglio presentando la Finanziaria - è anti-italiana, fa il tifo per la crisi e non vuole che l’Italia ne esca». E parlando con i giornalisti Berlusconi ha aggiunto: «Ho chiesto ai ministri di non rispondere più a domande sul gossip. Da qui in avanti a me potete fare solo do mande di politica vera».
di Paolo Foschi (Corriere della Sera, 23.O9.2009)
ROMA - «L’opposizione è anti-italiana»: l’ennesimo j’accuse lanciato da Silvio Berlusconi contro il centrosinistra divide il Pd. E, un po’ a sorpresa, mentre altri esponenti del partito reagiscono con toni duri al capo del governo, il premier riceve, in qualche maniera, l’appoggio di Massimo D’Alema.
«C’è un anti-berlusconismo che sconfina in una sorta di sentimento anti-italiano. Questa concezione di una minoranza illuminata che vi ve in un Paese disgraziato è l’approccio peggiore, subal terno, che possiamo avere. Piuttosto bisogna sforzarsi di capire le ragioni della destra. Una destra nuova, post-libera le, anzi spesso illiberale», afferma il presidente della Fondazione Italianieuropei inter venendo alla presentazione del libro A destra tutta - Dove si è persa la sinistra? , dello storico Biagio De Giovanni. E - ancora - D’Alema aggiunge che «la sfida per il Partito democratico non è inseguire la destra nel suo terreno, ma proporre un riformismo alternativo a quel poco o niente di innovazione che è stata la destra negli ultimi 15 anni». Secondo l’esponente del Pd bisogna dunque lavorare a un progetto riformista «senza demonizzare Berlusconi, sebbene al processo di demonizzazione reciproca Berlusconi ha dato un contributo potentissimo. Non è facile andare a un bipolarismo mite avendo davanti un avversario che tutto è, tranne che mite ».
Rosy Bindi, che nel dibattito congressuale, come l’ex ministro degli Esteri, sostiene Bersani, non sembra però convinta: «È vero - commenta a tarda sera - che c’è un certo anti-berlusconismo che rischia di essere improduttivo. Ed è altrettanto vero che D’Alema parla sempre per paradossi. Ma essendo convinta che Berlusconi non stia facendo il bene dell’Italia, credo che combatterlo faccia bene all’Italia». Prima la parlamentare del Pd aveva comun que invitato Berlusconi a «moderare il linguaggio» a «rispettare l’opposizione»: «Anti-italiani a chi? Pensi al suo governo. Un governo che vara leggi incostituzionali come il Lodo Alfano e introduce il reato di immigrazione clandestina paralizzando le procure d’Italia; un governo che ap prova una Finanziaria al buio senza affrontare i nodi della crisi lasciando sole le fami glie e le imprese; un governo che colleziona figuracce alle Nazioni unite. È questo governo che dimostra di non avere a cuore il bene del Paese e di lavorare contro la dignità de gli italiani».
Enrico Morando, senatore di area veltroniana e sostenitore della mozione Franceschini, riconosce che «spesso c’è un pregiudizio nei con fronti di Berlusconi che an nebbia la mente a una parte del centrosinistra». E aggiunge: «Già diversi mesi fa avevo scritto che dovremmo occu parci di più di capire le ragio ni della destra e perché molti italiani si riconoscono in Berlusconi. Detto questo, critica re per esempio le politiche economiche di questo gover no non ha nulla di anti-italia no ». Secondo Morando, «l’immobilismo davanti alla crisi è sotto gli occhi di tutti. Siamo di fronte a un governo che ha negato la crisi in tutte le maniere e anche quando ha riconosciuto che c’è, a differenza di tutti gli altri Paesi non ha messo in campo interventi decisi per affrontare la situazione. Tacere di fronte a questo atteggiamento da parte del l’opposizione sarebbe irresponsabile ». Semmai, conclude il senatore, è «anti-italiano il comportamento di un governo che lascia gli italiani in balìa della crisi».
Dario Franceschini invece è netto nel liquidare l’attacco di Berlusconi all’opposizione. Come aveva detto prima dell’intervento di D’Alema: «Anti-italiano non è chi dice la verità e cerca di dare voce agli italiani in difficoltà, ma è un capo del governo che da oltre un anno nasconde la realtà della crisi e non dà risposte a milioni di italiani che non hanno più un reddito per vivere ». E poi: «Anti-italiano è chi imbroglia il popolo».
in occasioNE della presentazione del suo ultimo libro: «noi»
Veltroni: «Non tutto il male è colpa di Berlusconi»
«Ma il Premier responsabile è di non aver migliorato Paese, pur dominando la scena politica da 15 anni» *
ROMA - «La colpa più grave di Berlusconi è quella di non avere migliorato in nulla il paese pur dominandone la politica da 15 anni, ma non credo che con lui scompariranno anche l’egoismo e l’individualismo». Walter Veltroni in un’intervista a «Il resto del Carlino» dice di non essere convinto che le responsabilità dello stato attuale del Paese siano tutte attribuibili al premier. «Credo però- aggiunge - che chi ha responsabilità di governo non dovrebbe alimentare gli aspetti più deteriori dell’epoca in cui vive. Detto questo...».
IL NUOVO LIBRO - L’ex segretario del Pd parla in occasione della pubblicazione del suo ultimo romanzo «Noi» e nella sua analisi individua nella società «una spinta all’odio». Uno dei capitoli del libro è ambientato negli anni settanta , «anni del terrorismo e della violenza cieca». Come lo spiega? «Siamo un paese che tende a prendere forti sbandate ideologiche. Si sono trasformati in ideologie persino il berlusconismo e l’antiberlusconismo , e il mio grande dolore - dice - è stato non essere riuscito ad avviare una stagione di collaborazione nell’interesse dell’ Italia dopo le elezioni». Colpa di molti dirigenti del Pd e di Di Pietro? È la domanda. «Si anche - risponde Veltroni - ma soprattutto del fatto che il centrodestra ha preferito ripetere il copione della contrapposizione frontale».
* Corriere della Sera, 23 agosto 2009
Così il Pd ha perso la voce
di LUIGI LA SPINA (La Stampa, 23/8/2009)
Un assordante silenzio. L’esempio più scolastico di un ossimoro potrebbe davvero definire l’afasia politica che ha caratterizzato l’agosto del principale partito d’opposizione. Sia sulle grandi questioni internazionali, come la difficile situazione in Afghanistan e in Iraq, sia sul dibattito in vista delle prospettive autunnali della nostra economia, fino ad arrivare alle baruffe estive sull’Inno di Mameli o sui dialetti, il Pd si è distinto per una assoluta mancanza di reazioni. Un riserbo insolito per le abitudini della politica italiana, dove l’esternazione prevale sempre sulla meditazione.
Le uniche voci che si sono udite da quelle parti, ascoltate peraltro senza suscitare particolari emozioni, sono state raccolte in alcune interviste ai due contendenti favoriti per la futura segreteria del Pd, Bersani e Franceschini, impegnati in qualche stanca polemica interna.
Poiché l’auto-oscuramente dialettico agostano sarà forzatamente interrotto dall’avvenuta apertura della festa nazionale di quel partito, a Genova, c’è da sperare che la lunga pausa, dedita evidentemente a una profonda riflessione, sia servita affinché i leader Pd ci rivelino finalmente una organica, concreta e innovativa proposta di governo del nostro Paese. Tutti gli italiani, sia quelli che hanno votato per Berlusconi, sia quelli che non l’hanno fatto, vorrebbero confrontare le ricette finora attuate dall’esecutivo con quelle suggerite dal maggior partito dell’opposizione. Senza dover solo ascoltare battute, più o meno divertenti, sulla vita privata del presidente del Consiglio o critiche alle misure governative prive, però, di una esposizione delle ipotesi alternative basate su realistici e sostenibili conti di spesa. L’improvviso mutismo dei dirigenti democratici è apparso l’inevitabile risultato di una delusione largamente scontata e da loro del tutto prevista: quella seguita all’annunciato fallimento della campagna per far dimettere Berlusconi a causa del sue vicende sessual-matrimoniali. Una sindrome tipica di frustrazione, umana prima che politica, che colpisce inevitabilmente chi è stato costretto a partecipare a una battaglia, sapendo già che l’esito sarà infausto.
A questo punto, il rischio più grave per quel partito è che l’avvicinarsi della data del congresso finisca per accentuare il fenomeno di introversione politica del Pd. Una sindrome solipsistica che, comprensibile nella prima fase di ricerca dei motivi della sconfitta elettorale, non solo si è trascinata per un tempo insopportabilmente lungo, ma, di fatto, ha spento il collegamento tra il partito e la sua base elettorale.
In una democrazia regolarmente funzionante, infatti, occorre sia che l’opposizione sappia influire sull’operato della maggioranza, sia che non lasci quella parte di elettorato che non ha aderito alle proposte governative senza una salda rappresentanza politica.
Tra gli altri, si possono citare due clamorosi esempi di allentamento del legame che il Pd ha sempre avuto con categorie sociali e professionali vicine al partito. Il primo caso si è manifestato con la vicenda degli operai milanesi della Innse saliti per giorni su una gru, pur di difendere il posto di lavoro in pericolo per la minacciata chiusura dell’attività nella fabbrica dove lavorano. In altri tempi, la solidarietà del partito alla loro lotta si sarebbe manifestata con la tradizione di vigore e di clamore che tutti ricordiamo. In questa occasione, invece, l’appoggio è stato molto flebile e la voce del Pd si è confusa nel generico coro di auspici che veniva dalla classe politica locale.
