Quest’Occidente non capisce l’Asia
di Martin Jacques(Corriere della Sera, 07.08.2008)*
Siamo solo a metà del 2008, eppure quest’anno ha già visto un considerevole spostamento dei rapporti di forza a livello globale. Se la mentalità dei Paesi occidentali, invece, resta ferma immobile e crede ancora di poter dettare regole a tutti, ciò non sorprende: è stato effettivamente così per tanto tempo che nessuno ha mai pensato di mettere in dubbio tale superiorità. L’Occidente presume tuttora di avere dalla sua parte diritto e potere, di sapere sempre quel che occorre fare in ogni circostanza e non esita, all’occorrenza, di imporre agli altri tanto la sua saggezza politica che la sua rettitudine morale. C’è però un intoppo: l’autorità dello sceriffo globale va sgretolandosi inesorabilmente.
Quest’anno ci ha presentato due esempi clamorosi: il primo è stato la Birmania (o Myanmar, per l’esattezza). Siamo tutti d’accordo che il Paese è governato da un regime odioso. Tuttavia, in seguito al passaggio del ciclone, il resto del mondo si è trovato ad affrontare il dilemma di come soccorrere i milioni di vittime di un disastro umanitario. Com’era prevedibile, l’Occidente ha subito rispolverato l’idea di un intervento militare ed ha fatto partire gli incrociatori a pattugliare le coste della Birmania, mentre già si parlava di atterraggio di elicotteri e di mezzi anfibi da inviare nel delta dell’Irrawaddy.
Era un’idea chiaramente assurda. L’alleato più stretto della Birmania è la Cina, con la quale condivide un lungo confine; il paese è inoltre membro dell’Asean (l’Associazione di nazioni del sud est asiatico). La Cina e l’India, come tutti i paesi dell’Asean presenti nella regione, si sono opposte fermamente all’impiego della forza militare.
Il fatto che l’Occidente non sia stato in grado di cogliere le realtà geopolitiche dell’Asia orientale - oggi la più vasta regione economica del mondo - e adattare di conseguenza la sua politica, ha svelato come pregiudizi e atteggiamenti antiquati siano ancora, purtroppo, ben radicati. Anche quando la sola idea appare ridicola e impraticabile, il richiamo all’intervento militare da parte sia dei media che dei leader politici sembra essere l’unico riflesso possibile. In realtà, la Birmania ha dimostrato i limiti della potenza occidentale e la necessità che l’Occidente riconosca questi limiti, dimostrandosi disposto a rispettare e a collaborare con la regione, anziché puntare subito all’intervento armato, scavalcando i governi locali come chissà quale grande imperatore.
Il secondo esempio è lo Zimbabwe. E qui siamo davanti a una realtà assai dolorosa per la psiche britannica. Siccome soffrono di una forma acuta di amnesia coloniale, gli inglesi continuano a credersi detentori di qualche diritto inalienabile a rinfacciare allo Zimbabwe i suoi fallimenti. Ma in quanto a responsabilità per l’attuale situazione del Paese - dall’aver tollerato la dichiarazione di indipendenza di Ian Smith fino alla vergognosa normativa agraria che assicurava ampi privilegi ai coloni bianchi - l’Inghilterra non è seconda a nessuno. Malgrado tutto questo, gli inglesi vogliono ancora sbandierare una superiorità morale inattaccabile nei confronti dello Zimbabwe.
Eppure, anche questo episodio ha svelato l’impotenza inglese - e occidentale - nel modo più brutale. Dopo il gran parlare che se n’è fatto al vertice del G8, il tentativo anglo- americano di inasprire le sanzioni contro lo Zimbabwe è naufragato presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove è stato bocciato da Russia e Cina e contrastato dal Sudafrica e da altri due Paesi.
Nel frattempo, il presidente sudafricano Thabo Mbeki, i cui sforzi per favorire un qualche accordo erano stati ampiamente e sdegnosamente dileggiati, ha messo a segno una grande vittoria diplomatica. Nominato mediatore per lo Zimbabwe dalla Comunità per lo sviluppo dell’Africa del sud (Sadc), Mbeki è riuscito a portare al tavolo dei negoziati sia il partito Zanu-PF di Robert Mugabe che l’Mdc di Morgan Tsvangirai.
L’Occidente non è più in grado di offrire soluzioni, sotto la pressione crescente della forza, della competenza e della sicurezza di sé conquistate dai Paesi emergenti. Al posto della potenza occidentale universale, oggi assistiamo alla nascita della regionalizzazione e delle soluzioni regionali. Ciò riflette i cambiamenti più ampi già in atto nell’economia globale. Il potere economico sfugge dalle mani dei paesi del vecchio G7, dirigendosi verso le cosiddette economie Bric (Brasile, Russia, India e Cina), o, per essere più accurati, verso un numero sempre maggiore di economie in via di sviluppo. Il G7 rappresenta oggi meno della metà del pil mondiale e perde quota costantemente. Tali spostamenti economici fanno da preludio ineluttabile a mutamenti paralleli nel potere politico.
I due esempi qui discussi sono tipici di questo processo: la Birmania si è rivolta a Cina e India, oltre che ai Paesi dell’Asean, mentre lo Zimbabwe ha fatto affidamento al Sudafrica, ma anche alla Russia e in modo speciale alla Cina, che in questa occasione si è sentita incoraggiata a svolgere un ruolo più incisivo sul palcoscenico mondiale. Appare inoltre evidente il fallimento complessivo della politica estera anglo-americana. All’epoca dell’invasione dell’Iraq, non si sospettava neppure un imminente declino del potere economico occidentale. Al contrario, leader politici come Bush e Blair apparivano convinti di assistere agli albori di una nuova era di rinnovata potenza occidentale.
Mai sottovalutare la capacità dei leader politici a fare errori madornali in materia di storia. L’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan è servita piuttosto ad accelerare il declino dell’Occidente: essa ha mancato del tutto gli obiettivi prefissati ed ha evidenziato la reale impotenza dei paesi occidentali. In contrasto, stati «canaglia» come Corea del Nord, Zimbabwe e forse anche l’Iran, lanciano chiari segnali di reagire positivamente a ben altro genere di trattamento. L’interventismo liberale ha fallito, eppure l’Occidente non mostra affatto di aver capito il nuovo mondo, né di saper vivere secondo le sue regole.
L’Occidente resta aggrappato a convinzioni non più corrispondenti alla realtà, si rifiuta di riconoscere l’erosione della sua autorità e, di conseguenza, mal si adatta alle nuove circostanze e sembra incapace di trovare risposte innovative. Questo è certamente vero nel caso dell’Inghilterra. Il ministro degli esteri inglese si limita a ripetere i cliché e le sciocchezze del governo Blair, ormai screditato: non si è sentita finora, da parte sua, un’idea, una proposta o un’intuizione qualsivoglia a indicare che abbia compreso la natura di questo nuovo mondo. La politica estera inglese resta invischiata nel suo passato e nei suoi legami con gli Stati Uniti. In tali condizioni, l’Inghilterra si ritroverà trascinata - volente o nolente - nella nuova era, sempre più emarginata e delusa, ridotta al ruolo di spettatore anziché architetto, a brontolare e recriminare a vuoto.
*Ricercatore alla London School of Economics © Guardian News & Media 2008 (traduzione di Rita Baldassarre)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Scambi di opere, convegni.
Tra Santa Sede e Cina è l’ora della diplomazia della cultura
Al percorso di riconciliazione, segnato dall’accordo del 2018, si affiancano prestiti di opere d’arte, mostre, convegni su temi comuni. Così si gettano i ponti che servono
di Agostino Giovagnoli (Avvenire, sabato 1 giugno 2019)
Il Palazzo imperiale di Pechino espone da qualche giorno importanti oggetti d’arte cinesi dei Musei Vaticani. «È la prima volta che sono stati riportati nel loro Paese d’origine manufatti cinesi provenienti dalla collezione dei Musei Vaticani, nella quale sono presenti doni che testimoniano secoli di comunicazioni tra la Cina e il Vaticano e manufatti che intrecciano arte cattolica e arte cinese». Lo scrive il ’Global Times’, quotidiano ufficioso di Pechino. Si tratta dell’ultima di una serie di ’prime volte’: il padiglione della Santa Sede all’Expo dell’Orticoltura a Pechino inaugurato il 29 aprile alla presenza del cardinal Gianfranco Ravasi; l’intervista del Segretario di Stato vaticano ancora al ’Global Times’ il 12 maggio; la partecipazione di due vescovi cinesi insieme al cardinal Pietro Parolin a un convegno dell’Università Cattolica a Milano il 14 maggio... Sono eventi con uno spiccato carattere culturale. Ed è probabile che altri seguiranno nei prossimi mesi.
Lecito chiedersi se si tratti di una sorta di ’diplomazia della cultura’ che si affianca al dialogo politico diplomatico tra Santa Sede e Cina, sul modello della ’diplomazia del pingpong’ che cinquant’anni fa preparò nuovi rapporti tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese. In realtà, questi eventi rispondono a una logica più profonda. Che è culturale nel senso ampio del termine, pur implicando anche eventi culturali in senso specifico e pur avendo anche effetti politici. Di questa mostra aveva parlato già un anno fa papa Francesco, collegando tra loro diversi livelli di dialogo tra Santa Sede e Cina: quello ’ufficiale’ delle delegazioni che si incontrano; quello che si sviluppa attraverso contatti personali; e «il terzo, che per me è il più importante nel [...] riavvicinamento con la Cina», appunto quello «culturale». Nel duplice senso del dialogo interculturale e degli eventi culturali. «È la strada tradizionale, quella dei grandi, come Matteo Ricci», in cui si inseriva - affermò il Papa - anche la mostra di oggetti d’arte conservati nei Musei Vaticani.
Questa strada è la più importante perché, nella visione di Francesco, un legame profondo unisce ciascun popolo alla sua cultura. Lo ha detto più volte, proprio a proposito della Cina. E, per lui, se si sviluppa un dialogo tra le diverse culture sono i popoli interi a dialogare. Il che vuol dire aprirsi all’altro, accorciare le distanze, costruire la pace. È il dialogo interculturale, che ha avuto un ruolo anche nei recenti sviluppi dei rapporti sino-vaticani. Apparentemente, il livello cruciale è stato quello politico-diplomatico e, indubbiamente, l’Accordo provvisorio del 22 settembre 2018 ha segnato una svolta. Ma la strada verso l’Accordo si è sbloccata solo grazie al superamento di incomprensioni, equivoci, fraintendimenti che hanno una radice culturale.
Le due parti si sono scontrate a lungo anche perché non si capivano l’un l’altra, mentre la situazione è cambiata quando ciascuna delle due ha rinunciato a imporre i propri princìpi, criteri e regole. Lo ha spiegato il cardinal Parolin a Milano in occasione del convegno ’1919-2019. Speranze di pace tra Oriente e Occidente’. Anche questo Accordo, insomma, si colloca all’interno di un dialogo interculturale. Tale dialogo presuppone una forte volontà di incontro. Di per sé, infatti, le culture non si parlano, sono realtà inerti che non entrano in relazione l’una con l’altra. Possono dialogare solo uomini e donne in carne ed ossa, che decidono di farlo, superando inerzie radicate, forti resistenze e grandi ostacoli. In francese li chiamano passeurs, traghettatori, coloro che si avventurano nella cultura degli altri.
L’esempio di Matteo Ricci è illuminante. Il gesuita italiano è giunto in Cina con una nutrita biblioteca di testi occidentali classici, medievali e rinascimentali. Ma ha poi iniziato un percorso di evangelizzazione che lo ha portato da Macao a Pechino e che è stato anche di dialogo interculturale. Dapprima ha individuato nei monaci buddisti i più vicini all’annuncio religioso di cui era portatore e ha indossato i loro abiti. Successivamente, prima a Nanchino e poi a Pechino, ha stretto amicizia con i mandarini-letterati e ha individuato nella cultura confuciana del tempo il miglior veicolo per parlare loro del «Signore del Cielo». Perché ci sia dialogo interculturale, insomma, ci vuole un incontro umano e quello che si realizza all’interno di un’amicizia è certamente tra i più ricchi e profondi. Non è la cultura che conduce all’incontro, insomma, ma è la «cultura dell’incontro» - per usare un’espressione cara a papa Francesco - a spingere verso il dialogo senza cui non sono possibili comprensione, intesa, accordo.
È un percorso tutt’altro che astrattamente accademico. Che però può essere aiutato dalla cultura in senso stretto: studi storici e ricerche linguistiche, seminari e convegni, traduzioni e pubblicazioni, come pure mostre d’arte ed esposizioni archeologiche, musica e teatro ecc. Uomini e donne di cultura infatti - e, potenzialmente, tutti lo siamo - fanno parte di una comunità che non può essere limitata da barriere e confini. La disciplina del confronto culturale aiuta a imparare la lingua dell’altro e a ricomprendere sé stessi attraverso i suoi occhi, insomma a decentrarsi da sé e a gustare il sapore dell’alterità. Gli eventi culturali predispongono al dialogo interculturale. Nel rapporto sino-vaticano questo dialogo ha indotto gli uni ad accogliere un approccio pragmatico e fattuale e gli altri ad accettare una modalità astratta e generalista o, per dirla, con Francois Jullien, la «cultura del vivere», propria degli orientali, e quella «dell’essere», propria degli occidentali. Tra l’assolutezza del principio occidentale di sovranità territoriale e la tradizione cinese del controllo politico sulla società, i negoziatori hanno trovato uno spazio di convergenza che costituisce anche una novità culturale. E così via. Pure i nodi ancora insoluti nei rapporti tra Santa Sede e Cina possono essere sciolti solo affrontandone anche lo spessore culturale.
Tutto ciò è anche politica. Ha ragione papa Francesco: se uno stretto legame unisce ciascun popolo alla sua cultura, dove c’è dialogo interculturale ci sono anche rapporti tra popoli. Mentre, dove non c’è dialogo, prevale il confitto. Nel mondo di oggi le identità culturali vengono evocate sempre più spesso per costruire muri. Contemporaneamente, però, in tante parti del mondo il dialogo interculturale costruisce ponti. Oggi, in Cina, il disegno di una progressiva sinizzazione delle religioni si sta esprimendo anche sotto forma di crescente insistenza sulla tradizione confuciana, come si è visto nel recente incontro dei responsabili delle diverse comunità religiose cinesi convocati a Qufu, dove è nato Confucio. Bisogna avere paura di Confucio? Da questa paura è nata la lunga querelle dei riti, chiusa definitivamente da Pio XII nel 1939 dopo tre lunghi secoli di dolorose controversie. Matteo Ricci, invece, non ha avuta paura di Confucio e ha trasformato la tradizione confuciana in un ponte tra Oriente e Occidente sul quale ha camminato anche l’annuncio del Vangelo. Per papa Francesco, Matteo Ricci è anche oggi un modello da seguire: la strada più importante, dice infatti, è quella della cultura, «la strada tradizionale, quella dei grandi».
I treni cinesi alla conquista del West
Ecco la nuova “Via della Seta”: i treni per garantirsi i mercati del Medio Oriente
di Maurizio Molinari (La Stampa, 16.02.2014)
Trecento chilometri di alta velocità fra Eilat e Ashdod per collegare il Mar Rosso al Mar Mediterraneo ovvero l’Asia all’Europa: è il progetto «Red-Med», promosso da Pechino e varato da Gerusalemme, ad alzare il velo sulla strategia cinese per il «West Asia».
«West Asia» è il termine che la «China Shipping Container Lines» adopera per descrivere l’area di operazioni fra Hormuz, Suez e Haifa. È la regione dove oltre trenta porti di varie dimensioni e funzioni consentono di importare in Cina il 60% del fabbisogno annuo di petrolio ed esportare beni in transito verso l’Europa, primo mercato globale per il «made in China», e l’Africa, dove la presenza di un milione di lavoratori cinesi testimonia un interscambio da 120 miliardi di dollari che sfrutta ogni tipo di risorsa naturale: dall’agricoltura alle miniere.
