[...] È molto importante confrontare la portata del successo elettorale dei democratici con i princìpi su cui è fondata la grande anomalia di George W. Bush. Bush è stato il primo presidente ideologico della storia americana. Ha imposto, con la forza di una compattezza nazionale dovuta a una grave situazione di emergenza, princìpi due volte estranei all’America: perché rinnegano le «Carte federaliste» su cui è fondata la Repubblica americana (per esempio, spostando nelle mani dell’esecutivo poteri che sono propri esclusivamente del legislativo e del giudiziario) e perché negano l’habeas corpus, architrave del più democratico edificio politico del mondo.
Ma anche perché introducono nel Paese e nella cultura più pragmatica del mondo - la cui forza è di capire e cambiare attraverso il sacro principio di «prova ed errore» - l’oggetto estraneo di un corpo ideologico impenetrabile e chiuso ad ogni discussione, barricato dietro l’arbitraria definizione di patriottismo per chi si arruola, di tradimento per chi si oppone [...]
L’ora del tramonto
di Furio Colombo *
George W. Bush ha perso le elezioni. Il suo ministro della Difesa si è dimesso. Accade - ti dicono - nelle cosiddette elezioni di mezzo termine, quando si rinnova tutta la camera dei rappresentanti (deputati), un terzo del Senato e un certo numero di governatori. Infatti è già accaduto. Ma non nelle proporzioni, non con le conseguenze con cui questa volta gli americani hanno votato. Questa volta, nonostante la potente macchina elettorale di George Bush, nonostante l’immensa spesa, la valanga di spot, il tentativo di far pesare all’ultimo istante la condanna a morte di Saddam Hussein, George W. Bush, il più anomalo presidente che gli Stati Uniti abbiano mai conosciuto, è stato personalmente sconfitto. Questo è un voto che nega la sua politica e i pilastri su cui quella politica era fondata: l’uso senza limiti della potenza, il diritto alla guerra preventiva, la cancellazione di qualunque garanzia politica giuridica e umana dentro e fuori degli Usa e in qualunque Paese del mondo, l’unilateralismo senza alleanze che accetti solo «volenterosi» subordinati e obbedienti al seguito.
È molto importante confrontare la portata del successo elettorale dei democratici con i princìpi su cui è fondata la grande anomalia di George W. Bush. Bush è stato il primo presidente ideologico della storia americana. Ha imposto, con la forza di una compattezza nazionale dovuta a una grave situazione di emergenza, princìpi due volte estranei all’America: perché rinnegano le «Carte federaliste» su cui è fondata la Repubblica americana (per esempio, spostando nelle mani dell’esecutivo poteri che sono propri esclusivamente del legislativo e del giudiziario) e perché negano l’habeas corpus, architrave del più democratico edificio politico del mondo.
Ma anche perché introducono nel Paese e nella cultura più pragmatica del mondo - la cui forza è di capire e cambiare attraverso il sacro principio di «prova ed errore» - l’oggetto estraneo di un corpo ideologico impenetrabile e chiuso ad ogni discussione, barricato dietro l’arbitraria definizione di patriottismo per chi si arruola, di tradimento per chi si oppone.
L’avventura che l’America ha vissuto sotto la strana presidenza di George W. Bush è unica ed estranea alla vita e alla tradizione americana. Unico perciò, e dunque non confrontabile con eventi simili già accaduti, è il voto che gli ha negato fiducia.
È vero che la modalità del «voto di mezzo termine» si esprime esclusivamente fuori dal territorio della Casa Bianca, e nello spazio riservato alle elezioni dei senatori, deputati, governatori, dunque nell’ambito della politica locale. Ma è anche vero che componendo i mille punti in cui si è espresso, luogo per luogo, nell’America delle grandi città e in quella delle grandi praterie, il verdetto popolare, si ha una risposta netta che dice molto più di un sì agli eletti democratici (larga maggioranza alla Camera, vittoria al Senato, maggioranza dei governatori). Dice un no secco all’attuale presidente degli Stati Uniti.
