[...] Non può essere taciuto il carattere esplicitamente ricattatorio, da vero e proprio Diktat, che pone i lavoratori, già duramente provati dalla crisi e dalla cassa integrazione, con salari tra i più bassi d’Europa, nella condizione di dover scegliere tra la messa a rischio del proprio posto e la rinuncia a una parte significativa dei propri diritti; tra la sopravvivenza e la difesa di condizioni umane di lavoro; tra il mantenimento del proprio reddito e la conservazione della propria dignità. E’ un’alternativa inaccettabile in una società che pretenda di rimanere civile e in un Paese che voglia continuare a definirsi democratico [...]
Appello a sostegno della FIOM di un gruppo di intellettuali torinesi
Di fronte all’ostentata dimostrazione di prepotenza offerta in questi giorni dalla FIAT e di fronte ai contenuti dell’accordo da essa imposto per lo stabilimento di Mirafiori, riteniamo di non poter tacere.
Non può essere taciuto il carattere esplicitamente ricattatorio, da vero e proprio Diktat, che pone i lavoratori, già duramente provati dalla crisi e dalla cassa integrazione, con salari tra i più bassi d’Europa, nella condizione di dover scegliere tra la messa a rischio del proprio posto e la rinuncia a una parte significativa dei propri diritti; tra la sopravvivenza e la difesa di condizioni umane di lavoro; tra il mantenimento del proprio reddito e la conservazione della propria dignità. E’ un’alternativa inaccettabile in una società che pretenda di rimanere civile e in un Paese che voglia continuare a definirsi democratico.
Non può essere taciuto, d’altra parte, lo strappo - un vero e proprio scardinamento - che tale accordo introdurrebbe nell’intero sistema delle relazioni industriali in Italia, la sua aperta contraddizione con ampia parte del dettato costituzionale, a cominciare da quell’articolo 1 che proclama la nostra democrazia repubblicana “fondata sul lavoro” - cioè sul ruolo centrale del lavoro e della persona del lavoratore.
Non può essere taciuta, infine, l’assoluta gravità della scelta FIAT di risolvere il proprio rapporto con la Confindustria, al fine di liberarsi dai vincoli stabiliti in sede di contrattazione nazionale, e di porre in essere un’odiosa forma di discriminazione sindacale in quella delicata e cruciale sfera che è costituita dalla rappresentanza nei luoghi di lavoro.
L’esclusione della FIOM, l’organizzazione sindacale maggioritaria tra i lavoratori metalmeccanici torinesi, dagli organismi rappresentativi di fabbrica costituirebbe un’inaccettabile discriminazione, una prova di pesante arroganza aziendale e di preoccupante cecità imprenditoriale, a nostro parere intollerabili.
Pur consapevoli della drammaticità delle scelte individuali, di chi è posto dinanzi a un brutale aut aut, e rispettosi di esse, esprimiamo il nostro sostegno e solidarietà a chi non ha rinunciato a difendere i diritti e le libertà conquistate a prezzo di duri sacrifici.
Maria Vittoria Ballestrero
Michelangelo Bovero
Piera Campanella
Alessandro Casiccia
Amedeo Cottino
Gastone Cottino
Bruno Contini
Giovanni De Luna
Lucia Delogu
Mario Dogliani
Angelo D’Orsi
Angela Fedi
Fiorenzo Girotti
Riccardo Guastini
Alfio Mastropaolo
Ugo Mattei
Ernesto Muggia
Guido Ortona
Marco Revelli
Marcella Sarale
Giuseppe Sergi
Gianni Vattimo
* Il Dialogo, Martedì 11 Gennaio,2011 Ore: 12:18
Il Vangelo secondo Marchionne
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 11.01. 2011)
Quanto c’è di cristiano nelle nuove regole imposte da Marchionne a Mirafiori? L’interrogativo potrebbe suonare paradossale, ma si pone dal momento che il firmatario-guida del documento, Raffaele Bonanni, è il leader del sindacato che si richiama consapevolmente alla Dottrina sociale della Chiesa. Tanto più che la Cisl in anni passati si è spesa per portare gli altri sindacati confederali a festeggiare il 1º maggio in piazza San Pietro e, più recentemente, si è schierata con la Conferenza episcopale in quel Family Day, che sabotò la legge sulle coppie di fatto.
Nel crollo delle ideologie il sindacato di matrice cattolica ha sempre voluto attingere al patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, arricchito da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Giovanni Paolo II ha dedicato al tema lavoro molta parte del suo magistero. All’inizio - sul piano geopolitico - l’attenzione era focalizzata sul diritto dei lavoratori polacchi di organizzarsi in un sindacato “indipendente” (sebbene da subito, negli anni Ottanta, difendesse a São Paolo anche i diritti dei sindacati brasiliani, guidati dall’allora trotzkista Lula). Tuttavia, dopo il crollo dell’impero sovietico, Wojtyla ha continuato negli anni Novanta a occuparsi energicamente dell’argomento a fronte di un capitalismo che lui chiamava “radicale”, cioè tendente a sopraffare ogni regola.
Lontanissimo e anzi avverso ad ogni concezione di antagonismo di classe, Karol Wojtyla ha messo al centro della sua riflessione il carattere del lavoro come “dimensione fondamentale dell’esistenza”, rigettando quel tipo di prassi in cui “l’uomo viene trattato come strumento di produzione” e il lavoro come semplice “merce”. E usando questi termini - cattolici - sottolineava che il pericolo non andava relegato all’epoca dell’industrializzazione primitiva, ma appartiene al tempo presente laddove prevalga una “civiltà unilateralmente materialistica”.
IL PERICOLO di trattare l’uomo come mera “forza lavoro” - scriveva nella sua enciclica Laborem Exercens - “esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell’economismo materialistico”. Ciò che colpisce nel documento Mirafiori, esaltato come innovativo, simbolo di modernità, spartiacque di una nuova era da coloro che quasi certamente non lo hanno nemmeno letto, è precisamente il fatto che non c’è nulla di innovativo. Non è una rivoluzione nell’organizzazione della produzione o nell’individuazione di nuovi metodi di valorizzazione della persona-operaio. Non è neanche una rivoluzione o, più modestamente, un passo in avanti sulla via della partecipazione dei prestatori d’opera alla gestione dell’azienda: nel senso della Mitbestimmung, la cogestione tedesca, letteralmente “codeterminazione”. La vera carta che la Cisl per la sua tradizione potrebbe giocare e di cui non c’è traccia nel documento Mirafiori.
Il punto non è dunque di schierarsi aprioristicamente per l’una o l’altra componente sindacale, il punto è di valutare le norme del contratto. E qui, in tema di rappresentanza, la divaricazione con la dottrina sociale della Chiesa è totale. Sosteneva Giovanni Paolo II che il diritto di associarsi è fondamentale perché ha come scopo la “difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni”. Cioè di assicurare la “tutela dei loro giusti diritti nei confronti degli imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione”. Il corollario, nella vicenda Solidarnosc, era che non toccava al proprietario dell’azienda - lo Stato in questo caso - decidere chi potesse parlare o no a nome dei lavoratori.
Leggendo il testo Mirafiori (e sono gli articoli su cui Bonanni tiene un profilo bassissimo, perché sa che gridano vendetta al cospetto di Dio... per usare un linguaggio biblico) si vede che tutti i paragrafi sotto il titolo “Sistema di relazioni sindacali” sanciscono il radicale smantellamento della presenza in azienda di qualsiasi organizzazione sindacale, che dissenta dal contratto firmato. Chi ha il 51%, cancella gli altri.
ORA UN CONTO è accettare democraticamente i risultati di un referendum, un conto è imbavagliare totalmente un soggetto sindacale che la pensa diversamente. L’articolo 1 permette la costituzione di rappresentanti sindacali soltanto alle Organizzazioni firmatarie. Chi non è Organizzazione firmataria NON usufruisce di permessi sindacali (art. 2), NON può convocare un’assemblea (art. 3), NON ha diritto a un locale per esercitare le funzioni di rappresentanza sindacale (art. 5), NON fa più parte del sistema per cui l’azienda trattiene direttamente dallo stipendio i contributi sindacali versandoli alle rappresentanze. L’abolizione della legge 1993 sull’elezione dei delegati in azienda (festeggiata dai ministri berlusconiani Sacconi e Romani) e la clausola di umiliazione, per cui chi aderisce dopo deve ottenere il consenso di “tutti” i firmatari, completano un impianto che cozza contro la libera partecipazione dei prestatori d’opera e l’organizzazione sindacale dentro l’azienda come “indispensabile elemento della vita sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate”. (Laborem Exercens)
Per chi ritenesse che gli anni passano, Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in Veritate del 2009 sottolinea come segno caratteristico dell’epoca contemporanea la diminuzione delle libertà sindacali e della capacità negoziale dei sindacati. Tuttavia che si arrivasse a dividere i “bianchi” dai “neri” neanche un papa poteva prevederlo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TEOLOGIA POLITICA DELLA "SOVRANITA’ PRIVATA" DELL’IMPRENDITORE E LA COSTITUZIONE.
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
La Fiat di Marchionne sbarca nei Balcani: entra in scena ‘Fabbrica Serbia’
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 18 settembre 2012 *
Li vedi sfilare a fine turno sull’unico ponte che collega la fabbrica alla città. Polo bianca, pantaloni grigi, facce serie. Giovani in stragrande maggioranza, tanti ragazzi che dimostrano vent’anni o poco più. Alle loro spalle, sulla parete dello stabilimento, incombe una scritta a caratteri cubitali, visibile a centinaia di metri di distanza: “Mi smo ono sto stvaramo”. Che vuol dire, tradotto dal serbo: “Noi siamo quello che facciamo”. E loro fanno, eccome se fanno. Gli operai dello stabilimento Fiat di Kragujevac, 140 chilometri a sud di Belgrado, stanno in fabbrica dieci ore al giorno, per quattro giorni la settimana. Quaranta ore in tutto, con altre otto di straordinario, che da queste parti, almeno per adesso, è diventata una faticosa consuetudine. Non basta. Perché il caporeparto, spesso e volentieri, chiede di lavorare un giorno in più, giusto qualche ora per fissare un pezzo mal riuscito o per dare una sistemata alle macchine. Un’extra pagato? Magari. Tutto gratis. “Ma come si fa a dire di no al capo, che è anche un amico? ”, taglia corto un operaio, uno dei pochi che accettano di scambiare qualche parola.
