Geo-politica-mente...

L’ASIA E LA MARGINALIZZAZIONE DELL’OCCIDENTE. Una nota di Martin Jacques - a cura di Federico La Sala

giovedì 7 agosto 2008.
 

Quest’Occidente non capisce l’Asia

di Martin Jacques(Corriere della Sera, 07.08.2008)*

Siamo solo a metà del 2008, eppure quest’anno ha già visto un considerevole spostamento dei rapporti di forza a livello globale. Se la mentalità dei Paesi occidentali, invece, resta ferma immobile e crede ancora di poter dettare regole a tutti, ciò non sorprende: è stato effettivamente così per tanto tempo che nessuno ha mai pensato di mettere in dubbio tale superiorità. L’Occidente presume tuttora di avere dalla sua parte diritto e potere, di sapere sempre quel che occorre fare in ogni circostanza e non esita, all’occorrenza, di imporre agli altri tanto la sua saggezza politica che la sua rettitudine morale. C’è però un intoppo: l’autorità dello sceriffo globale va sgretolandosi inesorabilmente.

Quest’anno ci ha presentato due esempi clamorosi: il primo è stato la Birmania (o Myanmar, per l’esattezza). Siamo tutti d’accordo che il Paese è governato da un regime odioso. Tuttavia, in seguito al passaggio del ciclone, il resto del mondo si è trovato ad affrontare il dilemma di come soccorrere i milioni di vittime di un disastro umanitario. Com’era prevedibile, l’Occidente ha subito rispolverato l’idea di un intervento militare ed ha fatto partire gli incrociatori a pattugliare le coste della Birmania, mentre già si parlava di atterraggio di elicotteri e di mezzi anfibi da inviare nel delta dell’Irrawaddy.

Era un’idea chiaramente assurda. L’alleato più stretto della Birmania è la Cina, con la quale condivide un lungo confine; il paese è inoltre membro dell’Asean (l’Associazione di nazioni del sud est asiatico). La Cina e l’India, come tutti i paesi dell’Asean presenti nella regione, si sono opposte fermamente all’impiego della forza militare.

Il fatto che l’Occidente non sia stato in grado di cogliere le realtà geopolitiche dell’Asia orientale - oggi la più vasta regione economica del mondo - e adattare di conseguenza la sua politica, ha svelato come pregiudizi e atteggiamenti antiquati siano ancora, purtroppo, ben radicati. Anche quando la sola idea appare ridicola e impraticabile, il richiamo all’intervento militare da parte sia dei media che dei leader politici sembra essere l’unico riflesso possibile. In realtà, la Birmania ha dimostrato i limiti della potenza occidentale e la necessità che l’Occidente riconosca questi limiti, dimostrandosi disposto a rispettare e a collaborare con la regione, anziché puntare subito all’intervento armato, scavalcando i governi locali come chissà quale grande imperatore.

Il secondo esempio è lo Zimbabwe. E qui siamo davanti a una realtà assai dolorosa per la psiche britannica. Siccome soffrono di una forma acuta di amnesia coloniale, gli inglesi continuano a credersi detentori di qualche diritto inalienabile a rinfacciare allo Zimbabwe i suoi fallimenti. Ma in quanto a responsabilità per l’attuale situazione del Paese - dall’aver tollerato la dichiarazione di indipendenza di Ian Smith fino alla vergognosa normativa agraria che assicurava ampi privilegi ai coloni bianchi - l’Inghilterra non è seconda a nessuno. Malgrado tutto questo, gli inglesi vogliono ancora sbandierare una superiorità morale inattaccabile nei confronti dello Zimbabwe.

Eppure, anche questo episodio ha svelato l’impotenza inglese - e occidentale - nel modo più brutale. Dopo il gran parlare che se n’è fatto al vertice del G8, il tentativo anglo- americano di inasprire le sanzioni contro lo Zimbabwe è naufragato presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove è stato bocciato da Russia e Cina e contrastato dal Sudafrica e da altri due Paesi.