È un no che non riguarda la contrapposizione repubblicani-democratici o destra-sinistra. È un no all’estremismo solitario e immensamente pericoloso di un presidente che - come accade nelle brutte avventure politiche - si è presentato, insieme con la sua corte screditata e sospetta persino dal punto di vista degli affari condotti in guerra, come l’incarnazione della patria e ha dunque tentato di gettare la patria sul percorso dei suoi avversari. Il tentativo di Bush è la classica mossa avventurista delle destre della storia: prendere la decisione politica di mandare i soldati in guerra, e poi accusare chi si oppone alla guerra di abbandonare e disonorare i soldati.
Questo Bush è stato raggiunto da una valanga di no che intendono soprattutto scardinare la sua pretesa di dominio politico fondato sul patriottismo. Se c’è un Paese in cui il legame di identificazione è molto forte - forse il più forte del mondo - sono gli Stati Uniti. Gli americani dicono «noi» anche (e soprattutto) quando criticano il loro governo. L’accusa costante di disfattismo, l’insinuazione di tradimento, sono particolarmente odiose in America, proprio perché il Paese non è ideologico, i fatti sono veri o sono falsi e non c’è altro modo di ambientare le accuse che non sia la realtà. La realtà della vita americana si è ribellata e ha spinto indietro con un colpo rude la «fiction» ideologica di George W. Bush, il suo cupo Truman Show in cui sono già morti (senza che se ne capisca il senso) tremila soldati americani, e ogni giorno continuano a morire. E dove sta diventando impossibile non tener conto ogni giorno delle cataste di morti iracheni, vittime di una guerra civile che nessuno sa come fermare.
Ora che Donald Rumsfeld, un ministro della Difesa che ha una brutta immagine sia con i pacifisti che con i soldati, uomo di immenso insuccesso e di grande ed esibito cinismo, ha dato le dimissioni (permettendo a Hillary Clinton, che lo aveva chiesto da tempo, di piazzare un suo personale successo politico), diventa più chiaro che queste elezioni sono un referendum anti-Bush. Perde la Camera, i governatori, il Senato. Soprattutto perde la faccia di incarnazione della patria. Ha detto Edward Kennedy: «Ha perso George Bush perché non perda l’America». Restano molti problemi, però meno uno. Esce di scena la politica di Bush. Entra un’America responsabile che si pone con drammatica serietà (e insieme agli alleati del mondo) la domanda cruciale: «Come ne usciamo?»
* www.unita.it, Pubblicato il: 09.11.06 Modificato il: 09.11.06 alle ore 8.56
Apprendista stregone
di Barbara Spinelli (La Stampa, 10.11.2006)
Le ultime mosse di George W. Bush, alla vigilia delle elezioni per il rinnovo parziale del Congresso, sono state patetiche oltre che rovinose per lui: sentendo che l’onda democratica avanzava si è comportato come l’apprendista stregone di Goethe, che in extremis cerca di fermare le scope trasformate in spiriti maligni. Lui che aveva dichiarato una guerra sterminata al terrorismo, lui che questa guerra l’ha messa al centro della politica sino a esser capo dell’esercito ben più che Presidente, si è d’un tratto reso conto che gli spiriti suscitati non erano più controllabili e ha tentato di parlar d’altro. Durante tutta la campagna elettorale ha fatto finta che il mondo da lui creato fosse un’invenzione, sperando che gli elettori avrebbero votato su altri temi: temi locali, valori, etica matrimoniale. Invece la guerra ha finito col travolgerlo, e il gioco magico si sfascia. Non c’è più confine tra locale e nazionale, tra interno ed estero, tra politica e guerra, perché precisamente questa è stata l’impresa di Bush. Perché della guerra si è servito a fini interni, pur di radunare su di sé il massimo dei poteri e perfino il potere di torturare i prigionieri violando leggi nazionali e internazionali. Sconsolato, il Presidente è costretto a constatare l’approdo cui è giunto - i democratici riconquistano non solo la Camera ma anche il Senato, dopo 12 anni di predominio parlamentare repubblicano - e a pregare alla maniera dello stregone: «Signore, grande è l’ambascia! Coloro che avevo suscitato, gli spiriti, ora non riesco più a liberarmene!».