È vero, alla Fiat di Kragujevac non si usa dire di no. Perché in Serbia un lavoratore su quattro proprio non riesce a trovare un posto. E allora, con la disoccupazione al 25 per cento, l’inflazione al 10 e le casse dello Stato ormai allo stremo, la scritta sui muri della fabbrica (Noi siamo quello che facciamo) finisce per diventare un monito anche per chi sta fuori. Voi non siete niente perché non fate niente. E chi sta dentro la fabbrica non vuole certo tornare quello che era prima, una nullità, uno dei tanti che si arrangiano con il lavoro nero. Meglio chinare la testa, allora. Ubbidire ai capi e tacere con gli estranei.
Vanno così le cose a Kragujevac, Serbia profonda, la nuova frontiera della Fiat predicata e realizzata da Sergio Marchionne. Stipendi da 300-350 euro al mese, turni di lavoro massacranti, straordinari pagati solo in parte. Prendere o lasciare. Ma un’alternativa, un’alternativa vera, nessuno sa dove trovarla. E allora bisogna prendere, bisogna accettare l’offerta targata Italia. Anzi, targata Fiat Automobiles Serbia, in sigla Fas, la società controllata al 66,6 per cento da Torino e per il resto dal governo di Belgrado. A Kragujevac lavorano circa 2.000 dipendenti: 1.700 operai, il resto sono dirigenti e amministrativi.
Lo stabilimento funziona a pieno regime solo da qualche settimana, ad oltre quattro anni di distanza dall’accordo che nel 2008 consegnò (gratis) a Marchionne fabbrica e terreni dove sorgeva la Zastava, storica azienda motoristica che fin dal 1954, ai tempi della Jugoslavia di Tito, ha prodotto auto su licenza della casa di Torino. Esce da qui la 500L, l’unico modello davvero nuovo che i manager del Lingotto sono riusciti a mettere sul mercato nel 2012. “Almeno 30 mila vetture entro la fine dell’anno”, questi gli obiettivi di produzione dichiarati dai vertici della Fiat per l’impianto di Kragujevac. Obiettivi quantomeno ambiziosi. Anche perché le auto, dopo averle fabbricate bisognerebbe pure venderle. E di questi tempi, un po’ in tutta Europa, le aziende del settore fanno una gran fatica a convincere i potenziali clienti.
Ecco perché non si trova un analista disposto a scommettere sull’immediato mirabolante successo della versione large della 500, una monovolume che dovrà conquistare spazio in un segmento di mercato già presidiato da rivali come la Citroën C3 Picasso, la Opel Meriva e la Hyundai ix20. Anche ai più ottimisti tra i tifosi di Torino sembra improbabile che la 500L sia sufficiente, da sola, a garantire la sopravvivenza del modernissimo stabilimento di Kragujevac. “Siamo in grado di produrre tra 120 mila e 180 mila auto l’anno, tutto dipende dalla domanda di mercato”, ha dichiarato il numero uno di Fiat Serbia, Antonio Cesare Ferrara, in una recente intervista all’agenzia di stampa Tanjug. Già, tutto dipende dal mercato. Anche Marchionne se la cavava così quando raccontava dei 20 miliardi di investimenti del fantomatico piano “Fabbrica Italia”. Poi s’è visto com’è andata a finire. Parole al vento.
In Serbia, invece, fonti del governo di Belgrado e anche del gruppo italiano nei mesi scorsi hanno accreditato l’ipotesi che Kragujevac possa arrivare a produrre oltre 200 mila auto l’anno. Tante, tantissime, se si pensa che quest’anno i quattro impianti italiani della Fiat non arriveranno, messi insieme, a 500 mila vetture, con la storica fabbrica di Mirafiori (quasi) ferma a quota 50 mila, forse anche meno. La domanda, a questo punto, è la seguente. Perché mai Marchionne dovrebbe accontentarsi di far viaggiare a mezzo servizio uno stabilimento nuovo di zecca, moderno ed efficiente a poche centinaia di chilometri dalla frontiera italiana? E per di più con tanto di manodopera qualificata e con un costo del lavoro pari a meno di un quinto rispetto a quello degli operai del Belpaese?
Le possibili risposte sono due. La prima: la 500L si rivela un clamoroso successo planetario, travolge le dirette concorrenti sul mercato e arriva a sfiorare i livelli di vendita delle best seller del gruppo, Punto e Panda. Tutto è possibile, certo, ma al momento un boom di queste dimensioni sembra davvero improbabile. Ipotesi numero due: la 500 in versione large serve giusto per il rodaggio della fabbrica serba. Il bello (si fa per dire) viene dopo. Quando Marchionne, accantonato una volta per tutte il bluff di Fabbrica Italia, annuncerà nuovi tagli negli stabilimenti italiani. Colpa del crollo delle vendite, si dirà, che rende insostenibili i costi di produzione nella Penisola.
L’alternativa? Eccola: si chiama Kragujevac. Da queste parti la Fiat ha già accumulato due anni di ritardo rispetto ai piani di partenza e non può più permettersi battute a vuoto. Il governo serbo, da parte sua, ha fatto ponti d’oro all’investitore straniero. Ha regalato terreni e stabilimento (peraltro ridotto quasi in macerie dai bombardamenti della Nato del 1999), ha istituito una zona franca, ha garantito esenzioni fiscali e contributive, ha investito decine di milioni di euro nel progetto promettendo, in aggiunta, nuove strade e ferrovie. Solo che nel frattempo Belgrado ha finito i soldi e pure il governo è cambiato. Con le elezioni del maggio scorso ha perso il posto Boris Tadic, il presidente che insieme al ministro dell’Economia Mladjan Dinkic, era stato il principale sponsor di Marchionne. Adesso comandano Tomislav Nikolic (presidente) e Ivica Dacic (primo ministro), due vecchie volpi della politica locale, nazionalisti un tempo vicini a Slobodan Milosevic. Così a Belgrado non si parla quasi più di entrare nella Ue e la stella polare del nuovo governo è Vladimir Putin, che si è affrettato a promettere appoggio politico e, soprattutto, soldi a palate.
Anche Marchionne è stato costretto a fare i conti con la coppia Nikolic-Dacic. Il piatto piange. Il capo della Fiat reclamava 90 milioni cash a suo tempo promessi da Belgrado.Nessuno scontro. L’accordo è arrivato a tempo di record. Il governo si impegnato a pagare in due rate. La prima, 50 milioni, entro la fine dell’anno. Il resto nel 2013. Marchionne, che ha incontrato Nikolic a Kragujevac il 4 settembre scorso, a quanto pare si fida. O finge di farlo. Del resto il capo del Lingotto sa bene che i serbi a questo punto non possono tirarsi indietro. La perdita dei posti di lavoro promessi dalla Fiat sarebbe una catastrofe politica per il nuovo esecutivo. Marchionne, grande pokerista, ancora una volta può giocare le carte migliori. E a Belgrado non c’è neppure bisogno di bluffare. Il piano “Fabbrica Serbia” ormai è realtà.
di Lorenzo Galeazzi e Vittorio Malagutti
da Il Fatto Quotidiano del 18 settembre 2012
Quei ministri usciti da un libro di Calvino
di Luciano Gallino (la Repubblica, 16.09.2012)
SENTITE le dichiarazioni di Marchionne, Passera ha detto che vuole «capirne le implicazioni». Dunque, per lui, un dirigente che ha promesso 20 miliardi di investimento, ne ha effettuato uno, e poi dichiara che degli altri 19 non se ne parla proprio, è stato poco chiaro.
Bisogna capire meglio cosa vuol dire. D’altra parte Passera ha assicurato all’ad che «non è pensabile che la politica si sostituisca alle (sue) scelte imprenditoriali e di investimento». Quanto alla ministra Fornero, ha fornito alcune date disponibili per incontrarlo. «Non ho il potere di convocare l’amministratore delegato di una grande azienda», ha fatto sapere. Però anche lei vuole «approfondire con Marchionne cosa ha in mente per i suoi piani di investimento per l’occupazione».
Dinanzi a una simile remissività dei ministri e dello stesso presidente del Consiglio, e alle difficoltà che denunciano nel comprendere l’ad della Fiat, c’è da chiedersi se hanno capito, loro, il nocciolo della questione: sono in gioco, entro pochi mesi, decine di migliaia di posti di lavoro. Se lo capissero, la telefonata da fare sarebbe di questo tipo: «Dottor Marchionne, il governo considera gravissime le sue dichiarazioni circa le produzioni Fiat in Italia. Pertanto la aspettiamo domattina alle 8 precise a palazzo Chigi. Dovrà spiegarci con dati e cifre solide come la sua società intende operare nel prossimo futuro in questo Paese. Il governo non tollererà informazioni ambigue né generiche espressioni di intenti».
A parte ministri che non capiscono e telefonate che non si faranno, Marchionne ha pure dei sostenitori. C’è la crisi, essi rammentano, che comprime le vendite di auto. I salari lordi, tasse e contributi inclusi, in Italia sono molto alti. La produttività dei nostri operai è scarsa. In realtà le cose non stanno così. D’accordo che la crisi ha ridotto le vendite di auto in Europa di oltre un quarto, rispetto ai 16,8 milioni di vetture del 2007. Ma ciò non spiega perché l’Italia, che ha nel gruppo Fiat l’unico produttore di autoveicoli, sia ormai soltanto il settimo produttore europeo, dopo essere stata a lungo il secondo o il terzo.
Nel 2011, quella che fu una grande potenza automobilistica ha prodotto meno di 0,8 milioni di autoveicoli (vetture più veicoli commerciali leggeri). La sola Polonia ha superato di parecchio tale cifra. Poi ci sono, a crescere, la Repubblica Ceca, con 1,2 milioni di unità; il Regno Unito (1,5 milioni); la Francia (2,3); la Spagna (2,4); infine la Germania, con 6,3 milioni in totale. Per questi Paesi sembra che la crisi sia un’altra cosa.
