[...] cominciamo dalla questione Bella Ciao; se non capisco male lei sostiene che la decisione di non far eseguire questa canzone dalla Banda Musicale Dalerci non risale a quest’anno, ma al lontano 2003 ed è stata presa da lei personalmente; lei lamenta che solo quest’anno questo fatto sia stato segnalato all’opinione pubblica e sia divenuto oggetto di polemica.
Se posso permettermi la cosa è ancora più grave così: è la sesta volta e non la prima, che - per sua espressa decisione - questa canzone partigiana non viene eseguita: un errore ripetuto sei volte, è peggio che un errore di una sola volta. Il fatto che l’opposizione non se ne sia accorta prima è un fatto anche esso negativo (se così è), ma è positivo che - magari in ritardo - che se ne sia accorta [...]
Lettera aperta al Sindaco di Alghero
Autore: Cecchini, Arnaldo (Bibo) *
Stimato Sindaco,
io - lo debbo confessare - non sono stato un suo elettore. Ma lei è il Sindaco della mia città, la città in cui ho scelto di vivere e lavorare e che - a grande maggioranza - l’ha voluta per la seconda volta come Sindaco.
Lei dunque è il mio Sindaco e - oltre alla stima e al rispetto istituzionale - non penso che lei sia un pessimo amministratore, conosco ed apprezzo l’attenzione che ha verso l’Università e la Facoltà di Architettura (attenzione per cui non ho mai mancato di ringraziarla), la conosco come persona garbata e cortese, e poi lei è anche un bell’uomo, il che non guasta.
Le scrivo sul tema dell’antifascismo e della Resistenza; non solo con riferimento alla vicenda - che ha avuto grande rilievo sui media - relativa all’esecuzione di Bella Ciao, ma anche per un’altra, che non ha avuto risonanza, ma a che a me pare molto più preoccupante. Ma cominciamo dalla questione Bella Ciao; se non capisco male lei sostiene che la decisione di non far eseguire questa canzone dalla Banda Musicale Dalerci non risale a quest’anno, ma al lontano 2003 ed è stata presa da lei personalmente; lei lamenta che solo quest’anno questo fatto sia stato segnalato all’opinione pubblica e sia divenuto oggetto di polemica.
Se posso permettermi la cosa è ancora più grave così: è la sesta volta e non la prima, che - per sua espressa decisione - questa canzone partigiana non viene eseguita: un errore ripetuto sei volte, è peggio che un errore di una sola volta. Il fatto che l’opposizione non se ne sia accorta prima è un fatto anche esso negativo (se così è), ma è positivo che - magari in ritardo - che se ne sia accorta.
Vorrei spiegarle perché ritengo questa scelta un errore. Il 25 Aprile si festeggia la Liberazione. La liberazione dell’Italia dal nazifascismo. È giusto dire e volere che tutti si riconoscano in questa festa, al di là della fede politica. Ad un’unica ed ineludibile ed esplicita e dichiarata condizione: che si accetti che la Resistenza è l’atto fondativo della nostra democrazia e della nostra Repubblica, che sul valore della lotta al fascismo e al suo padrone nazista ha costruito il suo onore e la sua speranza di riscatto. Agli altri un Ministro comunista, Palmiro Togliatti, ha restituito la libertà (mi riferisco all’amnistia del 22 Giugno del 1946, provvedimento molto discusso, tra l’altro), sottraendoli al carcere che avevano meritato, ma non il diritto di rivendicare pari dignità per la loro parte. Può spiacere. Ma la Resistenza l’hanno fatta donne e uomini di tutta Italia di tutte le fedi politiche, comunisti, azionisti, socialisti, democristiani, repubblicani, monarchici e senza partito, l’hanno fatta per l’Italia e contro il fascismo, contro la repubblica fantoccio dei burattini di Hitler, contro il nazismo.
Da quelle fotografie non si possono cancellare i comunisti (non si può togliere Luigi Longo del Partito Comunista Italiano dalla fotografia del 5 Maggio a Milano con Enrico Mattei, Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri, Giovanni Battista Stucchi, Mario Argenton; non si può togliere il Presidente della Costituente Umberto Terracini del Partito Comunista Italiano dalla fotografia del 27 Dicembre del 1947 con Enrico De Nicola e Alcide De Gasperi per la firma della nostra Costituzione), come sarebbe insensato voler cancellare da quelle foto i democristiani, i liberali, i socialisti, i repubblicani.
