Saviano:
gli africani contro i clan sono sempre più coraggiosi di noi
(la Repubblica , 09.01.2010)
ROMA «Contro le mafie gli immigrati sono più coraggiosi di noi». Lo ha detto Roberto Saviano a proposito degli scontri di Rosarno, ricordando che quella calabrese «è la quarta rivolta degli africani in Italia contro le mafie: per questo non vanno criminalizzati ma scelti come alleati contro l’illegalità».
«La prima rivolta ricorda lo scrittore a Villa Literno nel 1989, la seconda a Castelvolturno nel 2008 e le ultime due a Rosarno, sempre dopo aggressioni subite da membri della comunità africana. Gli immigrati sembrano avere un coraggio contro le mafie che gli italiani hanno perso poiché per loro contrastare le organizzazioni criminali è questione di vita o di morte».
La rivolta degli schiavi
di Moni Ovadia (l’Unità, 09.01.2010)
Doveva succedere! Quanto tempo può sopportare senza reagire un essere umano schiavo, che lavora come una bestia, per poco più di un tozzo di pane, che vive nel degrado peggio di una bestia, che subisce violenze, ricatti, che viene violentato, abusato dal padrone e dalle mafie, che è privo del più elementare diritto, che non accede neppure alla dignità dell’esistenza? Non c’è che una risposta per una persona decente. No! Non può sopportare. E noi dovremmo reagire a ciò che è accaduto a Rosarno interrogandoci.
Che razza di paese è il nostro che permette una simile vergogna? Che razza di ministro è quello che accusa gli schiavi e propone un’ulteriore repressione nei loro confronti? La logica dell’intolleranza ha mai giovato alla convivenza civile?
Credere di fermare l’immigrazione clandestina combattendo gli immigrati è una pia illusione ed è un atto vile. Non è l’immigrato che sollecita la malavita, è la malavita che incrementa e orienta l’immigrazione clandestina ed è interessata a creare condizioni esasperate, anche attraverso la guerra fra poveri, per potere vendere a maggior prezzo e con più alto profitto la povera carne umana su cui riesce a mettere le mani.
E che dire degli imprenditori schiavisti? Perche non si propone contro di loro e la loro infamia tolleranza zero? L’arresto dei mafiosi a che serve se non viene prosciugata la palude che alimenta la criminalità? Oggi il Presidente della Camera Fini per l’ennesima volta ha preso la parola in difesa degli immigrati dicendo che non si combatte contro gli schiavi, si combatte la schiavitù. Il leader di An vuole evidentemente dare voce a un centro destra civile ed europeo. È ora che si trovi il coraggio di costituire su tali questioni un ampio fronte che superi gli schieramenti per salvare l’Italia dal baratro.❖
il Fatto 9.1.10
Ci trattano come bestie, non ho paura di morire
“Non ho paura di morire. Se Dio vuole, la mia vita finisce qui, altrimenti tornerò a casa e rivedrò i miei figli". Ahmed è un po’ il capo, qui nella "rognetta", il rifugio dei braccianti africani che raccolgono mandarini in giro per le campagne di Rosarno. Ventitré euro al giorno netti. Cinque li pagano al caporale, "che è uno di noi", raccontano. "E due euro li paghiamo di benzina". Dopo essersi spaccati la schiena nei campi, per 14 ore al giorno, tornano alla "rognetta", o alla "ex Sila", che sono i due accampamenti nei quali dormono. Intorno a loro c’è puzza di urina, bucce di arancia che fermentano, una decina di bagni chimici, neanche un posto dove fare la doccia.
Quasi nessuno parla l’italiano. Ahmed il marocchino è uno dei pochi. Anche per questo sembra il capo. "Ho due figli", racconta. "E non li vedo da cinque anni. Se torno a casa non mi riconoscono neanche più. Ma spedisco loro soldi ogni mese". A modo suo, è un imprenditore. "I soldi che guadagno qui, in campagna, li reinvesto in costumi e asciugamani da bagno, che rivendo d’estate, quando lavoro sulle spiagge. Però non è più possibile sopportare tutto questo. Io lavoro, punto. Tutti, qui lavoriamo. E non vogliamo altro. Ci sta bene pure dormire in queste condizioni, non importa, l’importante è lavorare onestamente e spedire i soldi a casa. Ma non possiamo essere sparati, come è successo al mio amico Babou, e non reagire. Non abbiamo più niente da perdere. La gente deve capire un concetto semplice: io sono sbarcato a Lampedusa, ho rischiato di morire in mare, per venire qui. Credevo di trovare il paradiso e ho trovato l’inferno. Ho rischiato di morire già una volta, non mi fa paura rischiare di morire adesso, perché so di essere nel giusto".
Babou lo guarda e annuisce. Mostra il braccio ferito dal proiettile di gomma, che gli hanno sparato l’altro giorno: "Non sono una bestia", dice in francese, perché non parla una parola d’italiano. È arrivato pochi giorni fa da Brescia e vuole ripartire. "Provo soltanto dolore", racconta in francese, "e non riesco neanche a pensare che sia razzismo. Sono arrivato il 21 dicembre, e voglio essere onesto, posso parlare soltanto per me, per quello che ho visto, e in due settimane non posso dire che Rosarno è razzista. Posso soltanto dire che c’è tanta, troppa violenza, e io devo sfamare i miei due figli, che sono in Costa d’Avorio, non appena mi aiutano a partire, vado via, per cercarmi lavoro altrove". an. ma.
l’Unità, 09.01.2010
Lavoro da schiavi e regole imposte dalle ‘ndrine
La sera di giovedì a Rosarno alcune centinaia di immigrati, in prevalenza irregolari, si sono riversatati nelle strade rovesciando cassonetti e incendiando automobili. La protesta è nata nel pomeriggio, dopo che colpi di fucile ad aria compressa avevano fatto una decina di feriti: una “spedizione punitiva” che li ha raggiunti nei capannoni dove vivono. La protesta è continuata ieri.
Ma chi sono questi manifestanti? Uomini, sotto i 30 anni, provenienti da paesi africani. Si stima che siano dai 3 ai 5mila, lavoratori stagionali che raccolgono uva, arance, olive e pomodori. A seconda della stagione, si spostano dalla Puglia alla Campania dalla Calabria alla Sicilia. Le condizioni di vita non cambiano: non hanno casa, vivono in edifici fatiscenti, senza materassi, acqua e bagni; guadagnano dai 20-25 euro per 12/14 ore al giorno e, di questa paga, sono costretti a versare una “quota” ai soprastanti che li ingaggiano.
È un lavoro semi-schiavistico e, talvolta, schiavistico in senso proprio (controllo “militare” sull’attività svolta, organizzazione gerarchica, trasferimenti coatti, punizioni crudeli). Il quadro di riferimento in cui tutto ciò si colloca non è, in primo luogo, quello razzismo-antirazzismo: è, piuttosto, quello del lavoro servile all’interno di un’organizzazione criminale (in Calabria, nelle mani delle’ndrine). E il razzismo aggiunge un elemento di oppressione e discriminazione. I fatti di questi giorni sono tutt’altro che imprevisti: già nel dicembre 2008, a Rosarno, due immigrati erano stati feriti da una analoga “spedizione punitiva”. Allora la reazione fu sostanzialmente pacifica.❖
Sfruttati e vessati
la vita infame dei «neri» nella terra dei caporali
Venticinque euro al giorno per spezzarsi la schiena e raccogliere arance nei campi controllati dalla ’ndrangheta. Tutti sanno e in troppi tacciono
di Marco Rovelli (l’Unità, 09.01.2010)
La rivolta di Rosarno non desta alcuna sorpresa. È una conseguenza naturale entro una catena di eventi. Una presa di parola di esseri muti e invisibili, naturale e giusta. I braccianti in rivolta a Rosarno sono i soggetti più sfruttati, vero e proprio sottoproletariato moderno, e si rivoltano contro condizioni di vita intollerabili e vessazioni continue - e quando la rabbia esplode, allora non c’è più spazio per la gentilezza. Occorrerebbe pensarci prima: ma nessuno ha voluto vedere, anche se tutto era già evidente. Sono stato a Rosarno tre anni fa, avevo parlato con molti di quei braccianti, ero entrato nei luoghi dove dormono - se si può dire “entrare” in relazione a capannoni semi-diroccati e con coperture precarie.
Mi raccontarono di italiani che entravano nel piazzale della vecchia cartiera di via Spinoza a pistole spianate, e sparavano colpi in aria o ad altezza d’uomo. Racconti di braccianti africani rapinati dei loro pochi averi, o lasciati come morti sui bordi della strada, aggressioni diurne e notturne, sia in paese che fuori. «Noi rispettiamo gli italiani ma loro ci trattano come animali», dice uno di loro in un video che si trova su youtube, girato in quella cartiera, spettrale terra desolata, all’indomani dell’incendio della scorsa estate. Anni di vessazioni finalizzate a tenerli al loro posto - che poi è il posto dei servi. Si trattava, dunque, di vedere quale sarebbe stata la scintilla nella polveriera. E la scintilla è arrivata.
Nei braccianti della piana di Gioia Tauro mi si è reso visibile, incarnato, il doppio ruolo del migrante: da una parte macchina produttiva sfruttabile in quanto ricattabile (e la maggior parte di loro sono clandestini, dunque l’apice della ricattabilità), dall’altra capro espiatorio da perseguitare, su cui scaricare le tensioni irrisolte della società.
A Rosarno i braccianti subsahariani sono l’ultimo anello di una catena di sfruttamento, che su di loro si riversa. 25 euro a giornata, con 5 euro da dare al caporale: è così anche per esteuropei e maghrebini, ma i subsahariani sono quelli - per la loro nerezza - meno voluti, quindi sono i primi a soffrire la crisi e fanno più fatica a trovare il lavoro a giornata. Braccia macchinali senza diritti né identità, che all’ennesimo sparo decidono di prendersi le strade, e uscire dal margine - con la furia di chi deve vivere nascosto e ha sempre gli occhi bassi e la schiena china sulla terra. Senza di loro, arance e mandarini marcirebbero sulle terre di piccoli agricoltori e latifondisti, devastando una terra già devastata dal dominio criminale. A Rosarno ci sono una ventina di ’ndrine, è cosa nota, com’è noto che la famiglia Pesce, la cosca più potente, ha pagato l’impianto di condizionamento della chiesa parrocchiale.