Naturalmente non è detto che la politica estera statunitense muti direzione: in molti Stati sono stati i democratici conservatori o centristi a vincere, e Hillary Clinton ha ricordato nei giorni scorsi che le minacce militari contro l’Iran devono restare in piedi. Ma per forza di cose la politica americana risentirà del voto, per forza toccherà all’amministrazione trovare una via d’uscita dall’Iraq, dove sono i militari Usa a constatare una condizione di caos, e anche dall’Afghanistan, dove i talebani riconquistano province e potere. L’intera guerra contro il terrorismo toccherà definirla da capo, per salvarla dal naufragio che incombe su troppe battaglie perdute, e di conseguenza sull’idea stessa dell’uso della forza come opzione di politica estera.
Giacché è quest’opzione a esser minacciata oggi, e contaminata dalla sconfitta delle guerre preventive di Bush. Lo stregone che non controlla più gli spiriti è l’America che vorrebbe dominare il pianeta e s’accorge di non riuscirci, che cessa di immaginarsi superpotenza incontrastata oltre che unica. Secondo alcuni - gli storici Niall Ferguson, Tony Judt - l’impero americano è durato pochissimo ed è in declino. È durato dal 1950 al 2000, sostiene Judt in un’intervista alla Zeit del 2 novembre. Le sue guerre sbagliate sono fallite, Bush le ha usate per suoi calcoli di potere e ha creato un universo più insicuro per tutti. È il motivo per cui sta tornando il momento dell’Europa, sostiene Judt. Sarà antiamericana o filoamericana? Ambedue le categorie son vecchie. Sarà un’Europa che difende il suo Stato sociale perché esso dà alle genti senso di sicurezza oltre che benessere giustamente ripartito. Sarà una potenza altra, purché sappia stare in piedi con le proprie forze e scegliere quel che vuole con o senza l’America. Può darsi che davvero sarà tutto questo, ma solo a condizione che l’Europa capisca quel che è accaduto in America e come l’impero stia sbriciolandosi. Si sbriciola perché la guerra fu decisa e condotta malamente, non perché lo strumento bellico sia di per sé malvagio in ogni circostanza. Si sbriciola perché il mondo globalizzato non è quello che i consiglieri neoconservatori di Bush - così simili in questo agli avversari della globalizzazione - avevano fantasticato: un impero sicuro, dominato dagli Usa. La globalizzazione somiglia piuttosto a uno stato di natura, dove benessere e commercio si estendono ma mancano le regole e ciascun uomo è lupo per l’altro uomo, non essendoci potere in grado di tenere a bada istinti e risentimenti. A questa situazione gli Stati Uniti hanno reagito con forme politiche regressive - il fallito tentativo imperiale all’estero, e solo per gli Usa i privilegi dello Stato nazione assolutamente sovrano, escogitato nel 1648 dal Trattato di Westfalia - invece di ravvivare quel poco che esiste di diritto internazionale e di istituzioni multinazionali. Gli europei rischiano di pagare i fallimenti della politica americana esattamente come li pagherà Washington, se sceglierà l’impoliticità proprio ora che urge più che mai far politica, per far fronte alle insipienze Usa.