Cosa vuole, avvocato Tedde, noi non siamo storici, ma quelle fotografie lì sono; e in quelle fotografie ci sono sì molte parti politiche, non ci sono solo i fascisti.
I partigiani si sono fatti “parte” per riscattare l’Italia, una delle loro canzoni più belle è Bella Ciao, una canzone d’amore, struggente ed un po’ ingenua, una canzone di tutti i partigiani, una canzone di tutti gli italiani.
Qualcuno cantandola, alzerà il pugno chiuso, qualcuno la canterà - come me - con le lacrime agli occhi, altri compostamente ed in modo sobrio. Cosa vuol farci, la gente si esprime a modo suo, per come si sente di esprimersi.
So che, passate le polemiche, lei farà in modo che la nostra magnifica Banda suoni in modo impeccabile al prossimo 25 Aprile la comune canzone degli antifascisti, Bella Ciao, perché penso che lei non sia irragionevole e so che lei non è sciocco. Di questa scelta che auspico, la vorrò ringraziare di cuore.
La seconda questione è - se capisco bene le cose - molto più preoccupante. Un collega catalano mi ha segnalato la lapide ai caduti della seconda guerra mondiale, che non solo mette insieme soldati di leva, partigiani e soldati della repubblica fantoccio dei burattini di Hitler (la “repubblica sociale italiana”) con la rispettiva indicazione di appartenenza, ma anche li qualifica tutti (se ho ben capito, e così appare) come persone “che donarono la vita perché l’Italia fosse libera e giusta”. Cominciamo dai fatti. Premetto che si deve pietà a tutti i morti. Si deve rispetto al dolore dei loro familiari ed amici.
Ma i fatti sono che i soldati dell’esercito del Regno d’Italia sino alla data dell’8 Settembre 1943, erano soldati di un esercito aggressore ed invasore (quello della “pugnalata alla schiena” alla Francia) dalle Alpi, ai Balcani, al Don.
Ma i fatti sono che i soldati della repubblica fantoccio dei burattini di Hitler, erano soldati alleati e servi dei nazisti, impegnati nei rastrellamenti di partigiani e nella deportazione di compatrioti.
Ma i fatti sono che per la giustizia e la libertà si sono battuti solo i partigiani e i soldati del ricostituito esercito italiano impegnato a fianco delle armate anglo-americane (le armate del secondo fronte terrestre contro i nazisti, il primo fronte era quello dove stavano vincendo, dilagando verso la Germania, le truppe dell’Armata rossa, dopo gli assedi falliti di Mosca, Stalingrado e Leningrado).
Falsificare la storia non è un bene per nessuno, neppure per i caduti di Salò, la cui morte io ascrivo alla responsabilità dei capi fascisti e che, se hanno combattuto per un’illusione e in buona fede (e credo che per alcuni di loro sia stato così), lo hanno fatto sbagliando, al fianco delle SS e della Gestapo, al servizio dei servi di Hitler; voglio dire dunque che anche della loro morte è responsabile il fascismo.
Lei potrà dirmi che la storia è complicata ed io - che non sono uno storico - le risponderò che è vero; lei potrà dirmi che vi sono controversie e che vi sono stati eccessi ed ingiustizie nelle azioni dei partigiani (e delle truppe anglo-americane - chi ricorda lo stupro di massa dopo la battaglia di Montecassino che possiamo riconoscere nel libro e nel film La Ciociara o, in una dimensione maggiore, ha in mente il bombardamento di Dresda, lo sa; e delle truppe sovietiche - chi ricorda l’estensione degli stupri etnici in Germania ed Austria, o in una dimensione maggiore, ha in mente il massacro di Katyn, lo sa) ed io - che non sono uno storico - le risponderò che è vero.
Ma c’era da prendere parte allora, e la parte giusta, la sola parte giusta, la sola parte della giustizia e della libertà era ed è quella dei partigiani. Non so per quale pasticcio, disattenzione, sciatteria sia stata fatta una lapide con quella scritta: lei non è irragionevole e non è sciocco, si renderà conto che essa è intollerabile; se fosse stata fatta consapevolmente sarebbe un tentativo mostruoso di stravolgere la storia, una barbarie culturale.
