INDIA: IN MARCIA GLI ULTIMI DELLA TERRA *
NEW DELHI - Almeno ottocentomila persone si sono radunate oggi a Chaityabhoomi, nella zona centrale di Mumbai (la ex Bombay) per rendere omaggio ad Ambedkar, considerato il padre dei dalits (gli intoccabili), nel giorno del cinquantesimo anniversario della sua morte. Massima allerta e ingente il dispiegamento delle forze di sicurezza dopo le violenze e gli scontri dei dalits con la polizia della scorsa settimana, a seguito della profanazione della statua di Ambedkar a Kampur, che hanno provocato la morte di due persone e il ferimento di un’altra quarantina. In ricordo dell’eroe dalit oggi il Governo ha dichiarato una giornata di festa per scuole e uffici.
Molti anche i negozi e le aziende private che sono rimaste chiuse, anche per motivi precauzionali. Sin dalle primissime ore del mattino migliaia di persone si sono messe in fila per partecipare alla manifestazione nella zona di Shivaji Park dove Ambedkar, uno dei principali artefici della costituzione indiana, fu cremato.
La polizia ha predisposto, sin da ieri, numerosi dispositivi di sicurezza chiudendo al traffico strade in zone considerate a rischio. "Tutte le strade coinvolte nella manifestazione resteranno chiuse al traffico fino alla mezzanotte di mercoledì - aveva dichiarato ieri sera Satish Mathur, commissario di polizia a Mumbai - e il parcheggio sarà proibito in tutta la zona fino a giovedì 7 dicembre".
Contrariamente alle previsioni e ai timori della vigilia,tuttavia, oggi non sono stati segnalati incidenti a Mumbai e nelle città vicine. Nell’Università di Allahabad nello stato settentrionale dell’Uttar Pradesh, tuttavia, un’altra statua raffigurante Ambedkar è stata trovata danneggiata.
In segno di protesta contro la nuova profanazione un gruppo di studenti ha manifestato dinanzi all’Università, bruciando una immagine di Mulayam Singh Yadav, il Primo Ministro dello Stato, accusandolo di essere responsabile "degli insulti all’orgoglio dalit". Nonostante la costituzione indiana abbia abolito la divisione in caste tuttora in India, di fatto, esiste una forte discriminazione sociale basata sull’appartenenza di casta.
Una larga parte di cittadini indiani appartenenti alle caste inferiori continua a dover combattere contro i pregiudizi e le minori possibilità concesse loro rispetto a quelle riservate agli indiani di casta più elevata (come ad esempio i bramini).
Nonostante il passare degli anni, Ambedkar rimane per i dalits il simbolo più importante delle loro lotte di classe. Dalit lui stesso, grazie alle sue capacità, Ambedkar riuscì a studiare e a farsi ammettere al college ma subì comunque sempre umiliazioni e discriminazioni dovute alla sua origine. Dopo aver studiato a New York alla Columbia University tornò in India dove si unì al movimento indipendentista e fu nominato membro della commissione incaricata di redigere la costituzione indiana, battendosi per la abolizione del sistema delle caste.
*ANSA » 2006-12-06 17:29
SCHEDA (fls):
Siti sui dalit
a cura di Clelia Bartoli *
"Dalit" è il termine che si è recentemente affermato come denominazione politicamente corretta per indicare coloro che, all’interno del sistema delle caste, occupano la posizione più bassa e miserabile. Si tratta di una porzione consistente della popolazione dell’Asia meridionale (solo in India sono circa 160 milioni di persone).
In Europa i dalit sono generalmente noti come intoccabili (o anche paria, fuoricasta, harijan). L’’intoccabilità’ è quella pratica, inerente all’impianto castale, che considera altamente contaminanti per i membri delle caste superiori i rapporti con i soggetti segnati da un’impurità permanente. In particolare è vietato ogni, pur lieve, contatto fisico (anche se frequenti sono poi gli abusi sessuali a scapito di donne intoccabili), la commensalità, l’usufruire di stesse fonti di acqua (come pozzi, rubinetti e fontane pubbliche), l’accesso ai templi e la partecipazione alle cerimonie religiose.
Coloro che sono segnati dal marchio dell’intoccabilità non costituiscono però un gruppo omogeneo, il termine raccoglie gli esponenti di centinaia di caste deputate ai lavori più umili e impuri, tant’è che spesso l’intoccabilità è praticata anche tra membri di differenti caste di intoccabili. Le occupazioni più tipiche sono quelle di spazzino, conciatore, spurgatore di fogne, addetto alla cremazione dei cadaveri, bracciante agricolo, se non, a volte, di vero e proprio schiavo.
