La Costituzione, unica bussola
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21.11.2011)
Avevano un suono diverso le parole pronunciate dal presidente del Consiglio e dai ministri del nuovo governo nel momento in cui giuravano di osservare "lealmente" Costituzione e leggi e di esercitare le loro funzioni nell’interesse "esclusivo" della Nazione. La formula apparentemente burocratica del giuramento rivelava un’assenza: la mancanza negli ultimi anni d’ogni lealtà governativa verso una Costituzione continuamente dileggiata e aggredita, l’abbandono dall’interesse esclusivo della Nazione a vantaggio di una folla di interessi privati e persino inconfessabili. Quelle parole scomparse e tradite sono ritornate nel momento in cui davanti al nuovo governo non è soltanto il compito assai difficile di affrontare i temi dell’economia riprendendo pure il cammino dell’equità e dell’eguaglianza, senza le quali la coesione sociale è perduta.
L’insistita sottolineatura del nuovo stile di Mario Monti all’insegna di "sobrietà" e "serietà" non riguarda, infatti, segni esteriori. Ricorda un altro compito, forse persino più difficile e certamente bisognoso di molto impegno e di molto tempo, quello di far uscire il nostro Paese dalla regressione culturale e civile nella quale è sprofondato.
È questione che non si affida tanto a provvedimenti formali. Accontentiamoci, per il momento, d’una prima, non indifferente certezza. Il sapere che non vi saranno ministri della Repubblica che, di fronte alla domanda di un giornalista o di un cittadino, leveranno in alto il dito medio o risponderanno con una pernacchia (non il nobile e difficile "pernacchio" di Eduardo). Rispetto e lealtà non sono dovuti soltanto a Costituzione e leggi, ma a tutti coloro che nel mondo reale incarnano valori e principi che lì sono iscritti.
In questi anni abbiamo assistito proprio al rifiuto dell’"altro", l’avversario politico o l’immigrato, lo zingaro o la persona omosessuale. L’indegna gazzarra scatenata alla Camera dai deputati della Lega contro la civilissima richiesta di avviare il riconoscimento degli immigrati come cittadini, e non come merce usa e getta, è stata la conferma evidente della difficoltà di invertire una tendenza che, mai contrastata efficacemente per convenienza politica e debolezza culturale, ha terribilmente inquinato l’ambiente civile.
Sarà la minuta sequenza degli atti concreti a dare sostanza all’abbandono di un perverso costume. Al governo spettano nomine importanti, sottosegretari e Rai per cominciare. Il rispetto della Costituzione, inoltre, muove dal rispetto degli istituti che la innervano, a cominciare dal referendum che ha ridato ai cittadini la possibilità di far sentire la loro voce, spenta da una legge elettorale indegna e venata da incostituzionalità.
Proprio dal voto sui referendum di giugno vengono tre indicazioni che il governo non può in alcun modo eludere: il no al nucleare (lo ricordi qualche ministro che non deve avere bene appreso la lezione di sobrietà e umiltà invocata dal presidente del Consiglio); il rifiuto di ogni legislazione attributiva di privilegi; il nuovo ruolo attribuito ai beni comuni, all’acqua direttamente (non si segua il cattivo esempio delle furbizie nelle quali il governo precedente si stava esercitando).
Se il governo vuole conservare la fiducia manifestata da una larga parte dell’opinione pubblica, e cercar di recuperare critici e scettici, deve essere consapevole che proprio questi sono i casi in cui massima dev’essere la sua lealtà verso la Costituzione. È bene aggiungere che, considerando i vari movimenti e indignati che occupano le piazze del mondo, in Italia il risveglio civile non solo si era manifestato prima che in altri Paesi, ma aveva trovato un fiducioso incontro con le istituzioni tramite i referendum. Sarebbe un grave errore politico mettere questa vicenda tra parentesi, poiché proprio da lì è cominciato quel rinnovamento che ha trovato nel governo Monti un suo approdo, sia pure controverso.
Come tutto questo incrocerà i sentieri parlamentari è questione tra le più aperte. A proposito della quale, tuttavia, è bene insistere su una banale verità, del tutto travisata da chi, gridando alla fine della democrazia, ha lamentato un ruolo marginale del Parlamento in una crisi tutta gestita tra presidente della Repubblica e presidente del Consiglio incaricato.
Ma abbiamo già dimenticato o cancellato il fatto istituzionale più clamoroso di questi ultimi anni, appunto la scomparsa del Parlamento, dileggiato da Silvio Berlusconi come luogo di inutili e incomprensibili lungaggini, espropriato d’ogni potere dai voti di fiducia e dai maxiemendamenti blindati, ridotto a mercato quando v’erano da reclutare truppe mercenarie, rattrappito nei suoi lavori in un paio di giorni a settimana, addirittura chiuso per mancanza di questioni rilevanti da mettere all’ordine del giorno?