Le cosche si sono arricchite col traffico di droga e armi, hanno reinvestito in attività immobiliari e finanza, e sono diventate i nuovi baroni, comprando terre a prezzi imposti grazie alla forza e alle minacce, e gestendo il mercato degli agrumi. Questo predominio ha determinato una crisi economica generalizzata sul territorio, e perciò si rende necessaria una manodopera servile e sottopagata come quella dei braccianti africani. Come il liberiano Michael, che avevo incontrato anche nelle campagne foggiane: sì, perché la grande maggioranza di questi ragazzi africani non risiede a Rosarno, ma dimora lì solo per il tempo della raccolta. Per il resto, si muove nel circuito degli stagionali, e dunque i pomodori in Puglia, le patate in Sicilia, e la base in Campania (dove Castelvolturno è la capitale residenziale, per così dire).
Alcuni cittadini di Rosarno dicono che non vogliono più immigrati, adesso. Non si interrogano però su quello che gli immigrati hanno fatto servilmente per l’economia della loro zona in tutti questi anni, che si è sostenuta sulle loro spalle, le loro schiene, le loro braccia, la loro miseria. (Del resto ce ne serviamo tutti di quel sudore, visto che il prezzo basso delle arance che compriamo è dovuto proprio alla manodopera servile). E viene da chiedersi come mai quei rosarnesi non alzino invece la voce contro la ’ndrangheta, e non dicano che è la ’ndrangheta la rovina della loro terra, e che è la ’ndrangheta a dover sparire. Sono vittime anche loro, certo: ma allora perché prendersela con altre vittime ancora più vittime? Ecco, forse dovrebbero prendere esempio proprio dai braccianti immigrati, che - come a Castelvolturno hanno avuto il coraggio di scendere in strada e far sentire a tutti che non ci stanno a subire ancora.❖
Dove lo Stato non c’è
di MARCELLO SORGI (La Stampa, 9/1/2010)
Ha una spiegazione chiarissima - anche se ha provocato un duro scontro con l’opposizione, e aperto una serie di polemiche all’interno della maggioranza - la dichiarazione con cui il ministro dell’Interno Roberto Maroni, di fronte alla rivolta iniziata giovedì sera a Rosarno e proseguita ieri, ha preso posizione contro gli immigrati clandestini, e soltanto in seconda battuta contro la criminalità organizzata che amministra il mercato nero delle braccia.
Come uomo del Nord avvezzo alle reazioni più esasperate dei cittadini contro gli aspetti degradati dell’immigrazione, Maroni ha colto subito che per la prima volta un atteggiamento simile si era diffuso anche al Sud. La novità della gente di Rosarno in piazza per chiedere l’immediato allontanamento dei clandestini in rivolta, la disperazione della ragazza aggredita da una folla impazzita, devono aver convinto il ministro che in questa guerra di poveri erano i calabresi, gli italiani, i primi a dover essere rassicurati.
Di qui la presa di posizione attorno a cui, mentre la rivolta montava, s’è discusso per tutto il giorno. E di qui, in serata - davanti alla recrudescenza di episodi di violenza contro i clandestini e nel timore di uno scontro di tutti contro tutti - la decisione di inviare rinforzi di polizia. In realtà, lo sappiamo bene, quel che è accaduto a Rosarno è la logica conseguenza di una situazione trascurata, e la Calabria è di nuovo per il governo una delle emergenze più gravi. Una regione in cui le autorità locali hanno già confessato pubblicamente varie volte di aver perso il controllo del territorio. E ancora, in cui, nel giro degli ultimi giorni, la magistratura è diventata obiettivo di una serie di attentati (nell’ultimo, filmato da una telecamera, è addirittura una donna a guidare il commando). E dove inoltre il lavoro agricolo, una delle poche risorse esistenti, è regolato dalla legge del più forte, per consentire l’utilizzo di manodopera irregolare in forma di schiavitù.
Se questa è ormai la Calabria, la responsabilità - tutta o in parte - non può però essere scaricata sui clandestini. Che i rivoltosi debbano essere messi in condizione di non offendere e al più presto espulsi dai confini nazionali, non ci piove. E altrettanto che debba essere assicurato ai cittadini di Rosarno il diritto di recuperare la loro tranquillità. Ma il campanello d’allarme della rivolta ha suonato anche per ricordare al governo che la Calabria non può diventare un pezzo d’Italia in cui lo Stato s’arrende. Di qui a martedì, quando si presenterà in Senato per discutere dell’accaduto, Maroni ha tempo di prendere alcune iniziative. E deve farlo proprio perché ha intuito che la stanchezza dei meridionali di Rosarno è ormai vicina a quella dei suoi concittadini del Nord.
Le prime cose indispensabili sono già state fatte ieri per fronteggiare l’emergenza. In secondo luogo sarebbe opportuno il superamento della polemica sulla cittadinanza breve agli immigrati, che ha ripreso a tormentare il centrodestra. Poiché non è questo il problema all’ordine del giorno, non è il caso di far confusione.
Infine, su due punti, ci si aspetterebbe che il governo intervenisse con la stessa risolutezza con cui s’è mosso negli ultimi tempi nella lotta alla mafia. Il primo è un giro di vite necessario contro la ’ndrangheta e la criminalità organizzata calabrese, sotto qualsiasi forma si presenti. L’altro riguarda il vergognoso mercato delle braccia, su cui finora è calato un velo complice di distrazione. Per evitare, si dice - anche se non si capisce - di danneggiare l’economia sommersa del Sud. In tre giorni, è difficile che si possa avere qualche effetto concreto. Ma dopo anni di colpevole tolleranza, e in una situazione giunta al collasso, anche una seria intenzione sarebbe un passo avanti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
A San Giovanni in Fiore catena umana per l’Abbazia e la Legalità
CHIESA: MAGISTERO SENZA GRAZIA ("CHARIS").
Calabria, restauro dell’Abbazia florense: tra "Pinocchio" e il silenzio assordante
DOPO IL DELITTO FORTUGNO ... - DOCUMENTO:
DALLA CALABRIA: LACRIME E CORAGGIO
di p. GianCarlo Maria BREGANTINI Vescovo *
Proprio mentre la Diocesi tutta, in una serata memorabile per partecipazione e luce, celebrava l’inizio del suo CONGRESSO EUCARISTICO DIOCESANO segno di riconciliazione nel sangue del Cristo “versato per amore” in luoghi dove tanto sangue è stato versato, è giunta la notizia della barbara uccisione dell’On. Francesco FORTUGNO, il cui sangue si aggiunge al tanto sangue già sparso in questa terra.
1. - La tragedia che ha colpito questa famiglia, cui va la nostra affettuosissima solidarietà
per lo spessore umano e politico del loro congiunto, unito ad una preziosa amabilità umana,
è di una valenza negativa enorme.
È paragonabile, per la Locride, ai più gravi delitti della mafia in Sicilia.
Esprimiamo perciò subito una netta, ferma, implacabile condanna per chi ha eseguito il delitto
e per chi lo ha comandato.
Un delitto che può essere letto così:
· La ‘ndrangheta vuole dominare e sottomettere la politica, perché sia strumento docile e
succube ai suoi enormi interessi economici.
· La ‘ndrangheta cerca perciò di spezzare i legami tra la gente e la classe politica, per ricondurli
a sé, perché solo così possa meglio dominare e piegare entrambi.
· La ‘ndrangheta lancia nel contempo a tutti noi un macabro messaggio di umiliazione
sociale, per intimorire e paralizzare ogni altra azione di bene e di sviluppo.
2. - Se questa è la realtà proprio questo orribile fatto ci spinge a REAGIRE, operando precise
scelte coraggiose:
· Ridare speranza, raccogliendo la forte indignazione che sale al cielo dal cuore ferito di
tutti gli uomini e donne di buona volontà.
· accrescere la stima per la vita e l’impegno della classe politica, chiedendo ad essa di star
vicino alla gente, ascoltare, capire, intrecciarsi con le loro attese e speranze.
· attuare una forte, vasta e decisa purificazione etica, in tutti gli ambienti.
3. - Di fronte a tutto questo, ci impegniamo a quelle tre scelte che già il santo Vescovo
don Tonino Bello aveva attuato ed indicato, cioè annunciare, denunciare, rinunciare:
· mantenere vigili le coscienze, di fronte ad ogni male, anche piccolo, chiedendo a tutti,
sacerdoti e la ici, di essere coraggiosi e consequenziali anche fino al martirio;
· pregare sempre di più, specie davanti all’Eucarestia, in un’adorazione che abitui ed alleni
tutti noi, specie i giovani, ad adorare solo e soltanto la grandezza di Dio, senza mai piegare
il capo di fronte al male e di fronte agli altri idoli, per non essere succubi dei prepotenti
e così trasformare la notte del dolore in luce pasquale;
· digiunare per la conversione dei delinquenti. Non sembri fuori luogo questa proposta.
Ma è la più efficace forma di non-violenza, che da sempre le coscienze coraggiose hanno
attuato, per risvegliare le coscienze dei deboli, allenandoci così ad un’etica di speranza e di
coraggio.
4. - Ma nello stesso tempo, è necessario che lo Stato, cioè la coscienza di chi ci guida e ci
governa prenda seriamente a cuore il CASO CALABRIA, che finora è stato non solo sottovalutato
ma soprattutto dimenticato.
Occorrono indagini più intelligenti ed organizzate, per scovare assolutamente i colpevoli ed
assicurarli alla giustizia e alla gogna di tutti. Chi fa il male deve essere umiliato nel suo falso
“onore” perché ritrovi la forza di cambiare.
Se occorre la zona deve essere militarizzata, perché i colpevoli sentano la forza dello Stato.
La Guardia di Finanza deve poter seguire, con tutti i mezzi più raffinati e moderni, il crescere
dei circuiti economici, come gli appalti, le costruzioni, i giri del denaro, l’arroganza
dell’usura, il gioco interessato e spesso miope delle banche...
È il denaro che interessa alla ‘ndrangheta.
E perciò. oltre alla purificazione etica, occorre una forte purificazione economica.
5. - Infine, facciamo appello alla giustizia di Dio, giustizia certa, che insegue con determinazione i passi, tristissimi, degli uccisori e di chi ha ordinato questo infame delitto, chiarissimo per le sue palesi modalità mafiose. Chi ha fatto il male, dice la Bibbia, lo paga sempre. Sempre!