Del pari inconsistenti sono le altre affermazioni per cui in Italia non conviene produrre auto. Nello stesso settore, i salari lordi dei lavoratori dell’auto sono più alti in Francia, e più alti ancora lo sono nel Regno Unito e in Germania. Quanto alla produttività, basta accostare i dati in modo appropriato. Evitando - ad esempio - di comparare stabilimenti esteri dove si lavora sei giorni la settimana tutti i mesi, tipo quello polacco di Tichy, con Mirafiori, dove da anni si lavora qualche giorno al mese. Si scopre così che la produttività per ora effettivamente lavorata in Italia è analoga a quella di molti impianti stranieri.
In tale quadro di ministri simili al cavaliere di Calvino, inesistenti per quanto attiene alla questione Fiat (ma anche, duole dire, per altri casi recenti), e di commentatori sovente poco o male informati, spiccano le critiche di un imprenditore, Diego Della Valle, alle due massime cariche di Fiat, l’Ad Marchionne e il presidente Elkann. Ha detto, in soldoni, che la colpa di quello che sta accadendo alla società del Lingotto è tutta loro. Pare difficile dargli torto.
Se un’impresa si ritrova in basso nelle classifiche europee, dopo essere stata per decenni in prima fila, chiunque mastichi un poco di questioni industriali e manageriali non può fare a meno di pensare che il suo massimo dirigente, al governo di essa ormai dal lontano 2004, qualche responsabilità ce l’abbia. Siano queste da cercare nell’ambito delle competenze - Marchionne non è un uomo dell’industria, viene dalla finanza - oppure di un disegno volto a trasferire il peso produttivo dell’impresa verso altri lidi per i più diversi motivi.
Semmai si potrebbe obbiettare a Della Valle che al punto in cui siamo arrivati le critiche dovrebbero venir rivolte in maggior misura agli azionisti, in primo luogo alla famiglia che controlla finanziariamente la Fiat, più qualche altro grosso azionista che sta dalla sua parte, che non al dirigente di vertice. L’Ad in carica potrebbe essere congedato anche domani. Ma questo non cambierebbe di per sé la posizione dei maggiori azionisti, i quali ormai da lungo tempo mostrano, non con quello che dicono bensì con le scelte che compiono, di considerare l’industria dell’auto come un intralcio alla loro ricerca di maggiori rendimenti per i capitali di cui dispongono.
Il diritto di critica e le risposte mai date
di Luciano Gallino (la Repubblica, 05.06.2011
Sergio Marchionne ha affermato che l’Italia deve cambiare atteggiamento nei confronti di Fiat Auto. L’Italia dovrebbe diventare più comprensiva nei confronti delle sue strategie. Più aperta al nuovo che esse rappresentano in tema di relazioni industriali e di piani produttivi. Da ciò si dovrebbe anzitutto dedurre che i suoi uffici gli passano da tempo una rassegna stampa largamente incompleta. Una pur rapida scorsa agli articoli pubblicati nell’ultimo anno o due, alle dichiarazioni dei politici, ai comportamenti di due dei maggiori sindacati su tre, porta a concludere che nove articoli su dieci dei maggiori quotidiani, quattro quinti degli accademici, l’intero governo, e perfino gran parte dei politici di opposizione si sono espressi con fervore dalla parte delle strategie di Fiat. Tutti d’accordo: chi critica Fiat si oppone al nuovo che avanza, ai dettami della globalizzazione, allo sviluppo industriale del paese.
Quel che vuole l’ad più noto al mondo tra i costruttori d’auto (pochissimi tra il pubblico sanno chi sia l’ad di Volkswagen, del gruppo Peugeot-Citroen, di Ford, ma tutti sanno chi è il grande comunicatore a capo della Fiat-Chrysler) non è dunque un atteggiamento più favorevole del Paese: vuole semplicemente che nessuno lo critichi. Ora, dato che nessuno fa nulla per niente, si potrebbe chiedere a Sergio Marchionne che cosa sia lui disposto a fare affinché la minoranza che non lo applaude come invece fanno gli americani e la maggioranza dei commentatori italiani cambi atteggiamento. Tra le tante, vengono in mente due o tre cose.
Marchionne dovrebbe riconoscere in primo luogo che lo sviluppo del diritto del lavoro, ovvero dei diritti personali dei lavoratori ha rappresentato in Italia tra gli Anni 60 e l’inizio degli Anni 80, per milioni di persone, la porta di accesso a un mondo dove anche il più povero, il meno istruito, il più sprovvisto di mezzi, aveva diritto ad essere trattato come persona, poteva con i compagni levare la voce per migliorare la propria condizione, non era più soggetto agli umori ed agli arbitri dei caporali che con un cenno di mano reclutavano all’alba, oppure no, i braccianti a giornata.
Questo salto da un mondo dove uno non contava niente a uno in cui, attraverso i sindacati da un lato, e la legislazione del lavoro dall’altro, uno sentiva di contare qualcosa, è stato più ampio e significativo in Italia che non in altri paesi europei i quali o non avevano visto interrotta da una dittatura la crescita del movimento sindacale, come in Gran Bretagna e in Francia, oppure si erano trovati subito dopo la guerra con una legislazione imposta dai vincitori che assegnava notevole peso politico ed economico al sindacato, come in Germania. Un elemento essenziale di tale salto in avanti e all’insù nella scala dei diritti è stata, in Italia, la libertà di associazione sindacale e di contrattazione collettiva. Appunto quella che il piano di Pomigliano prima e quello di Mirafiori dopo appaiono voler eliminare alla radice.
In questa prospettiva il confronto che tanto la Fiat quanto i suoi sostenitori propongono con le relazioni industriali in Usa è del tutto privo di senso. Per tre ragioni concomitanti: sia la legislazione che la giurisprudenza americane sono molto più arretrate di quelle dell’Europa occidentale; i sindacati hanno subito a causa delle politiche neoliberali, da Reagan in poi, sconfitte catastrofiche; infine si trovano addosso il peso enorme delle pensioni e della sanità privata su basi aziendali, per salvare le quali debbono accettare qualunque compromesso al ribasso. Come hanno dovuto fare i sindacati della Chrysler.
In secondo luogo chi si permette di non festeggiare ogni mossa della Fiat potrebbe cambiare atteggiamento se l’ad si disponesse finalmente a diradare la coltre di nebbia che fino ad oggi grava sul piano chiamato Fabbrica Italia.
Con le sue 650.000 unità prodotte in patria nel 2010 l’Italia, come costruttore di auto, è stata ormai sopravanzata non solo da Germania e Francia, ma anche da Spagna, Regno Unito, Polonia, e perfino dalla Repubblica Ceca e dalla Serbia. Stando al piano sopra indicato, nel 2014 la Fiat dovrebbe tornare a produrre nel nostro Paese oltre un milione e mezzo di vetture. Ma dove, e come, con quali catene di fornitura dei diversi livelli? Tre quarti di un’auto sono costruiti fuori dagli stabilimenti in cui si effettua l’assemblaggio finale. Davvero uno può credere che Mirafiori, che oggi lavora una settimana al mese quando va bene, sarà definitivamente rilanciato assemblando grossi suv progettati e costruiti in gran parte in Usa? O che negli stabilimenti della ex Bertone, nel Torinese, saranno prodotte 50.000 Maserati, bellissime auto da 130.000 euro al pezzo, una quantità dieci volte superiore a quelli che si vendono attualmente? O, ancora, che Pomigliano ritornerà anch’essa a nuova vita producendo un modello di utilitaria ormai vecchiotto, che costa molto meno produrre in Polonia o in Brasile?
Ecco, se in merito a questo paio di punti l’atteggiamento della Fiat cambiasse, smettendo di presentare un balzo all’indietro in tema di libertà sindacali come il nuovo che avanza, e fornendo indicazioni realistiche su ciò che progetta di fare quanto a organizzazione complessiva delle sue produzioni, compreso il centralissimo capitolo della fornitura, anche coloro che per ora hanno più di una perplessità sia sul salto all’indietro che essa propone nel campo delle relazioni industriali, sia sul nebuloso piano Fabbrica Italia, potrebbero cambiare atteggiamento.
LO SCIOPERO
Diritti e contratto, Fiom in piazza
assieme ai Cobas e agli studenti
Il 28 la protesta dei metalmeccanici della Cgil, che contestano le norme contrattuali di Mirafiori e rivendicano gli accordi nazionali e i diritti acquisiti. Cortei e comizi in 18 città, da Torino a Termini Imerese. Accanto a loro i comitati di base, che hanno indetto anche un corteo nazionale a Roma. In piazza anche gli studenti e i precari dello spettacolo
dI ROSARIA AMATO *
ROMA - I metalmeccanici della Fiom, ma anche i dipendenti pubblici e privati aderenti ai Cobas, gli studenti e i precari dello spettacolo: venerdì 28 ci sarà l’Italia in piazza per chiedere un contratto di lavoro equo su base nazionale, il rispetto dei diritti dei lavoratori e, soprattutto per quanto riguarda i giovani, un futuro. Cortei e manifestazioni sono previsti nelle principali città italiane. Nella maggior parte dei casi le varie sigle si uniranno in una protesta unica, seguendo percorsi e orari già stabiliti dalla Fiom, oggi in piazza a Bologna, dove protestano in 30.000. Fischiata il segretario generale della Cgil Susanna Camusso 1, colpevole agli occhi di molti militanti della Fiom di non aver proclamato lo sciopero generale.
La Fiom protesta innanzitutto contro l’accordo Fiat di Mirafiori e quello che sta facendo il governo per "cancellare il sindacato confederale come soggetto che liberamente può contrattare. E stanno trasformando il sindacato in un sindacato aziendale corporativo che, quando va bene, gestisce gli enti bilaterali" ha detto il segretario generale Maurizio Landini nei giorni precedenti. Ma tra gli obiettivi dello sciopero, di otto ore, c’è anche quello, importante, della "riconquista del contratto nazionale", contro la decisa offensiva Confindustria-governo per il suo quasi totale depotenziamento a favore dei contratti aziendali. Questo infatti lo slogan della manifestazione: "Da Pomigliano a Mirafiori. Il lavoro è un bene comune. Difendiamo ovunque contratto e diritti". I metalmeccanici intendono contestare con forza un clima in cui "tutto è in discussione", diritti fondamentali compresi, ma nulla di fatto viene discusso con i sindacati che non vengono ritenuti concilianti.