Il West Asia è una regione di importanza strategica per la Cina osserva Robert Lawrence Kuhn, banchiere internazionale con una lunga esperienza a Pechino perché le consente di importare energia dal Golfo e al tempo stesso commerciare con Europa e Africa». Adoperare il termine di «Asia Occidentale» al posto di Medio Oriente non è casuale: significa far prevalere la dimensione del legame economico con la Cina piuttosto che quella dell’appendice geopolitica dell’Europa, frutto della stagione del colonialismo. È questa cornice che spiega l’attivismo del ministro degli Esteri Wang Yi, protagonista di una raffica di viaggi che negli ultimi 90 giorni lo hanno portato a incontrare il premier israeliano, il principe ereditario saudita, il collega iraniano e una moltitudine di plenipotenziari del Golfo e Nord Africa.
L’agenda di Wang è assai prudente sulle crisi in atto nucleare iraniano, Siria, negoziato sul Medio Oriente preferendo dedicarsi a posizionare i tasselli di una vasto disegno economico: dalla realizzazione a Nanxun di un parco tecnologico israeliano alla ricostruzione del porto iraniano di Chabahar, dalla decisione della «United Arab Shipping Company» di investire 1,4 miliardi di dollari per diventare la più grande compagnia di container del mondo stringendo la cooperazione con la «China Shipping Container Lines» fino a una ferrovia egiziana ad alta velocità per collegare Hurgada, Luxor e Cairo ad Alessandria.
Come spiega un recente studio del Centro di ricerche in Affari Internazionali di Herzliya, ciò che distingue la proiezione cinese verso il «West Asia» sono «gli investimenti nelle infrastrutture»: porti per l’importexport di merci e ferrovie veloci per creare una via di trasporto alternativa capace di continuare a funzionare se una violenta crisi dovesse portare a bloccare il Canale di Suez o gli Stretti di Hormuz. Se gli Usa dalla crisi del 1973 hanno protetto le proprie rotte petrolifere con l’Us Navy, Pechino vuole garantirsi il fabbisogno energetico con una imponente rete di ferrovie veloci.
Si spiega così la strategia della «New Silk Road» Nuova Via della Seta che ha visto le forze armate cinese investire nelle linee veloci interne consentendo a Pechino di firmare nel 2010 con Teheran l’accordo per una tratta attraverso l’Asia Centrale destinata a raggiungere Istanbul e infine Londra e puntando a realizzare entro 10 anni un avveniristico «Orient Express» capace di viaggiare da Pechino alla Manica in due notti.
La ferrovia euroasiatica attraverserà almeno 28 Paesi, estendendosi lungo 81 mila km ricorrendo all’alta velocità della Shangai-Nanchino, 350 km orari, per collegare via terra la Cina al trampolino commerciale del «West Asia». La ferrovia Luxor-Alessandria si presenta in tale ottica come un’infrastruttura aggiuntiva per assicurare alle merci «Made in China» l’accesso all’Africa così come quella EilatAshdod svolgerà la stessa funzione verso il Mediteraneo.
Si spiega così la determinazione con cui Netanyahu punta a realizzare in fretta il tratto attraverso il Negev, affrontando una spesa di 2 miliardi di dollari in cinque anni con l’obiettivo di iniziare i lavori entro i prossimi 12 mesi. «È la prima volta che saremo in grado di aiutare le nazioni di Europa ed Asia a tenere sempre aperto un canale commerciale» afferma Netanyahu, che ne avrebbe già discusso con re Abdallah l’estensione alla città giordana di Aqaba, rendendo così possibile anche un futuro collegamento con la rete saudita. «Per la Cina questo significa poter contare fra pochi anni in una linea di terra alternativa al Canale di Suez spiega l’ex diplomatico israeliano Oded Eran in servizio al Centro di studi strategici di Tel Aviv sul quale incombono crescenti minacce a causa del rafforzamento dei terroristi salafiti nel Sinai ed all’instabilità dell’Egitto».
Ma non è tutto, perché lì dove i piani ferroviari non riescono ancora ad arrivare, la Cina pensa ad altre infrastrutture. Per capire di cosa si tratta bisogna guardare a Halfaya, il capo petrolifero iracheno gestito dalla China National Petroleum Corp dove per i tecnici cinesi è stato costruito un mega-residence con tanto di lago artificiale, dove andare con barca a vela e rilassarsi.
Perché l’Asia ci condanna a un ruolo da comprimari
di Bill Emmott (La Stampa, 08.05.2013)
Perplessi. Sconcertati. Sprezzanti. Compassionevoli. Ma alla fine, non veramente interessati. E’ questo il genere di parole e di frasi che mi è venuto in mente quando, nel corso di una visita a Delhi, ho chiesto a banchieri, funzionari, diplomatici e giornalisti che cosa ne pensassero della crisi europea.
Sono stato in India per tenere una conferenza sulle tendenze economiche globali a un pubblico prevalentemente asiatico, che s’incontrava a Delhi per la riunione annuale della Banca asiatica di sviluppo, l’agenzia di prestito pubblico regionale. Da patriota europeo avrei voluto essere positivo sull’Europa e scoprire che al pubblico importava dove stiam oandando. Sono stato deluso su entrambi i fronti.
In parte perché, com’è naturale, le preoccupazioni locali oscurano sempre quelle globali. L’India è in difficoltà per la deludente crescita economica, gli scandali legati alla diffusa corruzione, un governo inefficace e una sensazione generale di disfunzione politica. Un po’ come l’Italia, in effetti, tanto più che il ruolo politico di primo piano di Sonia Gandhi sollecita il paragone. Dietro al disinteresse per l’Europa, tuttavia, c’è di più che semplici preoccupazioni locali.
Alcuni di questi motivi hanno a che fare con quella parola tedesca, Schadenfreude, il piacere che si prova per le difficoltà altrui. Gli indonesiani, in particolare, ricordano ancora con amarezza una fotografia che risale alla crisi finanziaria Est-asiatica del 1997-98, quando l’allora capo francese del Fondo monetario internazionale, Michel Camdessus, si fermò davanti al presidente di quel Paese, a braccia conserte, come un conquistatore imperiale, insistendo affinché gli indonesiani accettassero l’austerità fiscale come unica possibile soluzione.
La via d’uscita dalla crisi finanziaria dell’Est asiatico in conclusione dipese da alcuni Paesi asiatici che ignorarono o evitarono le prescrizioni fiscali del Fondo monetario internazionale, cercando di chiudere o rimettere in sesto le banche in difficoltà il più rapidamente possibile. La Corea del Sud, la Thailandia, l’Indonesia, la Malesia e altri passarono ancora anni difficili ma poi si ripresero alla grande.
Certo, furono aiutati da un’economia globale in piena espansione e in particolare dalla rapida crescita delle vicine Cina e India. Nel caso dell’Indonesia, l’instabilità politica e la guerra civile hanno fatto sì che ci sia voluto molto più tempo prima che la stabilità, e in effetti la democrazia, si affermassero e l’economia recuperasse. Tuttavia, quest’esperienza della propria crisi finanziaria, appena 15 anni o giù di lì, implica che gli asiatici sentano poca simpatia per la situazione in Europa.
Ammirano di più il modo in cui l’America, ampiamente accreditata come avviata a un inevitabile declino dopo il fallimento di Lehman Brothers del 2008, si è ripresa, ha ripulito le sue banche e ora è sulla via della ripresa, con un tasso di disoccupazione sceso a un livello di oltre un terzo inferiore a quello della zona euro (7,5% contro il 12,1%), una rivoluzione energetica in atto, e persino il settore manifatturiero in fase di recupero.
Sì, l’America ha un sacco di debito federale, ma il dollaro resta globalmente dominante e l’importante caso della California ha mostrato agli altri intorno alle coste del Pacifico come uno stato americano che appena un anno fa sembrava finanziariamente in bancarotta e politicamente paralizzato possa improvvisamente riprendere la rotta e persino equilibrare le sue finanze pubbliche. Allora, dove è l’equivalente europeo? La Grecia? No. L’Italia? No. La Spagna? No. Forse l’Irlanda, ma è troppo piccola per essere significativa, le sue dimensioni sono all’incirca quelle di un sobborgo di Pechino o Delhi.
No, in Asia la storia europea è molto più difficile da raccontare di quella americana. È difficile spiegare perché gli europei, governo britannico incluso, pensino che la contrazione fiscale universale, indipendentemente dai fondamentali economici di ciascun Paese, possa condurre alla rinascita. Appare evidente agli asiatici come questo, unito a una moneta unica in una zona commerciale strettamente integrata, abbia ogni probabilità invece di rafforzare reciprocamente la recessione, che è proprio quello che sta accadendo.
Il visitatore europeo risponde che c’è qualche speranza che quest’implacabile politica di austerità possa essere modificata dopo settembre, una volta che il cancelliere tedesco Angela Merkel sia stata rieletta o inaspettatamente sconfitta. Dopo tutto, il presidente Enrico Letta ha chiesto un cambiamento in questo senso. Ma non appare convincente in un momento in cui nel nostro continente le forze politiche in ascesa sono partiti anti-europei come il Movimento Cinque Stelle, Alternativa per la Germania e l’UK Independence Party, che si presentano come distruttori piuttosto che salvatori.
Ancora più difficile da spiegare è perché le economie europee abbiano, in molti casi da forse 20-30 anni, perso la capacità di evolvere e di adattarsi in modo flessibile ai cambiamenti della tecnologia, ai mercati globali e ai gusti dei consumatori, mentre l’America ha mantenuto quella capacità. Si usava rispondere che l’Europa rispetto agli americani ha privilegiato la stabilità sociale e così abbiamo organizzato le nostre società ed economie di conseguenza. Ma anche da un punto di osservazione distante, come Delhi, un asiatico vede che non vi è traccia di disordine sociale sul fronte americano dell’Atlantico mentre se ne scorgono molti segnali in Europa.
Se questo era il nostro sogno europeo, quindi, i miei interlocutori asiatici non ci hanno mai creduto troppo: sono usciti dalla povertà da troppo poco tempo per avere molta fiducia nel welfare e nella presenza forte del governo, anche se i politici indiani si avvicinano di più a questo modello. Ora, però, guardano l’Europa e si chiedono se il sogno non potrebbe presto trasformarsi in un incubo dove il contratto sociale diventa conflitto sociale e la conciliazione nazionale si dissolve tra reciproche recriminazioni. No, no, ha detto questo visitatore europeo.
Come l’Italia, l’Europa forse è in coma, ma può risvegliarsi. La volontà di fare in modo che avvenga rimane forte, e le caratteristiche che in passato hanno fatto dell’Europa il leader mondiale - inventiva, volontà di abbracciare le nuove idee, capacità di dialogo, desiderio di esplorare il mondo - esistono ancora.
Noi, come l’America, dobbiamo accettare un relativo declino dal momento che il meraviglioso sviluppo di Asia, Africa e America Latina lo rende aritmeticamente inevitabile. Ma non c’è ragione per cui dovremmo affrontare un assoluto declino, né esiste alcun motivo per cui l’Europa non debba rimanere tra i leader politici, tecnologici e culturali del mondo.
Forse, dicono i miei amici asiatici. Speriamo. Ma alla fine, come risulta evidente nella maggior parte delle discussioni in Asia, a loro non importa. Sì, visiteranno l’Europa per la sua storia e la sua cultura. Ma manderanno i loro figli più brillanti nelle università americane, piuttosto che in quelle europee che giudicano di secondo o terz’ordine. O li faranno studiare a casa nelle università asiatiche che stanno migliorando in fretta. L’Europa? Come cantava Doris Day: «Que serà, serà».
"Traduzione di Carla Reschia"
Il ruggito del prof. Tigre
Ascesa dell’Asia e pedagogia: quella occidentale cerca l’interpretazione del mondo, quella orientale insegue moralità e bene della società
Per la studiosa Jin Li la sintesi è impossibile
di Marco Del Corona (Corriere La Lettura, 17.03.2013)
L’Occidente - un Occidente di madri, padri e pedagoghi - ha appena cominciato a fare i conti con l’agonismo educativo della Mamma Tigre e già si affaccia, nella giungla delle ansie contemporanee, un’altra, non meno minacciosa figura. Arriva il Maestro Tigre, corollario persino ovvio della Mamma Tigre, incarnazione della stessa tradizione educativa: il mondo culturale e antropologico del confucianesimo che l’universo globalizzato avvicina a noi. Passaggio inevitabile. E i flussi di studenti dalla Cina agli atenei Usa, australiani, canadesi, europei danno slancio ai confronti tra due tradizioni e sistemi educativi che appaiono alternativi e/o difficilmente compatibili. Nuova Kulturkampf.
Il Maestro Tigre può essere il simbolo un po’ caricaturale di una pedagogia confuciana che va guardata in faccia. È tra noi. E occorre prendere atto anche del fascino che esercita la solidità della tradizione dell’Asia orientale, come dimostra l’osservazione affidata al «New York Times» dall’editorialista David Brooks: «Le culture che fondono accademia e morale, come il confucianesimo e lo studio ebraico della Torah, producono pazzesche esplosioni motivazionali...». Esplosioni che noi, Occidente decadente, non sappiamo forse più provocare. Così Brooks si spinge ad auspicare che «altri codici morali/accademici possano esaltare la motivazione là dov’è assente».
Ciò che è quasi certo, intanto, è che la contaminazione fra il sistema educativo occidentale, che affonda le sue radici nella Grecia antica, e quello dell’Asia orientale difficilmente possono ibridarsi. Jin Li, studiosa americana di origine cinese, ne è convinta e al tema ha dedicato un ponderoso volume, Cultural Foundations of Learning, nel quale scrive che «le tradizioni intellettuali delle due culture si sono sviluppate sulla base di interessi e premesse diverse. Non è ancora successo, ed è improbabile che succeda in un prevedibile futuro, che le tradizioni intellettuali delle due culture si intersechino o si mescolino».
Il libro di Li, docente associata alla Brown University, in Rhode Island, ha evidentemente colpito nervi scoperti. «Tratta - spiega a "la Lettura" - essenzialmente di influenze culturali. La mia ricerca e quelle di altri mostrano come i cinesi, ovunque nel mondo, restano attaccati ai loro valori che consentono di ottenere risultati eccellenti nell’apprendimento. E la cultura trascende il sistema politico, in quanto abbraccia popolazioni e Paesi che non sono Cina». Ecco perché le implicazioni dei meccanismi pedagogici asiatici ci riguardano.
Le differenze tra noi e loro, nelle aule così come nelle aspirazioni dei genitori-educatori, maturano all’origine. «L’approccio occidentale all’apprendimento - ci dice Li - enfatizza la comprensione del mondo là fuori; la certezza della conoscenza; lo sviluppo e l’uso della mente; curiosità e interesse come strumenti d’indagine; l’espressione del sé. L’attitudine dell’Asia orientale sottolinea al contrario la necessità di perfezionare se stessi rispetto a società e moralità; il contributo alla società stessa; l’acquisizione e, come dire?, l’incorporazione delle virtù dell’apprendimento (sincerità, diligenza, sopportazione, perseveranza, concentrazione); l’apprendimento attraverso l’umiltà e il rispetto dei maestri; poche parole e molti fatti, insomma».
Mentre nella tradizione confuciana un insegnante è dunque una sorta di «genitore che non solo trasmette nozioni ma costruisce il benessere sociale, morale e psicologico del ragazzo», e quindi è «idealmente un modello», in Occidente - aggiunge la professoressa Li - «il ruolo del docente si riduce al fatto che insegni quella determinata materia. Ci sono chiari limiti tra cosa il maestro è pagato per fare e cosa no. Per dire: qui in America il sindacato non permette che un docente lavori oltre i termini contrattuali. In Asia orientale il maestro gode invece di un credito e di un rispetto molto maggiori».