Ne siamo certi e lo diciamo pubblicamente, perché si fermi questa catena assurda di violazione della sacralità della vita umana.
Con lacrime amare, annunciamo ancora la bellezza della vita con rigenerato coraggio, dono dello Spirito che sempre ci consola e tutto sa rinnovare, perché con il lavoro e le imprese, anche la faccia della Locride, così insanguinata, eppure così bella, cammini fiduciosa sulle strade del coraggio nel suo futuro.
+ p. GianCarlo Maria BREGANTINI Vescovo
Cosa ci insegna il caso Rosarno
L’immigrazione e il dominio del denaro
di Enzo Mazzi (il’Unità, 10.01.2010)
L’aggressione a Rosarno dei neri e la loro rivolta disperata sono archiviate in breve come le precedenti con qualche orripilante ma assai popolare invettiva contro l’indulgenza verso l’immigrazione clandestina e con qualche lacrima compassionevole verso i poveri schiavi trattati come bestie randagie. E i clementini della piana del Tauro non ebbero alcun sussulto al mercato della frutta e la politica continuò il suo balletto e tutti ci voltammo dall’altra parte a cercar sedativi contro l’angoscia montante per un futuro senza speranza.
Mentre i fatti di Rosarno andrebbero assunti come sintomo di un cancro che divora la società ormai a livello mondiale. Per cercar terapie finché c’è tempo. Nella società fondata sul dominio assoluto del danaro siamo tutti neri. È il danaro, nuova divinità, che si è impossessato delle nostre anime e dei nostri corpi e ci ha sfrattati da noi stessi.
La società del benessere è ridotta a una fortezza assediata. Ma è una illusione alzar mura, installare body scanner, e rovesciar barconi. Il nemico che ci assedia non è l’immigrazione. Siamo noi nemici a noi stessi. La crisi è dentro la struttura stessa della città.
Un nuovo umanesimo s’impone. Ma il suo centro non è più la città. Anzi presuppone il crollo delle mura e lo prepara. È la vendetta del sangue di Remo. Il fondamento di un nuovo patto non può che trovarsi nell’essere umano in quanto tale, indipendentemente dal luogo di nascita e dal colore della pelle. Il risveglio di una tale consapevolezza non è né facile né indolore.
Ed è qui che si apre uno spazio significativo e caratterizzante non solo per la politica ma per il volontariato e più in generale per l’associazionismo. Purtroppo la strada più facile è quella dell’assistenzialismo. Ma è una strada scivolosa. L’assistenzialismo, comunque rivestito, non crea parità di diritti.
Chi ha a cuore l’obbiettivo dell’affermazione dei diritti di cittadinanza per tutti, come diritto pieno, comprensivo dei diritti sociali, e come diritto inalienabile della persona, non può fare a meno di impegnarsi sia sui tempi brevi della mediazione politica, per raggiungere il raggiungibile, qui e ora, sia sui tempi lunghi della trasformazione culturale, in mezzo alla gente.
E direi che l’associazionismo più che tappar buchi e metter toppe, dovrebbe imboccare più decisamente proprio la strada della trasformazione culturale. Tendere a smontare i paradigmi culturali, ideologici e anche religiosi, che sono all’origine della discriminazione. Con pazienza infinita e con umiltà, senza tirare la pianticella per lo stelo. Ma anche con tanta coerenza e fermezza. Senza vendere mai tutto sul mercato dell’emergenza e senza sacrificare mai tutto sull’altare della mediazione politica.
Nel Duomo molti più fedeli del solito e il sacerdote sottolinea che mancano gli immigrati
"Erano come voi, con la pelle più scura, venivano dall’Africa. Non ci sono perché li hanno cacciati"
Rosarno, l’omelia di don Pino
"I cristiani aiutano chi sbaglia"
"Se siamo pronti alle violenze nei confronti dei più deboli, allora non veniamo più in chiesa"
dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO *
ROSARNO - E’ domenica, giorno di festa ma anche di preghiera. E di riflessione. La città si sveglia un po’ stordita, confusa e incerta. Le violenze dei giorni scorsi, la caccia all’emigrante che è proseguita ancora nella notte hanno lasciato il segno. Nella parte bassa di Rosarno, le ruspe dei vigili del fuoco sono già al lavoro. Smantellano con i loro lunghi bracci dentati le mura fatiscenti di Rognetta, il piccolo campo dove vivevano trecento immigrati africani. Nella parte alta, davanti al palazzo del Comune, spicca il Duomo. Sono le 10 e per la prima volta, dopo tante settimane, la chiesa torna a riempirsi di fedeli. I bambini, a decine, nelle prime file. Gli adulti, molti anziani, dietro. Sulla sinistra c’è ancora il presepe, la grotta, Giuseppe e Maria piegati su Gesù, il bue e l’asino. Sui nastri rossi che l’avvolgono ci sono parole che in queste ore acquistano ancora più valore. Solidarietà, tolleranza, rispetto, pace, uguaglianza.
Don Pino Varrà, parroco di Rosarno, parte da lontano. Afffronta la parabola del Vangelo dedicata al battesimo. La nascita, il riconoscimento ufficiale, l’eguaglianza di tutti i bambini di fronte a Dio. Parla ai più piccoli che gli siedono davanti. Parte da loro per arrivare agli altri. Che lo ascoltano, che intuiscono, che si aspettano qualcosa. Nelle ultime file sostano gli uomini del paese. Molti, in questi giorni, hanno partecipato alle violenze, hanno brandito bastoni e catene. Hanno dato man forte ai blocchi sulla statale per Gioia Tauro. Giù alla vecchia fabbrica di Rognetta e poi più in là, verso l’altro campo dei dannati, all’ex oleificio trasformato in un campo di disperati. Adesso sono qui. Cercano conforto e comprensione.
"Bisogna aiutare i fratelli che sbagliano", spiega il sacerdote. "E in questi giorni che stiamo vivendo qualcuno ha sbagliato. Ma questo non ci autorizza a colpirlo, a inseguirlo, a ucciderlo, a cacciarlo. Ci obbliga a capire, a fermarci. Per non sbagliare più. Questo dobbiamo fare se vogliamo essere dei cristiani". Il parroco lascia l’altare, scende tra la gente. Parla a braccio, stringe con le mani il microfono. "Se ho un fratello in famiglia non posso picchiarlo o cacciarlo di casa perché ha rotto un vaso. Devo andargli incontro, sostenerlo, capire cosa è accaduto". Allarga le braccia, sorride: "Vedo finalmente questa chiesa piena, sono contento che moltissimi tra voi sono tornati. Ma vedo anche che manca qualcuno". Don Pino sospira, si rivolge ai bambini. "Lo vedete anche voi. Non c’è John. Vi ricordate di lui? Veniva ogni domenica". I bambini annuiscono. I genitori, dietro, restano in silenzio. Tesi e consapevoli. "Mancano anche Christian, Luarent. E Didou, il piccolo Didou. Mancano i suoi genitori. Erano come voi, con la pelle più scura, venivano dall’Africa. Non ci sono perché li hanno cacciati".
E’ il culmine dell’omelia. E’ il momento dell’appello. E del rimprovero: "Mi rivolgo ai più grandi, ai genitori. Perché loro hanno un ruolo importante, formativo. A voi dico: non vi fate trascinare verso ragionamenti e reazioni che non sono da cristiani. E’ facile dire: abbiamo ragione noi. Quando siete nati, Dio è stato chiaro: questo è mio figlio. Lo siamo tutti. Tutti abbiamo diritto alla vita, una vita dignitosa, che non ci umili. Anche quelli di un altro colore, anche quelli che sbagliano sempre. Se vogliamo essere cristiani noi non possiamo avere sentimenti di odio e di disprezzo".
Il parroco adesso è al centro della navata. Si rivolge al suo gregge che appare ancora più smarrito. Alza la voce, come un tuono: "Possiamo anche dire che abbiamo sbagliato. Che i miei fratelli, bianchi e neri hanno sbagliato. Ma lo dobbiamo dire sempre. Non solo quando qualcuno ci sfascia la macchina. Lo dobbiamo sostenere con forza anche quando altri fanno delle cose ancora più gravi. Cose terribili. Dobbiamo avere il coraggio di gridare e denunciare". Il sacerdote indica il presepe: "Non avrebbe senso aver allestito questa opera. Non avrebbe senso festeggiare il Natale. Meglio distruggerlo e metterlo sotto i piedi. Dobbiamo celebrarlo convinti dei valori che lo rappresentano. Perché crediamo nella misericordia e nella solidarietà. Se invece non abbiamo la forza di ribbellarci ai soprusi e alle ingiustizie e siamo pronti alle violenze nei confronti dei più deboli, allora non veniamo più in chiesa. Dio saprà giudicare. Saprà chi sono i suoi figli".
Il Duomo è avvolto da un silenzio pesante. Molti muovono nervosi le gambe. Don Pino è stato chiarissimo. Ha colpito nel segno. E’ riuscito a scavare nell’animo della Rosarno ferita e confusa. "Non mi ero preparato alcuna omelia. Ho detto queste cose perché le sentivo. Perché mi sono state suggerite. Non da qualcuno tra voi. Ma da Dio. Potrò sembrarvi presuntuoso. Ma Dio, che ha assistito alle violenze di questi giorni, mi ha chiesto di dirle ai suoi figli. Figli come voi. Figli che hanno sbagliato e che vanno aiutati a non sbagliare più".
© la Repubblica, 10 gennaio 2010
’Ndrangheta, parla Callipo: "La solidarietà non basta, isoliamo i criminali" *
’’La solidarieta’ della politica ai magistrati reggini e’ preziosa, ma occorre fare qualcosa di piu’. Se vogliamo per davvero isolare la mafia, che, purtroppo, ha alleati dappertutto e prospera nella commistione con pezzi della politica locale e con la peggiore burocrazia, ognuno deve finalmente uscire allo scoperto e mettersi in discussione’’.
L’ha detto l’imprenditore Pippo Callipo, candidato alla Presidenza della Regione Calabria.