So che le faccio perdere del tempo, ma credo che non sia inutile una discussione tra noi; una discussione che - se lei volesse - potremmo svolgere pubblicamente nelle scuole o in Facoltà: lei sarebbe accolto con cortesia e rispetto, come sempre, ed ascolteremo con attenzione le sue opinioni e accoglieremmo con gioia un suo “ravvedimento”; tra l’altro all’inizio dell’anno del 1948, sessant’anni fa, entrava in vigore la splendida Costituzione italiana: perché non distribuirla a tutti gli studenti a cura dell’Amministrazione?
Rinnovandole i sensi della mia stima, la saluto cordialmente, certo di una sua cortese risposta.
Viva la Repubblica! Viva la Resistenza!
* Il sito di Arnaldo Bibo Cecchini
* FONTE - Sito (clicca avanti, sul rosso): Una bella lettera e un efficace manifesto per ricordare perché la nostra Repubblica è fondata sulla Resistenza. Indirizzata al sindaco di Alghero, ma anche ai tanti che non sanno o non ricordano
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Intervento del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della celebrazione della Festa della Liberazione
Genova, 25 aprile 2008
Rinnovo innanzitutto l’omaggio appena reso alla memoria dei vostri 1863 caduti, il cui sacrificio rispecchia l’ampiezza e l’eroismo delle schiere dei combattenti per la libertà nella città di Genova e nel suo entroterra. Desidero nello stesso tempo rivolgere un saluto e un apprezzamento particolare all’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea e al suo presidente sen. Raimondo Ricci : un istituto che ha sempre costituito un luogo di incontro e di unità, impegnandosi ad approfondire e trasmettere ricostruzioni obbiettive e non di parte dell’esperienza della Guerra di Liberazione. Esso ha continuato - con iniziative anche recenti cui avrò modo di riferirmi - ad alimentare una coscienza storica comune, affidata non a stereotipi ma a conoscenze e valutazioni inoppugnabili.
E sono da ciò confortato nel guardare a questa celebrazione come non rituale e non ripetitiva. Sappiamo quel che significa per l’Italia la data del 25 aprile : essa segna la liberazione piena del paese dalla dittatura e dall’occupazione straniera, la riconquista su tutto il territorio nazionale di una condizione di libertà, unità e indipendenza. Ma dobbiamo ogni volta sentirci impegnati a trasmettere nella sua interezza, a ripercorrere nella sua complessità, l’esperienza vissuta nel drammatico periodo in cui “l’Italia era tagliata in due” : esperienza tradottasi in una straordinaria prova di riscatto civile e patriottico. Questo fu la Resistenza, dai primi giorni seguiti alla firma dell’armistizio e al crollo dell’8 settembre 1943 fino ai gloriosi momenti conclusivi della liberazione delle nostre città e della nostra terra. Ed essa non può perciò appartenere solo a una parte della nazione, ma deve porsi al centro di uno sforzo volto a “ricomporre, in spirito di verità” - come dissi nel mio primo messaggio al Parlamento - “la storia della nostra Repubblica”. Dobbiamo giungere sempre più decisamente a questa condivisione, a questo comune sentire storico. E credo che in tal senso si siano compiuti nel corso degli anni - da una celebrazione all’altra del 25 aprile - importanti passi avanti, importanti progressi.
Ho un anno fa celebrato il 25 aprile a Cefalonia, per rendere commosso omaggio all’eroismo e al martirio delle migliaia di militari italiani, che in quell’isola greca trasformata in roccaforte, scelsero di battersi in spirito di fedeltà alla patria italiana, caddero in combattimento, furono barbaramente trucidati dopo la sconfitta e la resa - soldati, ufficiali, generale Comandante - o portati alla morte in mare, o deportati in Germania. E ho attribuito un significato speciale al ricordo di quella tragedia, successiva all’8 settembre 1943, che resta la più terribile espressione della rabbia e della ferocia nazista dinanzi alla volontà di riscatto nazionale degli italiani costretti a una innaturale e servile alleanza. Un significato speciale, dicevo, nel senso dell’impegno a cogliere e porre in primo piano una componente della Resistenza che fino a tempi recenti non è stata abbastanza valorizzata. Parlo del contributo dei militari.