L’altro clamoroso esempio, a questo proposito, è venuto dalla fiacca, generica e imbarazzata reazione del Pd alle iniziative del ministro Gelmini sulla scuola. Maestri e professori, notoriamente, costituiscono, o costituivano, una delle riserve privilegiate per i consensi al maggior partito dell’opposizione italiana. Ebbene, il Pd, diviso tra la consapevolezza della insostenibilità dell’andazzo corrente nelle aule del nostro Paese e l’impossibilità di ammettere la corresponsabilità per una egemonia culturale e politica in quel settore che ha prodotto risultati così negativi, non ha saputo opporre alle riforme governative alcun progetto credibile e organico di serio cambiamento. Limitandosi ad opporsi ritualmente alle proposte della Gelmini e lasciando sostanzialmente soli quegli insegnanti che pur fanno riferimento al partito.
Sono giuste le preoccupazioni di chi lamenta un panorama politico esclusivamente monopolizzato dal duello interno tra Lega e Partito della libertà e da un orizzonte culturale limitato al contrastato rapporto tra il governo e il Vaticano. Ma anche la «solitudine» di importanti ceti sociali del nostro Paese che non si sentono più difesi dai loro tradizionali rappresentanti nella classe politica nazionale consegna al futuro della nostra democrazia molte inquietudini.
Conflitto d’interessi, la mia legge e il mio saluto ai lettori de l’Unità
di Furio Colombo *
Ho appena depositato alla Camera dei Deputati la legge sul conflitto di interessi, la stessa che avevo preparato alla Camera nella XIII Legislatura (1996)e che avevo presentato al Senato non appena eletto nel 2006, secondo e ultimo governo di Romano Prodi.
Lo annuncio su questo giornale come si farebbe in una corsa a staffetta, per lasciare traccia del passaggio e dunque come raccordo e testimonianza di lavoro insieme a conclusione di un pezzo bello e difficile (bello nel giornale, difficile in Italia) passato sotto la testata de l’Unità.
Vado, come molti lettori sanno, in cerca di una nuova avventura, mentre resta intatta l’amicizia e gratitudine per questo giornale, per chi mi ha così straordinariamente sostenuto e aiutato quando lo dirigevo, per chi ha diretto, dopo, con coraggio e bravura.
Affido il testo della mia legge sul conflitto di interessi a l’Unità (sapendo che lo pubblicherà ne l’Unità on line) perché è il cuore di tutti questi anni di opposizione a Berlusconi. So, naturalmente, che Walter Veltroni ha annunciato una sua legge sul conflitto di interessi nel prossimo futuro. Ne sono felice e non vedo l’ora di confrontare i due testi. Non è una gara. È un impegno comune. È l’impegno che avrebbe dovuto identificare subito il Partito Democratico.
È impossibile nominare un solo tratto della persona, della leadership, del ruolo politico, del governare di Berlusconi senza scontrarsi in pieno con il macigno immenso del conflitto di interessi. La prima e più convincente prova è nel senso di «vecchio» e «già detto» o «già usato» che sarà la reazione di molti lettori.
Il colpo di genio è stato questo: liquidare come ridicolo, noioso, inutile, se necessario eversivo ogni tentativo di tornare a parlare di conflitto di interessi. Conta il totale, ferreo controllo mediatico per dirottare un Paese? La prova è ciò che è accaduto ai Radicali (il partito di Pannella e di Bonino). Una serie di manifestazioni anche drammatiche come lo sciopero totale della sete e della fame del leader di quel partito ha infranto, verso la fine della campagna elettorale per le elezioni europee, il totale blocco che ha quasi sempre impedito ai Radicali di essere visti o ascoltati. So che l’esempio è imperfetto perché l’ossessivo embargo a danno dei Radicali non risale a Berlusconi ma a molto prima. E tuttavia serve a dimostrare il punto. Una volta rimosso, sia pure per pochi giorni, il sacro divieto, Pannella, Bonino e il gruppo Radicale alle elezioni Europee sono magicamente balzati dall’uno al tre per cento e in alcune grandi città hanno raggiunto (ricordate, in pochi giorni) il cinque, il sei, il sette per cento.
Chi domina le fonti pubbliche e private delle notizie e mostra di poter creare per i fedeli carriere precoci e grandiose, come è accaduto per Minzolini, e fa sapere di gestire al meglio il destino maschile e femminile di chi si affida al buon cuore di quel potere, è in grado di chiudere porte che dovrebbero essere aperte, di aprire brecce vastissime a illustrazione della sua gloria. È - soprattutto - in grado di scoraggiare quelle stupide domande (tipo "ma chi è Elio Letizia e perché Berlusconi ha dovuto andare a Casoria nel giorno, nell’ora, nel luogo e con le imbarazzanti persone indicate"?) che rovinano una carriera.
È una legge semplice. Risponde a tre domande. Chi è incompatibile con la responsabilità diretta del potere? Chi lo diventa se si violano alcuni limiti e alcune condizioni? Quali incompatibilità non si possono cancellare? Nella vita sociale e professionale vi sono molto rigorose incompatibilità accettate da tutti in base a dati di fatto e regole precise.
Un uomo sposato non può avere una seconda moglie. Un giudice, restando giudice, non può fare l’avvocato.
Un deputato o senatore non può legalmente dirigere una azienda o un giornale ed esserne responsabile. In nessuno di questi casi si dice che l’incompatibilità viola un diritto. La regola, se mai, serve a impedire che un diritto si espanda in uno spazio che gli altri cittadini non hanno. La regola non è una ingiustizia ma la barriera contro il pericolo di una ingiustizia. Semplice? Abbastanza, tanto che queste incompatibilità ci sono nelle democrazie di tutto il mondo. In Italia, da quindici anni, reazioni scomposte fanno subito barriera se appena nominate il conflitto di interessi.
Ecco dunque perché tutto comincia (e molto finirebbe) con una legge seria, prioritaria, severa. È stata la prima cosa che abbiamo fatto ridando vita a questo giornale.
I colleghi coraggiosi e i lettori di allora ricorderanno l’ondata di attacchi personali e di calunnie. Ai colleghi e ai lettori di adesso lascio lo stesso impegno. E lo stesso rischio.
IL TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE
* l’Unità, 02 agosto 2009
D’Alema: «Presto ci saranno scosse» *
«Nella vicenda italiana potranno avvenire delle scosse». Massimo D’Alema risponde così a Lucia Annunziata che gli domanda del “complotto” paventato da Berlusconi. «Anche perché - osserva - Berlusconi non è uomo che accetti il declino politico e umano, animato com’è da un mito dell’eterna giovinezza, miti sempre pericolosi...». Ma che vuol dire prefigurare «scosse», chiede l’intervistatrice? «Scosse significa momenti di conflitto, difficoltà anche imprevedibili. Del resto, le scosse sono così... imprevedibili...». «Questo - riprende - richiede che l’opposizione sia in grado di assumersi le proprie responsabilità e anche - sottolinea - che sia nella pienezza delle sue funzioni».
Spiegando, in seguito, a cosa si riferisse e a chi guardasse Berlusconi quando parla di “complotto” D’Alema ha precisato: «Non c’è dubbio che Berlusconi si riferisce al suo mondo: noi siamo all’opposizione ed è certo che noi non difendiamo la sua maggioranza. Teme quelli intorno a lui». Il presidente di ItalianiEuropei ha sottolineato che il premier è «un leader dimezzato, colpito nella sua credibilità, non solo a livello internazionale, ma anche nel Paese» perché «incapace di fare riforme». «Nel centrodestra c’è un malessere evidente» e a comandare è «la guardia pretoriana, che è Bossi. Le guardie pretoriane hanno sempre più potere dei senatori».
Passando poi al Pd D’Alema ha detto che «il miglior segretario è quello che eleggeremo. Il Pd nella sua grande saggezza sceglierà il migliore». Alla domanda se lui candidasse ancora Bersani, D’Alema ha replicato: «Lo devo confermare tutti i giorni? Io ho sempre fatto quello che ho detto e basta che lo dica una volta, non c’è bisogno di ripeterlo». A Lucia Annunziata che ha insistito e gli ha chiesto se il ticket per la direzione del partito sarà quello di Letta e Bersani e D’Alema ha glissato: «Le darò una risposta non soddisfacente ma di congresso se ne parlerà dopo i ballottaggi, giustamente in questo momento abbiamo il dovere di vincere le elezioni e siamo impegnati in questo».
* l’Unità, 14 giugno 2009
D’Alema: «Questa destra si può battere»
di ro.ard. *
La Fiera del libro di Torino è l’occasione per rilanciare il centrosinistra, «che è pienamente in campo e in grado di contrastare il centrodestra». E lo fa lo stesso Massimo D’Alema presentando il suo libro “Il mondo nuovo. Riflessioni sul Pd” (Italianieuropei), presentato da Ferruccio De Bortoli e Carlo Ossola. «Il centrosinistra italiano governa gran parte delle città, delle regioni, delle province italiane. Siamo perfettamente in grado di contendere il terreno a questa destra». La sinistra ha dimostrato, secondo D’Alema, in questi ultimi quindici anni di crisi del Paese di essere presente: «Abbiamo governato il Paese per sette anni - ha detto - Berlusconi per otto: mi pare che siamo in campo».