’’La politica e le Istituzioni nazionali - dice Callipo - tentino d’incidere i veri bubboni che rendono le mafie cosi’ radicate. Uno di questi bubboni e’ senz’altro rappresentato dalla commistione tra una parte della politica e il malaffare, che ha come oggetto i flussi di risorse pubbliche, nazionali e comunitarie, giunti in Calabria a iosa, ma senza che il divario di sviluppo con il resto del Paese sia stato ridotto, anzi oggi la Calabria e’ - lo dicono le statistiche - la regione piu’ povera d’Italia.
Dico non da settimane, ma da anni, che la mafia con la pistola in Calabria e’ forte, ma non e’ piu’ forte della mafia con la penna. I due livelli si tengono assieme, e in Calabria se la politica non da’ segni di discontinuita’ niente cambiera’. Se le Istituzioni nazionali e i vertici dei partiti lasciano che in Calabria le liste, gli accordi di potere e gli scenari politici, in continuita’ con il presente ed il passato, siano curate dai soliti cacicchi, la mafia sara’ piu’ agguerrita. La politica nazionale sulla riqualificazione della spesa pubblica in Calabria e l’innovazione della classe dirigente dovrebbe accender riflettori potenti.
Le bombe a Reggio e il disordine a Rosarno, che vede gli immigrati periodicamente in subbuglio, hanno come sfondo comune il sottosviluppo di questa regione, governato dalla mafia e dai suoi codici in un clima d’illegalita’ diffusa che vede l’assenza dello Stato e l’estrema permeabilita’ della politica regionale. Una risposta necessaria sarebbe quella di rendere trasparente la spesa pubblica qualificandola a fini produttivi, ma per farlo ci vuole una classe politica onesta e rinnovata’’.
Le cosche potrebbero aver deciso di "cavalcare" la protesta
"Ipotesi presa in considerazione a livello investigativo"
Spunta l’ipotesi ’ndrangheta
dietro le violenze di Rosarno *
ROSARNO - Le cosche della ’ndrangheta potrebbero avere deciso di "cavalcare" la protesta scoppiata a Rosarno, prima da parte degli immigrati, poi degli abitanti, per fini che sono ancora tutti da chiarire. Al momento, dalle indagini non sono emersi elementi tali per affermare con certezza che sia così, ma di sicuro l’ipotesi è al vaglio degli investigatori che intendono chiarire perché un fatto apparentemente casuale e privo di gravi conseguenze, come i due immigrati feriti da un fucile a pallini per un "motivo banale", possa avere provocato una reazione tanto violenta, alimentata, poi, dalla contro-reazione di alcuni abitanti di Rosarno. Una violenza, poi, scoppiata proprio nel giorno in cui, a Reggio Calabria, i ministri Roberto Maroni ed Angelino Alfano, annunciavano nuove misure contro la ’ndrangheta dopo la bomba esplosa alla Procura generale.
L’inchiesta sui fatti di Rosarno è coordinata dal procuratore della Repubblica di Palmi, Giuseppe Creazzo, lo stesso che per primo indagò, come pm della Dda di Reggio Calabria, sull’omicidio del vice presidente del Consiglio regionale della Calabria Franco Fortugno. Sull’ipotesi di un coinvolgimento della ’ndrangheta, Creazzo ci va cauto, pero’ non può non rilevare che "allo stato ogni ipotesi è plausibile. Dobbiamo condurre indagini accurate per stabilire le responsabilità".
Che la ’ndrangheta possa avere avuto un qualche ruolo nella vicenda, non lo esclude neanche il prefetto di Reggio Calabria, Luigi Varratta. Non lo posso escludere - spiega - ma al momento è una valutazione che non posso fare. Certo è che è una ipotesi che sicuramente è stata presa in considerazione a livello investigativo ma adesso non possiamo dire se è stata concreta e realizzata".
In merito agli incidenti ed alla reazione violenta di alcuni abitanti di Rosarno che sono andati in giro per il paese cercando i "neri" da sprangare o a cui sparare colpi di fucile, il Prefetto ha rimarcato che sicuramente "era gente che remava contro e che andava contro lo stesso comitato civico col quale ho avuto un confronto civile, trovando persone serene e comprensive". Di sicuro, nella vicenda di Rosarno, c’è lo sfruttamento degli immigrati per il lavoro nei campi. E su questo Creazzo non ha difficoltà ad ammettere che è una realtà. "A gennaio dello scorso anno - spiega - è stata sequestrata un’azienda ortofrutticola e sono stati arrestati i proprietari ed un caporale, di nazionalità tunisina, che reclutava gli immigrati. In passato, altre inchieste hanno accertato lo sfruttamento della mano d’opera. Quanto poi questo fenomeno possa essere gestito dalle cosche è da stabilire".
In ambienti investigativi si fa anche notare che dove ci sono soldi, soprattutto in certe realtà, c’è anche la ’ndrangheta. Ed e’ proprio partendo da questo assunto che gli investigatori vogliono vedere chiaro sullo sviluppo degli avvenimenti. Così come intendono chiarire come siano nate certe voci che avrebbero fomentato la guerriglia: la prima, che avrebbe provocato la violenta protesta degli immigrati, relativa alla morte di quattro di loro; la seconda, che avrebbe alimentato la reazione degli abitanti, relativa ad una donna che avrebbe perso il figlio negli incidenti. Voci false ma che hanno avuto l’effetto della benzina gettata sul fuoco in una situazione già incandescente di per sè. Qualcuno ha avuto interesse a fare circolare quelle voci? E’ l’interrogativo a cui gli investigatori sperano di dare una risposta che potrebbe chiarire tante cose.
* la Repubblica, 09 gennaio 2010
Se questi sono uomini
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 10/1/2010)
Il futuro in cui siamo già immersi comincia nella piana di Gioia Tauro: a Rosarno in provincia di Reggio Calabria (un’autentica guerriglia urbana è ancora in corso), come a Castel Volturno e a Reggio stessa, dove la ’ndrangheta ha voluto intimidire i magistrati con un attentato alla procura generale. Il futuro comincia a Rosarno perché i principali problemi della nostra civiltà si addensano qui: le fughe di intere popolazioni dalla povertà e dalle guerre (guerre spesso scatenate dagli occidentali, generatrici non di ordine ma di caos); le vaste paure che s’insediano come nebbie, intossicando la vita degli immigrati e dei locali; le cruente cacce al diverso; il dilagare di una mafia esperta in controllo mondializzato.
A ciò si aggiunga l’impossibilità di arrestare migrazioni divenute inarrestabili, perché da tempo non si trovano italiani e cittadini di Paesi ricchi disposti a fare, allo stesso salario, i lavori fatti da africani. Si aggiunga l’ipocrisia di chi crede che la risposta consista in un’identità monoculturale da ritrovare.
E la menzogna di chi non sopporta lo sguardo inquieto e assicura: abbiamo già praticamente vinto le mafie, Gomorra appartiene al passato, è «un vecchio film in bianco e nero», come dice Maroni. Non per ultimo, si aggiunga lo Stato che perde il controllo del territorio e il monopolio della violenza: i neri a Rosarno combattono contro ronde private di locali, infiltrate da ’ndrangheta e armate di fucili. Il pensiero della Lega è egemonico e le rivolte vengono associate, dal ministro Maroni, non alle mafie ma all’immigrazione clandestina che si promette di azzerare sanando ogni male. È inganno anche questo. Quando in Francia s’infiammarono le banlieue, nel novembre 2005, Romano Prodi disse che il fenomeno, mondiale, non avrebbe risparmiato l’Italia. Fu deriso e non creduto.
Non era menzogna invece. È vero che l’Italia ha da anni una reputazione cupa, e impaura a tal punto immigrati e fuggitivi da suscitare, nei loro animi, il senso di schifo di cui parla Balotelli. Gran parte dell’Europa ha una cupa reputazione, ma questo non scusa i nostri misfatti e silenzi: il silenzio del sindacato soprattutto, abituato a proteggere pensionati e operai delle grandi industrie (ormai dei privilegiati) e del tutto afasico sull’intreccio mafia, immigrati, sfruttamento. Il massimo della spudoratezza è raggiunto quando i nostri ministri citano Zapatero o Sarkozy, quasi che gli errori altrui nobilitassero i nostri. Quasi che non esistesse, in Italia, quel sovrappiù che è il potere malavitoso. Le rivolte di questi giorni discendono dal fallimento dello Stato e lo rivelano. È la conclusione cui giunge il prezioso libro di Antonello Mangano, scritto sui ventennali disastri di Rosarno e Castel Volturno. Il titolo è: Gli africani salveranno Rosarno - E, probabilmente, anche l’Italia (Terrelibere.org 2009).
Le rivolte odierne hanno infatti una storia alle spalle, occultata dai politici e da molti giornali. Coloro che a Rosarno hanno reagito con ira distruttiva a un’ennesima aggressione contro i lavoratori neri (due feriti a colpi di carabina, giovedì) sono gli stessi che nel dicembre 2008 si ribellarono alla ’ndrangheta. Erano stati feriti quattro immigrati, e gli africani fecero qualcosa che da anni gli italiani non fanno più. Scesero in piazza, chiedendo più Stato, più giustizia, più legalità. Contribuirono alle indagini dei magistrati con coraggio, rompendo l’omertà e rischiando molto.
Denunciarono gli aggressori a volto scoperto, pur non essendo protetti da permessi di soggiorno. È vero dunque: gli africani salveranno Rosarno e forse l’Italia, come scrive anche Roberto Saviano. Poco prima della rivolta a Rosarno si erano ribellati gli africani a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, rispondendo a una sparatoria di camorristi che aveva ammazzato sei immigrati.
Quel che è accaduto dopo è una sciagura prevedibile, e per rendersene conto basta vedere come vivono, gli africani dell’antimafia. Sono eloquenti più di altri i video di Medici senza Frontiere, che parlano di crisi umanitaria nella piana di Gioia Tauro. Il rapporto che Msf ha redatto nel 2008 ha un titolo ominoso: «Una stagione all’inferno», come il poema di Rimbaud. Difficile descrivere altrimenti gli africani che vivono in stabilimenti industriali abbandonati, come la cartiera «La Rognetta» a Rosarno, o l’oleificio dismesso presso Gioia Tauro. Dentro l’oblò del silos per l’olio: giacigli di stracci. Tutt’intorno, fuochi e soprattutto rifiuti, montagne di rifiuti tra cui vagano, tristi ombre, esseri umani che si costruiscono alloggi di cartone o tende senza sanitari. Vedere simili paesaggi ricorda Gaza, gli slum pachistani: non è vita primitiva ma l’osceno connubio tra architetture industriali moderne, indigenza estrema e apartheid. Un africano dice sorridendo a Medici senza Frontiere: «Tra l’una e le quattro di notte inutile provare a dormire. Troppo freddo».