Pensare la guerra è il grande compito dei politici europei. È la prima volta che dovranno farlo seriamente, dopo la fine della guerra fredda e il venir meno della protezione che gli Stati Uniti le hanno garantito durante la guerra fredda. E dovranno farlo sapendo che son molti a dover cominciare da zero. Alcuni hanno un passato imperiale, come Inghilterra e Francia, e pensare la guerra è per loro meno difficile. Ma esistono Paesi che semplicemente non possiedono una cultura della difesa, e che dal fallimento di Bush possono trarre conclusioni errate: possono pensare che la guerra sia di per sé un mezzo inane, e che solo la diplomazia funzioni. È il caso della Germania a causa della sua storia, e dell’Italia a causa delle due forze che nel dopoguerra l’hanno forgiata (la Chiesa cattolica, il partito comunista). Ambedue le forze hanno una cultura universalista, refrattaria alla nozione difensiva dei confini anche se aperta al mondo post-westfaliano, e non usano pensare i conflitti armati con freddezza empirica ma solo con fede e passione.
La mentalità di gran parte dei dirigenti italiani è adolescenziale, come sostiene da un certo tempo il ministro della Difesa Arturo Parisi: ci si aspetta che i mali del mondo vengano ogni volta sanati da benevolenti tutori-genitori, e «la visione delle relazioni internazionali è il più delle volte irenica». Mai si osa chiamare col loro nome né gli avversari che sono di fronte, né le missioni militari. L’Italia come la Germania ha oggi molti soldati in terre lontane, ma ogni missione è sistematicamente chiamata di pace o umanitaria. La parola guerra è tabù, e di questo sono responsabili le sinistre come le destre. La sinistra appare particolarmente confusa, ed è significativo che i militari italiani all’estero abbiano votato massicciamente centro-destra, alle elezioni politiche (l’82 per cento in Afghanistan, il 78 in Iraq, il 75 nei Balcani). Ma le destre non sono meno ambigue, elusive. È quel che Parisi ha rimproverato a Gianfranco Fini, quando questi gli ha chiesto di chiamare umanitarie ambedue le missioni, sia in Iraq sia in Libano. Parisi si è rifiutato: la missione in Iraq era militare, così come lo è quella in Libano. Ben altra è, semmai, la novità libanese. Per la prima volta, la sinistra radicale e pacifista accetta una missione militare, così come i Verdi accettarono in Germania la missione in Bosnia. Un consenso sta nascendo attorno a un’Europa-potenza capace di far politica mondiale, con missioni di pace che necessariamente hanno da esser militari.
Narra la poesia che lo stregone minacciato ha un solo sogno: ritrovare la magica parola che riduca gli spiriti a quel che erano, cioè semplici scope, strumenti che l’uomo padroneggia. Anche la guerra deve «ridiventare quello che era»: risorsa estrema, padroneggiabile, cui bisogna però prepararsi con una cultura della difesa condivisa; opzione sempre possibile, di cui occorre conoscere il come e anche il perché, con eguale precisione.
Dicono alcuni che Bush è stato sconfitto a causa del come, non del perché. Ma il come non ha funzionato a cominciare dal momento in cui il perché era nebbia, imbroglio. Perché combattiamo? Gli europei sono disabituati a rispondere ma una cosa ormai l’hanno appresa: neppure il tutore Usa lo sa, viste le caotiche menzogne che avviluppano i suoi fini militari. Se l’Italia e l’Europa non definiscono il perché, non ha senso parlare del come. Fintantoché non ci sarà un governo-mondo con un suo monopolio delle violenze dobbiamo sapere perché avremo interesse a impegnarci in lontane zone instabili, perché continueremo ad aver bisogno di soldati che si esercitino e sappiano combattere, perché bisogna che l’Europa diventi potenza nei difficili rapporti con la Russia o la Cina o gli attori medio-orientali.