Il maestro orientale è dunque un Maestro Tigre, la cui severità non conosce i confini tra nozioni e vita? Jin Li non sposa la definizione di «Maestro Tigre»: traccia piuttosto, a sua volta, una barriera. La barriera tra normalità ed eccessi: «In Asia orientale - dice - c’è una distinzione fra maestri esigenti e maestri irrispettosi o troppo severi. I primi sono coloro che si mostrano investiti del loro compito davanti alla società: esigenti, appunto, nei confronti degli allievi. E questo è quanto viene riconosciuto sia dai genitori sia dagli alunni, nello sforzo concertato di garantire un certo livello educativo. All’opposto, insegnanti irrispettosi o troppo severi non sanno prendersi cura dei ragazzi, sono irresponsabili, incompetenti. Genitori e comunità vigilano, pronti a sbarazzarsene».
Noi rimaniamo turbati dall’invadenza del ruolo che una società confuciana consegna ai maestri. La presenza del limite ci soccorre. In Cina, a Taiwan, nell’immensa diaspora cinese, in Giappone e in Corea del Sud - quest’ultima tenace potenza che tenta ciclicamente di attribuirsi il copyright di Confucio, sostenendo che fosse di sangue coreano - scuola e vita si mescolano. «È per il ruolo che famiglia e religione conservano nell’educazione dei figli che in Occidente gli insegnanti non hanno la stessa rilevanza che si osserva in Oriente. Lì è diverso. Nell’antica Cina la gerarchia del potere e dell’autorità vedeva prima il Tian, impropriamente tradotto come Cielo, giudice morale e signore delle diverse forme di vita; quindi la Terra, che alimenta i viventi; poi l’Imperatore che governa, protegge e si prende cura del popolo; i genitori; e gli insegnanti, che devono trasmettere la morale, in questo simili al clero cristiano».
Si tratta di due universi distanti, con orbite che si sono incrociate. Asimmetricamente, però. «L’Asia orientale ha cercato di imparare dall’Occidente per circa due secoli. E ha ottenuto un discreto successo con la scienza, la tecnologia, il commercio, la democrazia nel senso originario del termine. In Asia orientale ovunque si fanno matematica, scienze e inglese. Ma ci sono cose nelle quali gli asiatici è improbabile possano farcela: intendo la capacità di confronto con l’autorità, di pensare in modo anticonvenzionale, di creare in modo radicale, in pratica di produrre un Galileo, un Newton, un Einstein o uno Steve Jobs. I sistemi di relazioni familiari e interpersonali crollerebbero se i figli dell’Asia si comportassero all’occidentale».
L’Oriente ha attinto all’Occidente, non viceversa, o non abbastanza. Passata attraverso la Rivoluzione Culturale, studi in Germania, sposata a un americano, carriera cominciata a Harvard, madre di un ragazzo che definisce «misto» perché «cresciuto secondo i due sistemi», Jin Li riconosce che «in Europa e in America si studiano cinese, arti marziali, cose così, ma non vedo alcuna seria combinazione tra le due visioni. Gli scienziati asiatici, compreso chi ha vissuto in Occidente, nella vita quotidiana tende ancora a pensare dialetticamente da taoista». Il Maestro Tigre è qui. Ma non c’è fretta di conoscerci.
Verso il cambio al vertice
La Cina al bivio del futuro
di Enzo Bettiza (La Stampa, 28.10.2012)
Fra poco più di una settimana si vota in America, dove verrà democraticamente eletto il nuovo presidente degli Stati Uniti che resterà in carica per quattro anni. Due giorni dopo, 8 novembre, si aprirà a Pechino il diciottesimo Congresso del partito comunista che imporrà e legittimerà dall’alto il nuovo presidente Xi Jinping - successore e vice dell’attuale Hu Jintao - prescelto fin dal 2002 a governare la seconda potenza del pianeta per i prossimi dieci anni. Due eventi destinati a incidere in profondità sulle relazioni fra Stati Uniti e Cina, e quindi sugli assetti mondiali, che nel decennio che verrà vedranno le spinte della globalizzazione spostarsi sempre più dall’Atlantico al Pacifico.
L’Europa da un pezzo non è più una priorità per Washington. Non è stata quasi nominata nel dibattito elettorale, che sta per chiudersi, tra il Presidente democratico e lo sfidante repubblicano: sia l’uno che l’altro hanno lasciato intendere, con il loro silenzio sprezzante, di considerare quantité négligeable l’Unione Europea, inaffidabile alleata in declino, irrilevante per gli interessi strategici di una superpotenza globale.
Se il presidente Obama verrà rieletto, l’Asia in generale e la Cina in particolare, che ne ha criticato con asprezza l’incontro col Dalai Lama e la fornitura di missili a Taiwan, resteranno più di prima il suo principale quanto irto punto di riferimento diplomatico. Se invece vincerà Romney, il dialogo con i nuovi interlocutori cinesi, che in queste ore delicatissime tifano per lui, si svolgerà ancora più diretto e più scorrevole.
Non a caso un noto americanista di Shanghai, l’accademico Dingli Shen, ha osservato recentemente: «Purtroppo il democratico Obama non ha capito che Pechino per Washington può essere un’opportunità più che un ostacolo o un concorrente. Del resto, dall’epoca di Nixon e Kissinger, la Cina si è trovata sempre meglio con i repubblicani alla Casa Bianca. Anch’essi, come noi oggi, sono da sempre a favore del libero commercio, di poche regolamentazioni negli scambi e della libertà d’impresa». Tutti princìpi che si ritrovano nella «filosofia dello sviluppo», filosofia che la Cina comunista ha attuato con strepitosi successi pratici e paradossi ideologici, sospesi da almeno un ventennio tra la libertà economica e la non libertà politica.
L’Economist ha voluto ricordare in proposito certi saggi spregiudicati e capricciosi di Milton Friedman. Il patrono della scuola dei Nobel liberisti di Chicago, compiuto un primo viaggio in Cina nel 1980, al ritorno scrisse un articolo in cui osservava che la cosa che più l’aveva colpito era l’assenza o ignoranza del «diritto alla mancia» negli alberghi e nei ristoranti. Per lui il «tip», il «diritto di mancia», era la percentuale politica che per esempio in America, patria del liberismo anche spicciolo, s’aggiungeva agli scambi e ai prezzi correnti dell’economia quotidiana. Dal che dedusse una legge generale, che sembrava attagliarsi benissimo già ai prodromi del socialcapitalismo alla cinese: sentenziò che non sempre e non dovunque la libertà economica debba forzatamente apparentarsi al tip della sua «cugina politica».
La sentenza doveva restare valida non solo per la Cina, ma per tutte le consimili economie di mercato «confuciane», da Singapore alla Taiwan del Kuomintang, dove capitalismo e autoritarismo seguitano a convivere da più di mezzo secolo in relativa e talora spinosa «armonia».
Per accorgersi delle «disarmonie» non era necessario aspettare l’entrata in scena nel 2002 e l’uscita nel 2012 degli epigoni inguaiati del liberismo denghista. Ci basta spulciare la lista ogni giorno più lunga e più drammatica di coloro che, saliti ai vertici del partito e dello Stato, hanno o avrebbero profittato del prolungato miracolo economico per lucro personale e di clan.
L’uscente capo di Stato Hu Jintao appare come congelato al centro di uno scenario da crepuscolo degli dèi, mentre il suo popolare primo ministro Wen Jiabao viene schiacciato dalla denuncia internazionale di uno scandalo di smisurata corruzione familistica, nello stesso momento in cui il leader della sinistra neomaoista Bo Xilai, defenestrato dal politburo, perduta l’immunità parlamentare, la moglie condannata all’ergastolo per assassinio dell’amante, rischia addirittura una condanna alla pena capitale.
La storia millenaria delle transizioni cinesi da una dinastia all’altra è stata quasi sempre costellata di crolli apocalittici, corruzioni capillari, omicidi enigmatici; i mutamenti epocali sono stati spesso accompagnati o assimilati, nelle narrazioni dei cronisti, a immani catastrofi naturali. Anche le vicende dell’impero comunista, da Mao fino a Deng e dopo Deng, si sono sviluppate a balzi e severi strappi dinastici. Ricordo il XXIV congresso comunista di vent’anni fa, il congresso dell’ottobre 1992, dedicato alla transizione e alla celebrazione del primo artefice del miracolo economico, dell’apertura della Cina al mondo, il «piccolo timoniere» Deng Xiaoping ormai quasi nonagenario.
Anche allora, come in altra forma oggi, si chiudeva solennemente e duramente un’epoca e se ne spalancava una nuova: si chiudeva biologicamente la carriera degli ultimi veterani della Lunga Marcia che, dopo il massacro di Tienanmen, avevano invano sperato di bloccare la riforma economica da essi ritenuta in gran parte responsabile dei moti e tumulti studenteschi del 1989. Una «commissione dei consiglieri», nido dell’ostruzionismo gerontocratico, era stata disciolta. Fra i grandi vecchi costretti alle dimissioni v’era il capo dello Stato, Yang Shangun, 84 anni, il più insidioso degli antagonisti conservatori ostili al vecchissimo Deng.
Spesso si dimentica che il «miracolo» aveva messo radici già profonde nella Cina del tempo, dove diversi dirigenti odierni, che si accingono a darsi il cambio, erano giovani e ambiziosi e forse smarriti funzionari di seconda fila. Quel congresso sanciva e legittimava una situazione di svolta storica. La vittoria di Deng s’incarnava già, al di là del comunismo, nelle cose reali: nel benessere diffuso, nei consumi crescenti, negli investimenti che affluivano in massa a Canton, a Shanghai, nella zona di sperimentazione capitalista di Shenzhen.
Oggi si tende a dimenticare che l’economia era più che raddoppiata rispetto a quella del 1978, anno di rottura con la povertà e le carestie maoiste e d’avvio della rivoluzione liberista. Si dimentica che l’aumento del prodotto lordo aveva già raggiunto il tasso del 14 per cento, che Pechino aveva già un suo posto d’onore fra le maggiori entità commerciali del mondo, che la Cina in metamorfosi già si presentava sui mercati internazionali come un continente immenso finanziariamente sano e solvibile.
Ora assistiamo alla fine di questa prima e lunga fase del miracolo. Mentre dilaga la corruzione da ricchezza dei capi comunisti, divenuti manager miliardari, dilagano anche sulle reti iperinformate del web lo scontento popolare, lo smascheramento degli abusi di potere, la denuncia dei clan di partito e di parentela che hanno mandato in malora gli ultimi e falsi miti dell’ideologia comunista.
Non si tributa più nei comunicati ufficiali la citazione d’obbligo al pensiero di Mao. Al tempo stesso l’autoritarismo comunista, sposato alla libertà spesso selvaggia della sola economia, non regge più; il cosiddetto «capitalismo confuciano», unito al burocratismo di regime, rischia di perdere i pezzi per strada. Verso quali riforme o controriforme ignote andrà la Cina, quasi destabilizzata da una ricchezza abnorme ma politicamente squilibrata, che si prepara ad essere governata per dieci anni da un alto quanto grigio funzionario del partito? Cosa farà, cosa dirà, quali vie di risanamento o di ritirata sceglierà il paffuto Xi Jinping, così somigliante a Mao, di cui sappiamo solo di non sapere nulla?
Una certa maggioranza avida, ruvida, formata da fasce di una nuova e cinica classe media, dice di preferire l’odore del danaro alla libertà d’opinione. Insomma meglio ricchi che liberi. Intanto i conservatori arricchiti del partito sostengono di voler privilegiare la stabilità del regime, rispondendo con parole vaghe e sfuggenti alla domanda di riforme che giungono sempre più urgenti e insistenti, via internet, alle stanze di un potere in parte ancora forte e in parte già traballante.
L’unica cosa per ora certa è che una Cina forte, risanata, politicamente aperta agli innesti democratici, costituirà una garanzia per il mondo. Sarebbe invece assai più pericolosa per tutti una Cina debole, priva di contrappesi politici, dilaniata dalle lotte intestine per il potere e il possesso tribale delle abnormi piramidi economiche ereditate dal grande miracolo denghista.
Cina. Gli imperatori della Città Proibita
L’8 novembre si apre il XVIII congresso del Pcc
Una mappa per cercare di capire che cosa si muove e chi decide il futuro della Cina
di Gianni Sofri (l’Unità, 28.10.2012)
Non fidatevi troppo dei molti articoli che vi capiterà di leggere in questi giorni sulla vigilia del XVIII Congresso del Partito comunista cinese: neanche di questo che avete appena cominciato. Osservatori ed esperti di cose cinesi, più o meno in buona fede, più o meno informati, si affanneranno a interpretare per voi le poche notizie che ci arrivano, la mimica facciale dei leader e il posto in cui si siedono, il numero di loro parole riportate dalla stampa, il significato di teorie dai nomi poetici come «le tre rappresentanze», lo «sviluppo scientifico» o «la società armoniosa».
Queste cose succedono anche negli Stati Uniti o in Francia o da noi. Ma intanto si accompagnano a discorsi più o meno franchi, che esprimono, spesso polemicamente, idee diverse. In Cina è diverso. Mettendo insieme le diverse dinastie, e accogliendo la cronologia tradizionale, l’impero unificato nacque nel 221 a.C. e finì di esistere nel 1911, poco più di un secolo fa. In tutto questo periodo di più di due millenni, il centro del potere politico sono stati i palazzi imperiali. La classe dirigente cinese, quella dei burocrati-mandarini piacque ai gesuiti, e dietro di loro agli illuministi perché nasceva da una carriera fondata su lunghi studi, e non sull’ereditare un feudo o altre ricchezze. Finché si scoprì che studiare e fare esami su esami costava tanto che solo (o quasi solo) i figli dei mandarini potevano permetterselo.
In questo secolo, la Cina è stata attraversata da una rivoluzione che le è costata decine di milioni di morti e che ha portato a indubbie trasformazioni. Ma la grande politica è sempre quella, anche se l’imperatore si chiama presidente (o meglio ancora Partito) e i mandarini sono segretari di partito, ministri o dirigenti di grandi aziende. Sono loro, esattamente come i mandarini di un tempo, a poter mandare i loro figli a studiare nelle migliori università, per lo più a Harvard o a Cambridge. E sono loro, in un numero sempre più piccolo di mano in mano che la piramide gerarchica si assottiglia verso l’alto, a prendere le grandi decisioni che interessano tutta la Cina, nel mistero e nei segreti. Poi, le decisioni prese vengono comunicate dal Partito al governo e all’Assemblea popolare nazionale che si riunisce una volta all’anno, finzioni di un vero governo e di un vero parlamento. Vengono comunicate anche dal vertice del Partito al Congresso, che le ratifica.
Un esempio? Il XVIII Congresso, che si aprirà l’8 novembre, eleggerà il nuovo Segretario, che sarà poi anche il nuovo Presidente della Repubblica popolare cinese al posto di Hu Jintao. Ebbene, si sa già da qualche anno che questo nuovo Segretario-Presidente (nonché futuro Presidente della potente Commissione militare centrale) sarà Xi Jinping. Così come si sa che a succedere nella carica di primo ministro a Wen Jiabao sarà Li Keqiang. Con essi si attuerà il passaggio ufficiale dalla quarta alla quinta generazione della leadership politica cinese. Ma si sa già che il passaggio alla generazione successiva, la sesta, avverrà al XX Congresso, nel 2022, con l’elezione di leader nati fra il 1960 e il ’67: circola già qualche nome!
Questo accento sulle generazioni fa capire qualcosa dell’idea (confuciana) della «società armoniosa»: si suppone che i membri di una generazione siano tra loro solidali. In realtà, a ben guardare, lo sono come una catena di persone che si muovano in una sorta di girotondo. Ognuno è legato a tutti gli altri: non per solidarietà, però, ma per ricatto reciproco. Nessuno ha le mani libere, e tutti sono controllati dagli altri. È il criterio con cui avviene non solo il passaggio di generazioni, ma anche il compromesso tra idee e interessi diversi ai vertici del Partito. Il vecchio Jiang Zemin, per esempio, non fa parte del Comitato permanente dell’attuale Ufficio politico, ma esercita ancora dal di fuori una grande influenza.