Uno degli esiti, o paradossi, di questa crisi sta proprio nell’aver rimesso al centro dell’attenzione pubblica e della politica proprio il Parlamento, ricordando così, come molte volte aveva già fatto il presidente della Repubblica, che la nostra rimane una Repubblica parlamentare ed è lì che i governi ricevono investitura e legittimità.
Sul rapporto tra governo e Parlamento si è insistito molto in questi giorni, discutendo soprattutto della possibilità che qualcuno voglia prima o poi "staccare la spina", di possibili maggioranze variabili nell’approvare singoli provvedimenti. Ma vi è un altro aspetto del problema, particolarmente rilevante nella prospettiva ricordata all’inizio della "bonifica" politica e civile del nostro sistema istituzionale e della nostra società.
Qualcuno, nel dibattito parlamentare, ha avuto l’impudenza di invocare la ripresa del cammino parlamentare del disegno di legge sulle intercettazioni. Qualcun altro ha adombrato i temi della difesa della vita, con un trasparente richiamo al disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico) attualmente in discussione al Senato, e dopo che s’era verificato il grave episodio di un governo che, in articulo mortis, aveva diffuso le nuove linee guida in materia di procreazione assistita. L’insistenza su questi temi rivela un intento strumentale, volto anche a creare frizioni parlamentari che possono insidiare la tenuta del governo. Ma, se appare davvero improbabile un rinnovato assalto a favore di una legge bavaglio, più serie preoccupazioni destano i temi legati alla bioetica e al biodiritto.
Per proteggere il governo, non si tratta di invocare una "tregua etica" o rivendicare l’autonomia del Parlamento in materie non comprese nel programma governativo, magari facendosi forti di qualche improvvida dichiarazione che ha associato la costituzione di questo governo con il "ritorno" dei cattolici in politica.
Se alla lealtà verso la Costituzione dobbiamo continuare a rifarci, è appunto il percorso costituzionale che deve essere rigorosamente seguito tanto dal governo che dal Parlamento. E questo significa mettere da parte il testo sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, grondante di incostituzionalità, sgrammaticature e difficoltà applicative in ogni suo articolo. Significa riprendere il cammino verso una seria disciplina delle unioni di fatto, comprese quelle tra persone omosessuali, alle quali la Corte costituzionale ha riconosciuto un "diritto fondamentale" al riconoscimento giuridico della loro condizione, indicazione finora del tutto disattesa dal Parlamento. Significa riportare a ragione e Costituzione la materia della procreazione assistita.
Per non rimanere prigionieri dell’emergenza che ha segnato la nascita di questo governo, e per sfuggire alle perversioni che questa può produrre, bisogna imboccare senza esitazioni la via di una politica che sia tutta politica "costituzionale".
L’ITALIA, IL "BAAL-LISMO", E LA FINE DELLA SOVRANITA’ E DELLA SOVRA-UNITA’.
"LA REPUBBLICA, UNA E INDIVISIBILE", VENDUTA L’ANIMA E FATTOSI RUBARE IL NOME STESSO "ITALIA", E’ DIVENTATA LA CASA DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’" (1994-2011)!!!
(...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique (...) E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino.
Federico La Sala
Quanto sono politici i tecnici
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 22.11.2011)
Si continua a definirlo "tecnico" eppure questo guidato dal senatore Mario Monti è un governo a tutto tondo politico; molto più del governo Berlusconi che lo ha preceduto. Politico nel senso più pregnante del termine: perché ha riportato le questioni che interessano il nostro destino - nostro come società e come Paese - al primo posto, come dovrebbe essere (ed è sperabile che ciò restituisca all’Italia una forza di negoziazione con i partner europei che aveva perso e di cui ha bisogno). Per anni ci eravamo dimenticati che il governo deve occuparsi delle cose che riguardano la nostra vita, non la vita di chi governa. Per anni abbiamo assistito impotenti a uno spettacolo preconfezionato a Palazzo Grazioli su come Palazzo Chigi doveva operare e per chi: per tre anni le questioni di sesso e di corruttela hanno inondato le nostre giornate, quelle degli interessi del premier tenuto l’agenda politica del Parlamento. E lo si chiamava governo politico. Di politico aveva due cose: era stato l’espressione diretta della maggioranza dei consensi usciti dalle urne e l’esito di un accordo tra alcuni partiti politici. Ma questo non è sufficiente a fare di un governo un governo politico. Questo è il preambolo, la condizione determinante ma non sufficiente.