Sapere il perché delle guerre significa anche riorganizzare la lotta al terrorismo, che le offensive di Bush hanno rafforzato ed esteso, indebolendo perfino Israele che Washington pretendeva proteggere. Lottare si deve, certo, ma non è solo il come che s’è rivelato inefficace. Forse non è praticabile l’idea stessa di trattare il terrorismo come male politico-militare, anziché come questione criminale. Forse è meglio parlare di lotta alla criminalità, e abolire l’illusione guerresca che tanto lusinga Al Qaeda. Non ogni attentato è atto bellico, non ogni terrorista è un combattente, legale o illegale che sia. Può essere un criminale sanguinario, come lo sono i mafiosi. La guerra va riservata a casi dove alla violenza può far seguito la politica.
Le guerre giuste sono tipiche delle ere religiose, e non a caso sono anche chiamate sante. Ma in Stati laici non ci sono guerre giuste: ci sono guerre opportune o inopportune, vincibili o non vincibili, esistenziali o non esistenziali. Tornare alla ragione, metter da parte le fedi: questa è la via degli Stati moderni e complessi, che agiscono razionalmente. Capire che il terrorismo è una patologia della globalizzazione, del suo non funzionamento, dei poteri impotenti che fingono di governarla: anche questa è una via. Il vero egemone, dice ancora Judt, è forte perché può decidere di negoziare anziché guerreggiare. Solo gli staterelli gracili hanno come unica risorsa le guerre.
Perché hanno infine vinto i democratici, anche se la loro cultura della difesa non è forte? Perché quest’onda che travolge Bush ma rischia di contaminare - se l’Europa non si sveglia - il rapporto tra democrazie e cultura della difesa? Forse Goethe risponde anche a questo. Perché la Rivoluzione francese scacciò con tanta facilità antichi monarchi? Perché erano uomini vuoti, piuttosto che monarchi: «Fossero stati re, oggi sarebbero ancora tutti illesi al loro posto».
America, chi ha vinto
di Furio Colombo *
È stata una bella esperienza rivedere a Roma il senatore Ted Kennedy due giorni dopo le elezioni americane di mezzo termine (tutta la Camera, un terzo del Senato e trenta governatori) e la straordinaria vittoria democratica. Era come incontrarsi in un’America amata e ritrovata, dove non si può arrestare qualcuno in segreto (meno che mai in un altro Paese), non ci si imbarca in guerre impossibili senza badare al costo delle vite e al modo di uscirne. E dove il presidente non parla con Dio, ma con i cittadini, e soprattutto li ascolta. È stato anche utile confrontare con lui un paio di luoghi comuni che abilmente vengono fatti circolare su queste elezioni. Il primo: ha vinto il centro. I democratici hanno vinto perché si sono spostati verso il centro. Risposta: «Per forza i democratici che hanno vinto appaiono moderati, dal momento che preferiscono la pace, il miglioramento della vita, il sostegno della scuola pubblica, un po’ più di assistenza sanitaria per tutti, e molta cautela nel mettere in gioco l’idea che la persuasione morale o religiosa di uno deve valere per tutti. Ma è stato il presidente Bush a spingersi verso un modo estremo di concepire il governo e la politica. Il fatto che - poco dopo il risultato elettorale - abbia licenziato Donald Rumsfeld lo dimostra. Bisognava fermare l’impulso estremistico dato al governo, per rimettersi al passo con il Paese, con il buon senso degli elettori». «Per questo - spiega Kennedy - la nuova "Speaker" (presidente) della Camera ha detto: "Noi saremo bipartisan". Non voleva affatto dire che abbiamo le stesse idee. Voleva dire: "Non faremo la guerra al Presidente perché noi siamo qui per lavorare dentro le istituzioni, per farle funzionare di nuovo. Noi siamo qui per finire una guerra che i cittadini non sopportano più. Dunque lavoreremo insieme con il Presidente nel tentativo di ricongiungere Paese e Governo che - durante il periodo di stordimento "neocon" - si erano separati». Un secondo luogo comune offerto al giudizio del senatore Kennedy è questo: più o meno è stata eletta sempre la stessa gente.