Ci nutriamo volontariamente di menzogne, come il protagonista nel poema di Rimbaud, quando diciamo che quest’oscenità nasce dall’eccessiva tolleranza verso i clandestini. Abbiamo chiamato noi gli africani a raccogliere aranci, consci che nessuno lo farà a quel prezzo e per tante ore (25 euro per un giorno di 16-18 ore; 5 euro vanno a caporali mafiosi e autisti di pullman). E la tolleranza denunciata da Maroni non è verso i clandestini ma verso le condizioni in cui vivono clandestini o regolari.
Dopo aver tollerato tutto questo, e versato nella regione milioni di euro finiti in tasche sbagliate, ogni stupore è fuori luogo. I tumulti odierni non sorprendono: se questi africani non son uomini, come s’intuisce nei video, impossibile che non sboccino, prima o poi, i Frutti dell’Ira di John Steinbeck. Scritto nel ’39 durante la Grande depressione, il libro Furore poteva sperare, almeno, nel New Deal di Roosevelt che noi non abbiamo.
Ne abbiamo tuttavia bisogno, di un New Deal, che metta fine all’apartheid e non si limiti a spostare immigrati come mandrie da un posto all’altro. Perfino i poliziotti, spiega Antonello Mangano, dicono che la risposta non può essere solo punitiva, che gli africani sono una comunità mite, che le migrazioni continueranno. Con l’estendersi delle catastrofi climatiche saranno enormi, gli esodi. Non è vero che la questione della cittadinanza viene per ultima. Le grandi crisi si affrontano con grandi scommesse iniziali, fondatrici di nuove solidarietà. Non è vero neppure che i liberal e la Chiesa sono retrogradi, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere. Pensare in grande l’integrazione è preparare oggi il futuro.
Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato.
Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella curiosa, accogliente, porosa che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei - L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.
L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana. Le scuole non hanno bisogno delle quote del ministro Gelmini (non più di tre alunni su dieci per classe in tutta Italia, come se Gesù avesse imposto quote di accesso alla stalla di Betlemme: non più di tre Magi). Hanno bisogno di insegnare il mondo che muta. Altrimenti sì, è l’inferno di Rimbaud: «L’Inferno antico: quello di cui il Figlio dell’Uomo aperse le porte».
Angela Napoli: «Un depistaggio dopo la bomba contro i pm»
di Susanna Turco *
La calabrese Angela Napoli è una mosca bianca del Pdl. Sul suo conto, per intendersi, i berluscones più forsennati dicono «è inaffidabile». Rigorosa, troppo rigorosa: ergo, inaffidabile. È una finiana, naturalmente, ma fuori dalle nuances del Pdl è molto di più. Da cinque legislature, seduta in commissione Antimafia, fa la guerra alla ’ndrangheta e alla mafia in genere. Denunce e appelli che le hanno portato in dote due macchine di scorta che la seguono da sette anni. Giorni fa, ad Annozero, non ha avuto dubbi nell’avvertire come la criminalità organizzata sia in piena attività per garantirsi posti in consiglio regionale. Così, adesso, se le si chiede che idea si è fatta di quel che sta accadendo a Rosarno, non ci va leggera.
Ha notato la coincidenza rispetto alla bomba scoppiata meno di una settimana fa a Reggio?
«I disordini sono cominciati in contemporanea con la seduta del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza a Reggio. Se è una coincidenza, non può passare inosservata. Non può non far pensare a interventi di depistaggio da parte della ’ndrangheta».
È andata a Rosarno?
«No, ma ho seguito costantemente cosa accadeva. E valutando gli atti intimidatori dai quali era partita la protesta, ho capito che doveva esserci senz’altro l’intervento della mafia. È chiaro è stata una provocazione: una provocazione consapevole della reazione ci sarebbe stata.
Un diversivo, lei dice.
«Un possibile depistaggio rispetto all’attenzione su Reggio dopo l’esplosione dell’ordigno alla Procura generale: per portare altrove le indagini e il controllo».
Qualcuno dice che quella potrebbe essere la risposta alla svolta positiva che c’è stata negli ultimi ptempi negli uffici giudiziari.
«Nell’ultimo anno c’è effettivamente stata un’attività encomiabile da parte della Procura, ma soprattutto da parte dell’organico della Dda reggina. C’è una grande attività di contrasto alla malavita, una maggiore attenzione dal punto di vista processuale e investigativo».
Ad Annozero lei ha lanciato l’allarme sul rischio che il consiglio regionale che si va ad eleggere sia infiltrato.
«Occorre premettere che l’attuale, quello che sta per scadere, è il consiglio regionale più inquisito d’Italia».
Quanti sono?
«Non so, ma c’è tutt’ora gente in galera. Io stessa, nella scorsa legislatura, avevo chiesto lo scioglimento del consiglio. E ora leggo che diversi consiglieri dell’attuale maggioranza tentano di migrare».
Per essere ricandidati nel Pdl e liste collegate?
«C’è per esempio Cherubino, che ha lasciato lo Sdi per i socialisti di Mancini. La Rupa, rinviato a giudizio per voto di scambio, in transito verso il Pdl. Morrone, già assessore con Loiero e rappresentante del vecchio sistema clientelare. Tripodi, tutt’ora indagato, ex Udeur ora Udc. Poi, tra i papabili per le liste, ci sono amministratori dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa».
Ma non sono condannati.
«E questo li rende candidabili. Eppure, se questi amministratori sono citati nelle relazioni d’accesso come responsabili di atti che hanno portato allo scioglimento, mi sembra che almeno questo giro dovrebbero restare fuori. Soprattutto in questo momento di sfida della ’ndrangheta verso lo Stato».
La mafia che vuole sedere in consiglio regionale, dice lei.
«Vuole continuare a farlo».
Conservazione dell’esistente?
«Con l’aggravante della nuova strategia: quella della ’ndrangheta vestita di nuovo, fatta anche da gente laureata e quindi in grado entrare direttamente in politica. Persone che cercano di andare laddove si può vincere. E che contribuiscono di fatto a determinare la vittoria».
Qualcuno che faccia qualcosa?
«Non c’è, secondo me, coscienza da parte dei partiti politici: mirano al risultato, non alla qualità del consenso. Devo dire però che una voglia di pulizia comincia ad esserci, ma serve in citamento da parte della società civile. Tanta gente mi dice “grazie per aver avuto il coraggio di dire quello che tutti sappiamo”».
Già, ma nessuno parla.
«Perché non si sentono protetti. Il sindaco di San Lorenzo del Vallo oggi ha ricevuto una lettera minatoria perché aveva chiesto pulizia nelle liste. Trovare le forze non è facile».
Mandano bossoli anche a lei?
«No, con me usano tecniche diverse. L’isolamento. Minacce larvate che sono comprensibili solo per chi conosce determinati usi. Come le querele. O le richieste di chiusura di Annozero dopo la mia intervista. Ce n’era una ieri sulla Stampa».
E lei si sente isolata?
«Non c’è dubbio. Isolata dall’ambiente politico. Proprio perché sono considerata troppo intransigente. Non avrebbero gradito nemmeno la mia ricandidatura. Ma tant’è».
* l’Unità, 10 gennaio 2010
Inchiesta sul ruolo della ’ndrangheta
di Roberto Galullo (Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2010)
Feriti (50) e schioppettate per, le campagne di Rosarno. Accerchiamenti e sprangate, disperati in fuga. E la questura che vuole smantellare le tante baraccopoli in giro per la città. Il terzo giorno di scontri nella città della Piana reggina di Gioia, dopo la violenze scatenate dai lavoratori stagionali attaccati in precedenza, è filato via tra bus organizzati dal Viminale che hanno allontanato verso centri di accoglienza altri extracomunitari (in tutto un migliaio) dai luoghi in cui erano tornati a rifugiarsi e, soprattutto, l’abile regia delle cosche che ha mantenuto volontariamente alta la tensione in tutta l’area. Cinque i fermi convalidati. Spunta (sul web) pure l’ipotesi di uno sciopero per marzo.
In prima fila, a scandire i ritmi della protesta, a partire da quella all’ex oleificio occupato dagli extracomunitari e protetto da un cordone di polizia, la famiglia Bellocco. Antonio, rampollo emergente della famiglia mafiosa, il giorno prima è stato arrestato durante gli scontri insieme ad altri due pregiudicati, uno dei quali era stato condannato in primo grado per l’omicidio della fidanzata. Ieri le consegne delle famiglie mafiose sono passate all’esercito di disperati sui quali può contare la ’ndrangheta e che hanno seguito le disposizioni: reagire con violenza allo smacco subito dai "negri". Riportare nelle mani delle cosche il bastone del comando. Mischiate tra il centinaio di persone radunate davanti all’oleificio da Domenico Ventre, ex assessore alla Protezione civile della Giunta sciolta per mafia, c’erano parecchi volti, in gran parte giovani, conosciuti dalle forze dell’ordine. Mentre loro, inveendo contro Stato, regione, immigrati e santificando la pulizia della precedente Giunta, attendevano al varco i bus, a Roma lo Stato prendeva decisioni.
Alla task force governativa per gli interventi finalizzati all’organizzazione di centri di aggregazione sociale, per la bonifica di zone disagiate e per l’investimento in opportunità di sviluppo, l’esecutivo ha messo a disposizione 1,9 milioni attinti dalle risorse sequestrate alla ’ndrangheta e immediatamente utilizzabili. Lo ha annunciato Tonino Malerba, delegato regionale della Croce rossa, che si trova nell’unità di crisi allestita dalla Prefettura. Risorse che serviranno anche per ricondurre a condizioni umane la vita dei lavoratori che resteranno sul territorio. Ed è quanto ha affermato anche il Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. «La giustizia - ha affermato - deve guardare innanzitutto ai poveri e agli oppressi ed essere amministrata con umiltà, nella consapevolezza che giustizia e pace non sono raggiungibili senza Dio e senza grazia».