Intervenuto questa mattina, prima di un incontro sulla memoria del Novecento, con Fausto Bertinotti e Giovanni De Luna, e poi alla presentazione del suo libro, D’Alema ha analizzato la storia della sinistra italiana sottolineando come dopo il 1989, data cruciale a livello politico, c’erano tutte le condizioni perché la destra occupasse il campo della politica, «eppure questa sinistra, in pieno sconvolgimento delle sue radici storiche, è riuscita a contendere il campo alla destra con una grande forza democratica».
Per D’Alema questo è un risultato tutt’altro che disprezzabile. Quello che serve alla sinistra oggi, e che non è ancora stato fatto, è «riannodare i fili di tutti quei racconti individuali che risultano frammentati. Serve - ha sottolineato D’Alema - una riflessione sulla storia della sinistra italiana e sulla sua funzione nella storia democratica del Paese».
È necessario, per l’esponente del Pd, definire cosa è vivo ancora oggi e cosa deve essere riconsegnato al passato e alla sconfitta storica del comunismo internazionale; ma, ed è questa la cosa importante, «il centrosinistra italiano è una realtà straordinaria che rappresenta metà del Paese. Lo “sconfittismo” serve alla classe dirigente politica per non vedere i propri errori».
* l’Unità, 17 maggio 2009
Il Pdl Le prime assise
«L’era Silvio? Non avevamo capito nulla»
Violante: nel Pds si ironizzava. Solo Pecchioli comprese, D’Alema intuì qualcosa *
ROMA - «L’inizio di tutto? Ho un ricordo netto, visivo, e quasi fisico: ero nel mio ufficio di presidente della commissione Antimafia, a Palazzo San Macuto, e stavo guardando i tigì di mezza sera. All’improvviso sentii dare questa notizia: "L’imprenditore Silvio Berlusconi ha deciso di appoggiare il leader dell’Msi Gianfranco Fini che, nella corsa a sindaco di Roma, è impegnato contro Francesco Rutelli, candidato del centrosinistra"... Beh: mai, prima di quel momento, c’era stato qualcuno così sfrontato nell’appoggiare un esponente di destra, e di una destra vera, autentica... che anno era?».
Era il 23 novembre 1993.
(Luciano Violante ha 68 anni ed è nato a Dire Daua: il padre, giornalista comunista, fu costretto dal regime fascista ad emigrare in Etiopia. Ma su questo non indugiamo: è pomeriggio tardi, dalle finestre del suo ufficio al terzo piano di via Uffici del Vicario si vede il sole venire giù su Roma. È un ufficio bello ed elegante come il rango di ex presidente della Camera impone. Naturalmente di Violante, ora nel Pd, occorre ricordare che fu anche magistrato di spicco e alto dirigente del Pci, e poi, ma questo è in molti libri di storia, uno dei pochi e sinceri amici di Giovanni Falcone).
Berlusconi-all’epoca padrone di tv e strepitoso presidente del Milan - decide di mettersi a fare politica: voi del Pds cosa pensaste? «Pensammo ciò che pensò buona parte della classe politica italiana sopravvissuta a Tangentopoli: ma chi è questo? Cosa vuole? Come si permette di irrompere nella nostra politica in modo così sgrammaticato?».
Tutti sorpresi. «No... forse non tutti. Ugo Pecchioli, che era presidente della commissione per i Servizi, qualcosa intuì».
Tipo? «Lui era un politico assai rigido, rigoroso. Di pura cultura comunista. Ma ricordo che un giorno mi disse: "Attenti, le cose nuove, in politica, nascono così"...».
E i diccì? E i socialisti? «Erano provati dalle vicende di Tangentopoli... Ma tipi come Martinazzoli e Cabras... e anche come Gargani...».
Cosa dicevano? «Mah, è probabile che loro qualcosa, delle potenzialità di Berlusconi, intuissero. In fondo loro avevano frequentato Bettino Craxi, erano stati suoi alleati e perciò lo avevano incontrato in privato, con lui avevano trattato...».
E quindi? «Beh, credo che una certa sua capacità di rompere gli schemi, in fondo, la ritrovassero anche in Berlusconi».
Voi, invece, rigidi. «Non capimmo che cominciava una nuova era».
Perché? «Aneddoto. Pranzo di Pasqua, a casa mia, in montagna, a Cogne: tra gli ospiti una signora che era funzionaria di Publitalia. La quale, ad un certo punto, fa: "Io ve lo dico... guardate che quello sta fondando un partito"...».
E voi? «Scettici. Pensando: e che un partito si fonda così?».
Ingenui. «Ci credevamo poco. Mentre lui tesseva alleanze, stringeva patti con la Lega, con la destra... noi ironizzavamo».
Per esempio, quando? «Quando si seppe che ai suoi adepti forniva un kit di ordini: lasciare i bagni puliti, essere sempre sbarbati...».
E quando, il 26 gennaio del 1994, Berlusconi registrò il suo primo messaggio televisivo, mettendo una calza da donna davanti all’obiettivo della telecamera per garantirsi così un effetto visivo più fascinoso? «Pensammo fosse una roba poco seria. E sbagliammo. Perché lui, invece, aveva già intuito come la nuova società italiana stesse cambiando e, alla verità del merito, tipica della nostra storia comunista, si stesse sovrapponendo la verità della forma».
Achille Occhetto, avversario designato. «All’ultimo match televisivo si presentò con un abito marrone in stoffa "occhio di pernice" piuttosto triste... Berlusconi, di fronte, come un manichino lucente...».
Ma lo sottovalutaste davvero a lungo. Veltroni, all’epoca direttore dell’«Unità », gli consentì addirittura di scrivere un editoriale in prima pagina per spiegare l’uso delle sue tivù. Vittorio Foa lo definì una «bolla di sapone»... «Davvero Foa disse questo?... Se posso aggiungere, però, ricordo che D’Alema, almeno lui, non fu tenero. La verità è che Berlusconi, dopo che i suoi tigì avevano cavalcato Tangentopoli, si presentò dicendo "io sono il nuovo". Noi, automaticamente, diventammo il vecchio».
Eppure voi, fino all’ultimo, pensaste di vincere. Occhetto definì la vostra armata elettorale una «gioiosa macchina da guerra». «Propaganda. Io dico che se ci fossimo alleati con i popolari di Martinazzoli avremmo vinto. Comunque, negli ultimi due giorni di comizi, capii che avremmo perso. A Palermo, a Caltanissetta....
Ci fu un suo incidente con Marcello Dell’Utri. «Il quotidiano La Stampa mi attribuì frasi che io non avevo mai pronunciato. Occhetto mi costrinse alle dimissioni da presidente dell’Antimafia, seguì una querela... acqua passata, direi».
Oggi comincia il congresso di fondazione del Pdl. «Il segreto di Berlusconi è che è sempre rinato. Ha vinto, perso, rivinto, riperso, e ancora rivinto. Ogni volta cambiando gioco e regole».
E stavolta? «Stavolta, con il Pdl, l’obiettivo è quello di dare un nuovo ordine alla società italiana...».
Fabrizio Roncone
* Corriere della sera, 27 marzo 2009
Berlusconi Sugar Daddy
di Furio Colombo (l’Unità, 03.05.2009)
Non governa, appare. Eccolo sulle macerie del terremoto. Eccolo piangere. Poi cambia argomento ed ecco il lampo di festa giovane
L’Italia è l’unico caso di una democrazia occidentale declassata al livello di Paese semi-libero. Lo ha dichiarato, il 29 aprile, la Fondazione americana “Freedom House” : «Troppa concentrazione di potere mediatico nelle mani di una sola persona che è anche il capo del governo».
Reazioni italiane alla grave denuncia? Nel corso della settimana si è udita solo la voce indignata di Veronica Lario, però a causa della disputa familiare ormai nota.
Nel silenzio di quasi ogni altra fonte, c’è da domandarsi se il grido di indignazione della signora Lario verso il marito Berlusconi non abbia di gran lunga superato le linee guida dettate da Massimo D’Alema per un corretto confronto politico. La personalità del Pd, con il peso della sua storia, ammonisce, in una vasta intervista al Corriere della Sera (29 aprile): «Se fai un versaccio al premier (...) significa scegliere un ruolo eterno di comprimario, fare la spalla a Berlusconi per i prossimi mille anni».
Sì, ma allora che cosa fare? Nel vuoto lo spazio è libero sia per il silenzio che per l’imitazione del presidente-padrone e dei suoi associati. Il silenzio per non correre il rischio di fare da spalla. L’imitazione - tipo tagliare il pasto ai bambini rom, come ha fatto il sindaco Pd di Pessano (Milano) «perché noi facciamo assistenza, non assistenzialismo», come dice la Lega.
A questo punto permettete a chi scrive di lasciar transitare un piccolo carico di memoria. Ciò che D’Alema ha detto al Corriere della Sera per illustrare l’errore grossolano di denunciare le malefatte del governo, lo aveva detto e scritto, con la stessa chiarezza, ai tempi de l’Unità appena rinata e subito accusata di esagerare con la sua «fissa» sul conflitto di interessi e le leggi ad personam. Altri tempi. Però allora, (segretario Ds Fassino) elezione dopo elezione, comuni, province, regioni si spostavano da destra a sinistra, oppure si radicavano a sinistra dove avevano governato ormai da decenni.