Prudenti legislatori che si situano a metà del cammino, che si tengono al riparo da questioni difficili - come i Pacs e l’aborto - e non vogliono dare l’impressione di mancare di rispetto alle Forze Armate. Ogni tanto in America c’è un cambiamento di partito perché ci sia un po’ di ricambio tra chi governa e chi fa le leggi, ma il cambiamento avviene all’interno di un club omogeneo. Per capire se questo luogo comune è fondato, basterebbe confrontare l’America di Jimmy Carter con l’America di Dick Cheney. Non c’è un solo punto di sovrapposizione e di coincidenza tra il vicepresidente che non ha obiezioni da sollevare sulla pratica della tortura e un presidente che non ha mai minacciato guerra all’Iran, neppure quando l’Iran teneva in ostaggio quasi tutto il personale dell’ambasciata americana a Teheran.
Kennedy non ha dubbi, come non hanno avuto dubbi i leader del Partito Democratico vincitore. «La questione chiave è stata la guerra. Il problema è troppo grave, gli iracheni soffrono troppo, muoiono troppi americani per ripetere a vuoto la frase di Bush "tenere la rotta". Questo non vuol dire che qualcuno di noi per l’Iraq ha una soluzione prefabbricata. Avere detto no alla guerra non significa sapere magicamente come uscirne. Vuol dire volerlo, sapendo quale immensa responsabilità ci è caduta addosso per una lettura sbagliata della Storia». E Kennedy non ha dubbi sulla qualità dei personaggi del suo partito che hanno vinto con lui, come Hillary Clinton, che per prima ha chiesto - e non ha mai smesso di chiedere - le dimissioni di Donald Rumsfeld, considerato «il primo problema della guerra». Come Nancy Pelosi, che la gente di Bush aveva definito «un’estremista che si dedicherà soprattutto ad aumentare le tasse» (come si vede le destre del mondo hanno sempre la stessa immaginazione per descrivere il nemico).
È vero però che la nuova presidente della Camera - che benevolmente descrive se stessa come «nient’altro che una nonna italiana-americana» - difende gli immigrati illegali, difende l’aborto, sostiene i Pacs e si batte contro la lobby delle armi. È vero che aveva detto con la sua semplicità di "nonna" dell’ex ministro della Difesa: «Per migliorare l’immagine degli Stati Uniti nel mondo basta togliere il passaporto a Donald Rumsfeld». È vero, tutto ciò dovrebbe far luce sul mito del "centro", a cui ogni volta - in caso di successo - vengono attribuite tutte le virtù e tutte le vittorie. Tornate col pensiero allo sguardo di Dick Cheney sul dramma che l’America sta vivendo nei suoi rapporti con la realtà, e dunque principalmente, con la potenza, con la guerra e con i due drammatici scenari di Iraq e Afghanistan. È importante riferirsi a Dick Cheney perché il vicepresidente degli Stati Uniti enuncia un tipo di intervento aggressivo e sgradevole, ma non è un uomo stupido, non è un politico secondario. Il senatore Kennedy lo vede come una delle due chiavi - insieme a Donald Rumsfeld - per spiegare George W. Bush.
Se gli chiedete perché Bush non si è liberato di Rumsfeld - un uomo così poco amato dall’opinione pubblica americana - prima delle elezioni del 7 novembre, la risposta è netta: «Perché in quel caso tutto il peso della tragica iniziativa della guerra e dell’andamento sbagliato del dopoguerra sarebbe caduto su di lui. Per la stessa ragione è importante per Bush avere di fronte a sé, come parafulmine, Dick Cheney, lasciare che sia lui a dire cose fino ad ora inimmaginabili nella vita e nella cultura americana, come le sue affermazioni bonarie e tolleranti sull’utilità della tortura, o almeno delle "interrogazioni pesanti". E lasciare che sia lui a sostenere che è bene per gli imputati di terrorismo non avere avvocati, perché altrimenti potrebbero raccontare le vicende dei loro interrogatori e preavvertire eventuali altri arrestati e prigionieri».