I Cobas, ha annunciato il portavoce nazionale Piero Bernocchi, sciopereranno "inseme ai metalmeccanici", dunque sfileranno a fianco della Fiom, con "tutte le categorie del lavoro dipendente pubblico e privato" (ad eccezione dei trasporti urbani che hanno anticipato la protesta al 26). Tuttavia il corteo nazionale dei Cobas si svolge invece a Roma (dunque non con la Fiom, che nel Lazio manifesta a Cassino): la partenza è prevista alle 10 a piazza della Repubblica, e vi prenderanno parte anche gli studenti universitari, che partiranno mezzora prima dalla Sapienza. La maggior parte di loro ha fatto sapere oggi che parteciperà alla manifestazione FIom a Cassino: raduno alle 7,30 alla stazione Termini, binario 4. Le motivazioni dello sciopero generale dei Cobas si avvicinano molto a quelle della Fiom: contestato infatti "quel potere economico che ha trascinato l’Italia nella più grave crisi del dopoguerra, e che, invece di pagare per la sua opera distruttiva, cerca di smantellare ciò che resta delle conquiste dei salariati/e e dei settori popolari". Anche gli studenti saranno a fianco della Fiom, hanno annunciato diverse associazioni in tutta Italia. E così anche il "Comitato per la libertà, il diritto all’informazione, alla cultura e allo spettacoli", che riunisce diverse associazioni che operano all’interno dei lavoratori dello spettacolo: in piazza ci saranno soprattutto i precari, particolarmente colpiti dai tagli alla cultura. Accanto ai manifestanti, infine, i sostenitori della campagna "Arancia metalmeccanica", sostenuta dai volontari di Rifondazione Comunista: vendute nelle piazze le arance dei contadini siciliani, il ricavato va a sostegno delle lotte della Fiom. Ecco il calendario delle proteste, città per città.
AOSTA. Presidio in piazza Chanoux dalle 9.00 alle 12.00.
MILANO. Appuntamento alle 9 nel piazzale della Stazione ferroviaria. Il corteo partirà alle 9.30 da Porta Venezia, diretto a piazza Duomo. Il comizio finale verrà aperto dall’intervento del segretario generale Landini. La Fiom Lombardia ha preparato l’allestimento in piazza Duomo di "una catena di montaggio all’aperto": "L’abbiamo realizzata - spiega la segretaria generale Fiom di Milano, Maria Sciancati - per spiegare a tutti, anche a quelli che non hanno mai lavorato in fabbrica, quali sono le condizioni di lavoro: mansioni molto ristrette, in tempi brevissimi, oggi alla Fiat per sette ore e mezzo, dopodomani con l’accordo voluto da Marchionne fino a 10 ore al giorno".
TORINO. Il corteo partirà da Porta Susa intorno alle 9 diretto a piazza Castello, dove avrà luogo il comizio conclusivo, che vedrà la partecipazione del segretario confederale Cgil Enrico Panini e del segretario Fiom Giorgio Airaudo, responsabile nazionale del settore auto.
PADOVA. Il concentramento è previsto alle ore 9 in piazzale della stazione ferroviaria. Da qui il corteo raggiungerà piazza Insurrezione. Tra gli oratori, Giorgio Cremaschi, presidente del comitato centrale Fiom.
BOLZANO. A partire dalle 10, è previsto un presidio di tutti i lavoratori del settore in regione ai cancelli dello stabilimento Iveco. Vi parteciperanno anche i lavoratori del Trentino.
UDINE. Concentramento in piazza Paolo Diacono alle ore 10. Comizio a largo Melzi, di fronte alla sede della Confindustria. In piazza anche l’Osservatorio d’Ateneo degli studenti di Udine.
GENOVA. Concentramento alle ore 8.30 davanti alla Stazione Principe, manifestazioni anche a livello provinciale in altre città. Anche in questo caso, in piazza accanto agli operai ci saranno gli studenti universitari.
MASSA. La manifestazione prevede due concentramenti, uno davanti ai cancelli della Eaton e uno alla stazione, e i manifestanti confluiranno poi in un unico corteo che terminerà in piazza degli Aranci con il comizio finale affidato a Fulvio Fammoni della Cgil e Massimo Masat della Fiom nazionale.
PERUGIA. Alle ore 9.30, in via Cipriano Piccolpasso, di fronte alla locale concessionaria Fiat.
ANCONA. Concentramento a partire dalle 10.00 alla Fiera di Ancona. Da qui un corteo raggiungerà l’area portuale dove Sergio Bellavita, segretario nazionale Fiom-Cgil, terrà il comizio conclusivo.
CASSINO. Alle 9.30, Concentramento davanti alla stazione ferroviaria. Un corteo raggiungerà piazza Alcide De Gasperi. Prevista la partecipazione del segretario confederale Cgil, Vera Lamonica.
LANCIANO. Concentramento alle 9 in piazzale Cuonzo (zona Stadio). Il comizio conclusivo si terrà a piazza del Plebiscito.
POMIGLIANO D’ARCO. Qui ha sede lo stabilimento auto dove sono stati siglati gli accordi separati del 15 giugno e del 29 dicembre 2010. Concentramento alle ore 10 alla rotonda Alfa Romeo (zona industriale). Comizio conclusivo in piazza Primavera, prevista la partecipazione del segretario confederale Cgil, Fabrizio Solari.
BARI. Prevista la partecipazione del segretario confederale Cgil, Nicola Nicolosi. Alla manifestazione aderiranno anche numerose organizzazioni studentesche, docenti di ogni ordine e grado ed il gruppo di ’giuristi pugliesi’ guidati dal professor Mario Giovanni Garofalo dell’Università di Bari.
MELFI. Nella zona industriale (San Nicola di Melfi) ha sede il più grande stabilimento Fiat auto del Mezzogiorno. Per la Fiom nazionale, l’iniziativa sarà conclusa da Sabina Petrucci.
VIBO MARINA. Appuntamento alle 10.00, davanti allo stabilimento del gruppo Nuovo Pignone. Per la Fiom nazionale parlerà qui Barbara Pettine.
TERMINI IMERESE. Qui ha sede lo stabilimento auto che la Fiat intende chiudere a dicembre di quest’anno. Il comizio sarà concluso da Enzo Masini, coordinatore nazionale auto della Fiom.
CAGLIARI. Concentramento in piazza Garibaldi alle 9.00. Da qui partirà un corteo diretto a piazza del Carmine, ove si terrà il comizio conclusivo nel corso del quale, per la Fiom nazionale prenderà la parola Fausto Durante.
* la Repubblica, 27 gennaio 2011
La Fiat a scuola
di Guido Viale il manifesto, 20.01.2011)
A tutti i «modernizzatori» che hanno salutato il referendum di Mirafiori come l’ingresso delle relazioni industriali italiane nella «modernità» va ricordato che la Modernità, o «Età moderna», è iniziata nel 1492 con la scoperta dell’America. A quel tempo, nella Modernità, l’Italia delle Signorie era già entrata. Nei secoli successivi ha avuto alti e bassi (attualmente sta sicuramente attraversando un basso); ma se il 14 gennaio 2011 dovesse diventare una data storica, starebbe a segnare non l’entrata ma l’uscita del paese dalla Modernità: per ripiombare in un nuovo Medioevo; oppure, per instaurare una forma nuova di «feudalesimo aziendale». Perché?
Non mi soffermo sulla limitazione del diritto di sciopero - accordata dal nuovo contratto - che ogni lavoratore dovrà poi sottoscrivere individualmente; né sulla abolizione della rappresentanza elettiva a favore di una gestione dei contenziosi affidata ai sindacati firmatari (trasformati così in missi dominici: ovvero, agenti del padrone); temi già ampiamente trattati da altri. Ma che cosa succederà in produzione?
Gli operai verranno messi in cassa integrazione, prima ordinaria, poi straordinaria, motivata da un «evento improvviso e imprevisto» (così il contratto; che però prevede «l’imprevisto» con assoluta certezza) e finanziata con fondi Inps attinti dalla «gestione speciale» dei lavoratori precari (che in questo modo verranno scorticati delle loro già irrisorie pensioni) e da contributi statali aggiuntivi (alla faccia della rinuncia della Fiat agli aiuti di Stato). Nel frattempo - oltre un anno - i lavoratori verranno convocati uno a uno per la firma del contratto individuale per vincolarli indissolubilmente ai termini dell’accordo. E per essere selezionati. Molti verranno scartati per una ragione o un’altra. È quello che Fiat sta già facendo con gli operai della Zastava, nonostante i generosi aiuti della Bei e del governo serbo. Marchionne sa bene che maestranze con un’età media di 48 anni (nel 2012), per il 30% composte da donne, e per un altro 30% certificate Rcl (ridotte capacità lavorative) non possono reggere i ritmi di lavoro previsti dall’accordo. Poi verrà costituita la NewCo - sembra che si chiamerà Mirafiori Plant - ristrutturando gli impianti con fondi Chrysler e Fiat (il famoso miliardo: ma chi sa quanto sarà poi effettivamente speso?). A febbraio 2012, se tutto «va bene», comincerà la produzione. Di che cosa?
Di Suv (che modernità!) con marchio Chrysler e Alfa, assemblati su pianali e con motori prodotti negli Usa, e poi rispediti negli Usa per essere venduti, mercato permettendo: anche con nuovi motori, i suv restano pur sempre i veicoli più energivori, quelli che avevano mandato a picco la produzione dei tre big di Detroit nel 2008; e il petrolio sta risalendo verso i cento dollari al barile. Ma che senso ha questo andarivieni tra Italia e Usa, quando persino lo stabilimento di Termini Imerese era stato giudicato improduttivo perché troppo lontano dai fornitori di componenti? Il senso è che tra le condizioni poste da Obama per consentire la scalata di Marchionne alla Chrysler c’è quella di esportare dagli Usa, e fuori dall’ambito Nafta (Canada e Messico), prodotti per almeno 1,5 mld di dollari. Dunque, pianali e motori trasferiti da Detroit a Torino (cioè da Chrysler a Fiat Plant: due società differenti anche se controllate dallo stesso management) dovranno concorrere nella misura maggiore possibile al raggiungimento dell’obiettivo. Ovvio che l’esportazione di componenti verrà sovrafatturata (lo ha già prospettato anche Massimo Mucchetti sul Corsera) e i margini di Mirafiori ridotti all’osso (o erosi completamente per giustificare successivi ridimensionamenti o la chiusura dello stabilimento); con tanti saluti per coloro che dalla produzione di nuovi modelli a più alto valore aggiunto - cioè più grandi, più complicati, più lussuosi, più spreconi, per soli ricchi - si aspettano la rimessa in sesto del Gruppo. Ma quale Gruppo?