Ma l’ammonizione di D’Alema non riserva alcuna benevolenza a chi volesse disapprovare vivacemente il premier. Neppure nel giorno di «Papi Noemi». Noemi, come ormai tutti sanno dalla Sicilia alla Lapponia, è una adolescente bellina, che nell’entroterra di Napoli, ha celebrato i suoi 18 anni in compagnia del presidente del Consiglio, prontamente e misteriosamente apparso sul posto. È la neo-diciottenne Noemi a confidare al Corriere della Sera: «Certe volte lo chiamo Papi» (30 aprile). «Papi» in inglese si traduce «Daddy», se si parla del vero papà.
Ma l’espressione diventa «Sugar Daddy» quando riguarda un tipo straricco (”sugar”, zucchero, sta per dollari) che ronza intorno a una ragazzina infatuata. «Sugar Daddy», dunque, si fa trovare (per deliberata, stravagante strategia), in una notte buia, alla periferia di Casoria in un villone affittato per la festa. È la festa della «sua bambina» (tanto che in due giorni fiorirà anche la leggenda della figlia segreta). L’invadente leader d’aziende, di governo, di partito e di popolo compie dunque un passo nuovo. Non un passo di governo. Come si sa Berlusconi non governa. Berlusconi appare.
Non un passo politico. Come si sa Berlusconi è impegnato a portare il suo popolo fuori dalla politica e dentro il magico mondo della «audience», un mondo tipo Maria De Filippi. Come si sa Berlusconi, prima ancora dei voti, cerca «indici di gradimento». Lui sa che il gradimento porta voti e non il contrario. E peggio per chi non controlla un po’ di giornali e tutte le televisioni.
Ecco allora Berlusconi sulle macerie del terremoto, Berlusconi con i primi sopravvissuti dell’Aquila che piange, Berlusconi con i primi anziani delle tendopoli che ride, Berlusconi con soldati, vigili del fuoco, e i bambini. Poi cambia bruscamente argomento, come nei suoi telegiornali. Ecco il lampo di festa giovane di «Sugar Daddy», figlia o corteggiamento o bizzarria o inspiegata gentilezza. L’importante è che si accenda un’altra luce sulla nuova apparizione dell’unico governante che non governa. Ma viene regolarmente festeggiato dai suoi media come uno statista.
A questo punto Veronica Lario occupa il vuoto. E parla, indignata. Diciamo che tutto ciò riguarda la sua famiglia. Tranne il vuoto, che riguarda noi. Ripensiamo allo schema D’Alema: Berlusconi parla, canta, balla, appare e ricompare (più o meno non fa altro)? Tu fermo e zitto, se no gli fai da spalla.
Dunque noi, disciplinatamente in silenzio, aspettiamo che un professionista della politica ci spieghi il segreto: come vincere (o anche solo sopravvivere) restando buoni, bravi e zitti. Forse in attesa di fare le riforme «insieme».
L’ordine dopo la follia
di Ida Dominijanni (il manifesto, 29 marzo 2009)
C’è il tempo della follia e c’è quello della razionalità. C’è il calore del carisma e c’è la freddezza dell’affidabilità. C’è l’abbraccio simbiotico col popolo, e c’è l’ordine istituzionale che separa corpi e gerarchie. Chi fin qui s’è posto il problema del rapporto fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini nei termini canonici della successione e del delfinato, scrutando nelle risse quotidiane i segni di un contrasto strategico, potrà interpretare le performance dei due leader alla Fiera di Roma come una conferma, ma forse meglio farebbe a vederci una smentita. In politica, come nella storia, non vale il tempo lineare e progressivo: i tempi si sovrappongono, e le divaricazioni possono convergere.
Distanti nei contenuti e nelle forme, Berlusconi e Fini non si elidono e non si contraddicono, si sommano come le due metà complementari di un disegno a un’unica direzione. Senza la "lucida follia" di Berlusconi, è Fini a dirlo, il glorioso quindicennio che va dal ’94 a oggi non ci sarebbe stato e il Pdl non sarebbe mai nato. Ma senza la gelida razionalità di Fini, quel quindicennio sarebbe destinato a finire nel vento di una storia che comincia a girare dall’altra parte, il carisma del Capo a sgonfiarsi prima o poi come la bolla speculativa, il sistema istituzionale ad assestarsi senza sedimentare il terremoto degli anni novanta. Per Berlusconi Fini non è solo un ingombro: è una necessità. E per Fini Berlusconi non è solo la fonte mistica della grazia ricevuta in forma di sdoganamento: è un propellente da cui continuare a drenare energia.
Consumata, nel discorso d’apertura di Berlusconi, l’apoteosi della "rivoluzione azzurra" iniziata con la mitica "discesa in campo" del ’94; confermati uno per uno i suoi luoghi comuni, i suoi falsi storici e i suoi fantasmi anticomunisti; messa in scena la relazione d’incantamento fra capo e popolo che del Pdl è il cuore e quella fra partito e nazione che ne è il programma, bisognerà pure pensare al futuro. Ed è qui che arriva in soccorso Fini, per prefigurare la ragione generata dalla follia, l’ordine generato dalla rivoluzione, la farfalla - nelle sue parole - che prima o poi dovà pur nascere dalla crisalide. Ovvero, la grande riforma dello stato, del governo e del parlamento che darà finalmente un profilo definito alla seconda repubblica, ripulirà il quindicennio rivoluzionario dei suoi eccessi populistici, e metterà fine ai contrasti di oggi fra l’uomo delle istituzioni, che "deve" difendere la norma vigente, e l’uomo di governo, che "giustamente" rivendica più poteri. Quella riscrittura della Costituzione che dopo il ’94 Berlusconi non potè fare con un’assemblea costituente, che non volle concludere in una bicamerale che non gli concedeva abbastanza, che in seguito gli fu bloccata da un referendum, "il partito degli italiani" potrà finalmente imporla con piglio egemonico.
Diversamente da come qualcuno sperava anni fa a sinistra, la "nuova destra" italiana non si è costituzionalizzata: viceversa, concluderà la sua avventura riscrivendo la Costituzione. E diversamente da come qualcuno scrive oggi, nel futuro non c’è una nuova Dc ma il suo reciproco: la Dc traghettò pezzi dello stato corporativo nella repubblica costituzionale, il Pdl vagheggia uno stato neo-corporativo sulle macerie della repubblica costituzionale.
C’è materia, certo, che divide Fini dal Capo carismatico: ma sui diritti degli immigrati ci penserà la Lega a frenarlo, sulla laicità dello stato ci ha già pensato il dibattito di ieri, sulla politica economica continuerà a dettare legge il premier-imprenditore e sul referendum si vedrà. Per il resto, la prospettiva è la stessa, parla la lingua comune della Nazione e della tradizione, e si avvale di una contro-narrazione della storia repubblicana che ha i suoi intellettuali organici alla Quagliariello e i suoi replicanti alla Cicchitto, ed è diventata di senso comune senza adeguati anticorpi da parte della sinistra. La quale, in questo Fini ha ragione, a confronto con la nascita del Pdl non appare in crisi di consenso, ma di idee. C’è ancora un errore che per mancanza di idee può fare, ed è quello di prendere Gianfranco Fini a propria star di riferimento per rimettere in ordine il paese.
’’La presidenza Ciampi e ora la presidenza Napolitano hanno avuto questa impronta’’
D’Alema: ’’Quirinale punto di riferimento per nuova ’religione civile’’’
’’La mancanza di coesione nazionale e di senso dello Stato si è rivelata una debolezza che stiamo pagando in termini di ritardo nella modernizzazione dell’Italia" dice l’ex ministro degli Esteri, secondo il quale se anche ’’vi sono state molte distorsioni’’, i partiti ’’hanno tenuto insieme il Paese’’
Roma, 19 feb. (Adnkronos) - "Con la crisi dei partiti, si è manifestato un grave scollamento e non a caso c’è stato il tentativo positivo, nel corso di questi anni, di sviluppare intorno alle istituzioni, in particolare all’istituzione presidenza della Repubblica, un nuovo senso di appartenenza, una rinnovata ’religione civile’. Da questo punto di vista, la presidenza Ciampi e ora la presidenza Napolitano hanno avuto questa impronta, proprio per cercare di dare una risposta agli effetti che si erano determinati". Lo dice Massimo D’Alema in un’intervista a ’Ffwebmagazine’, periodico online di ’Farefuturo’, che ha realizzato una serie di colluqui con vari leader politici sul ’senso civico degli italiani’, in occasione della presentazione, il 23 febbraio prossimo, del progetto di ricerca ’Oltre gli stereotipi. La nuova cultura civica in Italia’.
D’Alema nota "come l’affermarsi dell’individualismo, dello spirito di campanile e di gruppo, il prevalere di interessi particolari su una visione generale, sul senso di appartenenza a una comunità nazionale, siano stati a lungo celebrati come una virtù degli italiani. Si potrebbe dire che sull’elogio di questa caratteristica degli italiani l’onorevole Berlusconi abbia fondato un movimento e un ciclo politico. Ma vi è stata anche una certa sociologia che ha considerato a lungo questa mancanza di senso dello Stato come una qualità del Paese. Ora, in verità, di fronte alla portata della competizione globale, questa mancanza di coesione nazionale e di senso dello Stato si è rivelata una debolezza. Ed è una debolezza che effettivamente stiamo pagando in termini di ritardo nella modernizzazione dell’Italia".