DESTRA E SINISTRA
In una situazione come questa, parlare di destra e sinistra è del tutto fuori luogo. Da sempre, in Cina nessuno vuol essere di destra, e rovescia l’accusa sugli altri. Così, uno può essere rivoluzionario perché difende i diritti dei contadini espropriati e costretti ad andare a lavorare in fabbrica, o perché si batte per la difesa dell’ambiente, e conservatore perché in nome dei diritti dei contadini sacrificati e dell’ambiente si oppone a una crescita economica eccessivamente rapida e squilibrata. Oppure può essere rivoluzionario perché combatte la corruzione e il nepotismo (quanto mai diffusi), conservatore perché affida tale lotta solo a strumenti polizieschi. E così via. Il caso Bo Xilai (corrotto anti-corruzione, populista, giustizialista per usare un termine tipicamente italiano strumentalmente dedito a far rivivere pratiche, canzoni, slogan del maoismo) è stato una specie di antologia di queste contraddizioni.
Il XVIII Congresso si occuperà di crescita economica (meglio, del suo rallentamento, che preoccupa molto), di ambiente, forse di dissenso e di diritti umani (il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo è in galera da quasi quattro anni, e molti altri dissidenti come lui), di rapporto tra agricoltura e industria, di progetti energetici, di controllo navale dei mari e di altre questioni militari. In realtà, dietro tutti questi problemi il Congresso ne avrà in mente uno e uno solo: come conservare il potere, in un momento da tutti giudicato difficile, nel quale le proteste operaie, sociali in genere, ambientali ecc. si moltiplicano, invano occultate dalla censura o da una politica estera nazionalista e aggressiva.
Negli ultimi mesi si è avuta l’impressione di uno scontro dietro le mura ben protette di Zhongnanhai, l’erede moderno e comunista della Città proibita, tra fautori di una continuazione e accelerazione delle riforme economiche e nostalgici dello statalismo. Più altri conflitti. Ci sono state, per esempio, ampie discussioni sulla composizione della Commissione militare centrale, con una tendenza a quanto sembra abbastanza forte a riportare le forze armate sotto il controllo del Partito.
Ci sono stati segnali di una maggiore decisione di una parte del gruppo dirigente nel provare a liberarsi di quell’autentico cadavere nell’armadio che è la figura di Mao. Lo hanno testimoniato sia la vicenda di Bo Xilai, sia l’assenza del nome di Mao da un importante documento del Politburo pubblicato negli ultimi giorni in previsione di un emendamento della Costituzione da parte del Congresso: scomparirebbero pare dall’elenco dei fondamenti del pensiero ufficiale, il marxismo-leninismo e il pensiero di Mao.
Ha destato ancora più sensazione la notizia apparsa su una rivista di Hong Kong generalmente ben informata, secondo cui il corpo imbalsamato di Mao lascerebbe la Tienanmen per essere trasferito a Jinggangshan, una località tra le più gloriose nella storia dell’Armata rossa. Il Mausoleo di Mao diventerebbe invece un Memoriale degli eroi del Popolo. Questo nuovo capitolo della storia della demaoizzazione promette comunque non poche scintille, perché il fantasma di Mao è, sì, un cadavere nell’armadio, ma anche una polizza di assicurazione in un paese che non ha fatto del tutto i conti con il passato.
I Congressi del Partito comunista cinese, a partire da quello di fondazione del 1921, sono stati finora 17. Al prossimo parteciperanno 2.270 delegati. Il Congresso elegge un Comitato centrale che è costituito all’incirca da 350 membri tra effettivi e supplenti. Il Comitato centrale elegge l’Ufficio politico, costituito mediamente da 20-25 membri. A sua volta l’Ufficio politico elegge un Comitato permanente, i cui membri a partire dal 1956 hanno conosciuto variazioni nel numero, fra 5 e 9. L’Ufficio politico, noto anche come Politburo, si riunisce una volta al mese, mentre il suo Comitato permanente si riunisce mediamente una volta alla settimana. Si può dire che il Comitato permanente rappresenti il cuore del potere cinese.
Attualmente fanno parte del Comitato permanente 9 membri, ma da mesi si parla nei corridoi della possibilità che vengano ridotti a 7. Una curiosità abbastanza interessante è che quasi tutti i 9 membri attuali sono laureati in ingegneria, chi mineraria, chi elettronica, chi dei trasporti e così via. Questo tipo di decisioni dovrebbe accendere qualche luce sia pur timida sulle prospettive degli anni futuri e su chi ha vinto e chi ha perso.
Uno degli esercizi cui i pechinologi si dedicano più volentieri è quello di cercare di indovinare quali dei membri del Comitato permanente scadranno e da chi verranno sostituiti. I pechinologi si affannano a cercare nelle biografie dei vari leader (o in quanto ci è noto di esse, che non è molto) ogni più piccolo indizio che possa aiutare a capirne la collocazione politica e quindi anche il significato di una loro eventuale promozione. Per esempio, se è più amico di Jiang Zemin oppure di Hu Jintao, se è stato Segretario del Partito in una provincia o in una città molto importante, se ha occupato nel partito ruoli di grande rilievo come quelli di responsabile dell’organizzazione, della sicurezza, della propaganda, o della commissione di disciplina. O anche se ha rapporti importanti negli alti gradi dell’esercito.
Ci sono poi dei raggruppamenti molto personali. Per esempio, l’attuale Presidente-Segretario Hu Jintao capeggia un gruppo assai potente che deriva politicamente dalla Gioventù comunista (e che con essa ha conservato intensi rapporti). Un altro gruppo decisamente forte è quello dei «principi rossi», cioè dei figli o comunque discendenti di grandi figure della storia del Partito, come il futuro Presidente Xi Jinping, figlio di un vice premier, o come Bo Xilai, al quale però non è servito l’essere figlio di Bo Yibo, veterano della Lunga marcia e uno degli «Otto immortali» del Partito.
Nel Comitato centrale, pur prevalendo di gran lunga gli uomini, ci sono anche alcune donne; nell’Ufficio politico ce n’è una sola, la donna più alta in grado del Pcc, la consigliera di Stato Liu Yandong, responsabile del Partito per la sanità e lo sport. Liu è molto legata all’attuale Presidente Hu Jintao e anche al suo successore designato; e persino in predicato (sarebbe una grande première) per entrare nel Comitato permanente. Nel quale sono in molti a ritenerlo sia che resti di 9 membri, sia che venga portato a 7, dovrebbero conservare il posto solo due degli attuali, e cioè il futuro Presidente-Segretario Xi Jinping e il futuro Premier Li Keqiang. Difficile che resti nel Comitato il Presidente attuale, Hu Jintao, anche se il suo predecessore Jiang Zemin partecipò a tre Comitati permanenti consecutivi, e anche se si prevede che Hu conservi un certo potere per qualche tempo (per esempio continuando a presiedere la Commissione militare).
Tra i favoriti per esordire nel Comitato permanente c’è innanzitutto Wang Yang, l’attuale Segretario del Partito nel Guangdong, la ricca provincia meridionale in cui si trovano Guangzhou (Canton) e Shenzhen. Wang, 57 anni, prima di entrare in questo ruolo nel 2007, era stato per due anni Segretario a Chongqing. È considerato un convinto sostenitore di una crescita economica fondata sull’economia di mercato e l’apertura alle nuove tecnologie. Potrebbe tutto al più nuocergli il suo essere fra coloro che più si sono sbilanciati in favore di questa linea.
Un altro personaggio di rilievo, con buone chances, è l’attuale Segretario del Partito a Chongqing, dove ha sostituito proprio quest’anno Bo Xilai caduto in disgrazia. Zhang Dejiang (questo è il suo nome) ha attualmente 66 anni. È stato Segretario del partito nel Guangdong subito prima di Wang Yang; prima ancora lo era stato nel Zhejiang. È anche vice premier, incaricato dell’energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti. È legato a Jiang Zemin, ma con una certa autonomia (in altri termini, non fa parte di quella che gli avversari chiamano «banda di Shanghai»).
HUEWEN
Aspira ad entrare nel Comitato permanente anche l’ingegnere elettronico Yu Zhengsheng, 67 anni, Segretario del Partito a Shanghai, dove nel 2007 ha sostituito Xi Jinping. Ma vi sono molti altri candidati di prestigio: per esempio, Li Yuanchao e Liu Yunshan, responsabili rispettivamente del Dipartimento dell’organizzazione e di quello della propaganda.
Buona parte delle difficoltà degli osservatori di cose cinesi nasce dal poco che si sa della biografia, ma soprattutto delle idee dei leader, i quali tutti tendono a esporle in luoghi chiusi e fortemente protetti. Sappiamo qualcosa di più di Hu Jintao e di Wen Jiabao, perché hanno governato il paese, restando sulla scena, per gli ultimi dieci anni. Ma proprio su Wen Jiabao è apparsa una dettagliata inchiesta del New York Times, che mostra come lui e la sua famiglia si siano spropositatamente arricchiti nel periodo in cui Wen era primo ministro. Ci si chiede quanto queste rivelazioni, forse manovrate, possano influire sul suo futuro politico.
Molto popolare (più del Presidente Hu), Wen si era conquistato la fama di sostenitore, sia pure prudente, di qualche forma di accelerazione del cammino verso le riforme politiche, ed è più che probabile che questo abbia accresciuto il numero dei suoi nemici. Quanto a Hu, è possibile che nei prossimi anni eserciti un ruolo di controllo e di consiglio, simile a quello svolto finora dall’86enne Jiang Zemin, grazie soprattutto al suo prestigio e al suo capeggiare la potente fazione che si rifà alla Gioventù comunista.
Ma veniamo ai due leader supremi in attesa della loro proclamazione ufficiale. Di Xi Jinping sappiamo già che è uno dei «principi rossi», che è nato nel 1953, ha servito nelle provincie del Fujian e dello Zhejiang, quindi a Shangai. Divenuto vice presidente, ha curato la preparazione dei giochi olimpici del 2008 e si è poi occupato dell’educazione dei quadri dirigendo la Scuola centrale del Partito. Ha compiuto numerosi viaggi all’estero. Quanto al futuro Premier Li Keqiang, nato nel 1955, proviene dai ranghi della Gioventù comunista e ha lavorato a lungo al fianco del Presidente attuale.
Ora siete pronti ad assistere alla partita con in mano un programma. Se Wang Yang sarà stato eletto nel Comitato permanente vorrà dire (forse...) che è probabile un’accelerazione delle riforme economiche in direzione liberista; se non sarà stato eletto, è probabile che abbiano prevalso la prudenza e la preoccupazione di tenere a freno la sua irruenza. Ma, attenzione. Non dimenticate quanto si diceva all’inizio. E cioè, non fidatevi: la Cina è spesso imprevedibile.
All’inizio del 1971 il maresciallo Lin Biao era il delfino di Mao, suo erede designato, eroe della guerra di liberazione ossequiato e amato. Pochi mesi dopo, l’aereo che portava lui e la sua famiglia, probabilmente, in Unione Sovietica, si schiantò al suolo in una località della Mongolia, in circostanze tuttora misteriose. Lin Biao fu accusato di aver complottato contro Mao. Un anno fa, il potente segretario del Partito di Chungqing, Bo Xilao, era fortemente in predicato per entrare nel prossimo Comitato permanente dell’Ufficio politico. Ora è stato espulso dal Partito ed è scomparso dalla scena politica. Prudenza, insomma.
Il centro non è più l’Europa
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 20 novembre 2011)
La storia delle religioni, come è ormai ben noto, segue la storia della politica e anche quella della economia. Un discorso che vale, ovviamente, anche per il cristianesimo: i suoi centri, i suoi "palazzi" non si trovano più dove si trovavano una volta, cioè in Europa o negli Stati Uniti, culturalmente dipendenti dall’Europa: si trovano ormai là dove nasce il mondo che è nuovo sotto tutti gli aspetti, compreso quello religioso.
È il mondo asiatico, quello che unisce Cina e India, "L’impero di Cindia", come lo ha definito Federico Rampini: «Sono tre milioni e mezzo. Sono più giovani di noi , lavorano più di noi. Hanno più risparmi e più capitoli di noi da investire. Cindia è il nuovo centro de mondo, dove si decide il futuro dell’umanità». Il discorso vale, ovviamente, anche per le religioni, che fanno parte delle società in cambiamento e in piena evoluzione. Roma, anche se a malincuore, deve tenerne conto.
L’Asia, d’altronde, sta riportando in primo piano le sue antiche posizioni religiose. Il buddismo, ad esempio, sta riconquistando posizioni importanti dovunque. Cristianesimo e anche islam appaiono, invece, fermi sulle posizioni tradizionali. Il vecchio occidente è già oggi molto meno importante di quanto non appaia a Roma, a Londra o a New York.
Quello che sta accadendo in Cindia è importante anche per tutti i poveri del mondo. E per tutte le chiese. Ancora Rampini: «È finita l’era in cui l’uomo bianco - una piccola minoranza sul pianeta - poteva vivere di rendita sulla sua superiorità scientifica e tecnologica, industriale e militare» e, possiamo aggiungere, anche religiosa. Lo devono tenere presente anche le chiese cristiane, cattoliche, protestanti e ortodosse. I loro confini saranno sempre più precisi e limitati. Il loro universalismo sempre più teorico che pratico.
Spostamento del centro di gravità mondiale
di Karl Marx (1850)
Pubblicato nella Neue Rheinische Zeitung, Politisch-Ökonomische Revue, il 2 Febbraio 1850 Trascritto per il MIA da Stella Rossa, Dicembre 2007 (Archivio Marx-Engels)
Andiamo ora ad occuparci dell’America, dov’è accaduto qualcosa di più importante della rivoluzione di Febbraio (1848): la scoperta delle miniere d’oro in California. Sebbene siano passati appena diciotto mesi, è già possibile prevedere che tale avvenimento avrà effetti più sconvolgenti della scoperta stessa dell’America.
Per trecentotrenta anni tutto il commercio diretto nel Pacifico era stato condotto con commovente e sofferta pazienza, attorno a Capo di Buona Speranza o da Capo Horn. Tutti i progetti di praticare un’apertura nell’istmo di Panama erano falliti a causa delle rivalità e delle invidie meschine tra le Nazioni commercianti. Diciotto mesi dopo la scoperta delle miniere d’oro in California, gli yankies avevano già cominciato a costruire una ferrovia, una grande strada e un canale sul Golfo del Messico. E già esiste una linea regolare di battelli a vapore da New York a Chagres, da Panama a San Francisco, mentre il commercio con il Pacifico si sta concentrando su Panama, rendendo obsoleta la rotta di capo Horn.
Il vasto litorale della California, a 30 gradi di latitudine, uno dei più belli e più fertili del mondo, quasi disabitato, si sta rapidamente per trasformare in un ricco Paese civilizzato, densamente popolato da uomini di tutte le razze, yankies e cinesi, negri, indio e mulatti, creoli e meticci, europei. L’oro californiano scorre abbondante per l’America e lungo la costa asiatica del Pacifico, e sta spingendo i riluttanti barbari al commercio mondiale e alla civilizzazione.
Per la seconda volta il commercio mondiale cambia direzione. Quello che erano nell’antichità Cartagine, Tiro, Alessandria, nel Medio Evo Genova e Venezia, e attualmente Londra e Liverpool, cioè gli empori del commercio mondiale, saranno nel futuro New York e San Francisco, San Giovanni del Nicaragua, e Leon, Chagres e Panamà. Il centro di gravità del mercato mondiale era l’Italia nel medioevo, l’Inghilterra nell’era moderna, ed è la parte meridionale della penisola Nord-Americana oggi.
L’industria e il commercio della vecchia Europa dovranno fare sforzi terribili per non cadere in decadenza, come accadde con l’industria e il commercio dell’Italia nel sedicesimo secolo - questo se l’Inghilterra e la Francia non vogliono trasformarsi in quelle che oggi sono Venezia, Genova e l’Olanda. Tra qualche anno avremo una regolare linea di trasporto a vapore dall’Inghilterra a Chagres, da Chagres e San Francisco a Sidney, Canton e Singapore.