Sappiamo tutti quale apporto essenziale venne dalle formazioni partigiane, nelle montagne e nelle città, e da molteplici forme di solidarietà popolare, che si espresse tra l’altro nell’appoggio spontaneo ai giovani che si rifiutavano di subire la chiamata alle armi con la repubblica di Salò, agli ebrei che cercavano di sfuggire a un destino di morte, e anche a molti militari alleati fuggiti dai campi di prigionia che spesso si univano alle unità dei combattenti della libertà.
Ma molto importante fu il concorso dei militari, chiamati a repentine, durissime prove all’indomani dell’armistizio, degli ufficiali e dei soldati che si unirono ai partigiani rafforzandone la capacità di combattimento e infine delle nuove forze armate che si raccolsero nel Corpo Italiano di Liberazione. E grande significato ebbe anche la resistenza di centinaia di migliaia di militari italiani internati in Germania nei campi di concentramento, che respinsero, in schiacciante maggioranza, l’invito a tornare in Italia aderendo al regime repubblichino.
A quest’ultima esperienza dedicò un bel libro di memoria storica con il titolo “L’altra resistenza”, un testimone e analista d’eccezione, Alessandro Natta ; e mi piace ricordare che presentai proprio io quel libro qui a Genova dieci anni orsono.
Le ragioni, le molle della ribellione e della lotta di tanti nostri militari vanno ricercate senza retorica, se non in una coscienza politica già pienamente maturata, piuttosto nel senso dell’onore e della dignità nazionale e personale, e in un impulso di solidarietà umana e di corpo tra gli appartenenti a reparti militari sottoposti a dure prove comuni.
Più in generale, ci fu solo nel tempo una saldatura tra i giovani e i giovanissimi che ingrossarono le fila della Resistenza e il patrimonio ideale e politico degli uomini dell’antifascismo.
Fu decisiva, e abbracciò tutti, la riscoperta, la riconquista di un senso sicuro della patria. La descrisse così una scrittrice sensibile come Natalia Ginzburg:
“Le parole patria e Italia ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. Eravamo lì per difendere la patria, le strade e le piazze delle nostre città, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che passava”.
In quella guerra patriottica, e nella difesa dell’Italia anche nelle sue strutture materiali e nelle sue possibilità di futuro, si univano naturalmente partigiani e militari fedeli ai loro doveri nazionali.
Ho di recente preso visione degli atti del Convegno internazionale promosso lo scorso anno dall’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. In quel Convegno si sono ricostruite le vicende del salvataggio del porto di Genova e di altri scali mediterranei ad opera delle formazioni partigiane. Non c’è bisogno di ricordare come la sera del 25 aprile 1945, a conclusione dell’incontro svoltosi sotto gli auspici del Cardinale Arcivescovo e nella sua ospitale abitazione, il generale Meinhold avesse firmato la resa tedesca nelle mani dei rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale, presieduto da Remo Scappini. Fu quello un fatto senza eguali, che rimane un grande segno di distinzione e di onore per la Resistenza genovese. “Per la prima volta nella storia di questa guerra” - si lesse nell’appello del CLN per la Liguria - “un corpo d’esercito si è arreso dinanzi a un popolo”. Parole restate sempre care, come ci hanno infine detto anche le sue Memorie, a un protagonista dell’insurrezione di Genova, Paolo Emilio Taviani, eminente personalità politica e di governo, che per decenni continuò a testimoniare la pluralità delle ispirazioni ideali della Resistenza.
Tuttavia, anche dopo la firma della resa da parte del generale Meinhold, permaneva il rischio del piano di distruzione dei porti di Genova, Trieste e Fiume, il cosiddetto “piano Z” da tempo predisposto dai Comandi tedeschi. Poi, anche l’ufficiale nazista più determinato a far saltare il porto di Genova fu costretto ad arrendersi ai partigiani.