Dio e grazia cui le cosche hanno sempre contrapposto una cultura di morte e omertà. Ne è convinto Giuseppe Creazzo, capo della Procura della Repubblica di Palmi. «Quando il fenomeno assume certe dimensioni - dichiara al Sole-24 Ore - c’è sempre di mezzo la ’ndrangheta. Qui c’è una società che produce nel proprio seno la cultura ’ndranghetista. Le persone che abbiamo arrestato ieri, una delle quali si è spinto a tutta velocità con una ruspa contro le persone che aveva trovato di fronte, sono tutte riconducibili direttamente o indirettamente alla cosca Bellocco».
Stefano Musolino, sostituto procuratore della Repubblica, ricorda un episodio dello scorso anno quando fu invece arrestato un componente di infimo livello vicino all’altra cosca, Pesce. «Questa persona - afferma - imponeva il taglieggiamento a molti extracomunitari. Parliamo di mance, due o tre euro al giorno». Uno dei tanti cani sciolti che le cosche lasciano vagabondare per riaffermare che la giustizia, da queste parti, è (spesso) solo quella della ’ndrangheta.
Ora tocca ai romeni
L’ordine delle ’ndrine: «Via chi non ci serve»
Le arance marciscono, i prezzi crollano, conviene lavorare di meno e
intascare gli aiuti europei. I neri protestavano ed il cerchio si è chiuso
di Gianluca Orsini (l’Unità, 11.01.2010)
Non ci servite più. E adesso ve ne potete andare. Questo il messaggio che le ’ndrine hanno voluto dare ai braccianti»: ossia i meno docili, ma trattati in maniera più disumana. E che alla fine si sarebbero ribellati. Sergio Genco coordina la Cgil calabrese e sui motivi della «seconda rivolta» dei migranti di Rosarno ha idee chiare. Il mercato di arance e clementine è asfittico, i prezzi sono crollati, molti piccoli produttori lasceranno marcire i frutti sui rami pur di non affrontare i costi della manodopera alla raccolta, e i rosarnesi e le cosche infiltrate nel mediazione tra produttore e consumatore non volevano più la massa di lavoratori irregolari, oltre 1200, deportati tra sabato e domenica dai «lager» Rognetta, Opera sila e Colline di Rizziconi.
«I clementini? Per me sui rami possono marcire! Ma almeno non mi devo vedere tutti questi neri tra i piedi!»; il signor Giovinazzo abita in contrada Bosco, dove i braccianti inferociti della ex Opera Sila giovedì sera hanno dato alle fiamme la vettura della 31enne Antonella Bruzzese, picchiandola e intimidendo i suoi due figli di 10 e 2 anni,e scatenando così la più violenta delle ritorsioni rosarnesi di questi giorni.
Allo «Spartimento» il quadrivio tra Statale 18 e la poderale per il mega Inceneritore della Piana, per giorni gli abitanti del posto hanno atteso al passo con le mazze i migranti uscissero in fuga per vendicarsi. Ma molti di loro prima impiegavano gli immigrati nei loro «giardini», come i calabresi chiamano i fondi agricoli. Ma da un paio d’anni a questa parte, non più.
Da quando la politica agricola dell’unione europea è cambiata con l’ingresso di Romania e Bulgaria, mutando il sistema dei rimborsi per gli agrumeti. «All’agricoltore calabrese, come in tutto il Meridione, paradossalmente entrano più soldi in tasca a lasciare i frutti marcire,che a farli raccogliere dagli intermediari che li destinano alle industrie della trasformazione insucchi e marmellate - spiega Antonino Calogero, un sindacalista di Gioja Tauro che studia la filiera produttiva degli agrumi da decenni - i prezzi sono crollati a 6 centesimi al chilo per le arance». Più remunerative le clementine, i mandarini della Piana: ben 10 centesimi per chilo raccolto «sulla pianta».
L’associazione di categoria Coldiretti precisa che il prezzo delle arance dall’albero alla nostra tavola subisce una moltiplicazione del 474 percento. Cifre folli, e con un prezzo indicato dai rappresentanti degli agricoltori che non rispecchiano nemmeno i reali prezzi contrattati al mattino dai contadini con i capibastone che acquistano per le ’ndrine locali, padrone del settore. Per Coldiretti il prezzo delle arance è 27 centesimi al chilo per il frutto da tavola. I «purtualli» (per un calabrese) destinati al succo di frutta non vengono pagati più di 6 centesimi al chilo. «I rimborsi Ue con il nuovo sistema comunitario, garantiscono una resa maggiore per ettaro» spiega Calogero. prima si pagava l’agricoltore per i quintali prodotti dai fondi, certificati dalla Regione; ora i soldi vengono rifondati a seconda degli ettari di terra posseduti, e dichiara di aver coltivato; se lamenta invenduto si consola con gli euro di Bruxelles. Se consideriamo che anche pagando in nero i braccianti 20 euro algiorno, per cassetta di arance raccolte il costo di raccolta non scende sotto gli 8centesimi. Raccogliere è un gioco al ribasso.
Ecco perché i migranti di Rosarno erano diventati un peso. «Ai pochi che ancora volessero raccogliere i frutti, o i grandi possidenti che su tonnellate di prodotto raccolto, hanno ancora un utile, bastano e avanzano i rumeni, ucraini bulgari e maghrebini residenti in città, quasi tutti in case in affitto» spiega Pino, un ex bracciante alla «Casa del popolo Valarioti», nel centro città. Era già così l’anno scorso; chi si fosse avventurato sulla statale 18 alle 6 del mattino con Gabriele Del Grande, il blogger di «Fortress Europe» e studioso della migrazione, avrebbe passato una mattinata insieme a ragazzi maliani, burkinabè e senegalesi che aspettavano invano agli angoli delle strade perché le porte dei furgoncini dei «capi neri» (come i migranti chiamavano i caporali del primo livello, gli sfruttatori extracomunitari, unici a poter trattare prezzi e disponibilità di giornata con i caporali calabresi) si aprissero per portarli a lavorare. Già nell’inverno 2009 i «neri» non erano più graditi dopo aver osato manifestare contro la ’ndrina per le strade rosarnesi nel dicembre 2008. ❖
l’Unità, 11.01.10
Calabria, adesso è il momento del coraggio
di Giuseppe A. Veltri
Gli eventi di Rosarno possono sconvolgere un lettore che non sia al corrente dell’attuale situazione della Calabria, ma non sorprendono chi conosce la realtà di una regione caduta in una profonda crisi sociale ed economica. Il parastato rappresentato dalla criminalità organizzata ha mostrato il modo in cui intende regolare il fenomeno immigrazione, con sfruttamento e intimidazione, senza l’ostacolo della vasta maggioranza dei cittadini calabresi. Questi cittadini vivono una grossa contraddizione: se da un lato chiedono l’intervento dello stato contro il sottosviluppo economico e il crimine organizzato, dall’altro hanno chiuso gli occhi verso la politica locale che non si è quasi mai fatta carico dei problemi reali della Calabria. Una politica completamente prosciugata da ogni spinta ideale e ridotta a mera amministrazione e spartizione delle risorse pubbliche. Casi come quello della senatrice Napoli sono sempre più rari, la politica nazionale e locale ha rinunciato a tentare di migliorare la società calabrese. Appare incredibile come le cosiddette forze progressiste non aiutino o interagiscano con i pochi movimenti anti criminalità organizzata, come «Libera» o «Ammazzateci Tutti», non intervengano sulla corruzione e infiltrazione mafiosa nella cosa pubblica.
I cittadini calabresi sono da anni stretti in una morsa feroce tra ’ndragheta e politica corrotta, eppure nessun fallimento clamoroso, vedi casi nella sanità calabrese o la gestione del territorio tra frane e discariche tossiche abusive, ha dato loro la forza di reagire. Un pericoloso miscuglio di paura e negazione dell’evidente non permette di capire che il disastro è dietro l’angolo, l’emigrazione è tornata ai livelli degli anni ’50 o che le responsabilità delle amministrazioni locali ormai quasi bilanciano quelle dello stato centrale. Quale amministrazione comunale, provinciale e regionale calabrese può seriamente dire di non essere a conoscenza dei problemi del territorio? Quante iniziative forti hanno mai intrapreso? Quale battaglia di civiltà hanno posto come fulcro della loro azione politica?
Tra poco, il 17 Gennaio, si terranno le primarie del Pd. I candidati non avranno una migliore occasione per dire quali saranno le loro iniziative concrete contro la criminalità organizzata. Il timore è quello che anche questo esercizio di democrazia sia svuotato da una politica senza coraggio che ha rinunciato a trasformare la realtà calabrese e si è resa complice del suo abbrutimento.
Dietro la guerra di Rosarno, la decisione dell’Europa di dare contributi non a chi produce, ma a chi possiede
Arance senza succo
Costano meno i prodotti che arrivano dall’estero. Ecco perché gli schiavi neri non servono più
di Daniele Martini (il Fatto, 14.01.2010)
Dove scoppierà la prossima Rosarno? C’è una parola brutta che gli esperti agricoli usano con insistenza per spiegare che le ragioni economiche alla base della cosidetta guerra delle arance probabilmente faranno da innesco ad altre battaglie. Il termine è “disaccoppiamento”. Tradotto in soldoni significa questo: per ottenere gli aiuti ad integrazione del reddito dalla Comunità europea, senza i quali l’impresa agricola spesso rischia di finire a gambe all’aria, in particolare nel Mezzogiorno, da qualche tempo non è più necessario produrre o, almeno, far finta di produrre. Basta dimostrare che si possiede un appezzamento e i quattrini arrivano.
Tra produzione e proprietà c’è, appunto, un disaccoppiamento, una scissione, un disgiungimento. Una follia? Un incentivo a lasciare le terre incolte? Il colpo finale ad un’agricoltura malata? Sì e no. Di certo il disaccoppiamento è un cambiamento epocale per le campagne italiane, meridionali in primo luogo. Una rivoluzione di cui pochi si sono accorti, ma che ora nel bene e nel male comincia a produrre i suoi effetti.