L’abolizione dell’habeas corpus - ovvero la scomparsa senza notizie di persone sospette, definitivamente isolate dal mondo - sostiene Kennedy, ferisce la democrazia in modo così grave da spingerla fuori dalle sue fondamenta, dalle sue radici. Finisce per essere la vera vittoria del terrorismo, perché ci rende uguali a loro. «Ed ecco perché Rumsfeld e Cheney hanno assolto a un compito: quello di schermare il presidente dalle conseguenze della sua politica e dai tremendi errori umani, morali, costituzionali, ma anche strategici di quella politica. Senza di loro diventerebbe impossibile scaricare il peggio di ciò che è accaduto in questi anni neri della democrazia americana. Senza l’allontanamento di Donald Rumsfeld dopo la pesante sconfitta elettorale, Bush non potrebbe invitare Nancy Pelosi alla Casa Bianca e dichiarare la sua disponibilità a lavorare insieme sapendo benissimo che si tratterà di una vera e propria inversione di rotta».
* * *
Una volta tornati in America - l’America vera di Kennedy, Carter e Clinton (ma anche un’America repubblicana rigorosamente rispettosa della Costituzione e delle alleanze, da Eisenhower a George Bush padre) - ci ritroviamo in un Paese che (dopo il Vietnam) ha sempre cercato di non generare conflitti, perché cosciente che l’immensa potenza o si usa tutta, fino alla distruzione totale, o non si deve usare (è la lezione di John Kennedy nel suo drammatico confronto con Kruscev durante la crisi dei missili di Cuba). Con questa America è bene confrontarsi anche dal punto di vista italiano. E cioè domandarsi che senso dare al pensiero naturale e condivisibile che attraversa tanta parte della politica italiana a sinistra: ah, se anche noi avessimo un compatto e omogeneo partito democratico.
Il partito democratico americano, che ha vinto le elezioni dette «di mezzo termine» in modo così clamoroso da ribaltare tutti gli equilibri della politica di quel Paese, è uno schieramento mite, ma non omogeneo, anzi attraversato da discontinuità profonde. Ha vinto perché si è contrapposto alla violenta aggressività della dottrina di Bush, fondata sui quattro pilastri che sono allo stesso tempo una sfida al buon senso, alla esperienza, alla tradizione costituzionale americana e al diritto internazionale di cui l’America si è sempre dichiarata simbolo e campione. I fondamenti del neoconservatorismo bushista sono stati infatti l’uso incondizionato della potenza, un allontanamento di fatto dalla Costituzione americana che garantisce i diritti civili e la protezione individuale, la sospensione dell’habeas corpus, e il diritto alla guerra preventiva, che vuol dire guerra sempre.
Si è trattato ovviamente - come dice Kennedy, ma anche Kerry, ma anche Cuomo, ma anche Hillary Clinton, ma anche Nancy Pelosi - di un comportamento estremistico che ha gravemente squilibrato l’edificio americano dentro il Paese e agli occhi del mondo. In altre parole la politica di Bush, Cheney e Rumsfeld ha provocato una violenta serie di «after shocks» dopo il terremoto dell’11 settembre. Ha allargato le ferite, ha aumentato la paura, ha isolato il Paese. Tutto ciò invece di creare un legame forte tra gli americani e il resto del mondo democratico che si è subito schierato - dopo il tremendo atto di terrorismo - accanto all’America.