L’accordo di Mirafiori, dopo quello di Pomigliano, dopo la dismissione di Termini Imerese, dopo lo spin-off di Fiat Industrial - la separazione dall’auto di Cnh e Iveco, i settori più redditizi rimasti in mano agli Agnelli - e in attesa di nuovi accordi anche per Cassino e Termoli (Melfi, cioè Sata, sta già per conto suo), prelude alla dissoluzione di Fiat Group. Intanto va notato che: a) Mirafiori - «nocciolo storico» del gruppo - non produrrà più macchine Fiat e diventerà una «fabbrica cacciavite» che lavora per altri; b) Pomigliano eredita le produzioni e l’organizzazione della fabbrica polacca di Tychy, che è di Fiat ma lavora anche per Ford e che, in attesa di chiarimenti, lavorerà sempre di più per altri; c) Magneti Marelli è in vendita; d) Maserati, Alfa, Lancia e Ferrari sono oggi, con l’eccezione dell’ultima, soprattutto marchi: che possono essere venduti come «marchi senza fabbrica», così come Tychy e Mirafiori sono o possono diventare «fabbriche senza marchio». E poi?
Poi la crisi è tutt’altro che superata. Le finanze di tre quarti dei paesi dell’Ue sono a rischio. I consumi ristagnano. Il mercato europeo dell’auto (a differenza di quelli Usa e asiatico) non dà segni di ripresa. A livello mondiale la capacità produttiva è di 100 milioni di veicoli all’anno mentre la domanda è stata di 60 milioni (sarà forse di 70 quest’anno). C’è un eccesso di capacità non solo in Europa e negli Usa, ma anche in Giappone, Cina e Corea, i cui produttori sono pronti a scalare la classifica delle vendite in Europa. Qualcuno si è chiesto quali siano i vantaggi competitivi con cui Marchionne conta di vendere ogni anno in Europa un milione in più di vetture fabbricate in Italia. Cioè di portare via almeno un milione di vendite annuali a Volkswagen, senza perdere colpi di fronte a Daimler e Kia-Yundai, in piena ascesa, o a Reanult-Nissan e Toyota, molto più solide, per non parlare dello sbarco in Europa dei produttori cinesi.
Alcuni oggi si chiedono che chance può avere una competitività ottenuta strizzando ancor più gli operai, il cui costo incide per non più del 7% sul prezzo finale del veicolo. Molti meno si sono chiesti che senso ha paragonare i 100 o 80 veicoli annui per addetto prodotti da Fiat in Polonia o in Brasile con i 30 degli stabilimenti italiani. A parte la differente complessità dei modelli e il differente confine tra fornitura esterna e fasi internalizzate, come si fa a paragonare la produttività di fabbriche che lavorano a pieno ritmo con quella di impianti dove le giornate di cassa sono più di quelle lavorate? La verità è che se Marchionne vuole vendere, o affittare, o dare in uso ad altri i suoi impianti, ciascuno dei quali farà capo a una diversa società, il valore aggiunto di una manodopera messa alle corde è molto maggiore di quello degli impianti dello stabilimento che li impiega. Ma le due cose sono indisgiungibili. È questo il feudalesimo aziendale a cui ci sta portando l’accordo di Mirafiori; quello che fa degli operai i nuovi «servi della gleba» dell’impresa globalizzata.
Marchionne e i suoi azionisti se riescono a portare a termine la scalata a Chrysler possono anche permettersi di mandare a fondo i lavoratori della Fiat, dopo averli legati con un accordo capestro ai loro rispettivi stabilimenti. Ne ricaveranno un aumento di utili e stock option. Ma chi vive del suo lavoro non può farlo. Però il futuro degli impianti, del knowhow e del lavoro che oggi fanno ancora capo a Fiat o al suo indotto non riposa più sull’industria dell’auto. I settori che hanno un avvenire sono quelli che conducono verso la sostenibilità: rinnovabili, efficienza energetica, ecoedilizia, riassetto del territorio, mobilità flessibile, agricoltura e alimentazione biologiche. Il tutto - tendenzialmente - a rifiuti e a km zero.
Ma la conversione ecologica dell’apparato produttivo e dei nostri consumi avrà ancora bisogno per un tempo per ora indefinibile di industria, economie di scala, grandi flussi di materiali, grandi impianti (il contrario dei chilometri zero) e di lavoratori impegnati, seppure in maniera più creativa e intelligente, su di essi. Sono temi ineludibili. Ma chi può mai lavorare a una prospettiva del genere?
Gli accordi capestro della Fiat avvicinano quello che un tempo era l’esercito dei «garantiti» alla condizione di un sempre più diffuso precariato. Mentre i temi e i modi in cui è andata crescendo la lotta contro la distruzione di scuola, università, ricerca e cultura fa di quel movimento, composto da precari attuali (ricercatori e studenti che lavorano per mantenersi agli studi) e futuri (milioni di giovani a cui è stato rubato il futuro), il segmento più organizzato dell’oceano del precariato italiano.
La domanda di saperi che non servano a costruire operatori, tecnici, insegnanti e ricercatori asserviti a datori di lavoro estemporanei o a imprese ed enti fantasma, dove nessuno avrà mai la sicurezza di un reddito né la possibilità di realizzare le proprie potenzialità, non traduce solo il rigetto della riforma Gelmini e la critica pratica delle forme e dei modi in cui la trasmissione dei saperi viene organizzata e finanziata. Esprime soprattutto la rivendicazione - che può farsi proposta, pratica attiva, percorso di realizzazione - di una riforma della ricerca e dei saperi che investa i contenuti della conoscenza, le sue le finalità, la frantumazione dei saperi in tanti ambiti disciplinari privati di qualsiasi consapevolezza. Per questo il tema centrale di ogni possibile riforma di scuola, università, saperi, cultura dovrebbe essere la conversione ecologica: una prospettiva che richiede l’integrazione di conoscenze sociali, tecniche, giuridiche, economiche, storiche con pratiche fondate sul confronto e la lotta, ma anche sulla capacità di fare proposta e di promuovere organizzazione. Pratiche che possono trovare punti di riferimento e di applicazione concreti nelle lotte dei precari, dei lavoratori delle fabbriche in crisi, dell’opposizione esplicita o soffocata (come i «sì» di Mirafiori) all’avvento del nuovo feudalesimo aziendale.
www.guidoviale@blogspot.com
IL REFERENDUM
A Mirafiori vince il sì con il 54%
Decisivo il voto degli impiegati *
Ha vinto il sì. Ma la notte più lunga di Mirafiori, quella del referendum sul piano-Marchionne, è stata un vero e proprio testa a testa. Come in una lunga, estenuante partita di poker, i seggi sono stati ’spillati’ uno ad uno. A decidere, a mettere a segno l’allungo decisivo per il sì, è stato il seggio 5, quello dei 449 impiegati. Prima, nel count down iniziato con il seggio 9, il no era riuscito non solo a resiste, ma addirittura a segnare un certo vantaggio: i reparti del montaggio, roccaforti della Fiom, avevano risposto. Al voto, iniziato col turno delle 22.00 di giovedì, hanno partecipato 5.119 lavoratori, oltre il 94,2% degli aventi diritto. E il sì ha vinto con 2.735 voti, pari al 54,05%. A votare no sono stati invece in 2.325 (45,95%), mentre le schede nulle e bianche sono state complessivamente 59. Questi i numeri ufficiali della commissione elettorale, dopo una nottata in cui le cifre diffuse hanno continuato a cambiare.
Un’affluenza record che la dice lunga su quanto il referendum fosse sentito dal ’popolo’ di Mirafiori. Il cancello ’due’, simbolo di questa 2 giorni di passione per lo stabilimento storico della Fiat, è stato affollato tutta la notte da operai, militanti sindacali degli opposti schieramenti, ex dipendenti, giornalisti, fotografi e troupe televisive. «Il clima in fabbrica è tranquillo e disteso - ha detto uno degli operai più anziani uscendo dal turno cominciato al pomeriggio - e il voto si è svolto con lunghe code, ma in tranquillità». Ma nessuno, uscendo dalla fabbrica, aveva molta voglia di parlare. Il fronte del no ha retto per i primi 4 seggi: il 9, primo del montaggio; l’8, quello della ’ricontà; e il 7 e il 6, sempre del montaggio. Poi il sorpasso del sì, con un plebiscito dei colletti bianchi a favore del piano: 421 voti a favore e solo 20 contrari. In altalena, con lieve predominanza dei sì, lo spoglio dei seggi restanti. Fino all’ultimo, che ha segnato la vittoria ai punti: impossibile per il fronte del no recuperare lo svantaggio. Ma lo scarto, nel voto operaio, è stato solo di 9 punti.
Nella lunga nottata di Mirafiori (dove alcuni militanti del no a volto coperto hanno bruciato bandiere dello schieramento avverso) non è mancato nemmeno un piccolo ’giallo’, che ha coinvolto il seggio 8, dove la scomparsa di 58 schede ha costretto la commissione elettorale e congelare prima e ricalcolare poi il voto. Anche la fase finale dello spoglio, a vittoria del sì già acquisita, ha avuto attimi di confusione: l’esultanza rumorosa di un membro Fismic della commissione, ha causato infatti una lite con tanto di spintoni. Un rappresentante Fiom ha avuto un malore si è dovuto chiamare una ambulanza per soccorrerlo. Poi, alle 6.00 di questa mattina, proprio mentre gli operai del turno di notte lasciavano lo stabilimento, che oggi non vedrà nessuno al lavoro, l’esito finale: vittoria del sì.