Grazie all’oro californiano e all’inesauribile energia degli Yankies, i due lati del Pacifico saranno in breve tempo tanto popolati e tanto attivi nel commercio e nell’industria quanto la costa da Boston a New Orleans. L’oceano Pacifico svolgerà nel futuro lo stesso ruolo che ha svolto l’Atlantico nella nostra era, e che era del Mediterraneo nell’antichità: una grande via marittima del commercio mondiale, e l’Atlantico sarà al livello di un mare interno, come oggi è il caso del mediterraneo.
L’unica probabilità che hanno i Paesi civilizzati dell’Europa di non cadere nella stessa dipendenza industriale commerciale e politica di Italia, Spagna e Portogallo è di iniziare una rivoluzione sociale che, finchè è in tempo, riesca ad adeguare l’economia alla distribuzione secondo le esigenze della produzione e delle capacità produttive moderne, e permetta lo sviluppo di nuove forze produttive che assicurino la superiorità dell’industria europea, compensando così gli inconvenienti della sua localizzazione geografica.
Infine, una curiosità caratteristica della Cina, raccontata dal noto missionario tedesco Gutzlaff. Una eccessiva popolazione e una crescita lenta ma regolare, avevano provocato, già alcuni anni fa, una violenta tensione delle relazioni sociali della maggior parte della nazione. In seguito arrivarono gli inglesi, per forzare l’apertura di cinque porti al libero commercio. Migliaia di navi inglesi e americane virarono per la Cina, che in poco tempo fu inondata da prodotti inglesi e americani a basso costo. L’industria cinese, essenzialmente la manifattura, soccombeva alla concorrenza della meccanizzazione. L’imperturbabile impero soffriva una crisi sociale. Le imposte smisero di entrare, e lo stato si trovò sull’orlo del fallimento, la grande massa della popolazione conobbe la povertà completa e si ribellò. Posta una fine alla venerazione dei mandarini dell’imperatore e dei bonzi, ora li perseguitava e li uccideva. Oggi il paese sta sull’orlo dell’abisso e forse sotto la minaccia di una rivoluzione violenta.
Ma ancora. Nel seno della plebe insorta, alcuni denunciavano la miseria degli uni e la ricchezza degli altri, esigendo una nuova ripartizione dei beni e contemporaneamente la soppressione totale della proprietà privata- e tutt’oggi continuano a formulare tali rivendicazioni. Quando, dopo venti anni di assenza, il signor Gutzlaff tornò a contatto con i civilizzati e gli europei, e sentì parlare di socialismo, esclamò terrorizzato: “Dunque non avrò scampo in nessun posto da questa pericolosa dottrina? Da qualche anno è esattamente questo, ciò che predica la plebaglia cinese!".
Può darsi che il socialismo cinese assomigli a quello europeo come la filosofia cinese all’hegelismo. Ma qualunque sia la sua forma, possiamo rallegrarci del fatto che l’impero più antico e solido del mondo in otto anni sia stato condotto dalle balle di cotone della borghesia inglese ad una imminente convulsione sociale che in qualsiasi caso, dovrà avere enormi conseguenze per la civilizzazione. E, quando i reazionari europei, nella loro imminente fuga verso l’Asia, giungeranno dinnanzi alla Grande muraglia cinese, alle porte della roccaforte della reazione e del conservatorismo, chissà che lì non si trovino a leggere:
Repubblica Cinese
Libertà, Uguaglianza, Fraternità
2050. Chi comanderà la terra
Usa, gigante malato obbligato al confronto con la Cina pigliatutto
di Federico Rampini (la Repubblica, 19.01.2011)
L’ammiraglio Mike Mullen, capo di tutte le forze armate Usa, non ha dubbi su quale sia «la singola maggiore minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti». In una testimonianza al Congresso ha risposto senza esitare: «È il nostro debito pubblico». Perciò è significativo che l’arrivo del presidente cinese Hu Jintao a Washington coincida col record storico di quel debito: solo a livello federale, ha sfondato i 14.000 miliardi di dollari, un livello senza precedenti che richiederà una legge del Congresso per autorizzare nuove emissioni di titoli del Tesoro. Sperando che "gli altri" - la Cina e tutti i paesi emergenti - continuino a comprare quei titoli. Perché nel frattempo anche la virtù finanziaria è diventata una prerogativa di quell’area del mondo che "non è Occidente". Nei prossimi cinque anni l’area di quei paesi che ci ostiniamo a chiamare emergenti e che invece sono largamente emersi, rappresenterà oltre il 50% di tutta la crescita mondiale ma solo il 13% nell’aumento del debito pubblico globale. Questo accelera ancor più lo spostamento dei rapporti di forza, delle gerarchie internazionali.
Come un nobile spiantato, l’America continua a dare in pegno pezzi dell’argenteria di famiglia; il risparmio e quindi la capacità di investire sul futuro (dalle infrastrutture alla scuola) si concentra nei suoi rivali. Cina in testa, naturalmente, ma con dietro di lei un mondo sempre più affollato. E’ già insufficiente anche la sigla dei Bric (Brasile Russia India Cina) perché bisogna tener conto di Turchia, Indonesia, Sudafrica. Il politologo di Time e Cnn (ma di origine indiana) Fareed Zakaria usa l’espressione «Rise of the Rest», l’ascesa del resto. Il futuro appartiene a tutte quelle nazioni che non sono membri del vecchio club di paesi di prima industrializzazione, cioè quello che coincide in larga parte con la civiltà occidentale di razza bianca. Gli «altri» per definizione. Che cosa questo significa per la leadership uscente, l’America lo ha assaggiato in due eventi traumatizzanti. Prima al vertice di Copenaghen sull’ambiente, quando l’intesa sulla riduzione delle emissioni carboniche naufragò di fronte a un veto insormontabile di Cindia. Cina più India: è inutile «blindare» accordi tra occidentali, è impossibile decidere se i due giganti più popolosi dicono no.
Il secondo smacco per l’America è il G20 di Seul, novembre 2010. Là Barack Obama crede di poter mettere sotto accusa la Cina che non fa abbastanza per aprire i suoi mercati e trainare la crescita degli altri. E’ invece il suo governo che si trova sul banco degli imputati, per iniziativa di un asse guidato da Cina e Brasile che accusa la Federal Reserve di stampare moneta esportando inflazione e bolle speculative. Un terzo disastro è stato evitato per un pelo: quando Brasile e Turchia furono sul punto di affermare una soluzione alternativa alle sanzioni sull’Iran, e quasi mandarono all’aria il delicato lavoro condotto per due anni dalla diplomazia Usa dentro il consiglio di sicurezza Onu.
Il confronto tra l’Occidente in declino e «gli altri», ha una dimensione psicologica che è cruciale. The Economist l’ha definita «la redistribuzione della speranza». La fiducia nel futuro, una caratteristica che sembrava impressa nel Dna dell’America, si è spostata altrove. 87% dei cinesi, 50% dei brasiliani, sono convinti che il loro paese si sta muovendo nella direzione giusta, verso un avvenire migliore. Solo il 30% degli americani ormai ha tanta fiducia nelle prospettive nazionali. E meno di un quarto degli europei.
A lungo l’America è stata immunizzata dalle profezie sul suo declino: troppo spesso i fatti le avevano smentite. Dopotutto, il tema del declino agita la cultura occidentale dai tempi di Edward Gibbon, che nel 1776 descrisse la caduta dell’impero romano come un’allegorìa del destino che attendeva l’Inghilterra e l’Occidente. Fino a Oswald Spengler («Il tramonto dell’Occidente», 1918) che proiettò la disgregazione dell’impero austroungarico su tutta la civiltà occidentale. Poi agli Stati Uniti in particolare John Kennedy nel 1960 annunciò il rischio di un sorpasso sovietico. Sul finire degli anni Settanta il celebre saggio di Ezra Vogel «Japan as Number One» disegnò un futuro in cui il predominio nell’economia globale sarebbe finito a Tokyo. La tentazione è forte, di scrollare le spalle anche oggi, di fronte all’ultima versione del «declinismo». Ma l’autorevole rivista Foreign Policy avverte: «Stavolta è diverso», e pubblica un dossier speciale in dieci punti, per spiegare che non ci sono paragoni possibili con le due ultime minacce sventate, quella dell’Urss e del Giappone. Non era mai accaduto in passato che l’America avesse solo due aziende nella classifica Fortune delle Top Ten mondiali. Non era mai accaduto che un segretario al Tesoro (Tim Geithner) pronunciasse la parola «default», bancarotta, come uno scenario remoto ma possibile per il debito pubblico americano.
Un segno visibile che si oltrepassata una soglia, sta nella caduta di consenso verso quelle regole della globalizzazione che l’America stessa aveva definito. L’idea cioè che la liberalizzazione degli scambi fosse un gioco a somma positiva, dove l’arricchimento di tutti gli «altri» non sarebbe andato a scapito del benessere americano. La visione «win-win», del commercio mondiale in cui tutti possono essere vincitori contemporaneamente, è stata a lungo il dogma condiviso dalla classe dirigente americana a prescindere dal colore politico. Oggi viene rimesso in discussioni da autorevoli voci della sinistra (Paul Krugman) e della destra (Fred Bergsten). Se l’America comincia a dubitare che la partita sia truccata in favore di altri, è il segno che un’èra sta chiudendosi davvero.
Confucio al posto di Mao /1
Nella Cina che riscopre il Saggio
Ma il modello cinese è un mix tra confucianesimo leninismo, taoismo, consumismo occidentale e socialismo
Verrà anche girato un film. Il protagonista sarà Chow Yun-Fat, il duro di tante pellicole di gangster di Hong Kong
di Timothy Garton Ash (la Repubblica, 15.04.2009)
Pechino. Da bambino la Cina per me era un cinese un po’ buffo, con i baffi lunghi e sottili una tunica di seta ricamata e un cappello a cono di paglia che con uno strano accento esclamava: «Dice il saggio...». In seguito furono le foto in bianco e nero del gruppo di sculture di epoca maoista "Corte per la riscossione della mezzadria" mostratemi con entusiasmo da un insegnante di inglese. Dopo ancora fu la follia ingenuamente travisata della rivoluzione culturale e delle Guardie Rosse. (Ho ancora la copia del libretto di Mao di quando ero studente). Oggi infine è un accademico cinese che ha studiato in America, in abito scuro, che mi dice in un ottimo inglese, «Dice il Saggio...».
È risaputo che in Cina è in atto un revival del confucianesimo. Le massime del Saggio, adattate per il vasto pubblico da una docente universitaria cinese attenta alle esigenze della a comunicazione di massa, Yu Dan, ha venduto più di dieci milioni di copie, di cui circa sei milioni, pare, in edizione pirata. Il libro è intitolato "Zuppa di pollo cinese per l’anima".
Il campus della prestigiosa Università Tsinghua di Beijing un tempo ospitava una statua del presidente Mao. Oggi vi troneggia Confucio. Una casa di produzione statale finanzierà un film su Confucio. Il Saggio sarà interpretato da Chow Yun-Fat, il duro di tanti film di gangster di Hong Kong. Esistono inoltre scuole private esplicitamente ispirate al confucianesimo.
Questo ritorno di Confucio ha una valenza sia privata che pubblica, tanto sociale che di partito. «Disse il saggio: l’armonia è un bene da tener caro», rimarcò il presidente Hu Jintao nel febbraio 2005, facendosi promotore dell’obiettivo proclamato del partito comunista di perseguire l’armonia nella società e nel mondo. «Da Confucio a Sun Yat-sen», dichiarò il premier Wen Jiaobao qualche anno dopo , «La cultura tradizionale della nazione cinese vanta numerosi elementi preziosi», tra cui citava «spirito comunitario, armonia tra diverse concezioni e condivisione del mondo comune». In un saggio sul nuovo confucianesimo cinese il politologo Daniel A. Bell ironizza sul fatto che il Partito Comunista Cinese (PCC) potrebbe un giorno essere ribattezzato Partito Confuciano Cinese.
In occasione di una mostra allestita nel più grande tempio confuciano di Pechino, è stata esposto un tabellone su cui erano evidenziate le sedi dell’Istituto Confucio nel mondo. L’Istituto Confucio è l’equivalente cinese, relativamente recente, del Goethe Institute tedesco e del British Council britannico. Attualmente le varie sedi estere si dedicano soprattutto all’insegnamento della lingua cinese, ma il messaggio esplicito della mostra è che il mondo potrebbe trarre vantaggio da una miglior conoscenza del pensiero di Confucio.
Si può dare di questa rinascenza del confucianesimo una lettura semplicistica, o più interessante. La lettura semplicistica sta nel cercare nel confucianesimo la chiave per comprendere la società, la politica e persino la politica estera della Cina di oggi. Si tratta di un esempio di Huntingtonismo volgare, come l’ho definito, ossia una versione di basso livello del determinismo culturale presente nella teoria dello Scontro di civiltà di Samuel Huntington. I cinesi sono confuciani per cui si comporteranno così...
Tanto per cominciare esistono molte versioni contrastanti di confucianesimo. Bell individua un confucianesimo progressista, un confucianesimo ufficiale o conservatore, un confucianesimo di sinistra e un confucianesimo popolare non politicizzato (la zuppa di pollo di Yu Dan). Cosa ancor più importante il confucianesimo è solo uno degli ingredienti dell’eclettico mix che contraddistingue la Cina di oggi. Molte caratteristiche della società e del sistema politico cinese possono essere definite senza riferimento alcuno al confucianesimo, e certe farebbero rivoltare il Saggio nella tomba. Accanto al confucianesimo si distinguono elementi di leninismo, capitalismo, taoismo, consumismo occidentale, socialismo, il legalismo di tradizione imperiale cinese e altri ancora.
E’ proprio questo mix che identifica il modello cinese, peraltro non ancora pienamente compiuto. Perché la Cina resta un paese in via di sviluppo in ogni senso del termine. Sapremo con precisione qual è il modello cinese quando avrà raggiunto un grado superiore di sviluppo. Nel frattempo, dovendo dare un’etichetta alla Cina di oggi il confezionismo sarebbe un miglior candidato rispetto al confucianesimo. Il segreto sta nella confezione.
Ne consegue che è un grave errore concepire la conversazione politica e intellettuale con la Cina come "dialogo tra civiltà". In questa accezione noi occidentali mettiamo in tavola i nostri cosiddetti "valori occidentali" , i cinesi i loro cosiddetti "valori cinesi" e poi si vede quali pezzi corrispondono e quali no.
Sciocchezze. Non esiste una civiltà occidentale o cinese pura, incontaminata, a parte. Da secoli tutti ci mescoliamo e soprattutto negli ultimi due. La purezza culturale è un ossimoro. È vero, il confucianesimo è più importante del cattolicesimo in Cina, e il cattolicesimo è più importante del confucianesimo in California, ma in oriente c’è più occidente e in occidente più oriente di quanto in genere si immagini. Inoltre già 2500 anni fa, quando la Cina e l’Europa erano davvero due mondi separati, certe tematiche affrontate da Confucio erano le stesse di Platone e Sofocle , perché sono tematiche universali. Non sono questioni "orientali" o "occidentali", sono questioni umane.
L’approccio interessante al confucianesimo da parte occidentale - nell’ambito di un dialogo che gli istituti Confucio farebbeno bene a sostenere - è del tutto diverso. Parte da una tesi semplice: Confucio era un grande pensatore che ancora oggi ha qualcosa da insegnarci. Nel corso di duemila anni e più numerose scuole hanno reinterpretato il pensiero di Confucio nelle varie epoche ma non solo, hanno anche aggiunto farina del loro sacco. Dovremmo leggere Confucio, e queste interpretazioni come leggiamo Platone, Gesù , Buddha o Charles Darwin, e tutti i loro interpreti. Non si tratta di un dialogo tra civiltà, bensì di un dialogo interno alla civiltà. La civiltà umana , vale a dire, ciò che ci rende migliori delle bestie.