Rosarno è il frutto avvelenato del cambiamento in atto e quasi sicuramente non resterà isolato. “Non voglio fare la Cassandra, oggi è capitato qui, ma tra un po’ capiterà da un’altra parte, è inevitabile”, sostiene senza enfasi e quasi scusandosi per la previsione nera Pietro Molinaro, presidente della Coldiretti calabra, l’organizzazione agricola che con 30 mila iscritti è la più rappresentativa e forte della regione. Con il disaccoppiamento in alcuni casi è più conveniente lasciar marcire i prodotti nei campi o sugli alberi piuttosto che raccoglierli, anche utilizzando i disperati neri a 25 euro al giorno come succedeva a Rosarno, figurarsi poi se si usa manodopera regolare che tra contributi e assicurazioni costa un’ottantina di euro. E se il lavoro agricolo irregolare o regolare serve di meno, le conseguenze sociali, razziali e di ordine pubblico sono facilmente immaginabili, soprattutto in zone povere come Calabria e sud Italia.
In Calabria, in particolare, il disaccoppiamento deciso a livello comunitario nel 2005, è entrato in vigore per le arance da poco e ora si sta sommando agli effetti della concorrenza agricola straniera arrembante, spesso in grado di offrire merci a prezzi incredibilmente bassi, quasi stracciati. Le arance della Piana di Gioia Tauro rimarranno a sciuparsi sui rami perché sono di una qualità particolare, selezionata non per la tavola, ma per la spremitura e la trasformazione, per effetto di una scelta in parte casuale degli agricoltori e in parte a suo tempo ritenuta oculata, effettuata con l’intento di sottrarre il prodotto alle oscillazioni del mercato delle arance fresche, sottoposte ai cambi repentini dei gusti e delle mode dei consumatori.
Anni fa pochi potevano prevedere che l’Europa avrebbe scelto il disaccoppiamento e che l’industria locale di trasformazione sarebbe arrivata a ritenere non più convenienti le arance della Piana, perché costano troppo, nonostante l’utilizzo degli schiavi neri, ed è economicamente più vantaggioso far arrivare il succo via nave dal Brasile fino al porto di Gioia Tauro.
Le imprese calabresi che fino all’altr’anno ritiravano il prodotto, per poi ricollocarlo presso i grandi marchi per la lavorazione successiva fino all’aranciata o al succo in bottiglia o nel tetra pak, quest’anno offrono dai 5 ai 7 centesimi al chilo, pur sapendo che i costi sopportati dagli agricoltori sono da 2 a 3 volte maggiori anche con l’uso di manodopera irregolare per la raccolta. Tutto ciò non significa che dagli scaffali dei superrmercati o dai frigo dei bar nel 2010 scomparirà l’aranciata “made in Calabria”.
Sfruttando una legge che non impone l’obbligo di indicare l’origine del succo nelle bevande, le aziende italiane di trasformazione spacceranno più o meno legalmente come made in Italy e in alcuni casi addirittura calabrese doc, aranciate e succhi che di italiano hanno solo l’etichetta. I consumatori probabilmente neanche si accorgeranno del trucco, ma per gli agricoltori è un pugno in faccia e per gli schiavi neri è la condanna certa all’espulsione da parte di chi li ha sfruttati e brutalizzati senza scrupoli per anni e anni.
Le prime avvisaglie dello stravolgimento delle convenienze in atto nelle campagne si sono avute con la raccolta delle olive, subito dopo è toccato alle arance, ma prima o poi la campana suonerà anche per altre produzioni, sia quelle seminate, sia quelle agricole.
Nella disattenzione quasi generale, è da questa estate che il mondo agricolo europeo è in fermento, con proteste e manifestazioni che interessano perfino i paesi ricchi da un punto di vista agricolo, dalla Germania alla Francia alla Spagna. Per quanto riguarda l’Italia il disaccoppiamento è solo un po’ rinviato per alcune produzioni tipiche come il pomodoro che, come spiegano gli esperti, fino alla prossima estate resta “accoppiato” (dicono proprio così) al pari delle pere Williams e delle pesche. Poi che succederà?
Quando l’Unione europea approvò il disaccoppiamento certo non sapeva che le conseguenze avrebbero potuto essere così devastanti. Come spiega con franchezza Francesco Postorino, direttore del servizio economico Confagricoltura, l’Europa era ossessionata dalle spese crescenti per l’agricoltura e decise di darci un taglio abolendo gli aiuti concessi sulla base delle quantità di prodotti coltivati e sostituendo questo sistema variabile con un meccanismo a cifra fissa. Stabilì che i contributi sarebbero stati erogati indipendentemente dal prodotto coltivato, sulla base della media di aiuti ottenuti per ettaro da ciascun agricoltore nei tre anni precedenti.
I legislatori pensavano di prendere più piccioni con una fava: risparmiare quattrini, stroncare gli abusi e nello stesso tempo non incentivare le produzioni in eccedenza (ricordate proprio lo scandalo delle arance distrutte con le ruspe?) favorendo in qualche modo anche le esportazioni dei paesi agricoli in via di sviluppo. Come spesso succede, la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Nessuno previde che l’inferno si sarebbe materializzato presto, con una guerra tra bianchi e neri e le barricate nelle strade di un paese in Calabria, sud Italia.
Quei silenzi sul lavoro nero
I fatti di Rosarno sono la dimostrazione che le nostre leggi sembrano essere fatte per aumentare i benefici privati della clandestinità e per scaricarne i costi sull’intera collettività
di Tito Boeri (la Repubblica, 14.01.2010)
Mi sono chiesto molte volte perché in Italia le associazioni imprenditoriali non protestino mai o quasi mai contro le nostre stringenti e anacronistiche politiche dell’immigrazione. Altrove sono le rappresentanze dei datori di lavoro ad alzare la voce quando si abbassano le quote di ingresso, impedendo l’arrivo di nuovi immigrati. Chi paga il lavoro di altri ha tutto da guadagnare nell’avere manodopera a basso costo, come quella immigrata. Paradossalmente in Italia sono invece i sindacati, tra le cui fila ci sono molti lavoratori poco qualificati che possono legittimamente temere la competizione salariale dei nuovi arrivati, che si sono opposti, soprattutto per ragioni ideologiche, alla chiusura delle frontiere, mentre le associazioni di categoria sono state silenti nell’accogliere leggi, come la Bossi-Fini, che impongono vere e proprie forche caudine ai lavoratori e datori di lavoro che vogliano mettersi in regola. Perché?
La risposta ci viene da vicende come quella di Rosarno e dalla prima indagine rappresentativa degli immigrati clandestini, condotta in Italia. Gli immigrati arrivano comunque perché le restrizioni sugli ingressi non vengono minimamente rispettate. Sarà così fin quando continueremo a tollerare il lavoro nero: gli immigrati vengono da noi sfidando ogni restrizione perché in Italia si trova facilmente lavoro senza aver bisogno di avere un permesso di soggiorno. Quindi i datori di lavoro trovano comunque le braccia a basso costo di cui hanno bisogno. Ma c’è di più: dato che si tratta di immigrati irregolari, in attesa di regolarizzare la loro posizione, possono pagarli ancora meno di quanto pagherebbero gli immigrati regolari. È una forma più o meno esplicita di ricatto: o accetta queste condizioni, oppure il lavoratore viene denunciato o comunque non aiutato a regolarizzarsi alla prossima sanatoria. Reati come quello di immigrazione clandestina servono solo a permettere di meglio esercitare questo ricatto, non certo a ridurre gli arrivi di irregolari.
I disperati che raccoglievano le arance a Rosarno guadagnavano 18 euro al giorno, con una paga oraria di due euro. Avevano paghe cinesi in un paese in cui il costo della vita è quasi cinque volte superiore che a Pechino, dove peraltro i datori di lavoro offrono agli immigrati un alloggio, seppur precario. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo, la televisione ha fatto vedere in che condizioni vivevano gli immigrati di Rosarno. La Bbc, che aveva denunciato casi come quelli di Rosarno più di un anno fa senza stimolare alcuna reazione da parte delle autorità nazionali o locali, ha sottolineato come fossero condizioni peggiori che nelle baraccopoli dei paesi in via di sviluppo.
Questo uso delle leggi dell’immigrazione per pagare ancora di meno il lavoro degli immigrati non è limitato al solo Mezzogiorno. Anche al Nord chi è senza permesso di soggiorno o in attesa del suo rinnovo viene pagato, a parità di altre condizioni (tipo di lavoro, età, qualifica e genere), molto di meno di chi è in regola.
Questo fatto emerge da un’indagine svolta da Erminero&Co per conto della Fondazione Rodolfo Debenedetti, nei mesi di novembre e dicembre 2009, in 8 città italiane ad alta densità di immigrati (Alessandria, Bologna, Brescia, Lucca, Milano, Prato, Rimini e Verona). Sin qui i dati sugli immigrati venivano raccolti mediante interviste a persone casualmente estratte dall’Anagrafe, che non contiene chi non è regolarmente in Italia. Oppure c’erano state indagini presso i centri della Caritas o di altre organizzazioni umanitarie che forniscono assistenza agli immigrati: il problema con questo metodo di rilevazione è che raccoglie informazioni solo su quegli immigrati irregolari che hanno talmente bisogno di vitto e alloggio da correre il rischio di rivolgersi a dei centri nei pressi dei quali ci potrebbero essere più frequenti controlli di polizia. L’indagine svolta nelle 8 città si è basata, invece, sul campionamento casuale di isolati, in aree ad alta densità di immigrati.
Ecco i primi dati: il 40 per cento di coloro che non hanno un permesso di soggiorno viene pagato meno di 5 euro all’ora contro il 10% tra chi è in regola. Otto irregolari su dieci lavorano anche il sabato e in quattro su dieci anche la domenica; tra chi ha un permesso di soggiorno queste percentuali sono significativamente più basse.
Chi assume un lavoratore immigrato, traendo benefici dal basso costo del suo lavoro, dovrebbe contribuire a sostenere le spese per la sua integrazione (scuola, sanità e servizi sociali) e pagarlo al punto da fargli raggiungere uno standard di vita tale da permettergli una convivenza civile con la popolazione autoctona.
Da noi, invece, avviene esattamente l’opposto. Si entra facilmente ma poi la regolarizzazione è un percorso ad ostacoli che attribuisce un forte potere contrattuale al datore di lavoro. Insomma le nostre leggi sembrano essere fatte apposta per aumentare i benefici privati dell’immigrazione e per socializzarne i costi. Tra questi costi bisognerebbe aggiungere anche quello di non permettere agli immigrati di avere diritti civili. È un costo anche quello perché se avessero una voce, una rappresentanza a livello locale e nazionale, il loro disagio potrebbe esprimersi in modo civile, prima che si superi il livello di guardia.