Il governo Berlusconi, nato politico, si è astenuto dal governare per noi e quando lo ha fatto ha generato problemi invece di risolverli. Per esempio, le norme sulla criminalizzazione dell’emigrazione hanno gettato petrolio sulle fobie razziste senza risolvere i problemi legati al controllo degli ingressi e all’integrazione degli immigrati; per esempio, gli interventi sulla scuola pubblica sono stati proditoriamente fatti per umiliarla e depauperarla avvantaggiando con i soldi dei contribuenti le scuole private. Questi sono i pochi esempi di agire politico del precedente governo, e sono entrambi esempi di cattiva politica, funzionale alle esigenze propagandistiche della coalizione, ovvero nel primo caso per imbonire i fedeli leghisti e nel secondo per tenere l’appoggio delle gerarchie vaticane. Queste scelte "politiche" sono state fatte all’interno di un’agenda di governo che non aveva alcun interesse a fare i nostri interessi. Il governo Berlusconi ha negato l’esistenza della crisi economica e finanziaria per anni, proprio dai primi mesi del suo insediamento, quando ironizzava sullo stato dell’economica degli altri partner europei per mandare agli italiani il messaggio voluto: il suo era il migliore dei governi possibili. Un’agenda politica senza politica.
Il governo del Presidente, com’è stato chiamato questo esecutivo guidato dal professor Monti, non è fatto di politici eletti, e quindi non è politico-partitico. Ma è fatto di cittadini italiani con competenze professionali specifiche. Non è inutile ricordare che chi è cittadino di un Paese democratico è naturalmente politico, perché non può che interessarsi delle questioni che riguardano la vita della società. Non solo chi milita in un partito è politico; e inoltre gli stessi partiti si organizzano grazie a cittadini che sono non politici di professione. La democrazia non ha politici di professione, anche se ha bisogno di stipendiare chi nella divisione del lavoro sociale si occupa degli affari pubblici. Nessuno ha la patente di "politicità" in democrazia, e nessuno può accaparrare per sé la politica e dire che è lui a sapere che cosa sia e come la si faccia (questo è proprio di una mentalità patrimonialistica). Il governo Monti è politicissimo, dunque. E lo è in primo luogo perché ha ricevuto il sostegno del Parlamento che lo ha reso a tutti gli effetti politico. Ma lo è per una ragione ancora più sostanziale, e davvero forte: perché i temi all’ordine del giorno nella sua agenda sono squisitamente politici, solo politici. L’interesse personale è uscito da Palazzo Chigi, che ha ospitato il governo meno politico che l’Italia repubblicana abbia conosciuto, anche se forte dell’alleanza di ferro e famelica tra partiti. Che sia stato incapace di affrontare i problemi politici del Paese è un’ulteriore dimostrazione del fatto che era incapace di essere politico. Dei governi come quello guidato dal professor Monti c’è bisogno perché quelli politico-partitici falliscono.
Il governo Monti è un governo politico, e va giudicato per le scelte politiche che farà. Giudicato per come vuole risolvere i problemi che riguardano la nostra economia, dalle pensioni, alla disoccupazione, al lavoro senza diritti e precario, alla lotta all’evasione fiscale (che è il problema più grave del nostro Paese). Questi obiettivi, che sono per opinione quasi unanime, urgenti e necessari, saranno giudicati per il modo e le strategie con cui il governo proporrà di realizzarli. E i ministri saranno chiamati non solo a rendere conto del loro operato. Nato come non-politico-partitico, questo governo non potrà che essere politico. Per un’altra ragione ancora. Poiché la politica che lo ispira non è per nulla neutrale o tecnica, ma pronunciata moderata, non indifferentista ma con un’evidente simpatia cattolica. Si tratta di qualità o caratteristiche politiche che andranno giudicate dal punto di vista degli interessi generali di tutti gli italiani, non di una parte soltanto, anche se maggioritaria.
In un’intervista di qualche mese fa la ministra, professoressa Elsa Fornero diceva due cose importanti. La prima: se lei fosse nata negli Stati Uniti non avrebbe avuto la possibilità di accedere a un’eccellente formazione universitaria. Leggo questa osservazione importante così: senza una buona scuola pubblica, la selezione dei competenti sarebbe in effetti una selezione di classe. È importante che nel governo ci siano ministri che riconoscono il valore della scuola pubblica. Una prospettiva che il governo che ha appena chiuso i battenti non ha mai avuto. Ridare vigore alla scuola è un obiettivo politico primario per la nostra società, lo è per ragioni economiche e politiche, poiché una democrazia di ignoranti è pericolosa.
La seconda osservazione che faceva la ministra Fornero era che lei cestinava gli inviti ai convegni nei quali gli speaker erano solo uomini. L’osservazione è coerente a quella precedente. E riguarda l’eguale dignità: è umiliante dover sempre ricordare a chi tiene i fili delle carriere (che sono in maggioranza maschi) che ci sono donne competenti. I criteri delle eguali opportunità di formazione e del giusto riconoscimento dovrebbero essere la stella polare a guidare le scelte di ogni governo politico. Ed è su queste scelte e in base a questi criteri che l’operato di questo governo dovrebbe essere giudicato da chi in Parlamento decide e controlla, a nome di tutti noi.