Per condurre questo dialogo la maggior parte di noi dipende dai traduttori. Qui a Pechino ho riletto la traduzione di Simon Leys dei "Detti di Confucio" con le note dense di robusti riferimenti ad autori occidentali (il gentiluomo colto di Confucio paragonato all’ honnete homme di Pascal e così via). Grazie a Leys, trovo i Detti infinitamente più accessibili, godibili e gratificanti rispetto al testo principale di un’altra tradizione culturale con cui noi europei dobbiamo confrontarci: il Corano. Ovviamente certi passaggi sono oscuri e anacronistici , mentre altri - che esaltano il governo degli uomini invece del governo del diritto, ad esempio - si pongono in forte contrasto con il liberalismo contemporaneo. Ma molti dei detti attribuiti a Confucio emanano un umanesimo laico di grande attualità.
Preferisco la formulazione confuciana della regola d’oro della reciprocità - «Non imporre agli altri quello che tu stesso non desideri» - a quella cristiana. Qual è il compito del governo? «Dare la felicità alla gente del luogo e attrarre migranti da lontano». Come servire al meglio il nostro capo politico? «Ditegli la verità, anche se lo offende». E la massima migliore: «Si può privare un esercito del suo comandante in capo, ma non si può privare il più umile degli uomini della sua libera volontà».
Ma se queste sono riflessioni familiari in un contesto inconsueto, i detti di Confucio contengono anche accenti del tutto particolari, ad esempio esaltano una sorta di responsabilità familiare allargata alle generazioni sia passate che future. Non è una cattiva idea questa, oggi che violentiamo il pianeta lasciatoci in eredità dai nostri avi. Qualche mese fa uno dei sottosegretari britannici all’istruzione si è attirato qualche frecciata satirica per aver dichiarato che agli scolari inglesi non farebbe male studiare Confucio. Non potremmo farlo tutti? Non solo impareremmo qualcosa dei cinesi, ma anche qualcosa di noi stessi.
www.timothygartonash.com. Traduzione di Emilia Benghi
Il paese ritrova la autostima e il suo filosofo guida
Maestro Kung e la rivincita sui comunisti
di Federico Rampini (la Repubblica, 15.04.2009)
Nel ceto medio cinese esplode un fenomeno editoriale, il best-seller intitolato La Cina scontenta. Un libro dai toni sciovinisti, che imputa all’Occidente un bilancio fallimentare. Plebiscitato dalla gioventù cosmopolita di Pechino e Shanghai, il saggio dà sfogo a un risentimento represso, incita i cinesi a liberarsi dei complessi d’inferiorità e a occupare il posto che gli spetta nel mondo. Secondo Wang Xiaodong, uno degli autori, la recessione dimostra che gli Stati Uniti non possono più offrire al mondo una leadership adeguata. «Noi possiamo fare meglio di loro», è la sua conclusione.
Era dai tempi di Mao Zedong che non si vedeva una Repubblica Popolare decisa a esportarsi come modello. Ma oggi l’ideologia su cui poggia il neo-espansionismo cinese non è più rivoluzionaria, sovversiva e antagonista. Al posto di Mao c’è Confucio, il filosofo vissuto dal 551 al 479 avanti Cristo, che la classe dirigente cinese rivaluta come il guardiano dell’ordine sociale e della stabilità.
Kong Fuzi (Maestro Kung, latinizzato in Confucio dal gesuita Matteo Ricci) è al centro di una riabilitazione orchestrata nei minimi dettagli. Il segnale più potente è la proliferazione degli Istituti Confucio nel mondo, promossi dal governo di Pechino per diffondere lo studio del mandarino. La scelta del nome è rivelatrice di un ribaltamento clamoroso. Negli anni del maoismo Confucio fu messo al bando come un pensatore reazionario, simbolo dell’epoca imperiale. L’odio per Confucio non era una prerogativa dei soli comunisti, univa le élite progressiste nella Cina del Novecento. Ma quel secolo fu segnato dai complessi d’inferiorità; l’Occidente era il modello per ogni progetto modernizzatore. Il rilancio del confucianesimo coincide con una nuova autostima, spiega lo storico cinese Wang Gungwu della National University di Singapore. Wang descrive l’attuale rafforzamento della Cina come la quarta ascesa in duemila anni di storia, dopo l’unificazione imperiale (terzo secolo prima di Cristo), il consolidamento avvenuto nel VII e VIII secolo dopo Cristo in risposta alla minaccia di invasioni dall’Asia centrale, e infine l’espansione iniziata nel XIV secolo e culminata 400 anni dopo sotto la dinastia mancese dei Qing. Ma la "quarta ascesa", quella attuale, è la prima che proietta l’influenza cinese sul mondo intero. Il ribaltamento di prospettiva è profondo, secondo Wang. Negli anni precedenti erano europei e americani a mettere sotto pressione i cinesi perché passassero degli esami: «L’Occidente si attendeva dalla Cina ulteriori progressi nell’uniformarsi alle regole che considerava le più adatte per garantire il futuro della globalizzazione. Ora la Cina ha acquistato una nuova coscienza di sé, e rimette in discussione la validità delle pretese occidentali. La profondità della crisi economica ha scardinato la credibilità dell’Occidente come portatore di soluzioni per lo sviluppo mondiale».
Oggi è Confucio il pensatore più citato dai leader di Pechino quando noi occidentali invochiamo la necessità di riforme democratiche in Cina. A differenza che ai tempi di Mao, non è più di moda ribatterci che la nostra è una democrazia borghese, ipocrita e fasulla, che fa velo all’oppressione del proletariato. Oggi si fa ricorso al relativismo etnico-culturale. La Cina è una società segnata dal confucianesimo, dove il gruppo conta più dell’individuo, dove le relazioni sociali sono "organiche", strutturate sull’obbedienza gerarchica e sul perseguimento di obiettivi collettivi. Questo tipo di società asiatica va governata come una famiglia, con il rispetto dell’autorità paterna, e d’altra parte carica sul paterfamilias la responsabilità di garantire il benessere dei propri familiari.
I leader di Pechino hanno utilizzato Confucio dapprima in chiave difensiva, contro le "ingerenze" occidentali sui diritti umani. Un esempio è il discorso tenuto da Zhang Weiwei al Marshall Forum a Monaco di Baviera: «Voi occidentali definite la democrazia secondo il principio che ogni cittadino deve avere il diritto al voto, e nel suffragio universale diversi partiti devono competere per l’alternanza al governo. Fino a oggi è impossibile trovare un solo caso di un Paese emergente che sia riuscito a modernizzarsi con successo dopo avere adottato questo modello di democrazia. Che cosa succederebbe oggi in Cina se adottassimo una democrazia del vostro tipo? Ammesso che il Paese non sprofondi nella guerra civile o nella disgregazione, potremmo eleggere un governo di contadini, visto che i contadini sono la stragrande maggioranza della nostra popolazione. Non ho nulla contro di loro, ma è chiaro che non sarebbero capaci di guidarci nella modernizzazione. Negli ultimi trent’anni la Repubblica Popolare ha decuplicato la sua ricchezza economica, ha migliorato le condizioni di vita dei suoi cittadini, mantenendo la stabilità».
Ora la rivincita del Maestro Kung fa un passo più avanti: lo trasforma in un pensiero politico da esportare. A tutta l’Asia la Cina si propone come un modello di solidità e di tenuta, mentre l’Occidente sbanda. La decisione di dedicare un film alla vita di Confucio - con la benedizione delle autorità - assegnando il ruolo di protagonista a Chow Yun-Fat, divo dei film di arti marziali e kung-fu, è il segnale più divertente della nuova fase. L’antico teorico della «società armoniosa» adesso mostrerà anche i muscoli.
Valori orientali
Confucio, ritorno alle virtù cinesi
di Gian Carlo Calza (Il Sole-24 Ore, Domenica, 14.02.2016)
Pare ormai definitivamente assodato che i guai principali della Cina nella sua crescita vertiginosa degli ultimi anni siano in gran parte dipendenti dal degrado morale serpeggiante nello stato. Qualcuno potrebbe obiettare che non si tratta certo di un’esclusiva nazionale del Paese di Mezzo, come viene tradizionalmente chiamato. Ma esso è in particolare significativo ed è probabile faccia venire, più che altrove, i brividi ai politici che la guidano. Il fatto è che da sempre la Cina è stata retta da governanti la cui caratteristica fondamentale è l’essere interpreti della volontà del Cielo ed esprimere la virtù che, dall’imperatore in giù, li rendeva degni di reggere la cosa pubblica.
In Cina il compito di regnare e di amministrare lo Stato non discende, come da noi, da un diritto divino o dalla volontà di un popolo. È piuttosto la virtù umana posseduta dal sovrano a rendere lui e i suoi collaboratori degni della considerazione del Cielo che conferisce il proprio mandato al fondatore di una dinastia e ai successori. La conservazione di tale virtù e del buon governo che ne discende è la sola garanzia di quel diritto al mandato che cessa di esistere al momento stesso della scomparsa della virtù nel governante più alto.
Questa dottrina, antichissima, fu impersonata e per così dire codificata dal Maestro Kong (Kongzi), cioè Confucio, vissuto per la tradizione fra il 551 e il 479 avanti la nostra era. Da lui nacque il sistema di pensiero che influenzò l’amministrazione della cosa pubblica in Cina per oltre duemila anni. Oggi, dopo un’interruzione di circa mezzo secolo dovuto alle strategie della rivoluzione culturale, esso sta tornando in auge. Però come?
Il Confucianesimo è stato un formidabile strumento di controllo ideologico politico per secoli. Addirittura esso è stata la forza attraverso la quale gli invasori della Cina sono stati assorbiti e sinizzati dai Tuoba-Wei nell’alto medio evo ai mongoli di Qubilai ai Mancesi di Nurhachi. Ed è straordinario come esso sia stato plasmato e riplasmato per adattarlo alle esigenze dei mutamenti dinastici e politici dei venticinque secoli dall’insegnamento originario. L’ultima trasformazione, quella in corso del Nuovo Confucianesimo, è fortemente sostenuta dallo stesso premier Xi Jinping (se ne parlò nel numero del 20 settembre scorso a p. 23).
Tuttavia non bisogna pensare che l’insegnamento di Confucio sia essenzialmente uno strumento politico, tutt’altro. Diventa uno strumento politico perché è una forza sociale assai flessibile fuorché nei principi fondamentali a sostegno dei valori umani. È una forza sociale non per maturazione di diritti acquisiti o “geneticamente” ricevuti, ma per costante, indefettibile, conquista personale.
In sostanza, il confucianesimo è potenzialmente una disciplina di vita per il singolo e il suo gruppo, quali possono ovviamente essere e a volte sono anche cristianesimo, islam, induismo e ogni forma religiosa del pianeta.
Tuttavia questa disciplina dell’incarnare la virtù va non solo conosciuta, ma deve essere manifestata concretamente per primo nell’esistenza dell’autorità massima, l’imperatore, che deve mostrare ai sudditi di possederla ed esercitarla. E addirittura la tradizione vuole che Confucio stesso fu nella sua dura esistenza esempio di tale esercizio “confuciano” quando il suo buon governo e correttezza assoluta come ministro lo fecero cadere in disgrazia e allontanare dallo stato che stava risanando.
Confucio e il confucianesimo sono ovviamente da sempre oggetto di studio da noi dove il maestro cinese fu fatto conoscere già dai gesuiti nel Seicento. Di recente i suoi testi sono stati oggetto in Italia di una notevole opera di nuove traduzioni e riletture interpretative come per molte delle grandi figure filosofico-religiose dell’epoca cinese classica.
E però bisogna spendere una parola particolare per il volume di Maurizio Scarpari Confucianesimo, appena uscito per la Morcelliana di Brescia, in quanto si pone su un piano a sé. Anzitutto va detto che il libro, scritto dal principale filologo cinese classico italiano, si avvale di un apparato critico ineccepibile, ma questo è il meno a parere di chi scrive. Il fatto è che Scarpari, pur mantenendo sempre l’approccio accademico il più alto, si è speso in un modo che rarissimamente gli accademici osano, ma che è più frequente nella tradizione filosofico religiosa dell’Asia. Mi riferisco all’interpretazione dei grandi classici ad uso di lettori meno attrezzati per facilitare la comprensione del messaggio spirituale ivi contenuto al fine della propria auto-formazione.
Nel sotto-capitolo dove illustra La figura del saggio (2.3), per esempio, citando i Dialoghi di Confucio (2.1): «Chi governa tramite l’eccellenza morale può essere paragonato alla stella polare, fissa al suo posto mentre tutte le stelle attorno le rendono omaggio... La maestosità del saggio è sintetizzabile in queste parole, attribuite a Confucio. Così come l’universo si basa su leggi eterne che regolano i ritmi naturali e i cicli stagionali, il sovrano illuminato governa il mondo in virtù della forza morale di cui il Cielo l’ha dotato, irradiando sull’intera umanità i suoi benefici influssi. Si tratta di un dono divino, concesso a pochi per il vantaggio di molti, che, derivando dall’intima intesa tra uomo ed entità divine, rende possibile trasferire alla società l’ordine superiore che regola il movimento armonico dei corpi celesti, il ciclo delle stagioni e l’alternarsi inarrestabile del giorno e della notte».
Il libro è ricchissimo di suggestioni come questa. Esse non riguardano ovviamente solo i saggi o gli imperatori illuminati, entrambe figure rarissime. Ciascuno è chiamato nella grande crisi attuale a elevare la propria condizione spirituale prima di ogni altra. Senza di che non potrà realizzarsi neppure il risanamento della politica o dell’amministrazione né di ogni altro settore sociale della Cina. E come della Cina anche di noi e dei nostri Paesi.
SCHEDA EDITORIALE
CHI COMANDA A PECHINO
Autore
Nunziante Mastrolia
Editore
Castelvecchi Editore, Roma
Prima edizione
2008
Pagine
254
N. ISBN
978-88-7615-227-6
Questo libro dimostra che le incognite di oggi sul ruolo della Cina nel mondo hanno un’origine molto antica. La Cina corre, e pesa sempre di più negli equilibri commerciali e strategici del capitalismo mondiale. II potere a Pechino passa di mano in mano, cambiano i regimi, gli assetti economici, le alleanze, ma il Paese di Mezzo continua a vivere secondo logiche proprie, estranee all’Occidente. Viene allora da chiedersi: cosa si cela sotto le bandiere rosse che ammantano la leadership cinese?
Chi comanda davvero a Pechino? Come reagiranno questi uomini, quando l’ansia di libertà e democrazia, sprigionata dal mercato, inizierà a cozzare con l’antica tradizione autocratica della Cina?
C’è chi ritiene che il capitalismo in versione cinese sia del tutto compatibile con la dittatura, e chi invece descrive scenari apocalittici di ribellioni interne (sul modello di quel che si è visto per il Tibet), e conflitti con le altre potenze globali. Ma c’è anche chi crede che la leadership cinese tenterà di privilegiare l’equilibrio e la mediazione rispetto al caos. In ogni caso la Cina dovrà una volta per tutte fare i conti con l’Occidente, e con la modernità.
Nunziante Mastrolia
Si occupa di relazioni internazionali e sistemi economici comparati. Ricercatore del Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS), cura la sezione dell’«Osservatorio Strategico» e del «CeMiSS Quarterly» relativa a Cina e India.
Chi comanda a Pechino?
Il potere, il consenso, la sfida all’Occidente
recensione di Mario Secomandi - 15 luglio 2008 *
Si sente sempre più spesso parlare della Cina come una prossima superpotenza mondiale destinata con ogni probabilità a surclassare anche gli Stati Uniti. Diventa dunque sempre più imprescindibile andare ad esaminare le caratteristiche della politica e del tessuto socio-economico dell’ex Impero Celeste. Ha un che di inquietante l’impetuosa ascesa del Dragone asiatico: ad una crescita economica fondata sul liberismo sfrenato (tutt’altro che solidale e sociale) si accompagna una leadership politica autoritaria pervasa dall’approccio totalitario e nazional-tecnocratico-populista del Partito comunista cinese (Pcc).