L’ex ministro degli Esteri rivendica poi "che nel dopoguerra il compito di promuovere una coesione del Paese, che non era sostenuto dal senso di appartenenza a una comunità nazionale, è stato a lungo garantito dai partiti politici, i quali hanno sopperito al ruolo dello Stato. Vi sono state anche molte distorsioni, certo. Ma tuttavia i partiti hanno tenuto insieme il Paese, hanno rappresentato grandi comunità, hanno sviluppato dei sensi di appartenenza, sia pure paralleli fra loro".
Dopo gli anni Settanta "si è aperta una lunga fase di crisi della politica. E come spesso accade, la perdita di questa funzione nazionale della politica si è accompagnata a una crescita di fenomeni clientelari e distorsivi che hanno peggiorato la situazione. A mio parere, dunque, all’origine del prevalere di logiche particolaristiche, di cui il ceto politico - la cosiddetta ’casta’ - è espressione, non vi è un eccesso di politica, ma un declino della politica intesa nel senso più alto. Detto questo, continuo a pensare che occorre indagare sul ruolo delle diverse ’caste’, perché la logica corporativa, lo spirito di casta, appunto, non è certo appannaggio esclusivo del ceto politico".
"Non c’è il minimo dubbio - ribadisce infine D’Alema - che il ruolo avuto dal sistema dei partiti nel dopoguerra è nato anche grazie alla loro capacità di superare le divisioni e convergere per dare al Paese la Costituzione, per gettare i fondamenti della storia dell’Italia repubblicana. Ora, nella stagione della ’seconda Repubblica’, questa capacità è mancata. Ciò, indubbiamente, contribuisce ad indebolire non solo la politica, ma quel senso dello Stato, quel senso di comune appartenenza di cui c’è bisogno. Se innanzitutto dall’alto non viene l’esempio, è difficile che questo si sviluppi dal basso".
Era ’’presente nell’accordo Craxi-Casaroli del 1984 di modifica del Concordato’’
Italia-Santa Sede, Fini: ’’Una ’laicità positiva’ per i rapporti tra politica e chiesa’’
Il presidente della Camera all’indomani delle celebrazioni per gli 80 anni dei Patti Lateranensi e per i 25 anni della revisione del Concordato
Roma, 19 feb. (Adnkronos) - Oggi e’ ’’piu’ viva che mai’’ la questione ’’del rapporto fra il pensiero della Chiesa cattolica e l’azione politica’’ e ’’riemergono periodici conflitti tra laici e cattolici impegnati in politica’’. In questo quadro bisogna recuperare il concetto di ’’laicita’ positiva’’, principio enunciato dal presidente della ’’laicissima Francia’’ Nicolas Sarkozy nel discorso a San Giovanni in Laterano nel 2007, mettendo cosi’ in evidenza ’’la fine della sostanziale indifferenza dello Stato francese nei confronti del fenomeno religioso, vissuto, oltralpe, nell’ambito di una dimensione tutta personale e privata, completamente separata da quella pubblica’’. E’ quanto scrive il presidente della Camera, Gianfranco Fini, in una lettera pubblicata su ’La Repubblica’, all’indomani delle celebrazioni per gli ottant’anni dei Patti Lateranensi e per i 25 anni della revisione del Concordato.
Un concetto, quello di ’laicita’ positiva’ che era ’’gia’ ben presente nell’Accordo Craxi-Casaroli del 1984 di modifica del Concordato, con conseguente abbandono di quell’atteggiamento di ’difesa’ nei confronti dello Stato tipico dei Concordati tradizionali. Un nuovo ’Concordato-quadro’ a maglie larghe, che rimandava la disciplina concreta dei singoli settori a successivi accordi, o a intese attuative tra il governo e la conferenza episcopale italiana, sulla base della ’reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e per il bene del Paese’ (articolo 1 dell’Accordo)’’. E ripreso anche ’’dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, quando in occasione della visita di Papa Benedetto XVI al Quirinale, ha sottolineato, tra l’altro, ’conosciamo e apprezziamo la dimensione sociale e pubblica del fatto religioso’’’.
"E’ in questo quadro -sottolinea il presidente della Camera- che si colloca quel riconoscimento dell’importanza delle radici ebraico-cristiane dell’identita’ culturale europea, in cui si sono riconosciuti sia il governo precedente che quello attualmente in carica, indipendentemente dalle concezioni religiose ed ideali di ognuno’’. ’’Tutto questo -spiega Fini- non stride con il progressivo disvelamento di quel principio di ’laicita’ dello Stato’, sostanzialmente racchiuso, anche se non formulato con queste parole, nella Carta costituzionale. Una laicita’ non certo aggressiva nei confronti della religione, aliena da degenerazioni laiciste ed anticlericali, aperta al riconoscimento del ruolo attivo e positivo della Chiesa nella societa’ italiana. Una laicita’ dello Stato che deve pero’ tenere conto che viviamo in un Paese la cui storia e’ inestricabilmente intrecciata alla vicenda del cristianesimo e della Chiesa romana, perche’ si possa minimamente immaginare un reciproco disinteresse’’.
Ansa» 2009-02-17 21:03
PD, VELTRONI SI DIMETTE: "BASTA FARSI MALE" (di Cristina Ferrulli)
ROMA - La "nuova stagione" di Walter Veltroni, cominciata 20 mesi al Lingotto di Torino, si infrange davanti al tonfo delle elezioni sarde e stritolata da mesi di tensioni, smarcamenti e polemiche più o meno sotterranee. Spiazzando tutti i big del partito, il primo segretario del Pd si dimette ed esce di scena. "Mi assumo le responsabilità mie e non, per molti il problema sono io, mi dimetto per salvare il progetto", annuncia di primo mattino Veltroni; e poi conferma più tardi nonostante l’insistenza di tutti, critici e sfidanti inclusi, affinché resti almeno fino alle europee.
Il Pd esce terremotato dal voto sardo e apre ora una fase al buio, che con molta probabilità porterà l’assemblea nazionale ad eleggere Dario Franceschini segretario di transizione fino al congresso che difficilmente, viste le difficoltà del tesseramento, potrà essere anticipato a subito dopo le europee rispetto ad ottobre. Per allora si faranno i giochi veri per ridisegnare i nuovi equilibri del partito ed il nuovo leader visto che tutti danno per certo che Pier Luigi Bersani non resterà l’unico candidato a correre per la leadership.
A questi giochi Veltroni non parteciperà perché, avrebbe spiegato oggi motivando le sue dimissioni, "non ho intenzione di fare il capobastone", ovvero incarnare quello contro cui ha combattuto per mesi nel nome del rinnovamento. Veltroni avrebbe deciso da solo le dimissioni, ignorando le proposte, avanzate dal fedelissimo Giorgio Tonini, di andare alla ’conta’ del congresso anticipato per sfidare gli avversari.
Ma anche il pressing, arrivato pure da Bersani, per ritirare le dimissioni e cercare di risollevare in modo unitario le sorti del Pd in vista delle europee, rispettando il timing congressuale già previsto. "Basta farsi del male, io ho le mie responsabilità, ma non ho intenzione di andare avanti per fare logorare me e soprattutto la possibilità del Pd di esistere", ha tirato dritto il leader, che dopo aver riflettuto sulle osservazioni del coordinamento e su varie ipotesi di mediazione, é tornato alla riunione, ha confermato la decisione e poi ha lasciato la stanza. Un discorso nobile, descrivono i presenti, ma molto determinato nel quale Veltroni ha ricordato la "via crucis" e i "bastoni tra le ruote" messi in questi mesi lungo la sua strada. E mentre l’ormai ex segretario era nella sua stanza a ricevere telefonate, tra le quali anche quella del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il gotha del partito è rimasto un po’ spaesato a valutare scenari futuri, resi ancora più confusi dalle difficoltà del tesseramento, del radicamento sul territorio e di regole statutarie pensate per una stagione all’insegna di un partito nuovo.
La strada più probabile, anche se c’é chi come Goffredo Bettini spinge per il congresso subito, è che ora il testimone passi al vicesegretario Dario Franceschini per gestire un passaggio che comprende le elezioni di giugno, il tesseramento del partito e la fase congressuale probabilmente fino ad ottobre. Una gestione che, almeno fino alle europee, non potrà che essere collegiale per cercare di non distruggere del tutto un partito già in crisi. Oggi Bettini ha proposto una "moratoria" delle candidature alla segreteria almeno fino a giugno, ma in molti ritengono difficile che non si apra una lunga fase congressuale, fatta di riunioni di correnti e discese in campo "con il rischio - denuncia un dirigente - di polverizzare del tutto un consenso già ai minimi". Allora Veltroni sarà uscito di scena, dopo aver spiegato, domani, le ragioni del suo addio.
Il potere unico
di EZIO MAURO *
SIAMO dunque giunti al punto. Ieri Berlusconi ha annunciato l’intenzione di cambiare la Costituzione, a colpi di maggioranza, per "riformare" la giustizia. Poiché per la semplice separazione delle carriere non è necessario toccare la carta costituzionale, diventa chiaro che l’obiettivo del premier è più ambizioso.