La condizione degli intoccabili è generalmente contrassegnata da estrema povertà, precarietà igienico-sanitaria e diffusa ignoranza, ed è aggravata dal disprezzo rivolto loro dalle caste superiori e da frequenti maltrattamenti e atrocità, perpetuati gratuitamente o a causa di infrazioni, anche involontarie, del loro stato di segregazione.
Fin dalla seconda metà del Diciannovesimo secolo si è andato diffondendo un variegato movimento di riscatto degli intoccabili. Sebbene molti sono stati gli attori del movimento dei dalit, il leader principale è senz’altro B.R. Ambedkar (1981-1956). Questi, intoccabile di nascita, fu una figura di notevole spessore intellettuale e politico, autore di un’opera imponente sui temi dell’intoccabilità, tanto erudita quanto divulgativa; giunse ad essere ministro della giustizia nel primo governo successivo all’indipendenza e membro della costituente.
Grazie soprattutto all’intervento di Ambedkar, la Costituzione indiana, all’articolo 17, vieta la pratica dell’intoccabilità e ulteriori misure legislative sono intervenute a bandirla nelle sue varie articolazioni e a tutela di coloro che la subiscono. Tuttavia si è ancora distanti da una reale estirpazione di questo costume, anzi, pare che la crescita della consapevolezza tra gli intoccabili dei loro diritti e un miglioramento delle condizioni di vita di molti di loro, abbia sollecitato le ire e le rivendicazioni di altre porzioni della società hindu, provocando scontri e sanguinosi incidenti. Inoltre, i provvedimenti legislativi all’interno del quadro della ’discriminazione compensatoria’, ossia di quelle misure legislative promosse per sanare le disuguaglianze ereditate dal sistema castale, hanno avuto l’effetto perverso di rendere ancora più evidenti gli intoccabili, esponendoli maggiormente alla discriminazione ordinaria.
Altro aspetto rilevante della questione degli intoccabili è il tema della religione. Ambedkar, infatti, avendo sempre biasimato la dottrina hindu per la sua colpevolezza nell’aver diffuso e mantenuto i pregiudizi ’castisti’, causa dell’oppressione dei dalit, decise, poco prima di morire, di abiurare l’induismo e abbracciare il buddhismo (rivale storico dell’egemonia sacerdotale hindu). A questa conversione, più politica che mistica, seguirono le conversioni, non necessariamente al buddhismo, di masse considerevoli di dalit.
La raccolta di siti che segue testimonia il fermento politico e culturale che la causa dei dalit è in grado, tuttora, di stimolare e il crescente interesse internazionale che questa sta riscuotendo [...]*
*Per ulteriori approfondimenti, si cfr.:
JURA GENTIUM. CENTRO DI FILOSOFIA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE E DELLA POLITICA GLOBALE - (fls)
India
“Basta agli abusi del maschilismo”
Così nasce il Partito delle donne
di Carlo Pizzati (La Stampa, 19.12.2018)
Non dovrebbe sorprendere nessuno se nel peggior Paese al mondo per le donne (che secondo l’ultimo sondaggio Thomson Reuters è appunto l’India) sia stato inaugurato ieri un Partito Nazionale delle Donne. Candidate, elettrici, militanti: sempre e solo donne, con qualche apertura ai politici maschi se vorranno appoggiare il programma con i loro voti.
Così, dopo 102 anni della nascita dall’omonimo partito che in America vide sbocciare il movimento delle suffragette, ecco che in India un coraggioso medico 36enne, Swetha Shetty, inaugura una campagna politica con un obiettivo preciso: una quota rosa che porti le presenze femminili nella Camera Alta del Parlamento dall’attuale 11 per cento a un 50 per cento obbligatorio.
La presidente Shetty dice di poter contare già sul sostegno di un milione e 450 mila voti del Mahila Samiti, il partito dei cosiddetti «intoccabili» dello Stato del Telangana.
«Rappresentiamo prima di tutto le vittime sfruttate che hanno sofferto in questo sistema maschilista. Quelle che hanno girato da sportello a sportello aspettandosi un aiuto senza ottenere niente, quelle che hanno sofferto gli abusi domestici o stanno lottando contro l’establishment», ha dichiarato alla presentazione del partito Shetty, facendosi ritrarre accanto a una vittima di stupro e un’altra di un attacco con l’acido.
Le prime scintille del National Woman’s Party hanno brillato già nel 2012, quando lo stupro e assassinio di Jyoti Singh in un autobus a Delhi scatenò proteste di massa.