Il progresso e lo sviluppo della Cina fanno perno sulle delocalizzazioni dei processi produttivi e tecnologici delle imprese (segnatamente manifatturiere) dei Paesi occidentali (ciò che ha per conseguenza favorito nei territori di questi ultimi maggiore disoccupazione e diminuzione del costo del lavoro) e sul «dumping commerciale e monetario» in capo al Gigante asiatico nei confronti degli Usa. Pechino si trova ad essere l’acquirente di buona parte del debito-deficit nazionale americano. E’ stato l’alto tasso di consumo occidentale, europeo e soprattutto americano ad aver trainato negli ultimi lustri la crescita economica cinese, incentrata dunque sulle esportazioni e sulla propria apertura agli investimenti internazionali. I dati stanno lì a parlar chiaro: oltre la metà dell’intera produzione mondiale di biciclette e giocattoli, la metà di quella di scarpe e di forni a microonde, un terzo di quella di televisioni, condizionatori d’aria e valigeria, un quarto di quella delle lavatrici ed un quinto di quella dei frigoriferi, promana da impianti industriali dislocati in Cina.
Dovrebbe destare una certa attenzione ed apprensione in Occidente il boom informatico e tecnologico perseguito dal Dragone cinese, ciò che favorisce la sua ambizione di matrice neoimperialistica di divenire numero uno al mondo anche come potenza militare. Così come non può passare inosservata la migrazione in territorio cinese di importanti centri di ricerca e laboratori di non poche imprese multinazionali occidentali. Ciò costituisce un volano allo sviluppo di settori nevralgici quali le biotecnologie, le telecomunicazioni, la produzione energetica, il comparto aerospaziale e satellitare e quello dell’aviazione (Pechino ha in animo, fra le altre cose, di rompere il «duopolio» di Airbus e Boeing). I laureati cinesi in ingegneria meccanica, ad esempio, ormai ammontano a circa il doppio degli omologhi statunitensi.
Quale rapporto politico, economico, culturale, l’Occidente può quindi impostare con la Cina? La dottrina più valida sembra essere quella americana, per cui l’allargamento della democrazia è possibile se si spargono un bel po’ di semi di libertà economica sul terreno, benché spinoso, delle nazioni e regimi totalitari. Libertà (economica) chiama sempre altra libertà (politica), rispetto del diritto e democrazia. Bene ha fatto, allora, il presidente americano George W. Bush a fissare con lucidità alcuni necessari, sensati e realistici paletti, affermando che la Cina, più che un partner, rappresenta «un competitore strategico, da sorvegliare e contenere». Non ci si può in altre parole fidare ciecamente di Pechino, vista, tra le altre cose, l’influenza da lei esercitata sulla Corea del Nord, usata come una sorta di arma di ricatto per mantenere una propria supremazia nell’equilibrio geopolitico del Far East.
La sfida più nobile è dunque quella di convogliare la Cina all’ordine - si spera sempre più su scala globale - liberal-democratico. Ma per raggiungere un simile obiettivo pare non si stia rivelando di per sé sufficiente e bastevole il fatto che essa sia entrata nel Wto (Organizzazione mondiale del commercio) e nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Il filo rosso sangue che unisce le tre T, ovvero Tienanmen, Taiwan e Tibet, è la dimostrazione di come si sia, da parte delle élites cinesi impregnate di radicalismo di sinistra, ancora lontani dall’implementare una vera democratizzazione e liberalizzazione del sistema politico. L’oligarchia di partito, ora in mano al presidente Hu Jintao e al premier Wen Jiabao, col potere assoluto e totalizzante che esercita sulla società, pretende teoricamente di creare benessere per il popolo, in un’ottica di pianificazione centralizzata e dirigistica, mentre in pratica continuano a venire represse nel sangue le rivolte dello stesso popolo tese a chiedere un effettivo rispetto delle più elementari forme di libertà e diritti umani.
Molti vedono le Olimpiadi di quest’estate in Cina come un’opportunità, un’occasione di speranza di un volgimento in meglio della situazione. Ma, mentre Pechino vuole prendere la palla al balzo per celare i suoi tanti scheletri nell’armadio e farsi accettare dal mondo occidentale e non, è possibile notare la presenza di elementi non poco grotteschi e singolari in merito agli imminenti Giochi olimpici. Si tratterà quasi certamente di un puro caso; lungi da noi tracciare un nefasto parallelo Berlino 1936-Pechino 2008; ma, a puro titolo di cronaca, è curioso venire a sapere che l’architetto che ha rimodellato la capitale cinese si chiama Albert Speer jr, il cui padre era l’uomo cui Adolf Hitler affidò la costruzione avveniristica di «Berlino capitale mondiale». Anziché aprire maggiori spazi di libertà, trasparenza, giustizia e democrazia, il governo cinese pare si limiti a puntare tutto, in vista delle Olimpiadi, sulla campagna anti-sputo e sulla presa a cannonate delle nuvole per garantire sole e cielo pulito. Suscita un certo rammarico il fatto che vengano visti con fastidio dalle autorità cinesi i reporter che si apprestano, in quei giorni in cui il centro dell’attenzione mondiale sarà lì, ad approfittare della situazione per narrare le cose come stanno in quel Paese.
Sebbene la propaganda del Pcc voglia occultarlo, il sistema capital-comunista cinese si sta rivelando essere una specie di moloch asfissiante, prepotente e nocivo per la sua stessa popolazione. Il marxismo maoista incontra nella Cina odierna una sorta di eterogenesi dei fini: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri (altro che il comunismo dei tutti uguali!). Le tensioni sociali lievitano, visto il crescente divario tra le campagne indigenti, e le città costiere più prospere. Il Pcc si va inoltre caratterizzando come vero e proprio partito del cemento e del mattone: gli espropri selvaggi di terreni nelle campagne e le demolizioni procedono a ritmo serrato. Degrado ambientale, inquinamento atmosferico, assenza di cure mediche, disoccupazione, inflazione, aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e corruzione dei membri del partito, sono solo alcuni tra i cattivi frutti che cadono dall’albero della «quarta generazione» di rivoluzionari oligarchi.
Un segno di speranza è dato tuttavia dal fatto che oggi non siano solo le campagne a ribellarsi: anche la classe media si va dimostrando sempre più propensa a scendere a manifestare contro il governo. La borghesia urbana sta dunque crescendo e maturando, e inizia a chiedere il conto del rispetto dei propri diritti. Con una piccola grande attenzione però: non è detto che l’irrobustimento della classe media spinga necessariamente verso una maggiore democratizzazione politica; il ceto medio basso potrebbe anche cadere nella tentazione nazionalista. E parliamo di un nazionalismo che, come un fiume carsico, potrebbe ricomparire all’interno della società cinese. E’ solo un caso, a tal proposito, che Pechino stia cercando di poggiare la propria crescita economica (forse nel tentativo di smarcarsi dagli Stati Uniti?) non più sulle esportazioni, ma sui consumi interni?
Le due follie
DI BARBARA SPINELLI (La Stampa, 11/8/2008)
Una dichiarazione del Comitato Olimpico Internazionale, diffusa all’indomani della guerra fra Georgia e Russia, riassume molto bene l’epoca in cui viviamo e lo stato mentale che la caratterizza: stato fatto di cecità, ignoranza, stupidità militante, irresponsabilità. «Non è quello che il mondo vorrebbe in questo momento vedere», sentenzia a Pechino il Comitato, e forse non sa quanto è fedele al vocabolario dominante nei governi e nei giornali d’Occidente. Anch’essi non vogliono guardare quel che accade e di conseguenza non lo vedono: non da oggi, ma da decenni. Ci si dichiara delusi, traditi, come se le Olimpiadi non fossero state questo sempre, dalle tirannidi greche antiche fino ai Giochi di Hitler nel ’36: un intreccio di bellezza estatica e di brutture, un fascinoso mito d’armonia poggiato sul duro pavimento di realtà fratricide. Le Olimpiadi sono sempre state un mondo parallelo, e lungo i millenni non hanno mai sostituito il mondo effettivo anche se ne hanno raffigurato le illusioni: l’umanità naviga triste verso lidi di felicità fittizia nelle odi di Pindaro come nella modernità.
Le Olimpiadi del 2008 non sono state infangate. La stupidità umana è un fango che precede il mito anche quando se ne nutre, e la caucasica guerra estiva lo conferma: non si può neppure escludere che i bellissimi simboli d’unità a Pechino siano un’immagine insopportabile per il cuore geloso di Mosca, che vede l’impero cinese affermarsi e il proprio degenerare. Al momento tuttavia Putin sembra vincente.
La Georgia non pare aver ripreso i territori che ritiene suoi e si ritira, Washington che era il principale alleato di Tbilisi cerca di negoziare soluzioni Onu accettabili per Putin. Vacilla infine la strategia occidentale alle periferie russe: l’incorporazione nella Nato di Georgia e Ucraina s’allontana.
Sono quasi vent’anni che non vediamo, non ci prepariamo, non pensiamo veramente la fine dell’impero sovietico. Quest’intermezzo era colmo di premonizioni ma l’abbiamo traversato con occhi bendati e idee defunte: con reminiscenze di Hitler e dei cedimenti democratici del ’38, con lo spirito resuscitato del ’14-’18 e dell’autodeterminazione dei popoli. In questi anni la mondializzazione ha messo le radici, accelerata da Cina e India, ma nessuno strumento è stato apprestato per governarla. L’unica bussola resta il predominio unilaterale americano, la sua presenza sempre più estesa in zone strategiche ricche di petrolio e gasdotti. L’unica lente attraverso cui si guarda il reale è quella dell’equilibrio delle potenze, della balance of power che gioca un nazionalismo contro l’altro. Clinton non è Bush junior ma il suo atteggiamento, come quello di Bush padre, non fu diverso. La fame di controllo sul Caucaso ha accomunato tre presidenze Usa, spegnendo i primi passi russi verso il post-nazionalismo e accrescendo nei suoi dirigenti il senso di umiliazione, offesa, risentimento.
In questa vecchia politica si mescolavano due ideologie. La prima immaginava un mercato mondializzato che poteva fare a meno della politica proprio mentre si moltiplicavano nel mondo conflitti più che mai politici su risorse e petrolio. La guerra in Iraq è stata l’acme del Grande Gioco attorno alle risorse, cui si sono aggiunte le interferenze nel Caucaso, la Nato usata come gingillo di potenza, le basi militari insediate in Asia centrale durante le guerre anti-terrore. La seconda ideologia è il nazionalismo etnico, che è riemerso nel pensiero occidentale cancellando la lezione di due guerre mondiali catastrofiche. L’aggressione serba contro i separatismi jugoslavi è sfociata in una guerra che ha visto l’Occidente intervenire a giusto titolo per evitare carneficine ma senza idea alcuna sulle società multietniche da ricostruire. I cedimenti mentali si sono susseguiti: si cominciò con l’appoggio a nazioni omogenee (l’accordo di Dayton suddivise la Bosnia in tre clan etnici) e si finì con il beneplacito alla secessione del Kosovo nel 2008. La sconfitta Usa ed europea ha inizio allora: se il mondo ragiona come nel ’14, non stupisce che anche Putin manipoli le etnie a proprio vantaggio.
Ora ci si indigna tutti sorpresi, ma quel che succede è una logica conseguenza di queste resuscitate idee defunte. E non voler vedere serve a poco, perché il non-visto esiste pur sempre e non eclissa colpe, omissioni, follie che sono di tutti. Non eclissa innanzitutto le colpe del Presidente georgiano, al potere dopo la Rivoluzione delle Rose del 2003. Il regista Otar Iosseliani, intervistato da La Repubblica, lo chiama «un folle, nel senso letterale del termine»: «Siamo nelle mani di un uomo che non ha la minima idea di come si governa ed è in preda al suo delirio di onnipotenza. È evidente che si è fatto prendere dal panico, abboccando alle provocazioni della Russia». Non meno folle è Putin, «anche se molto più intelligente»: non vuol rassegnarsi alla perdita dell’Urss, non ha mai accettato la sovranità della Georgia. Sono anni che eccita Abkhazia e Ossezia del Sud, ai confini georgiani, russificandole. Quasi tutti gli osseti del Sud hanno ottenuto in questi anni passaporti da Mosca e da Mosca sono tutelati.
Una debole tregua era stata instaurata, ai tempi di Shevardnadze presidente georgiano ed ex ministro degli Esteri di Gorbaciov. Truppe di interposizione erano state schierate nella regione - sulla base d’un accordo russo-georgiano stipulato il 24 giugno ‘92 - composte da russi, georgiani, osseti. È questo ordine che il nuovo presidente georgiano ha violato, aggredendo l’Ossezia del Sud e ignorando due referendum favorevoli all’indipendenza. È probabile non abbia agito da solo, e che nella sua follia ci sia del metodo. È il metodo di chi si sente spalleggiato, se non istigato. Alle sue spalle c’è un’America che mira a un’egemonia senza saperla esercitare; che da anni addestra militari georgiani, finanzia il nazionalismo di Tbilisi, promette l’adesione alla Nato più per accendere incendi che per spegnerli. È la crescente presenza Usa nel Caucaso e in Asia centrale che ha spinto anche il Cremlino alla follia. Senza l’appoggio Usa, Saakashvili sarebbe stato meno avventurista. Il suo metodo è l’attacco bellicoso, visto come sostituto della politica. Nato e Unione Europea sono per lui non strumenti di pacificazione, ma attrezzi di guerra.
Infine c’è l’irresponsabilità, vasta, dell’Europa. Sono anni che alle sue periferie si guerreggia, e ancora non ha preso forma un pensiero forte, convincente per Mosca e le nazioni che per secoli erano nella sfera d’influenza russa. Fra l’offerta d’adesione e l’indifferenza c’è il nulla, e il continuo tergiversare facilita ogni sorta di provocazioni. Non solo: l’adesione è offerta sbadatamente, dimenticando le radici ideali dell’Unione. Si appoggia la sovranità georgiana, ma senza spiegare che la sovranità in Europa non è più assoluta. Si permette al leader georgiano di usare la bandiera europea, e di stravolgerla. Per Saakashvili essa è un arma, più che un ponte. La cultura dell’Unione è del tutto assente nel suo ragionare, e di simile ignoranza gli europei non sono incolpevoli. A Tbilisi come a tanti dirigenti dell’Est non è stato detto che nazionalismo e irredentismo non sono più di casa nella comunità europea, né le Riconquiste che violano tregue. Putin non è d’accordo ma lui, almeno, non sventola la bandiera dell’Unione quando parla. Iosseliani ne è certo: «L’esercito georgiano è convinto di poter vincere, perché immagina di avere alle spalle la comunità internazionale e perché la comunità internazionale lo ha illuso. Così la Georgia si trasformerà in una piazza d’armi che si estenderà all’Abkhazia e poi all’Ucraina, e dove si combatteranno indirettamente le due superpotenze, Russia e Stati Uniti». La guerra è ancora in corso, anche se la sua macchina magari si fermerà un po’. Al posto di guida, intanto, c’è la forza di Putin: forza militare, forza di ricatto energetico, forza di chi scruta il nostro vuoto e non è portato a far altro che profittarne.
L’ora dell’Europa
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 17/8/2008)
In apparenza la storia sembra ripetersi: dopo le divisioni sull’Iraq, anche sulla Georgia gli Occidentali dissentono e l’Europa si divide. Ancora una volta Francia e Germania cercano vie non bellicose, aspirano a un mondo fatto di tregue e regole, si sforzano di opporre al vecchio equilibrio fra potenze, poggiato sulla sovranità totale degli Stati, la cooperazione e il diritto: la missione di Sarkozy a Mosca e Tbilisi è stata il tentativo di salvaguardare tale cultura.