O la modifica del principio previsto in Costituzione dell’obbligatorietà dell’azione penale, o la creazione di due Csm separati, uno per i magistrati giudicanti e uno per i pubblici ministeri, creando così un ordine autonomo che ha in mano la potestà della pubblica accusa, il comando della polizia giudiziaria e il potere di autocontrollo: e che sarà guidato nella sua iniziativa penale selettiva dai "consigli" e dagli indirizzi del governo o della maggioranza parlamentare, cioè sarà di fatto uno strumento della politica dominante.
Viene così a compiersi un disegno che non è solo di potere, ma è in qualche modo di sistema, e a cui fin dall’origine il berlusconismo trasformato in politica tendeva per sua stessa natura. Il passaggio, per dirlo in una formula chiara, da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico. Un potere incarnato da un uomo che già ha sciolto se stesso dalla regola secondo cui la legge era uguale per tutti con il lodo Alfano, vero primo atto della riforma della giustizia, digerito passivamente dall’Italia con il plauso compiacente della stampa "liberale" ormai acquisita al pensiero unico e alla logica del più forte.
Oggi quel prologo vede il suo sviluppo logico e conseguente. Ovviamente la Costituzione si può cambiare, come la stessa carta fondamentale prevede. Ma cambiarla a maggioranza, annunciando questa intenzione come un trofeo anticipato di guerra, significa puntare sulla divisione del Paese, mentre il Capo dello Stato, il presidente della Camera e persino questo presidente del Senato ancora ieri invitavano al dialogo per riformare la giustizia. Con ogni evidenza, a Berlusconi non interessa riformare la giustizia. Gli preme invece riformare i giudici, come ha cercato di fare dall’inizio della sua avventura politica, e come può fare più agevolmente oggi che l’establishment vola compatto insieme con lui, due procure danno spettacolo indecoroso, il Pd si lascia incredibilmente affibbiare la titolarità di una "questione morale" da chi ha svillaneggiato la morale repubblicana e costituzionale, con la tessera della P2 ancora in tasca.
Tutto ciò consente oggi a Berlusconi qualcosa di più, che va oltre il regolamento personale dei conti con la magistratura. È l’attacco ad un potere di controllo - il controllo della legalità - che la Costituzione ha finora garantito alla magistratura, disegnandola nella sua architettura istituzionale come un ordine autonomo e indipendente, soggetto solo alla legge, dunque sottratto ad ogni rapporto di dipendenza da soggetti esterni, in particolare la politica. Il governo che lascia formalmente intatta l’obbligatorietà dell’azione penale, ma interviene sul suo "funzionamento" - come ha annunciato ieri il Guardasigilli Alfano - attraverso criteri suoi di "selezione" dei reati e "canoni di priorità" nell’esercizio dell’accusa, attacca proprio questa garanzia e questa autonomia, subordinando di fatto a sé i pubblici ministeri.
Siamo quindi davanti non a una riforma, ma a una modifica nell’equilibrio dei poteri, che va ancora una volta nella direzione di sovraordinare il potere politico supremo dell’eletto dal popolo, facendo infine prevalere la legittimità dell’investitura del moderno Sovrano alla legalità. Eppure, è il caso di ricordarlo, la funzione giurisdizionale è esercitata "in nome del popolo" perché nel nostro ordinamento è il popolo l’organo sovrano, non il capo del governo. Altrimenti, si torna allo Statuto, secondo cui "la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome".
Questa e non altra è la posta in gioco. Vale la pena discuterla davanti al Paese, spiegando la strategia della destra di ridisegnare il potere repubblicano dopo averlo conquistato. Ma la sinistra sembra prigioniera di una di quelle palle di vetro natalizie con la finta neve che cade, cercando di aprire (invano) la porta della Rai, come se lì si giocasse la partita. Fuori invece c’è il Paese reale, con il problema concreto di una crisi che ridisegna il mondo. A questo Paese abbandonato, Berlusconi propone oggi di fatto di costituzionalizzare la sua anomalia, sanandola infine dopo un quindicennio: e restandone così deformato.
* la Repubblica, 11 dicembre 2008
Veltroni e D’Alema: «Delegittimano il Pd, reagiamo uniti»
di Bruno Miserendino
«Reagire uniti e decisi agli attacchi, avanti con l’innovazione». In un comunicato del Pd una frase così non farebbe notizia se non fosse riferita a una telefonata tra Veltroni e D’Alema.
Un evento, di questi tempi. Infatti è così: segretario e ex ministro degli esteri, dopo un mese di incomunicabilità, si sono sentiti e ne è scaturita un’intesa di massima in vista del caminetto di oggi e soprattutto del fatidico 19 dicembre, annunciato come il giorno del grande chiarimento in casa Pd.
Qualcuno ieri sera lo chiamava già «il patto dell’Immacolata». Oppure, «una telefonata allunga la vita». Probabilmente i nodi politici restano e non è detto che il 19 dicembre non emergano, ma che sia tregua o intesa di fondo, la sostanza è che i vertici del Pd vogliono uscire dall’angolo e lasciarsi alle spalle l’immagine di divisione che li ha accompagnati in queste ultime settimane.
Veltroni, attaccato all’interno e all’esterno, ha bisogno di sostegno, D’Alema non può restare inchiodato all’immagine del cospiratore che prosciuga l’acqua intorno al leader. «Lavora per la ditta», dicono i suoi. Walter e Massimo si vedranno a quattr’occhi prima del caminetto, ma il fatto che la nuova tregua telefonica sia stata accompagnata da un comunicato ufficiale fa capire quanto sia sentito il bisogno di serrare i ranghi di fronte a un’offensiva politica e mediatica che sta angustiando il Pd al di là delle sue colpe.
I sondaggi non sono tutti così cattivi come quelli apparsi nelle ultime ore, però segnalano una sofferenza. Impressiona l’accerchiamento mediatico, anche da gruppi editoriali “amici”, tanto più forte nel momento in cui il governo stenta a dare risposte alla crisi. «È l’unico paese occidentale in cui la stampa fa le bucce all’opposizione anzichè al governo», dicono al Nazareno. In questa situazione persino Berlusconi parla di «questione morale».
Veltroni e D’Alema hanno parlato di tutto, dalla situazione economica, che il governo non sta affrontando, (come dice Veltroni «Berlusconi è troppo ricco per capire le condizioni della gente»), al problema Pse, su cui si tenta la mediazione finale: non si va nel gruppo dei socialisti, ma si fa un patto di collaborazione. Vedremo cosa dice Rutelli. Ma soprattutto Veltroni e D’Alema hanno parlato degli attacchi di questi giorni sulla questione morale: «Ci sono episodi preoccupanti che non bisogna sottovalutare - convengono - ma c’è anche una pretestuosa campagna che tenta di delegittimare il partito e investirlo di una complessiva questione morale che riguarda anche e soprattutto la destra». La novità è il passo finale: «Il Pd deve reagire in maniera unitaria e decisa ad ogni attacco strumentale, procedendo con convinzione sulla strada dell’innovazione». Insomma, basta col «frullatore mediatico» di queste ore: nessuno sottovaluta gli errori, «ma il partito è sano e ci sono gli anticorpi per isolare i casi di malcostume». Nel comunicato c’è il termine che Veltroni usa di più: innovazione. Nell’ottica del segretario vuol dire ricambio delle classi dirigenti, l’unico antidoto ai cacicchi e alle incrostazioni di potere.
Oggi, dopo il “caminetto” dedicato al tema Pse, si parlerà dei casi Campania e Firenze. Si capirà che possibilità ci sono nel braccio di ferro con Bassolino. D’Alema, poi, andrà a Napoli. Qualcuno dice che è in missione per dare una mano a risolvere il caso, ma i suoi escludono incontri col governatore.
* l’Unità, 10 dicembre 2008
Ma il Cavaliere studia la scalata al Quirinale
"Con la mia storia perché non pensarci?"
di GOFFREDO DE MARCHIS *
ROMA - Un giornalista sportivo lo inquadrò alla prima rivoluzionaria conferenza stampa da neopresidente del Milan, nel lontano marzo ’86: "Questo qui un giorno leggerà il messaggio di fine anno". Quel commento di 22 anni fa oggi è qualcosa più di una profetica battuta perché Silvio Berlusconi è sceso in campo nel ’94, è a Palazzo Chigi per la terza volta, è un leader per il momento senza rivali "nella politica, nei poteri forti e tra la gente", dice sconsolato il centrista Bruno Tabacci.
Malgrado Giorgio Napolitano occupi egregiamente e saldamente la poltrona di presidente della Repubblica con un mandato che scade nel 2013, il sogno quirinalizio del Cavaliere viene evocato sempre più spesso. Berlusconi ha due strade per cullarlo: il voto parlamentare con le regole attuali o l’elezione diretta del capo dello Stato decisa da una riforma che instauri una repubblica presidenziale. "Uno con la mia storia perché non dovrebbe pensarci", si è lasciato sfuggire il premier tradendo la sua cautela sull’argomento.
La Grande riforma è stata "disegnata" due settimane fa, a grandi linee, dal potente coordinatore di Forza Italia Denis Verdini: "Il centrodestra è maggioranza nel Paese da anni. Avrà il diritto di eleggere un capo dello Stato? Se non ci siamo ancora riusciti è perché va corretto l’attuale sistema di elezione". È l’annuncio di un progetto di repubblica presidenziale? Il senatore del Pdl Gaetano Quagliariello coordina il gruppo di lavoro sulle riforme lavorando soprattutto sul premierato.