* La Stampa, 5/1/2011
FIOM-CGIL
LETTERA ALLE ISCRITTE E AGLI ISCRITTI FIOM
Care metalmeccaniche, cari metalmeccanici iscritti alla Fiom, care compagne, cari compagni,
è in atto il più grave attacco ai diritti e alle libertà del mondo del lavoro dal 1945 a oggi. Tutto è in discussione, il contratto nazionale, gli orari di lavoro, il salario, i diritti e le libertà.
Tutto si vuol cancellare senza consultare davvero le lavoratrici e i lavoratori. Sugli accordi separati nazionali che distruggono contratti, diritti e libertà, si rifiuta il referendum perché si teme il no di un voto libero. Invece si impongono consultazioni capestro fondate sulla minaccia della perdita del posto di lavoro. Solo chi subisce questo ricatto può votare e la sua rinuncia a tutto dovrebbe poi valere per tutti.
Negli stabilimenti Fiat di Pomigliano e Mirafiori, a Napoli e a Torino, l’azienda ha deciso che non si applicherà più il contratto nazionale. Non ci saranno più le 40 ore settimanali, gli straordinari obbligatori triplicheranno, verranno tagliate le pause e aumentati i ritmi di lavoro, si imporranno le turnazioni più disagiate e le lavoratrici e i lavoratori saranno sempre a disposizione dell’azienda, per ogni mansione, per ogni turno. Verrà proibito ammalarsi, perché tutte le malattie saranno considerate assenteismo da punire.
Non si potrà più scioperare pena il licenziamento e non si potranno più scegliere con il voto libero e segreto i rappresentanti sindacali, si aboliscono le elezioni delle rsu e le libere assemblee e si vuole eliminare la Fiom in fabbrica. Gli unici sindacalisti ammessi in azienda saranno quelli nominati dalle organizzazioni sindacali che accettano la fedeltà al regime brutale imposto ai lavoratori. I lavoratori dovranno solo piegare la testa alle pretese dell’azienda, anche alle più ingiuste e distruttive della salute e della dignità.
La Fiom a tutto questo ha opposto un chiaro NO e proprio per questo oggi subisce un attacco che ne vuol mettere in discussione la stessa esistenza, con una prepotenza autoritaria che non ha precedenti negli ultimi decenni.
Altre organizzazioni sindacali hanno accettato il ricatto della Fiat spiegando che così si salvano i posti di lavoro. In realtà hanno pensato solo a salvare se stesse, ma così si sono messe in condizioni di subire qualsiasi ricatto, in qualsiasi situazione, in qualsiasi azienda.
I diritti che ancora abbiamo non sono nostri. Essi nascono dalle lotte di coloro che ci hanno preceduto e li hanno conquistati a caro prezzo. Noi abbiamo il dovere di difenderli non solo per noi, ma ancor di più per coloro che verranno dopo di noi.
Se si affermasse ovunque il modello della Fiat, tutto il lavoro sarebbe condannato al superfruttamento. Già oggi i giovani subiscono una precarietà vergognosa. Quale futuro vogliamo costruire?
La Fiom è oggi sotto attacco perché ha deciso di non piegare la testa e chi vuole distruggere il contratto e i diritti sa che non ce la può fare finché la Fiom resiste e lotta.
È capitato così sulle spalle della nostra organizzazione e di tutti e tutte coloro che sono iscritti ad essa un compito eccezionale. Sono costose le ore di sciopero ed è molto più comodo in fabbrica e fuori piegarsi alla prepotenza. Ma sarà molto più duro e costoso un futuro con il ricatto continuo del licenziamento e senza contratto nazionale, senza un vero salario, senza limiti agli orari e alle flessibilità, senza diritto di sciopero e senza libertà. Il sindacato è nato per impedire che le lavoratrici e i lavoratori si facessero concorrenza al ribasso tra loro pur di lavorare.
Ora, nel nome della globalizzazione, si vuol tornare a quella competizione selvaggia. Non si conserva il lavoro inseguendo le peggiori condizioni e i salari piu bassi! Il lavoro si difende con gli investimenti, la ricerca, l’innovazione e anche con la giustizia sociale. Chi si piega al ricatto del supersfruttamento non salva il lavoro, ma al contrario accetta che esso sia ancora più incerto e precario.
La Fiom non vuol tornare alle condizioni dell’800, a una società dove non ci sono più diritti e contratti e la stessa Costituzione della Repubblica diventa un peso che, nel nome della competizione, bisogna scaricare al di fuori di ogni luogo di lavoro.
Essere iscritti alla Fiom in questo momento richiede un impegno e un coraggio particolari per contrastare la paura e la rassegnazione.
Il sindacato oggi deve dare coraggio alle tante lavoratrici e ai tanti lavoratori che subiscono i ricatti della crisi e le prepotenze del padrone. Oggi più che mai il sindacato deve servire per darsi quella forza che uno per uno non si ha. Tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori oggi hanno bisogno della Fiom, in tanti oggi, anche nella società, sostengono le nostre scelte sentendo in esse una speranza per il futuro.
Facciamoci forza nella Fiom, abbiamo con noi la ragione, la giustizia e il diritto, contiamo sulla partecipazione, il coraggio e l’orgoglio di tutte e tutti. Assieme fermeremo l’aggressione ai diritti e alle libertà, assieme affermeremo la dignità del lavoro in una società più giusta. Sarà dura, ma ce la faremo.
* Federazione impiegati operai metallurgici CGIL
Lettera al Presidente della Repubblica
di Rossana Rossanda (il manifesto, 13.01.2011)
All’ on. Giorgio Napolitano Presidente della Repubblica
Signor Presidente,
non credo di mettere in causa l’esercizio del Suo mandato al di sopra delle parti politiche e sociali, chiedendoLe, da semplice cittadina che ha avuto, anche se solo per età, il privilegio di seguire il lavoro dei costituenti, di voler intervenire con un richiamo al paese su quel che la Costituzione prescrive in tema di diritti sindacali. Gli articoli 39 e 40 infatti non sono, come può constatare anche una non giurista, principi ottativi che testimoniano di un indiscutibile spirito dei costituenti ma cui, per mancanza delle articolazioni successive, un cittadino non si può appellarsi per veder riconosciuto un suo diritto. Sono del tutto inequivoci e la loro attuazione è stata regolamentata dalle leggi.
Ora, ferma restando la libertà di opinione dell’attuale amministratore delegato della Fiat che si propone di mutare le relazioni industriali del paese, è legittimo che egli decida della libertà sindacale nella sua azienda contro il dettato costituzionale? Non credo. L’art. 39 della Costituzione più chiaro di così non potrebbe essere: l’organizzazione sindacale è libera e nessuna legge la può impedire salvo l’obbligo per i sindacati di essere registrati. Una volta registrato un sindacato ha personalità giuridica e rappresenta i suoi iscritti ed è in grado di stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce.
Non sono in grado di sapere se sia ammissibile che una azienda privata possa obbligare i dipendenti a un referendum che, se proposto su scala nazionale, la Corte Costituzionale non ammetterebbe. Ma mi permetto di chiederLe se giovi al clima politico che Lei auspica che nella maggiore azienda italiana si indica un referendum fra lavoratori su un «accordo» con la proprietà che preveda la sospensione di alcuni diritti sindacali di fondo, come quello di sciopero garantito dall’art. 40 e dalle successivi leggi di attuazione. E se anche si considera che tale referendum possa essere tenuto, è legittimo che in quell’accordo si dichiari che il sindacato che non lo avesse firmato sarà interdetto di ogni attività nell’azienda? So che alcuni sindacati si appellano al non particolarmente trasparente art.19 dello Statuto dei lavoratori, per negare tale diritto a un sindacato che senza osteggiare il referendum dichiara di non approvarne l’oggetto, ma la loro interpretazione è quanto meno assai discutibile.
Sarebbe prezioso che Lei, la cui imparzialità nei confronti delle diverse parti sociali nessuno può negare, intervenisse su questo aspetto decisivo dei diritti indisponibili del cittadino, richiamando tutti allo spirito e alla lettera della nostra legge fondamentale. Se la possibilità di agire d’un sindacato, fra l’altro ad oggi il più fortemente rappresentativo, è messa in causa nella maggiore azienda italiana, cade uno dei diritti fondamentali che distinguono una democrazia da una dittatura. Per questo esso sta a cuore ad ognuna e ognuno di noi, e sono certa che Lei condivide questa preoccupazione.
Voglia scusare l’irritualità di questo mio rivolgersi alla Sua persona, e, in attesa d’un suo cenno, La ringrazio fin d’ora per l’ascolto.
Quando il governo offende gli operai
di Gad Lerner (la Repubblica, 13.01.2011)
Un presidente del Consiglio che trova naturale legittimare il proposito di Marchionne - cioè il dirottamento all’estero degli investimenti produttivi Fiat in caso di bocciatura dell’accordo di Mirafiori - si assume una responsabilità che oltrepassa il mero infortunio verbale. Conferma che l ’economia nazionale si ritrova a fronteggiare disarmata, sguarnita della minima tutela politica, la contesa globale.
Siamo di fronte alla resa vergognosa di un governo già rivelatosi incapace di pretendere da Marchionne, com’era suo dovere, le informazioni puntuali sul suo fantomatico piano industriale senza le quali mai Obama avrebbe concesso il via libera all’operazione Chrysler negli Usa. Le stesse garanzie in assenza delle quali la cancelliera tedesca Merkel pochi mesi fa stoppò l ’intesa tra Fiat e Opel. Così si comportano delle istituzioni pubbliche rispettabili. Con l’aggravante che Berlusconi si genuflette di fronte all’azzardo della più grande industria del suo paese, incurante del danno arrecato agli interessi nazionali. Perché qui non è più in gioco soltanto, e non sarebbe poco, la tutela del posto di lavoro di migliaia di lavoratori, ma l’intera struttura produttiva di una economia il cui destino resta legato all’industria manifatturiera. Rispetto alla quale, il premiertycoon si conferma geneticamente estraneo.