Ancora una volta l’Est europeo, non sentendosi protetto dall’Unione, si schiera con Washington e il suo alleato georgiano. Anche le critiche all’Europa si ripetono: Sarkozy è sospettato di accomodamento - di appeasement - verso Putin; Berlino di asservimento al petrolio russo. Quattro Stati orientali dell’Unione (Polonia e i tre baltici) hanno deciso assieme all’Ucraina di esser presenti a Tbilisi, il 12 agosto, per solidarizzare con Saakashvili, descrivere il Cremlino come nemico assoluto, e condividere le parole di Bush e del candidato repubblicano McCain. Allo stesso modo si sono espressi due intellettuali francesi, André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy, sul Corriere della Sera del 13 agosto. Riproponendo l’appeasement degli Anni 30, l’Europa sfiorerebbe la morte. Non così l’America, la cui parola sarebbe chiara e inflessibile.
La storia tuttavia non è immobile e molto è mutato, dalla fine della guerra fredda. Washington ha alle spalle fallimenti colossali: due guerre ritenute facili e sbrigative, in Afghanistan e Iraq, si protraggono con costi spropositati, tanto che mancano forze per altri interventi. Il suo prestigio mondiale è spezzato, e la sua presenza si è enormemente estesa - creando sotto Clinton e Bush problemi per la Russia nel Caucaso - ma è una presenza di parole, non di fatti.
L’America può spingere a avventure senza esito. Non costruisce ordine, non dissuade. Saakashvili ha preso le parole per realtà, e adesso s’accorge che erano solo parole. È caduto nella trappola russa ma anche nella trappola che gli hanno teso, irresponsabilmente, repubblicani e lobby interessati a inventare nuovi Spiriti del Male da combattere.
Anche per questo è l’ora dell’Europa. È ora di un ordine mondiale che difenda gli Stati nati dalla fine dell’Urss, ma dentro il quale la Russia non si senta estranea, reietta, nuovo nemico esistenziale utile per vincere elezioni. Il realismo che all’America manca, sono gli europei a poterlo mostrare, dopo secoli di nazionalismi. Può darsi che la tregua negoziata dall’Eliseo sia effimera: ma è l’unico tentativo di parlare alla Russia e di evitare che si ripetano i crimini in Cecenia e l’offensiva in Georgia. Il fatto che Washington parli solo con Tbilisi è segno non di forza ma di debolezza.
Segnala un potere senza responsabilità, dunque finto.
È ancora presto per dire chi perderà: se la Georgia che ha sfidato Putin contando su alleati inaffidabili, se l’America che ha costruito vere basi nel Caucaso, se l’Europa di Sarkozy. Fin da ora, tuttavia, alcuni punti son chiari. Nella catena delle responsabilità, Washington ha un ruolo chiave. Sulla Russia, ancora non esiste un’idea approfondita nella Nato che si vuole allargare. Neppure gli europei pensano davvero la Russia. Difficile capire i disastri odierni, se non si affrontano questi tre punti fondamentali.
Al disastro si è arrivati per colpe russe e georgiane, ma chi ha dato alla Russia il senso di poter tranquillamente violare il diritto internazionale e invadere una nazione sovrana sono stati gli Occidentali e gli Usa. È osservando la secessione del Kosovo che Putin ha creduto di poter impunemente, anch’egli, usare il secessionismo contro un’integrità territoriale. Se dal sogno di un ordine regolato da leggi (la kantiana Repubblica Mondiale) si è passati allo scontro hobbesiano fra Stati-Leviatani, è perché questa seconda soluzione resta vincente negli Stati Uniti, e perché la kantiana Europa si fa dividere. L’ordine che essa difende è stato eroso dalle due potenze, e tuttavia resta l’unico funzionante. Anche se imperfetto moralmente (metà Europa l’ha sofferto), anche se fondato sul contenimento dell’avversario e non sulla sua distruzione (la Nato servì a questo) esso ha dato all’Europa regole basate sulla dissuasione, sullo scontro bellico evitato, sul rispetto di reciproche aree di influenza. Quest’ordine è stato giudicato inservibile e immorale dopo il ‘90, e da allora l’America ha cominciato a pensare se stessa come unico egemone senza vincoli, come incarnazione di Roma antica, come garante etico del mondo.
È quello che ha impedito per oltre un decennio di pensare la questione centrale dell’Unione: questione che consisteva non solo nella sua riunificazione ma nel rapporto con la Russia, con le sue frustrazioni post-imperiali, con la perdita di territori posseduti dai primi dell’800, con l’immensità della diaspora russa (16-17 milioni, divisi fra Ucraina, Baltici, Kazakistan, Bielorussia, Caucaso).
Per questo è così importante rimeditare storia e funzioni della Nato. In origine essa fu pensata come strumento vendicativo, e tale torna a essere soprattutto se s’incarnerà nella Lega delle Democrazie che McCain vuol opporre alla «Russia revanscista». Lord Ismay, primo segretario generale dell’Alleanza, sostenne che lo scopo era di «tenere i russi fuori, l’America dentro, e la Germania sotto». E così sarebbe stato, se l’Unione europea non avesse invece riabilitato la Germania, dandole il peso che le fu negato dopo il 14-18. Oggi verso la Russia si vuol applicare lo schema di Lord Ismay. La Russia deve esser «tenuta sotto», umiliata: accerchiandola come disse Cheney anni fa, spingendola alla follia, suscitandole attorno innumerevoli staterelli autoritari, nazionalisti, assoldati nella guerra Usa al terrorismo.
Dopo anni di ideologica esportazione della democrazia, adesso il pensiero neo-conservatore rivaluta geopolitica e realismo: alla storia non si sfugge e pensare a un ordine etico mondiale è insensato, scopre Robert Kagan nel suo ultimo libro (The Return of History and the End of Dreams, 2008), smettendo le illusioni sulla freedom agenda - l’esportazione della democrazia - nutrite dal 1996. Oggi Kagan sostiene che gli Stati si muovono come nell’800, e fanno bene: custodendo sfere d’influenza, difendendo interessi economici tramite espansioni territoriali. Una realtà che l’Europa non vedrebbe, impigliata com’è nel sogno di un ordine mondiale giuridicamente vincolante. Sembra una svolta ma non lo è. Anche quando è realista, Kagan s’aggrappa all’illusione: che l’America abbia il diritto di agire unilateralmente ignorando vincoli e leggi, espandendosi a piacimento in zone d’influenza altrui, senza mai essere imitata. La storia si è vendicata, il suo grande emulatore è oggi la Russia.
Anatol Lieven sul Financial Times ha scritto il 14 agosto che la vittoria russa in Georgia è una fortuna, perché ha scongiurato la catastrofe. Se la guerra avesse avuto luogo quando la Georgia era già nella Nato non saremmo intervenuti lo stesso, e l’Occidente sarebbe a pezzi. Ragione per cui: non bisogna promettere quel che non si può mantenere. Non si possono creare autocrazie pur di ridurre la Russia, tanto più che la Georgia di Saakashvili non è un faro di libertà. Basta sentire chi l’ha frequentata per anni come Lieven. Basta sentire intellettuali georgiani come Devi Dumbadze, che sulla Neue Zürcher Zeitung del 14-8 racconta il maniacale nazionalismo di Tbilisi e i massicci aiuti militari di Washington.
Dumbadze racconta come nella nuova televisione dell’esercito georgiano campeggia una citazione davvero inquietante: «Una volta per tutte dobbiamo capire che mai ci riprenderemo i territori perduti con preghiere ridotte a formalità e speranze nella Lega delle nazioni. Ce li riprenderemo solo con la forza delle armi. Hitler 1932».
Cina, 60 anni di comunismo e Hu Jintao si veste da Mao
Pechino si ferma per la parata: "Il marxismo ci salverà" *
Per celebrare i sessant’anni dalla nascita della Cina comunista, Hu Jintao si è travestito da Mao e ha rilanciato Marx. Il presidente della potenza capitalista che contende agli Stati Uniti la leadership del mondo nel nuovo secolo, di solito, ci tiene al suo aspetto da tecnocrate occidentale in giacca e cravatta. Ieri invece, a sorpresa, si è presentato sulla porta della Città Proibita con addosso la vecchia divisa in panno grigio di Sun Yatsen, padre della rivolta che pose fine alle dinastie imperiali. È l’uniforme adottata poi dai rivoluzionari rossi e indossata da Mao Zedong il primo ottobre 1949 sullo stesso loggiato della Pace Celeste. I vecchi funzionari del partito e i nuovi ricchi businessmen, soli invitati alla Grande Parata dell’Anniversario in piazza Tiananmen, hanno capito subito che questo travestimento a sorpresa anticipava il senso più profondo della decennale liturgia. Hu Jintao, esaurite le sessanta cannonate che hanno scosso una Pechino asserragliata in casa e incollata alla tivù, non ha indugiato a chiarire il messaggio.
Davanti ad una distesa muta di militari, volontari precettati, studenti, bambini e figuranti, ha passato in rassegna il nuovo arsenale atomico "made in China" a bordo di una limousine "Bandiera rossa" e gridando «forza compagni».
In sette minuti di discorso, mentre la tempesta chimica dell’aeronautica scioglieva le ultime nuvole sopra la capitale, ha spiegato che «solo il socialismo può salvare la Cina» e che «le riforme e le aperture possono assicurare lo sviluppo del Paese, del socialismo e del marxismo».
Alcuni diplomatici occidentali, forse frettolosi, l’hanno immediatamente soprannominato il Sessantesimo di "Mao Jintao". Proseguendo a leggere, Hu ha ricordato che il «socialismo alla cinese» è il «solo esempio di successo» per un mondo naufragato nel liberismo.
In un crescendo di patriottismo nazionalista si è appellato all’unità etnica e alla riunificazione del Paese con Taiwan, promettendo che l’autoritarismo di mercato saprà «costruire una nazione ricca, forte, democratica, armoniosa e modernamente socialista». I cinesi hanno compreso l’indicazione interna: il potere non intende compiere alcuna apertura e semmai, sotto choc per il declino americano, è pronto a cedere all’orgogliosa pressione delle frange più ortodosse.
Anche la scenografia di Tiananmen, nuovamente percorsa dai carri armati dopo la strage degli studenti di vent’anni fa, ha lasciato pochi dubbi. Decine di slogan, composti da lettere dorate sostenute da bambini guidati via radio, esortavano di volta in volta a «ubbidire al partito», ad «amare il comunismo», a «essere fedeli al partito», a «essere eroi in battaglia» e hanno augurato «mille anni a Mao e al partito comunista». Retorica da anniversario, ma in nessun’altra potenza globale una dittatura del Novecento potrebbe essere oggi proposta quale modello ideologico contemporaneo, sottratto a qualsiasi controllo, critica e discussione.
Chiaro anche il suggerimento per gli stranieri. Quattro rapide parole: «Pace, cooperazione, prosperità e armonia». E immediatamente dopo, due ore in cui sono sfilati tank, anfibi, cannoni, radar, diecimila soldati con le nuove armi leggere, intercettori, missili mai mostrati, compresi gli intercontinentali con le testate nucleari capaci di colpire le portaerei Nato nel Pacifico. Sopra la Chang’An Jie, che taglia in due la capitale, hanno volato (ma non sfrecciato) caccia e ricognitori invisibili.
Sessant’anni fa l’armata di Mao era una massa di partigiani esausti, affamati, decimati e armati dall’Urss. Ieri la Cina ha voluto mostrare che il più numeroso esercito del pianeta è ormai tecnologicamente autonomo e avanzato. E che Pechino, nonostante due decenni di embargo ufficiale nelle armi, sarà presto nelle condizioni di contendere a Washington non solo la leadership monetaria, ma anche quella militare.
Stabilità del potere, contrasto violento del dissenso e delle aspirazioni democratiche, determinazione a incrementare la crescita economica e a conquistare la guida politica del mondo investendo sul rinnovamento dell’arsenale atomico, sono i segnali accuratamente confusi nello show patriottico da cui, misteriosamente, è risultata esclusa la popolazione.
Per «ragioni di sicurezza» tutti quelli che contano ieri erano in posa fotografica in piazza Tiananmen. Tutta la Cina stava invece, impaurita, a guardare dal divano. Tra i due universi, apparsi ignari l’uno dell’altro, una distesa di strade deserte, palazzi sbarrati, tetti presidiati da telecamere e cecchini, quartieri inaccessibili da giorni. Tibet, Xinijang e dissidenti sono isolati da tempo: nessuno ha così compreso un tale «allarme terrorismo».
La tensione e l’assenza della gente hanno però tolto alle celebrazioni la "eroica commozione" di uno spettacolo costruito sul mito dei reduci della Lunga Marcia. Quattro soli brividi, leggeri. I plotoni di soldatesse, con gonna fucsia sopra il ginocchio e stivaloni bianchi, che hanno scosso un labbro di Hu Jintao. L’apparizione, al suo fianco, di un Jiang Zemin più che invecchiato. Gli insistiti stacchi tivù su Xi Jinping, dato come prossimo successore, e l’assenza del contendente Li Keqiang.
Infine l’oblìo su Zhao Ziyang, segretario nel sanguinoso `89, dimenticato dallo speaker che ha letto l’elenco dei leader. Solo i carri allegorici, simbolo di regioni, minoranze, emergenze della natura e aspirazioni sociali, hanno trasmesso non slogan, ma la sensazione di una consapevolezza seria dei problemi di oggi.
Un lampo, in stile carnevalesco, prima del gran finale. Hanno sfilato in processione quattro ritratti giganteschi, svettanti tra i fiori, mentre migliaia di picconi e palloncini venivano finalmente mollati dai loro custodi: Mao Zedong, Deng Xiaping, Jian Zemin e lo stesso Hu Jintao, che ha applaudito la propria immagine, qui in versione occidentale. Gli invitati si affrettavano ai pullman, ma il presidente travestito da Mao si è fermato a guardare le quattro icone allontanarsi verso il mausoleo. E’ parso un congedo, personale e storico.
di Renata Pisu (la Repubblica, 02.10.2009)
Hu Jintao si è messo la giacca alla Mao. Chissà quanto se ne è discusso in seno al Politburo del Comitato Centrale del Pcc. Niente va trascurato, figurarsi l’abito. Ma è stato Hu Jintao a pretendere di essere l’unico a indossarla? Sarebbe bello poter dire che "ognuno ha i suoi gusti", purtroppo non stanno ancora così le cose in Cina.
Si trascura in una simile parata il particolare dell’abbigliamento? Via, quella giacca ha una storia troppo lunga. La lanciò nel primo decennio del secolo scorso il Padre della Cina moderna, il troppo spesso dimenticato Sun Yatsen che, per la foggia, si ispirò alle divise degli studenti giapponesi che si richiamavano a quelle dei militari tedeschi.
Era un capo che rispondeva alle esigenze di modernità senza aderire alle fogge dell’Occidente e, durante gli anni della Repubblica del Guomindang, la giacca venne adottata da tutti i funzionari civili. Poi anche i comunisti vestirono la "giacca nazionale" e non la abbandonarono più.
Negli anni sono state apportate modifiche non di poco conto. Per esempio, le tasche esterne erano tre, diventarono quattro per aderire al principio cinese di equilibrio e simmetria: i bottoni erano sette, si ridussero a cinque così da rappresentare i cinque rami del Governo come stabiliva la Costituzione della Repubblica nazionalista; e i tre bottoni del colletto erano, si disse, il simbolo dei Tre Principi del Popolo, la dottrina di Sun Yatsen, e cioè indipendenza, sovranità e benessere del popolo.
La Cina ha raggiunto i primi due obiettivi, ma il terzo? Se dovessimo credere alla simbologia dei tre bottoncini, quella giacca Hu l’ha indossata a proposito, come a dire "E il terzo principio, compagni?" I "compagni" attorno a lui, sugli spalti di Tiananmen, erano tutti in giacca e cravatta. Cravatta rossa comunque, di ordinanza.