Scuola e università, una cura ricostituente dopo la purga Gelmini
di Marina Boscaino *
“Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Questa volta hanno fatto un effetto particolare le parole della cerimonia del giuramento del nuovo Governo. Attribuisco a chi ha pronunciato quella formula solenne e densa, a prescindere, altra intenzionalità, altra consapevolezza, altra motivazione, dopo lo scempio degli ultimi anni. Ho idea che la gravità del momento, le specifiche competenze professionali nel settore di destinazione e il non diretto coinvolgimento nella farsa politica degli ultimi 15 anni - con il senso di lontananza e di disgusto che hanno lasciato in molti cittadini - abbiano potuto implicare un’adesione più concreta, profonda, etica a quelle parole.
Non ho formule in tasca, certezze granitiche da esibire, pregiudizi da urlare in via preliminare. Dell’ingegner Francesco Profumo non so niente, se non ciò che si legge da giorni: una brillantissima carriera, riconosciuta sia in ambito scientifico che accademico, rettore del Politecnico di Torino, presidente del Cnr. Non ho motivi per credere che la sua azione sulle politiche scolastiche sarà di un certo tipo piuttosto che di un altro; né per pensare che un manager tratterà la scuola come un qualsiasi altro sistema: ho fiducia che ne possa comprendere specificità e complessità; non do per scontato che lui - che ha fatto parte del primo comitato di valutazione dell’università e della ricerca (Civr) - applicherà alla scuola la valutazione becera e punitiva proposta da Gelmini e Brunetta. Potrei pensare, casomai, il contrario: che forse sia finalmente ipotizzabile un approccio culturalmente significativo al rilevamento delle prestazioni. Ciò che il prof. Profumo sarà in grado di fare lo diranno i fatti; e solo allora i commenti avranno un riscontro.
Posso però dire che ci sono due sue affermazioni che mi hanno colpita: “Io credo che la scuola sia la scuola, ma certamente quella pubblica in Italia è molto importante”. “Comincerò dalle cose che conosco meglio ovvero l’università e la ricerca. Dovrò invece studiare ancora un po’ sulla parte scuola perché sono meno esperto: ad ogni modo ci proverò“. La seconda dice un apprezzabile atteggiamento, ragionevole e cauto, consapevole della complessità, così lontano dalle arrembanti certezze dell’immeritevole ed eterodiretta Gelmini. La prima ci rimanda al dettato costituzionale.
Qual è l’interesse della Nazione cui fa riferimento il giuramento? È la scuola della Costituzione, lo strumento per rimuovere gli ostacoli che “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3); è la scuola dell’inclusione; la scuola laica e pluralista; quella il cui accesso ai massimi gradi deve essere garantito ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi.
Ha detto Profumo, promettendo ai giovani quell’ascolto che negli ultimi 3 anni è stato solo un orpello retorico per coprire l’autoreferenzialità: “Serve un programma di medio termine, una strada su cui muoversi senza strappi, dando l’idea che il Paese ha un progetto”.
Il progetto è scritto nella Carta e non transita attraverso velleitarie (perché impraticabili, non perché inauspicabili) abrogazioni di norme, ma attraverso un’opera di riqualificazione: recupero della legittimità delle procedure (sa il ministro Profumo che sentenze del Tar e del Consiglio di Stato sono state completamente disattese dal suo predecessore?); congruenza tra fini, mezzi, risorse, risultati: analisi del concreto e abbandono delle politiche degli annunci demagogici; recupero della trasparenza delle intenzioni in rapporto con le esigenze della comunità educante; ascolto - davvero - e cessazione del rapporto conflittuale preconcetto con i lavoratori della scuola; valutazione come strumento di miglioramento delle procedure e di ottimizzazione delle risorse: non è vero che la scuola è contraria alla valutazione, ma all’improvvisazione demagogica e arbitraria; intervento sui precari, come portatori di diritti, ancor più se autoprodotto del sistema; rapporto con l’Europa non come assolvimento di un obbligo di protocollo, ma come incentivo ad un approfondimento scientifico: l’acquisizione di dati del nostro sistema scolastico comparativamente peggiori rispetto agli altri non ha mai fatto registrare - fino ad ora - inversioni di politiche e interventi di sostegno: i tagli sono stati soluzione unica; studio, elaborazione: basta con il dilettantismo. La parte nobile dell’autonomia va restituita alla scuola, quella che non è (quasi) mai esistita: di ricerca, sviluppo e sperimentazione.
* Domani, 21-11-2011
http://domani.arcoiris.tv/scuola-e-universita-una-cura-ricostituente-dopo-la-purga-gelmini/