Quel che mi preme mettere in luce è l’impegno - documentato nello stesso Convegno del vostro Istituto - dei rappresentanti della Marina militare italiana presso l’organizzazione partigiana, il più importante dei quali, il capitano di fregata Kulczycki già comandante in seconda a bordo della corazzata Cavour , aveva dato vita a un organismo, il Vai, che riuniva tutte le forze patriottiche a carattere militare e apolitico, cadendo poi, a Genova, nella mani delle SS e venendo fucilato nel campo di Fossoli. Il nome di questi nostri eroici militari è segnato nell’Albo d’oro della Resistenza.
Ricordarli, rendere loro onore, è essenziale per rappresentare la Resistenza nella sua interezza, nell’insieme delle sue componenti, nella ricchezza delle adesioni e partecipazioni che ne garantirono il successo.
Questi sono fatti, non retorica, non mito. Vedete, c’è stato in tempi recenti un gran parlare dell’esigenza di “smitizzare” la Resistenza. Ora, è giusto - proprio per rendere più credibile la valorizzazione della Resistenza - non tacere i suoi limiti, sia o no accettabile che la si presenti come realtà ed esperienza “minoritaria” ; ma bisogna ben distinguere quel che è cresciuto come “mito” sulla base di un’analisi oggettiva, al di là della grande onda emotiva della liberazione, e quello che è stato tutt’altro. E a questo proposito vorrei dire che in realtà c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto : quello della cosiddetta “Resistenza tradita”, che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza.
All’inizio dello scorso decennio, è apparso un saggio storico di non comune impegno e profondità, dovuto a Claudio Pavone, nel quale si sono messi in evidenza i diversi volti della Resistenza, e in particolare, accanto a quello di una guerra patriottica, quello di una “guerra civile”. Tale profilo è stato a lungo negato, o considerato con ostilità e reticenza, da parte delle correnti antifasciste. Ma se ne può dare - Pavone lo ha dimostrato - un’analisi ponderata, che non significhi in alcun modo “confondere le due parti in lotta, appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione”. E questo vale anche per i fenomeni di violenza che caratterizzarono in tutto il suo corso la guerra anti-partigiana e da cui non fu indenne la Resistenza, specie alla vigilia e all’indomani della Liberazione. Le ombre della Resistenza non vanno occultate, ma guai a indulgere a false equiparazioni e banali generalizzazioni; anche se a nessun caduto, e ai famigliari che ne hanno sofferto la perdita, si può negare rispetto: un rispetto naturalmente maturato, col tempo, sul piano umano. Insomma, è possibile e necessario raccontare la Resistenza, coltivarne la storia, senza sottacere nulla, “smitizzare” quel che c’è da “smitizzare” ma tenendo fermo un limite invalicabile rispetto a qualsiasi forma di denigrazione o svalutazione di quel moto di riscossa e riscatto nazionale cui dobbiamo la riconquista anche per forza nostra dell’indipendenza, dignità e libertà della Nazione italiana.
E a cui dobbiamo anche il contesto di rispetto della nostra sovranità entro il quale fu elaborata la Costituzione repubblicana. Si guardi alla sorte che toccò ai due paesi che rimasero fino alla sconfitta totale coinvolti nella guerra voluta da Hitler, nell’alleanza guidata dalla Germania nazista. Il percorso di definizione di nuovi assetti istituzionali e costituzionali in Germania fu pesantemente condizionato dalla divisione del paese in due zone di occupazione e di influenza. Quel percorso fu affidato, nella zona occidentale, dai governatori militari delle potenze occupanti ai governi dei Länder, e la nuova “Legge fondamentale” fu approvata da un ristretto e provvisorio Consiglio Parlamentare solo nel maggio del 1949. In Giappone, la revisione costituzionale ebbe per base un progetto ispirato dal generale americano MacArthur, del quale prese addirittura il nome.
In Italia, il progetto di nuova Costituzione democratica venne invece elaborato dall’Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale, fu discusso in piena libertà e autonomia di pensiero e approvato a stragrande maggioranza il 22 dicembre 1947. E’ difficile immaginare quale sarebbe stato il percorso, se l’Italia non avesse trovato in sé la forza per affrancarsi dall’alleanza con la Germania nazista e per prendere il suo posto, grazie al contributo delle sue nuove Forze Armate e della Resistenza, come co-belligerante nell’alleanza antifascista accanto alle formazioni occidentali che combatterono duramente per liberare il nostro paese.