«La fede dura, isolata e diffidente dei neocons ha inchiodato l’America di Bush in una immagine fissa. Naturale che appaia "mite" il ritorno alla piena democrazia costituzionale americana segnata da queste elezioni. Di questo ritorno non è il centro il protagonista, piuttosto l’estremismo della presidenza Bush che andava respinto in attesa di cancellarlo nelle prossime elezioni presidenziali. Ed era inevitabile che la risposta all’estremismo - estraneo alla Costituzione - fosse un ritorno fermo e allo stesso tempo mite alla Costituzione. Il gesto deve apparire per quello che è: un ritorno dell’America alla sua tradizione di Paese delle "Carte Federaliste" e dei diritti civili. In questo senso ciò che è avvenuto ha una portata storica e - in senso letterale - rivoluzionaria, almeno tanto quanto è stata rivoluzionaria la politica di George Bush, delle prigioni segrete e delle "rendition". Dunque c’è coraggio e determinazione a non fermarsi a metà strada di queste elezioni, ma a cancellare e ricominciare».
Ma che partito è il Partito Democratico che ha vinto? È un partito immensamente composito, che va dal neodeputato che era sceriffo del Colorado al neodeputato che si è sempre dichiarato socialista e che, con tale definizione politica, è stato eletto nel Vermont. Insieme rappresentano una visione della vita che, per esempio, mette il lavoro e la protezione sociale dei vecchi, dei bambini, della scuola pubblica, della salute, al primo posto rispetto ai privilegi e ai tagli di tasse a favore dei ricchi. Individualmente non viene chiesto a nessuno di mostrare il bagaglio, come in un immaginario aeroporto politico in cui ciascuno deve dimostrare di essere in armonia e in accordo con regole stabilite da qualcuno per tutti. Il senatore Kerry ha pochi punti di contatto con il deputato Rangley, che sta per diventare presidente della Commissione Bilancio della Camera, e che è noto per il suo impegno militante a sinistra (Rangley è nero, ed è eletto ad Harlem). Ma Rangley non ha mai preteso che Kerry fosse più militante. E Kerry non ha mai detto di non potersi riconoscere nelle richieste intransigenti di Rangley al «sistema». Votano e fanno insieme ciò che hanno deciso a maggioranza. Insieme sono un mondo di diritti, di garanzie e di diversità. Ecco, forse è questo il Partito Democratico che possiamo invidiare e che dovremmo imitare.
* www.unita.it, Pubblicato il: 12.11.06 Modificato il: 12.11.06 alle ore 7.21
Pacifisti Usa protestano davanti alla Casa Bianca: arrestata Cindy Sheehan *
Cindy Sheehan, l’ormai celebre "madre coraggio" di un soldato morto in Iraq, è stata arrestata ancora una volta. A poche ore dalla sconfitta elettorale dei Repubblicani nelle elezioni di medio termine, davanti alla Casa Bianca a Washington si è tenuta una nuova manifestazione contro la guerra in Iraq. Tra i manifestanti pacifisti era presente anche la Sheean, divenuta il simbolo dell’opposizione alla campagna militare irachena.
Alla testa di circa cinquecento dimostranti, l’attivista intendeva presentare al presidente George W. Bush l’ennesima petizione per il ritiro dall’Iraq, sottoscritta da ottantamila persone. Nel testo si manifestava inoltre la contrarietà dei firmatari a un eventuale ricorso alla forza per risolvere la crisi nucleare con l’Iran.
La polizia è intervenuta e ha arrestato "peace mum" insieme ad altre tre donne che si erano appena arrampicate sulla recinzione del parco della residenza presidenziale per intonare slogan anti-militaristi. È stato contestato loro il reato di interferenza nell’esercizio delle prerogative del governo.
Il giorno prima della elezioni i cittadini statunitensi che vivono in Italia si erano riuniti per un sit-in davanti all’ambasciata americana a Roma. Un gesto di solidarietà proprio con Cindy Sheehan che aveva iniziato a manifestare davanti alla Casa Bianca per ricordare a George W. Bush qual è l’altra faccia dell’America.
* www.unita.it, Pubblicato il: 09.11.06 Modificato il: 09.11.06 alle ore 11.15