Rosarno, l’Europa suicida
di Lluis Bassets (il Fatto, 19.01.2010)
E’ in Calabria il terreno di coltura che fa crescere l’intolleranza: uno Stato assente, corrotto e privatizzato. E una incessante pioggia mediatica fatta di anti-progressismo e occidentalismo mascherato da universalismo.
Una volta ancora l’Italia indica la strada. Lo ha fatto spesso per il meglio, come nel caso del Rinascimento. Talvolta lo ha fatto per il peggio, come con il fascismo. E adesso ci risiamo con la violenta espulsione da Rosarno, in Calabria, della comunità di immigrati dopo gli scontri tra i locali e i braccianti agricoli africani. Il rifiuto dell’altro, la fobia dello straniero e il razzismo non sono monopolio di nessuno: partiti post-fascisti, iniziative xenofobe e leggi repressive proliferano da Vic, in Catalogna, fino a Copenaghen. Ma l’“avanguardismo” italiano, facilitato dalla miscela tra la cinica politica degli interessi affaristici e le ideologie intransigenti che predicano l’esclusione, ha partorito una delle leggi più severe d’Europa contro gli immigranti e un livello di tutela degli stranieri da parte dello Stato che è tra i più bassi del continente.
Le cose vanno peggio proprio là dove lo Stato si ritira lasciando un vuoto che viene colmato dalla criminalità. Il contesto non è soltanto di resa del governo in materia di mantenimento dell’ordine pubblico e di rispetto della legalità.
La Calabria ha il record dell’evasione fiscale ed è, al tempo stesso, una regione sovvenzionata dal denaro pubblico e corrosa dalla corruzione. Non si tratta del “meno Stato” di thatcheriana memoria, bensì di uno Stato privatizzato e intrecciato inestricabilmente con il potere economico di Silvio Berlusconi, occupato in questi giorni, come durante tutta la sua lunga permanenza alla guida del governo, ad evitare i processi e ad ottenere l’immunita’ mentre i suoi alleati della Lega nord si dedicano a tradurre in pratica e a diffondere le loro idee radicali sull’immigrazione.
La pessima situazione dell’economia e l’aumento del tasso di disoccupazione sono benzina sul fuoco, ma non debbono ingannarci. Il problema centrale che l’Europa deve affrontare consiste nella costruzione di un modello efficace, rispettoso e civile di integrazione degli immigrati, un modello che consenta di assorbire la manodopera necessaria per mantenere i livelli di benessere, i valori e gli stili di vita e soprattutto il welfare, lo Stato sociale. E’ questa la sfida che si trova a dover affrontare un mondo che cambia e che nei prossimi quarant’anni vedrà ridurre in maniera drastica il peso dell’Europa rispetto al resto del pianeta, sia sotto il profilo demografico sia per quanto concerne il Prodotto interno lordo per non parlare della sua capacità di iniziativa politica già fortemente condizionata dalla sua proverbiale indolenza.
Questo mese, la Cina ha superato la Germania come primo paese esportatore e gli Stati Uniti come primo mercato automobilistico del mondo. Nel corso del 2010 potrebbe superare il Pil del Giappone diventando la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti. Nei prossimi quattro decenni l’Europa perderà in misura significativa peso, ricchezza e potere non solo in rapporto alla Cina, ma anche nei confronti di Brasile e India. Secondo le previsioni di Felipe González, nel quadro delle sue riflessioni sul futuro del continente, per mantenersi a galla, a partire dalle nostre economie e dal nostro modello sociale, l’Europa entro il 2050 avrà bisogno di almeno 70 milioni di lavoratori immigrati oltre a quelli già presenti nei vari paesi del continente.
Al cospetto di queste radicali trasformazioni, la reazione, non esattamente spontanea, dei cittadini europei è di tipo conservatore e difensivo: dinanzi alla perdita di peso e di centralità e al cospetto del pluralismo e della diversità, ci trinceriamo dietro l’identità e l’ideologia. La lista è lunga: il referendum svizzero contro i minareti, il divieto francese del velo nelle scuole, il discorso di Ratzinger a Ratisbona, l’ascesa dei partiti xenofobi, le modifiche apportate alle leggi in materia di asilo e immigrazione o la ostilità francese e tedesca all’ingresso della Turchia nella Ue. Come risultato, l’immagi di una Europa-fortezza, che espelle e criminalizza gli immigrati, si va diffondendo in tutto il resto del mondo più di quan- occidentale. In questo modo to si possa percepire in Europa.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla vulgata progressista, il suicidio dell’Europa non è la traduzione in pratica di un progetto di estrema destra. O, quanto meno, non solo. Questo pericolo trova terreno fertile nelle tensioni e nelle difficoltà di cui soffrono prevalen- di temente i più dimenticati: in Calabria è in corso anche una guerra tra poveri. Dai quartieri delle periferie francesi “lepenizzate” fino ai disoccupati calabresi manipo lati dalla ‘Ndrangheta, la vera base sociale del populismo e delle pestilenze nere è costituita sempre dai meno favoriti. E una incessante pioggia mediatica fatta di anti-progressismo, scorrettezza politica e occidentalismo mascherato da universalismo.
In fin dei conti gettiamo alle ortiche i valori autenticamente europei, le idee dell’Illuminismo che sono state sinora il fattore trainante della modernità occidentale. In questo modo prima perderemo l’anima, poi perderemo tutto, compreso lo Stato sociale.
I cittadini invisibili
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 19.01.2010)
Su Repubblica di alcuni giorni fa, Roberto Saviano ha detto che gli immigrati di Rosarno sono stati coraggiosi contro i clan,«più coraggiosi di noi» (italiani). Coraggiosi lo devono essere perché non hanno nulla da perdere se non quel poco che riescono a mettere insieme per spedire a casa e per sopravvivere in qualche modo qui. Perché abituati a essere sempre a rischio, senza reti protettive alcune: non le autorità del governo dal quale fuggono (e che spesso li perseguita), non la legge del paese dove lavorano che gli è spesso nemica come troppe volte gli sono nemici gli abitanti del paese straniero, per i quali lavorano per un pugno di centesimi e dai quali sono visti come a metà tra il bestiale e l’umano.
Gli immigrati sono clandestini anche quando formalmente non lo sono perché la loro clandestinità è rispetto alla società e alla cultura del Paese dove lavorano, non solo rispetto alla legge. Clandestini in senso totale: per la legge sono non esistenti e la loro invisibilità dà agli italiani una sorta di visto per impunemente sfruttarli, ingiuriarli, maltrattarli; essendo fuori della norma sono alla mercé di tutti, «nuda vita» come direbbe Giorgio Agamben.
Questa radicalità li mette, che lo vogliano o no, naturalmente faccia a faccia con i loro equivalenti nostrani di clandestinità: quegli italiani di ’ndrangheta, mafia e camorra che prosperano anche grazie alla clandestinitá formale e civile degli stranieri. Forza contro forza, benché, come abbiamo visto a Rosarno in questi giorni di ferro e fuoco, a perdere sono i clandestini non i fuorilegge nostrani; a perdere sono i piú deboli e piú esposti in assoluto, coloro che la legge dichiara perseguitati e verso i quali non resta indifferente né si fa tollerante.
Eppure, quando alzano la testa, quando rivendicano nelle forme della forza -poiché non ne hanno altre visto che la legge non consente loro voce e visibilità civile - il poco salario in nero e di fame che gli é stato promesso, quando sfidano i prepotenti dell’illecito lo fanno a viso aperto, ignari delle pratiche omertose: la loro violenza, certamente ingiustificata come deve esserlo sempre in una societá che è civile, è un grido di accusa alla nostra democratica Italia. Poiché la loro condizione di radicale e totale sfruttamento ingrassa i nemici della legge e della societá civile. Quegli immigrati dovrebbero essere visti come amici della democrazia, se non altro perché mostrano con tremenda efficacia quanto grave sia l’affare dell’illecito nel nostro paese - un affare che trasmigra dalle terre d’origine e giunge come abbiamo visto in questi giorni nella Pianura Padana, in Emilia-Romagna. L’illecito travolge gli argini. È questo il pericolo che ci deve fortemente preoccupare e che la disperata reazione degli immigrati mette in luce.
Le vicende di Rosarno riportano alla mente le lotte di Giuseppe Di Vittorio contro il caporalato, la tratta dei bambini e delle donne nelle campagne del Tavoliere. Anche allora la sfida era tra legalitá e illegalitá. Di Vittorio era pugliese e a sette anni e mezzo giá bracciante; a dodici si trovó coinvolto in una sparatoria della polizia nella quale morí un suo coetaneo, Ambrogio, durante una dimostrazione di braccianti che chiedevano un salario, non un pugno di soldi. Di Vittorio non combatteva per eliminare gli avversari ed era contro la violenza; combatteva per cambiare le relazioni sociali e le regole. I suoi avversari erano gli affaristi dell’illecito, coloro che non si facevano scupoli di ricorrere alla violenza per contrastare l’unione sindacale dei braccianti, ovvero la trasformazione del conflitto da ribellione violenta (che giustificava la repressione) a contestazione civile: poiché, allora come oggi, operare sotto la legge implicava rendere pubblico ciò che per profitto dei clan doveva restare sommerso e invisibile.
I braccianti che organizzò Di Vittorio vivevano come topi in tuguri malsani e scioperavano per una razione extra di «acqua salsa» con la quale bagnare il pane secco. Erano gli antenati naturali dei clandestini di oggi. Con una differenza che rende l’emergenza di oggi piú grave e preoccupante: poiché se a caricare e a sparare sui braccianti erano allora la "guardia regia" o i carabinieri della repubblica, oggi sono i cittadini stessi, manipolati spesso da una propaganda che ha avuto addirittura ispiratori in partiti che governano il Paese; una propaganda che come un vento pestilenziale è capace di generare terribili cose dove la via della legge è giá di per sé molto impervia e spesso collassata. Di Vittorio aveva compreso che la lotta contro il caporalato e l’illecito era imprescindibile non solo o tanto per i cafoni del Sud, ma per la democrazia italiana; poiché il sistema che sostiene il caporalato è nemico totale del governo della legge, senza possibilità di compromessi, e perché alimenta un sistema affaristico che non conosce frontiere regionali.