Di fronte all’enormità di questo misfatto antinazionale, sarebbe ingenuo sovraccaricare di significati politici o ideologici il voto che i 5.500 dipendenti di Mirafiori sono chiamati a esprimere a partire da stanotte. Un partito operaio non può certo esistere nell’Italia del 2011. Nessuno più fingerà di credere, come nel passato, alla natura di per sé rivoluzionaria di una classe sociale che liberandosi dallo sfruttamento adempierebbe a una finalità di giustizia universale. Stremati, anziani e impoveriti, i lavoratori torinesi vengono chiamati a sancire nient’altro che una deroga alle normative vigenti così evidentemente peggiorativa dello status quo che neppure la Confindustria può vidimarla; almeno fin tanto che l’associazione degli imprenditori continuerà a dichiarare valido il contratto nazionale da lei stipulato con i sindacati.
Timida, anacronistica e imbarazzata pareva dunque, ieri, la presenza ai cancelli di Mirafiori di un leader della sinistra come Vendola: perché riesce difficile perfino a lui chiedere ai dipendenti Fiat di votare no al referendum-ultimatum, di fronte a un amministratore delegato che si è detto pronto a "brindare", oltreoceano, a Detroit, in caso di bocciatura del suo diktat.
Non a caso prima della sortita di Berlusconi, e in assenza di un’effettiva libertà di scelta, era ammutolito lo stesso Partito democratico, i cui massimi dirigenti ancora ieri si dichiaravano "né con Marchionne, né con la Fiom" (cosa vuol dire?). Rescisso il loro giovanile vincolo esistenziale con il mondo del lavoro, caduta l’illusione della classe rivoluzionaria motore del progresso, questi dirigenti non seppero promuovere neanche quando governavano il paese forme alternative di tutela del lavoro dipendente; come la cogestione aziendale alla tedesca o l’azionariato dei dipendenti all ’americana. Col bel risultato che oggi neppure il sindacalismo classista residuale praticato dalla Fiom Cgil è in grado di strappare garanzie progettuali e contropartite efficaci ai sacrifici richiesti dalla Fiat, pena il dirottamento all’estero degli investimenti.
Non può più esistere un partito operaio, ma fatica a sopravvivere anche un partito degli industriali, nell’Italia a crescita zero. Lo rivela clamorosamente la bandiera bianca alzata da Berlusconi. Così gli operai di Mirafiori si ritrovano completamente disarmati, sollecitati a cedere diritti in cambio di una promessa di lavoro incerto e a basso reddito. Sarà, la loro, domani, una drammatica somma di scelte individuali. Mentre l’establishment del paese si crogiola in miopi calcoli di convenienza: assecondare la prepotenza di Marchionne nella speranza magari di assestare un colpo definitivo alla resistenza di una Cgil isolata? Elevando addirittura il manager italo-canadese a tardivo battistrada di una inesistente rivoluzione liberale mai neppure intrapresa dal berlusconismo?
Se Marchionne avesse abbinato la denuncia delle nostre relazioni sindacali antiquate a un effettivo rilancio dell’impresa automobilistica in Italia, anziché lamentare ingratitudine per l’"osceno"trattamento ricevuto, come se la Fiat non usufruisse tuttora di milioni di ore di cassa integrazione, forse oggi le sue richieste risulterebbero più credibili. Ma dopo aver risanato i bilanci Fiat grazie al sostegno decisivo delle nostre banche, trascorsi ormai sei anni e mezzo dal suo insediamento al Lingotto, è giunto il tempo di valutarne l’operato non solo come audace finanziere, bensì come capitano d’industria.
Quali nuove quote di mercato ha conquistato? Quali nuove vetture, all’altezza di competere con quelle della concorrenza, annovera nel suo glorioso curriculum? I suoi predecessori Valletta e Romiti sbaragliarono anch’essi la resistenza sindacale, nel 1955 e nel 1980, ma con la Seicento e la Uno poi incrementarono le vendite. Marchionne invece si è rivelato abilissimo nel sostituire gli aiuti di Stato americani agli incentivi nostrani, ha fatto schizzare in Borsa i titoli Fiat per la gioia degli azionisti e di sé medesimo, ma nel frattempo ha sguarnito la produzione intestandosi un crollo delle vendite senza precedenti. Oggi la Fiat detiene solo una quota del 6,7% del mercato europeo, un record negativo, mentre le case automobilistiche rivali stanno crescendo.
Sarà forse colpa di Landini e della Fiom se in pochi anni siamo passati da novecentomila vetture prodotte in Italia a meno di seicentomila? Risultano forse ingovernabili le fabbriche in cui langue la produzione? Davvero qualcuno crede che la fabbricazione della Panda a Pomigliano e il solo montaggio di una Jeep Chrysler a Mirafiori porteranno al raddoppio (e più) delle vetture prodotte in Italia, come genericamente promesso in un piano che nessuno, tanto meno Berlusconi, ha verificato?
I sindacalisti firmatari degli accordi di Pomigliano e di Mirafiori fanno notare che sono molti, in Italia, gli operai già oggi costretti a lavorare in condizioni più gravose di quelle che hanno strappato a Marchionne. È vero, anche se la prevista esclusione del maggior sindacato metalmeccanico, la Fiom Cgil, dalla rappresentanza aziendale di questi due stabilimenti, costituisce un vulnus democratico pericoloso. E, soprattutto, il ripiegamento in un’azienda come la Fiat prelude a un peggioramento generalizzato. Per questo oggi risulta così tormentosa la scelta cui sono chiamati, uno ad uno, i dipendenti di Mirafiori. In coscienza, nessuno tra i fortunati (ma anche fra i disoccupati e i precari) che restano fuori dai cancelli può giocare con un sì o con un no al posto loro.
Camusso attacca il manager Fiat e chiede più chiarezza a Confindustria
Landini: quell’accordo cancella il sindacato, anche quello che ha deciso di firmare
Renzi: sto con il manager
«Marchionne insulta l’Italia». L’ad: cerco solo il cambiamento
Susanna Camusso non fa sconti a Marchionne parlando a Chianciano alle Camere del lavoro Cgil riunite: non insulti il suo Paese.
La replica: non si scambi il cambiamento con insulti.
di Bianca Di Giovanni (l’Unità, 12.01.2011)
Scintille sul fronte Fiat alla vigilia del referendum a Mirafiori. Dall’assemblea nazionale delle Camere del lavoro a Chianciano Susanna Camusso rilancia la sua sfida a Sergio Marchionne, ribadendo al contempo la sua distanza dall’antagonismo più radicale della Fiom, restando il sostegno convinto della Confederazione allo sciopero del 28 gennaio delle tute blu.
Dallo stesso podio Maurizio Landini (Fiom) arringa allo sciopero generale, e chiede alla Confederazione di “far saltare l’accordo”. Insomma, i temi sono incandescenti, e le dinamiche complesse. Per l’intera giornata si snoda il botta e risposta incrociato tra i vari duellanti. «Marchionne la smetta di insultare il suo Paese, in Germania ci sarebbe stata indignazione generale se non si fossero avuti i dettagli del piano industriale», attacca la leader Cgil. «Non si può confondere il cambiamento con gli insulti», replica il manager.
Altro che cambiamento: per Landini l’accordo di Mirafiori «cambia la natura del sindacato», dunque segna un passaggio epocale a cui dare risposte straordinarie. Insomma, la Fiom non rientra nella «carreggiata» indicata dalla Cgil (firma tecnica conservare la rappresentanza in fabbrica), anche se la minoranza interna di Fausto Durante fa pressing perché ciò accada. «E’ l’unico modo per non abbandonare i lavoratori», dichiara anche lui dalla platea di Chianciano. Per Landini stare dentro o fuori a questo punto non conta: quell’intesa di fatto cancella la rappresentanza anche di chi firma. A questo punto è un gioco di linee parallele che non si intersecano mai. Almeno per il momento.
OLTRE LA CONTRAPPOSIZIONE
Ma Camusso va oltre la sterile contrapposizione. A Chianciano cala la carta che sarà «giocata» dal direttivo sabato prossimo: una nuova proposta sulla rappresentanza su cui chiedere l’intesa a Cisl e Uil. Un accordo con tutte le sigle confederali per «evitare che le imprese diventino caserme». La proposta è stata data ieri sera ai segretari confederali e sabato sarà votata dal direttivo. Come dire: la crisi si supera con le regole, non con gli strappi. Questa la posizione del segretario generale. La quale esordisce con un richiamo a Confindustria sul sistema delle relazioni sindacali, messo sotto pressione in modo inaccettabile.
Quello di Torino «più che un accordo separato è stato un accordo ad excludendum - dichiara Camusso - Ora dobbiamo evitare che lo strappo si estenda all’insieme del sistema». Questo è l’anello debole del «castello» costruito da Marchionne: è impensabile che ciascuna azienda si definisca regole proprie, ritagliate in base alle proprie urgenze e contingenze sui mercati. Quante deroghe, quanti strappi servirebbero? Quale rappresentanza vanterebbe allora il sistema Confindustriale? Questa strada è chiaramente impraticabile. Ecco perché è necessario che «l’insieme del sistema agisca e ridefinisca le regole della rappresentanza».
In casa confindustriale c’è «imbarazzo», ci sono «atteggiamenti ondivaghi» nel sostenere Fiat. Proprio quella Confindustria con cui è iniziato un fitto dialogo e una fase di disgelo viene chiamata in causa da Camusso. Che avverte: «Il sistema delle relazioni è basato sul riconoscimento reciproco e sulla libertà di decidere i propri rappresentanti. Senza queste premesse non è credibile fare una discussione».
Non è un altolà a Marcegaglia, ma ci somiglia molto, «se è vero che il sistema delle imprese crede che bisogna affermare e consolidare l’accordo sulla rappresentanza del ’93 - continua Camusso - allora deve esserci una chiarezza in premessa». Come proseguire quei tavoli aperti, se ad ogni passaggio si rischia uno strappo? Questo sottintende Camusso. Quale parità c’è, poi, in un sistema che prevede sanzioni a senso unico, communate solo dalle imprese? Dopo Confindustria, Camusso passa ai suoi “omologhi” in Cisl e Uil. «Bonanni ha detto di essere consapevole di aver fatto un accordo che apre problemi sulla rappresentanza - dichiara - e che non voleva farlo. Se non volevate farlo, allora facciamolo adesso, subito non dopo, perché anche questo fa parte dello stare con i lavoratori».