Nel frattempo, il presidente sudafricano Thabo Mbeki, i cui sforzi per favorire un qualche accordo erano stati ampiamente e sdegnosamente dileggiati, ha messo a segno una grande vittoria diplomatica. Nominato mediatore per lo Zimbabwe dalla Comunità per lo sviluppo dell’Africa del sud (Sadc), Mbeki è riuscito a portare al tavolo dei negoziati sia il partito Zanu-PF di Robert Mugabe che l’Mdc di Morgan Tsvangirai.

L’Occidente non è più in grado di offrire soluzioni, sotto la pressione crescente della forza, della competenza e della sicurezza di sé conquistate dai Paesi emergenti. Al posto della potenza occidentale universale, oggi assistiamo alla nascita della regionalizzazione e delle soluzioni regionali. Ciò riflette i cambiamenti più ampi già in atto nell’economia globale. Il potere economico sfugge dalle mani dei paesi del vecchio G7, dirigendosi verso le cosiddette economie Bric (Brasile, Russia, India e Cina), o, per essere più accurati, verso un numero sempre maggiore di economie in via di sviluppo. Il G7 rappresenta oggi meno della metà del pil mondiale e perde quota costantemente. Tali spostamenti economici fanno da preludio ineluttabile a mutamenti paralleli nel potere politico.

I due esempi qui discussi sono tipici di questo processo: la Birmania si è rivolta a Cina e India, oltre che ai Paesi dell’Asean, mentre lo Zimbabwe ha fatto affidamento al Sudafrica, ma anche alla Russia e in modo speciale alla Cina, che in questa occasione si è sentita incoraggiata a svolgere un ruolo più incisivo sul palcoscenico mondiale. Appare inoltre evidente il fallimento complessivo della politica estera anglo-americana. All’epoca dell’invasione dell’Iraq, non si sospettava neppure un imminente declino del potere economico occidentale. Al contrario, leader politici come Bush e Blair apparivano convinti di assistere agli albori di una nuova era di rinnovata potenza occidentale.

Mai sottovalutare la capacità dei leader politici a fare errori madornali in materia di storia. L’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan è servita piuttosto ad accelerare il declino dell’Occidente: essa ha mancato del tutto gli obiettivi prefissati ed ha evidenziato la reale impotenza dei paesi occidentali. In contrasto, stati «canaglia» come Corea del Nord, Zimbabwe e forse anche l’Iran, lanciano chiari segnali di reagire positivamente a ben altro genere di trattamento. L’interventismo liberale ha fallito, eppure l’Occidente non mostra affatto di aver capito il nuovo mondo, né di saper vivere secondo le sue regole.

L’Occidente resta aggrappato a convinzioni non più corrispondenti alla realtà, si rifiuta di riconoscere l’erosione della sua autorità e, di conseguenza, mal si adatta alle nuove circostanze e sembra incapace di trovare risposte innovative. Questo è certamente vero nel caso dell’Inghilterra. Il ministro degli esteri inglese si limita a ripetere i cliché e le sciocchezze del governo Blair, ormai screditato: non si è sentita finora, da parte sua, un’idea, una proposta o un’intuizione qualsivoglia a indicare che abbia compreso la natura di questo nuovo mondo. La politica estera inglese resta invischiata nel suo passato e nei suoi legami con gli Stati Uniti. In tali condizioni, l’Inghilterra si ritroverà trascinata - volente o nolente - nella nuova era, sempre più emarginata e delusa, ridotta al ruolo di spettatore anziché architetto, a brontolare e recriminare a vuoto.

*Ricercatore alla London School of Economics © Guardian News & Media 2008 (traduzione di Rita Baldassarre)


Sul tema, nel sito, si cfr.:

L’INDIA E IL SISTEMA DELLE CASTE. A Mumbai (la ex Bombay), una grande manifestazione dei dalits (gli intoccabili) per rendere omaggio ad AMBEDKAR, uno dei principali artefici della costituzione indiana.


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