Ma ai vertici del Pdl ha svelato anche un’altra carta: "È vero però che i sistemi presidenziali, in un momento di crisi della politica, ti offrono una riserva più ampia di legittimità". Quagliariello la chiama "una riflessione di fondo". Poi il Cavaliere sale su un predellino e trasforma la riflessione di fondo in un fatto compiuto...
Bossi ha parlato di Berlusconi al Quirinale domenica: "Sarà lui il prossimo presidente, noi lo voteremo". Con la consueta franchezza, il leader del Carroccio ha svelato un segreto di Pulcinella: il vero traguardo del premier. Che sarebbe realtà certa se si votasse per il Colle in questa legislatura e con questo Parlamento: Berlusconi andrebbe in carrozza al Quirinale. Ma il calendario è diverso: con le scadenze naturali e la Costituzione vigente saranno le prossime Camere a eleggere il presidente, il mandato di Napolitano finisce infatti tra cinque anni, dopo le elezioni politiche.
Toccherebbe perciò affrontare dei passaggi preliminari, una nuova campagna elettorale (a 77 anni) e il voto del popolo. Una strada più impervia che autorizza l’ipotesi di altre soluzioni, a cominciare dalla possibile revisione della Carta.
Il diretto interessato si è sempre tenuto alla larga da questi discorsi, a parte un "non escludo una candidatura al Colle" nel 2005 con la precisazione che anche "il dottor Letta" poteva essere un ottimo nome. Letta è il braccio destro del Cavaliere, ma può diventare un concorrente nella lunga marcia al Colle. Walter Veltroni sembra saperlo molto bene.
Il segretario del Pd ha stuzzicato il Cavaliere dopo la chiusura positiva del caso Alitalia esaltando il ruolo del sottosegretario alla presidenza, "il suo senso di responsabilità. Io e Gianni Letta abbiamo la stessa cultura". Come dire: lui sì che è un uomo delle istituzioni. Berlusconi si è vendicato pochi giorni dopo mettendo uno contro l’altro Veltroni e D’Alema. E attribuendo all’ex ministro degli Esteri il merito di aver fermato il leader del Pd che "giocava per la rottura".
Schermaglie contingenti, ma a gioco lungo si possono leggere anche in chiave-Quirinale. Segnalano che per il dialogo tra maggioranza e opposizione e alla lunga per il Colle Letta è una figura decisiva.
Nell’ottica di un salto di qualità si muove anche Giulio Tremonti. La poltrona di ministro dell’Economia è un trampolino per la presidenza della Repubblica (vedi Carlo Azeglio Ciampi). Tremonti coltiva rapporti bipartisan attraverso l’Aspen Institute (è di due giorni fa un dibattito sulla religione con D’Alema e il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone).
L’alternativa è la leadership del Pdl per la quale la sfida è con Gianfranco Fini. Il Pd osserva le mosse, ma si schiera. D’Alema ha "autorizzato" l’ascesa di Berlusconi al Colle con un sistema presidenziale: "In quel caso ci sarebbero pesi e contrappesi". Meglio del presidenzialismo strisciante di oggi, ma l’ex ministro ha chiarito: "Io non sono presidenzialista. Penso a una legge elettorale tedesca e al rafforzamento delle Camere".
Veltroni dice un no netto a Berlusconi e all’elezione diretta. Però Tabacci punta il dito: "Il centrosinistra ha contribuito a creare questo clima presidenzialista. Hanno proposto la repubblica presidenziale, ci hanno ripensato, poi l’hanno proposta di nuovo. Ed era Veltroni a cavalcare il sindaco d’Italia. Ma il sindaco d’Italia ora lo fa Berlusconi". Se il Cavaliere può coltivare il sogno presidenziale quindi, la colpa è anche un po’ del Pd.
* la Repubblica, 3 ottobre 2008
«il leader del partito democratico sono io, scelto da 3,5 milioni di persone»
Veltroni: «Berlusconi presidente
della Repubblica? Non va bene»
Il segretario del Pd: «Quella carica deve essere ricoperta da persone che hanno fatto il bene del Paese» *
ROMA - «Oggi al Quirinale c’è Giorgio Napolitano, in precedenza ci sono stati Carlo Azeglio Ciampi, Oscar Luigi Scalfaro, persone che hanno fatto il bene del Paese. È un luogo dove devono esserci figure che garantiscano la Costituzione, conoscano le regole del gioco, rispettino le opinioni di tutti, accettino il dissenso. Tutto ciò che Berlusconi non è». Il segretario del Pd, Walter Veltroni, in un’intervista sull’Espresso, si dice contrario all’eventuale elezione del premier come presidente della Repubblica. «Ho visto che oggi - afferma il leader Pd - Bossi ha detto che per lui Berlusconi al Quirinale andrebbe bene. Per me no: non va bene. Per fortuna il problema non si pone: fino al 2013 al Quirinale ci sarà Napolitano, una garanzia per tutti».
PRESIDENZIALISMO - Quanto ad una riforma in senso presidenzialista, Veltroni sostiene che «in astratto il presidenzialismo non mi inquieta», ma «se la domanda è se in questo momento in Italia è giusto passare a un sistema presidenziale, rispondo ancora no. Le istituzioni sono figlie della cultura del tempo e in Italia, in questo momento, è necessario rafforzare le istituzioni di controllo».
LEADERSHIP - Veltroni parla anche del Pd e della sua leadership. «Tre milioni e mezzo di persone mi hanno scelto perché sono un dirigente che pensa che la vita sia più ricca della politica, un antidoto al male che vedo in tanta parte della politica italiana: un morboso attaccamento alla dimensione del potere. Non me ne importa assolutamente nulla di quelli che fanno i conti sulle percentuali, sui risultati di questa o di quella elezione». Veltroni confessa che c’è un’unica condizione che gli renderebbe insopportabile continuare ad essere segretario: «Se non potessi continuare a fare il Pd per cui sono stato eletto da tre milioni e mezzo di persone. Ma il problema non si pone».
* Corriere della SEra, 02 ottobre 2008
Il leader Pd attacca il Cavaliere: "Inganna gli italiani e insulta l’opposizione
Il suo governo non dirige il Paese, ma si limita ad occupare il potere"
Veltroni: ’Berlusconi racconta balle
Alitalia, nessuna lite con D’Alema’
E "Baffino" conferma: "Tutto falso, il premier non semini zizzania" *
FRASCATI (ROMA) - Berlusconi? "Racconta balle per ingannare gli italiani e passa metà del suo tempo a insultare l’opposizione". Il segretario del Pd Walter Veltroni attacca il presidente del Consiglio intervenendo al seminario dei senatori del Pd in corso a Frascati. Lo fa rispondendo alle insinuazioni del premier sulla sua reale volontà di risolvere la crisi Alitalia: "Il presidente del consiglio ha una certa propensione per le bugie: è giusto che il Paese lo sappia" dice il segretario Pd. E poi enumera tre casi di "patente menzogna" da parte del Cavaliere a partire dall’ultima (sul Corriere della Sera di oggi) a proposito di un D’Alema che gli avrebbe tirato le orecchie per le sue posizioni su Alitalia: "Sono sicuro che lo stesso Massimo D’Alema spiegherà che si tratta dell’ennesima bugia in chiave anti opposizione". E D’Alema, a stretto giro, conferma: "Non è vero, il Cavaliere non semini zizzania".
Ed ecco le "balle" del Cavaliere, secondo Veltroni: "Berlusconi dice - afferma il segretario del Pd - che Epifani voleva firmare l’accordo e che io avrei fatto da New York il diavolo a quattro per non farglielo firmare e ancora che D’Alema mi telefona per chiedermi se sono impazzito e quindi io cambio linea su Alitalia. Ma i giochini di mettere l’uno contro l’altro me e D’Alema finiscono lì perchè nessuno di noi due è disposto a prestarsi". La realtà, aggiunge Veltroni, è che "queste balle fanno parte di una strategia di contrapposizione frontale mentre in un sistema democratico si convive con le opposizioni non le si insulta e non le si aggredisce".
Per Veltroni, "il governo scambia il governare con la presa del potere e quindi tutto ciò che non è omogeneo è un fastidio da rimuovere ma il mio è un invito alla moderazione: ’Smettete di occuparvi del potere e tornate a governare l’Italià". Poi un duro giudizio su Berlusconi: "Il presidente del Consiglio non sa dove sia di casa il rispetto delle istituzioni". Parlamento e magistratura sono almeno due delle istituzioni finite nel mirino berlusconiano.
E D’Alema, interpellato dai giornalisti in Parlamento, conferma la versione di Veltroni: "Ho letto con sincero stupore alcune affermazioni attribuite a Berlusconi, perchè non corrispondono minimamente al vero". I fatti descritti - aggiunge D’Alema - non sono mai accaduti, perchè ero negli Stati Uniti, in altre faccende affaccendato, quando si è conclusa la vicenda Alitalia. Con un esito che noi abbiamo giudicato positivo e per cui si è adoperato anche Veltroni". Poi un consiglio al premier: ’Farebbe bene ad avere rispetto per l’opposizione e di non seminare zizzania. In quanto presidente del Consiglio ha il compito, se vuole, di dialogare con Veltroni che è il leader dell’opposizione e, a sua volta, ha il poco invidiabile compito di dialogare con Berlusconi. Un compito che non gli invidio e che non voglio sottrargli".