L’appello è forte, insistente. «Chiediamo a Cisl e Uil se sia democrazia escludere qualcuno da una fabbrica - continua Camusso - Non facciamo una battaglia di bandiera e difesa dell’organizzazione, ma una battaglia generale a difesa del sindacato nei luoghi di lavoro».
Landini non cede: accordo illegittimo non firmeremo mai
Il segretario Fiom convoca la stampa dopo aver incassato il sostegno della Cgil: «Non è la Fiat che decide se noi esistiamo o no, questo lo decidono i lavoratori»
La settimana del referendum su Mirafiori si apre con una Fiom battagliera.
Landini: «Non siamo il sindacato dei “no”, abbiamo firmato mille accordi. La partita Fiat non è chiusa, riusciremo a riaprirla con l’aiuto di tutti».
di Massimo Franchi (l’Unità, 11.01.2011
Per adesso, Marchionne fa bene alla Fiom. Mai visti tanti giornalisti e fotografi per una conferenza stampa, tanta attenzione nella palazzina di Corso Trieste, sede dei metallurgici della Cgil. Lo scontro con l’ad canado-abruzzese ha portato in dote tanti nuovi adepti, se è vero che le elezioni per le Rsu segnano nel dopo Pomigliano un avanzamento del 6%, con un arretramento di Fim e Uilm, vicini di casa a Corso Trieste. Maurizio Landini e i suoi però sono consapevoli che la partita Mirafiori «mette a rischio l’esistenza stessa del sindacato» e allora provano a sfruttare la (mai avuta) attenzione mediatica per trovare tutto l’aiuto di cui hanno bisogno nell’impari sfida con il Lingotto globalizzato. Una «partita che vogliamo riaprire», attacca Landini. La settimana che porta al referendum su Mirafiori parte con una Fiom battagliera. Dopo la "partita patta" nell’incontro-scontro con la Cgil di domenica, il segretario rilancia la lotta e le ragioni del suo sindacato. Se, è notizia di domenica, la Cgil sosterrà in pieno lo sciopero generale del 28 gennaio, la lotta della Fiom contro «la vergogna di Mirafiori» si allarga coinvolgendo «studenti e confrontandosi con tutte le forze politiche».
Giovedì invece tutta la dirigenza dei metallurgici della Cgil si sposterà ai cancelli di Mirafiori dove è prevista l’assemblea con i lavoratori. «Proprio per rispetto ai 5mila di Mirafiori sui quali non può ricadere la responsabilità di un referendum ricatto dove si dice "O voti Sì o si chiude", ci prendiamo la responsabilità di dire che noi l’accordo non lo firmiamo nemmeno se vincono i Sì spiega Landini -. Lo facciamo perché quell’accordo è illegittimo e cercheremo di dimostrarlo con i nostri legali». Landini poi vuole sfatare il mito di una Fiom sempre contro: «Nel 2010 abbiamo firmato mille accordi che riguardano 230 mila metalmeccanici, dalla Ferrari alla Brembo, dalla Whirpool a quella Lamborghini che è della Wolkswagen. Forse siamo il sindacato che ha firmato più accordi».
GIOVEDÌ AI CANCELLI
Intanto a Torino ieri sono tornati al lavoro 800 operai di Mirafiori: la Fiom ha distribuito loro l’accordo firmato dagli altri sindacati con una copertina di un manifesto del 1969 dal titolo "Se cedi un dito, ti prendono un braccio". «È attualissimo spiega Giorgio Airaudo ed è la sintesi di un contratto che in pochi conoscono: 70 pagine sottoscritte in uno stanzino da delegazioni ristrette sotto il ricatto della Fiat. Era giusto informare i lavoratori, come è giusto chiedere a Marchionne se è vero, come scrive qualcuno, che il contratto Chrysler Fiat prevede che peggio va la Fiat in Italia, meno dovrà sborsare il Lingotto. Ecco, noi cerchiamo di fare un’operazione verità e non giochiamo d’azzardo sulle percentuali dell’esito del referendum». «Di una cosa posso assicurare Marchionne chiosa Landini non è la Fiat che decide se esiste la Fiom, questo lo decidono i lavoratori, i nostri 370mila iscritti, perché esistiamo da 110 anni e da 100 (anno di fondazione della Cgil) abbiamo deciso di essere un sindacato confederale».
Il segretario della Cgil risponde alla lettera dei delegati della fabbrica pubblicata dall’Unità.
«Il modello Marchionne non va bene, la Cgil rispetterà le scelte dei lavoratori»
di Susanna Camusso (l’Unità, 11.01.2011)
Care compagne, Cari compagni, che la CGIL sia con voi e con le lavoratrici e i lavoratori di Mirafiori e Pomigliano per tenere aperta la prospettiva di un cambiamento e che sia con voi nel dire no all’accordo voluto da Fiat e sottoscritto da altri, non vi è alcun dubbio.
E non è certo solidarietà, ma la profonda convinzione che il Modello Marchionne propone condizioni di lavoro che non vanno bene, sottrae diritti, mette in discussione la libertà dei lavoratori di essere rappresentati. No a quegli accordi è senza alcun dubbio il sentire di tutta la CGIL.
Per questo, per rispettare ed essere a fianco dei lavoratori abbiamo detto di votare no, ci sembrava insufficiente criticare e giudicare l’uso del referendum, tema tutto vero, che viene, se mi permettete, un momento dopo lo stare insieme ai lavoratori e alle lavoratrici. Un minuto dopo il provare ad aiutarli a dire no.
Con grande rispetto per il travaglio che i lavoratori e le lavoratrici di Mirafiori avranno, proponendogli il no, e rispettando chi sceglierà il si. Perché la funzione di un sindacato è organizzare, tutelare i lavoratori, proporgli le vie del cambiamento, del miglioramento delle loro condizioni. Proprio perché questa è la nostra funzione, diciamo no a quell’accordo che peggiora le condizioni di lavoro e viola diritti che riteniamo indisponibili.
Se questa è la nostra funzione, direi la nostra ragion d’essere, la domanda che segue e che proponiamo a tutte e tutti è quella della ricerca della soluzione migliore.
Se dovesse prevalere il si, se venisse sconfitta la nostra idea di votare no, ma comunque anche se si ritenesse non valido il referendum, si applicherà quell’accordo; come ottempereremo allora alla nostra funzione di rappresentanza dei lavoratori, come ricostruiremo le condizioni del cambiamento?
Questa la domanda che dobbiamo proporci proprio perché siamo insieme e vicini. Insieme oggi nel giudicare, ma pronti ad interrogarci per traguardare un futuro dentro le aziende Fiat.
Sicuramente possiamo, vogliamo, dobbiamo incontrarci per fare insieme le riflessioni che la vertenza propone a tutti noi. Vi so in questi giorni impegnati nelle assemblee e nella campagna elettorale, organizzeremo per i giorni successivi. Con affetto.
A Mirafiori in gioco la democrazia
di Loris Campetti (il manifesto, 11.01.2011)
C’è un signore con la borsetta che gira il mondo cercando di vendere la sua merce a prezzo fisso. Non è un mercante arabo, nessuna trattativa è prevista: se vi va è così, altrimenti tanti saluti. Il liberismo nella globalizzazione non è un suq, la crisi e la concorrenza non perdonano e il ’900 è morto e sepolto con i suoi lacci e diritti. Il nostro mercante si chiama Sergio Marchionne, parla americano e detesta i dialetti, che sia sabaudo o partenopeo. È più capace nel vendere promesse in cambio di cieca obbedienza che non automobili. Nessuno le vuole, è merce vecchiotta. Ma lui giura che rinnoverà e triplicherà la produzione, darà lavoro a tutti, tanto lavoro. 10 ore al dì anzi 11, pause ridotte, mensa solo se c’è tempo, sciopero nisba, neanche un’influenza. È scritto sul contratto: se voti sì ti riassumo, investo per il futuro tuo e della fabbrica, sennò riparto con la mia valigetta e qualche pezzente più pezzente di te in qualche stato più pezzente di quello italiano lo troverò di sicuro.
Ecco il referendum con cui il 13 e il 14 Marchionne chiederà a 5.300 operai delle Carrozzerie di Mirafiori di prendere o lasciare: il 51% di sì farà vivere la fabbrica, il no la chiuderà. Che c’è di nuovo rispetto a Pomigliano? Una raffinatezza: i sindacati che non hanno firmato l’accordo non avranno più accesso alle linee di montaggio. Nessun delegato, del resto, neanche quelli dei sindacati complici, potrà essere eletto dai lavoratori, saranno nominati d’ufficio dagli stati maggiore.
Ci sono tre reazioni al diktat. La prima, maggioritaria in politica, al governo, tra i sindacati e gli imprenditori, batte le mani e minaccia gli operai: che aspettate a piegare quella schiena? Non vorrete perdere investimenti e lavoro per un principio ammuffito? Guai a voi se farete fuggire all’estero la Fiat. La seconda reazione è quella della Fiom, che si oppone ai ricatti e informa gli operai di quel che stanno per votare, indicendo assemblee e distribuendo a tutti il testo dell’accordo. Così potranno decidere con cognizione di causa se il gioco vale la loro dignità. Ci sono diritti non vendibili scritti in leggi, contratti, nello Statuto e nella Costituzione e gli accordi o sono frutto di contrattazione o non esistono. La Fiom non riconosce la validità del referendum-truffa. Poi c’è una terza reazione, uguale alla seconda ma con un finale diverso: noi siamo contrari, ma se il ricatto vincesse la Fiom dovrà riconoscere il risultato, adeguarsi e apporre la propria firma per non essere espulsa dalla fabbrica. È il punto di vista della maggioranza del gruppo dirigente Cgil.
Non sempre il pragmatismo riduce i danni. La forza accumulata dalla Fiom si fonda sull’ascolto dei lavoratori, sulla condivisione, sulla rappresentanza democratica. È tutta da dimostrare la possibilità che la Fiat possa cancellare il sindacato più rappresentativo, mentre è prevedibile che una rinuncia della Fiom a difendere la dignità della sua gente spezzerebbe quel legame straordinario e un’aspettativa che va crescendo ben oltre le fabbriche. In questa settimana, ancora una volta a Torino, si gioca una partita che riguarda la democrazia italiana.