Le idealità e le aspirazioni dei nostri combattenti per la libertà poterono così tradursi in un essenziale quadro di riferimento per l’elaborazione della Carta costituzionale nell’Italia divenuta Repubblica per volontà di popolo.
Quelle aspirazioni appaiono pienamente recepite nella limpida sintesi dei “Principi fondamentali” della Costituzione repubblicana e nell’insieme dei suoi indirizzi e precetti. Ricordiamo i primi dodici articoli della Carta. Diritti inviolabili dell’uomo e doveri inderogabili di solidarietà ; uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali ; rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana ; diritto al lavoro ; unità e indivisibilità della Repubblica ; ripudio della guerra e impegno a promuovere e favorire le organizzazioni internazionali che mirano ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni - ebbene, non è precisamente questa l’Italia libera, più giusta, aperta al mondo, che i combattenti per la Resistenza sognavano? Sì, possiamo con buoni motivi dire che il messaggio, l’eredità spirituale e morale della Resistenza, vive nella Costituzione : in quella Costituzione in cui possono ben riconoscersi anche quanti vissero diversamente gli anni 1943-45, quanti ne hanno una diversa memoria per esperienza personale o per giudizi acquisiti. La Carta costituzionale - di cui stiamo celebrando il sessantesimo anniversario - costituisce infatti la base del nostro vivere comune e della nostra rinnovata identità nazionale. “Nessuna delle forze politiche oggi in campo” - desidero ribadire quel che ho detto dinanzi al Parlamento - può rivendicarne in esclusiva l’eredità”. E’ un patrimonio che appartiene a tutti e vincola tutti.
Naturalmente, la Costituzione poteva solo offrire la trama della nuova Italia sperata e invocata a mano a mano che progrediva la guerra di Liberazione, e all’indomani della sua conclusione. Non ne nascevano già definiti nella loro concretezza la società e lo Stato corrispondenti al dettato costituzionale. Dare attuazione a quei principi ha richiesto e richiede un impegno civile, culturale e politico, che non si dà una volta per tutte, che va sempre rinnovato e fatto rivivere, con l’apporto essenziale delle nuove generazioni. Impegno ed apporto, che possono essere sollecitati dal sempre più significativo collocarsi della nostra Carta e del nostro patrimonio costituzionale nel grande quadro del processo di costruzione dell’Europa unita.
Contano nella nostra Carta - a sessant’anni dalla sua entrata in vigore - non solo i principi, i diritti e i doveri, ma le istituzioni. Queste sono certamente perfettibili e riformabili rispetto al disegno che ne fu definito nel 1946-47, ma esse costituiscono, nell’essenziale, pilastri insostituibili dello Stato di diritto e della democrazia repubblicana : il Parlamento, in cui si esprime la sovranità popolare ; le Regioni e gli enti locali ; la magistratura come ordine autonomo e indipendente ; gli istituti di garanzia costituzionale. Alla vitalità di queste istituzioni è ugualmente affidato il retaggio della Resistenza, la trasmissione della drammatica esperienza vissuta dall’Italia fino alla piena liberazione dal fascismo e dall’oppressione straniera. Penso a quel che disse, sul ruolo delle istituzioni, un grande costruttore dell’Europa unita Jean Monnet, rivolgendosi nel lontano 1952 all’Assemblea della appena nata Comunità del carbone e dell’acciaio :
“Gli avvenimenti tragici che noi abbiamo vissuto” - Monnet si riferiva, evidentemente, alla seconda guerra mondiale da pochi anni conclusasi - “ci hanno forse reso più saggi. Ma gli uomini passano, altri verranno e prenderanno il nostro posto. Quel che potremo lasciar loro non sarà la nostra esperienza personale che sparirà con noi ; quel che possiamo lasciar loro sono delle istituzioni. La vita delle istituzioni è più lunga di quella degli uomini, e le istituzioni possono così, se sono ben costruite, accumulare e trasmettere la saggezza delle generazioni che si succedono”.
In questo spirito celebriamo oggi congiuntamente l’anniversario del 25 aprile e quello della Costituzione e delle istituzioni repubblicane, cui va il rispetto non formale ma effettivo e coerente degli italiani di ogni parte politica per garantire un degno avvenire democratico al nostro paese.