* la Repubblica, 30 settembre 2008.
Il passo breve verso l’autoritarismo
di Don Antonio Sciortino (la Repubblica, 25.09.2008)
La semplificazione del quadro politico alle ultime elezioni e l’ampia investitura popolare ottenuta dal Pdl (e di conseguenza dal governo del presidente Berlusconi) ha posto nel paese la questione del rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia di opinione. Il dibattito può assumere anche toni drammatici quando, invocando l’estesa legittimazione popolare al governo in carica, si mette in dubbio la possibilità altrui di esprimere opinioni e critiche sull’operato del governo. Quando poi gli attacchi vanno dritti contro un giornale e si dissente sul diritto all’opinione diversa e alla critica (non verso le istituzioni, ma verso le idee e le azioni che uomini delle istituzioni esprimono), è legittimo chiedersi se non sia in atto un ritorno all’autoritarismo, che disprezza il principio dell’uguaglianza delle idee, almeno nella loro possibilità di esprimersi.
Ciò che è accaduto di recente nei confronti di Famiglia Cristiana per le sue critiche ad alcuni provvedimenti del governo, è esattamente questo. Chi governa con ampio mandato popolare ritiene, forse, che è suo compito anche spalmare il paese di un pensiero unico e forte, senza ammettere alcun diritto di replica? In realtà, da sempre noi non abbiamo mai risparmiato critiche a governi e opposizioni, usando sempre lo stesso metro di giudizio, che è una visione solidale della realtà. Famiglia Cristiana si è comportata così con tutti i governi, anche quelli democristiani, quando ci sembrava giusto e cristiano farlo. Fedele al mandato del suo fondatore, il beato Giacomo Alberione, che diceva di «parlare di tutto cristianamente». Avverbio, questo, che connota la nostra missione di comunicatori, e ci spinge a giudicare la realtà alla luce del Vangelo. Solo così un giornale trova interlocutori, stimola il dialogo, aumenta il tasso di democrazia di opinione nel paese.
E’ stato assai singolare che, dopo le nostre prese di posizioni sulla questione dei rom e sul cosiddetto «pacchetto sicurezza», il governo si sia scagliato con insolita veemenza contro Famiglia Cristiana. Già questo denota quanto il nostro paese sia poco normale. Quando si mette il coprifuoco alle idee, quando un governo ritiene di doversi scagliare contro le critiche di un giornale, forse qualcosa non va nella nostra democrazia rappresentativa.
In realtà, in Italia la gente ha una concezione sempre più leggera della democrazia rappresentativa. Sembra che basti solo assolvere al dovere del voto. E i politici (soprattutto quelli «nuovi», quelli che non provengono da una lunga formazione, ma dalle scuole del marketing), ritengono che i cittadini abbiano firmato loro una delega in bianco. Si sentono legittimati a fare tutto ciò che le regole della soddisfazione dei desideri impongono, quasi che l’esercizio nobile dell’arte della politica, sia definita dalla migliore e scintillante soluzione dei desideri di ognuno. Siamo al paradosso che, proprio oggi, quando la politica sembra aver preso il sopravvento su molte altre attività (al punto che tutti ci si buttano), la partecipazione invece cala. E’ vero che la democrazia rappresentativa si risolve nella delega. Ma essa è intesa in maniera così forte dall’attuale classe politica (al governo e all’opposizione), che ha relegato in soffitta la democrazia di opinione. Siamo così all’antipolitica, che non è quella di Grillo o dei girotondi, ma quella della politica intesa come mercato della soddisfazione dei desideri. La classe politica italiana, ma anche gli intellettuali, hanno gravi responsabilità.
L’eterna transizione cui è costretta l’Italia almeno da 15 anni e la promessa reiterata di riforme che non arrivano mai, hanno tolto credibilità alla politica e rafforzato chi, nella politica, vede un teatro da calcare con le sue truppe ordinate e ubbidienti a ogni ordine, senza discutere. Vale a destra come a sinistra. In un quadro simile, la partecipazione e, dunque, la democrazia di opinione spariscono.
Né il riconoscimento maggiore del leader serve ad aumentare la partecipazione. Lo dimostrano le continue incursioni di Berlusconi nelle piazze tra la gente che vive drammaticamente problemi seri, quasi volesse non tanto rassicurarla, ma rassicurare se stesso di averla (la gente) sempre vicina. In realtà, nessuno sa veramente quel che pensano i cittadini, al di là del vecchio e, talora, obsoleto metodo dei sondaggi.
Neppure a livello amministrativo c’è più passione per la «cosa pubblica». Non ci si interessa nemmeno del proprio marciapiede o dell’autobus che non passa. Quando un giornale come il nostro suona la campanella d’allarme, che segnala la distanza tra la politica e le attese concrete della gente, e insiste sulle politiche familiari, su un fisco equo, o critica le ossessioni per la sicurezze e la giustizia. dice semplicemente che in democrazia le opinioni devono contare. Infatti, se cala la partecipazione e, al tempo stesso, non si ammettono critiche, il rischio di scivolare verso una forma oligarchica e autoritaria è davvero grande.
Fa scalpore che tutte queste cose, corredate di esempi concreti, le abbia scritte un giornale cattolico? E’ un’altra delle anomalie italiane. In Francia nel corso dell’estate il quotidiano cattolico La Croix ha criticato la nuova grandeur francese di Sarkozy sulla scena internazionale. Ma nessun membro del governo s’è sognato di rivolgersi al cardinale di Parigi o al Vaticano. Ciò che spesso difetta al nostro paese è l’idea che i cattolici (giornalisti e non) siano cittadini come gli altri, e abbiano il diritto di partecipare al grande gioco della democrazia di opinione.
La rivista francese Esprit (che, certo, non può essere bollata di «cattocomunismo» o di «criptocomunismo») si domandava questa estate se non ci stiamo avviando verso la fine del ciclo democratico. La scomparsa delle ideologie non ha assolutamente semplificato il quadro politico. Ha solo prodotto maggiore difficoltà nella comprensione e nell’elaborazione del pensiero politico, che sembra debba inseguire solo i desideri della gente.
Oggi si tende a semplificare cose complesse, con risposte ai bisogni che saranno necessariamente inefficaci sul medio e lungo periodo, anche se al momento sono allettanti. Ciò che accade attorno al pacchetto sicurezza, alla questione immigrazione, ma anche sui temi della giustizia, lo dimostrerà.
La parola più indicata per definire tutto ciò è populismo, che insegue e accarezza i desideri. Una dimostrazione è l’ultima finanziaria, vada per tre anni e assai pesante, approvata in una manciata di minuti dal governo. Oggi la consapevolezza di tutto ciò sembra essere presente solo nel dibattito di opinione, mentre non trova casa (o ne trova una assai ristretta), nella classe politica e nelle istituzioni parlamentari. Ed è per questo che la classe politica, forte dell’investitura, tende a spazzar via il dibattito.
Oggi, forse, non corriamo alcuni rischi del passato, ma c’è un allarme circa un progetto di Stato e di convivenza democratica, che non dà voce a chi non ha voce, a cominciare dalle famiglie e dai più poveri.
Non è questione, questa, che riguarda e preoccupa solo i cattolici, ma tocca il paese intero. Quando Famiglia Cristiana bussa all’Italia bipolare, ricordando che i costi sociali di operazioni che semplificano eccessivamente la realtà possono essere altissimi, non fa altro che il suo dovere, a favore del «bene comune». Il passo dal populismo all’autoritarismo può essere, fatalmente, breve.
Salve, sono un piccolo commerciante di autoveicoli, venedo a conoscenza della delibera degli incentivi per l’acquisto di auto Eur 4 e Euro 5, non posso dire altro che lo un grande errore, perchè, visto che lo scopo principale, secondo quanto dicono, sia quello di dare uno scossone all’economia, questa, secondo me, non è la soluzione più adeguata. Anzichè tirare fuori MILIARDEI di EURO, a incentivi, perchè non guardiamo come si comportano nel settore delle auto, gli altri paesi esuropei, se VERAMENTE vogliamo adeguarci al resto della Comunità Europea, come??
Intanto si dovrebbe iniziare ad abbassare il costo dei passaggi di proprietà, visto che negli altri paesi il costo per un passaggio di proprietà non supera i 75-90 Euro.
Poi, la tassa di possesso, perchè non la eliminiamo, cercando di ricavare più tasse dalle assicurazione senza che queste aumentino le tariffe o a limite facendo applicare un aumento minimo.
Se veramente si vuole dare uno scossone all’economia, nel settore delle auto, queste sarebbero delle buone soluzioni, evitando di tirare fuori miliardi di euro e in poco tempo guadagnare sulle tasse che noi commercianti andremmo a pagare come effettivamente si dovrebbe anzichè pagare tasse su incassi inesistenti, DOVUTI ALLA CRISI, che i parametri degli studi di settore ci obbligano a dichiarare.
Stò scrivendo questa lettera consapevole del fatto che probabilmente sarà cestinata ma che infondo infondo, spero che venga presa in considerazione.
Raffaele CHIFFI, amministratore della CASA DELLA’AUTO della provincia di Lecce.