«Il mondo politico in India è stato dominato profondamente dai maschi. Ci siamo sempre sentite escluse», ha commentato Shetty, dimenticando forse l’ex premier Indira Gandhi e la sua potentissima nuora Sonia Gandhi, di origini italiane, oltre a una serie di governatrici donne che negli anni hanno amministrato diversi stati. «Ora c’è la necessità di un tocco femminile più delicato. Il potere alle donne porterà a una gestione più equa dei paradossi del nostro tempo».
Unica pecca poco femminista del nuovo partito è forse il sottotitolo: «Il partito delle madri». Un facile slogan che rischia di urtare chi nel femminismo occidentale rigetta l’idea di donna sempre e solo come madre. Ma era un concetto irresistibile in India, Paese dove il ruolo della mamma è forse paragonabile a quello che ha ancora in Italia.
A parte questo dettaglio demagogico, il movimento è molto determinato e con le idee chiare. «Non ci fermeremo fino a quando non vedremo che le donne sono rappresentate con eguaglianza in Parlamento», promette il dottor Shetty, «e, dopo, porteremo la quota del 50 per cento obbligatorio in tutti gli altri ambiti della società».
Peso politico? La partita è aperta. Il BJP, partito di governo con il premier Narendra Modi alla guida, ha sofferto alcune batoste nelle recenti votazioni in alcuni stati indiani. Se il National Woman’s Party riuscirà a raccogliere una decorosa percentuale di voti, potrà puntare al ruolo di ago della bilancia nelle importanti elezioni nazionali del 2019 e dimostrare che il futuro è davvero donna.
Il record.
Il premier indiano Modi inaugura la statua più alta del mondo
Misura 182 metri e ritrae Sardar Patel, lo statista che, subito dopo il 1947, riuscì a creare l’Unione India riunendo i 562 piccoli Stati allora esistenti
di Redazione Esteri (Avvenire, 31 ottobre 2018)
Il primo ministro indiano Narenda Modi ha inaugurato questa mattina a Kewadyia, nello Stato del Gujarat, la statua più alta del mondo, 182 metri. Il gigantesco monumento, chiamato Statua dell’Unità, ritrae Sardar Patel, lo statista che, subito dopo il 1947, riuscì a creare l’Unione Indiana riunificando i 562 piccoli Stati preesistenti sul territorio. La data scelta per l’inaugurazione coincide con il 143/o anniversario della nascita dello statista.
Alta il doppio della Statua della Libertà, la figura di Patel svetta nel distretto di Narmada, sull’isoletta di Sadhu Bet, lungo il fiume, vicino alla diga di Sardar Sarovar. Nel suo discorso inaugurale, il Premier ha affermato che la statua è il simbolo delle capacità tecniche e ingegneristiche del Paese, e ha risposto alle polemiche che hanno anticipato il taglio del nastro accusando i critici di applicare lenti viziate dalla politica all’omaggio ad un gigante della storia indiana.
La decisione di innalzare la gigantesca opera, che dovrebbe attirare nell’area milioni di visitatori, è stata presa quando Modi era governatore del Gujarat. Nei giorni scorsi, tra gli altri, i capi di decine di villaggi tribali del distretto hanno indirizzato una lettera a Modi scrivendo che non avrebbero festeggiato quello che considerano un grave attacco all’ecosistema della regione, e uno spreco di risorse pubbliche, mentre quasi ovunque, nell’area,mancano ancora i servizi essenziali.
Per costruire la statua, realizzata a tempi record, in 33 mesi, sono state utilizzate 70.000 tonnellate di cemento, 24.500 di acciaio e 1.700 di bronzo. All’altezza di 135 metri c’è una galleria per osservare dall’alto il paesaggio a 360 gradi, nel basamento è allestito un museo dedicato alla vita di Patel.
Pk, l’indiano che andò in Svezia in bici per amore L’artista in Italia, "siamo schiavizzati dalle nostre menti"
di Mauretta Capuano *
ROMA - "Seguire il cuore e credere nel potere dell’amore". Se il consiglio viene da un uomo partito dall’India in bicicletta per raggiungere il suo amore in Svezia, bisogna crederci. E non si può neppure dubitare che le favole possano diventare realtà ripercorrendo la storia dell’indiano Pikay, cresciuto in una famiglia di intoccabili in un villaggio sperduto nell’Est dell’India.
"Siamo schiavizzati dalle nostre menti che ci controllano. Se seguiamo la mente pensiamo solo ad accaparrare cose. Il cuore è molto più importante" dice all’ANSA Pikay. Artista di strada, conosciuto come PK, famoso per i suoi ritratti, Pikay è diventato ora il protagonista di un libro, ’L’incredibile storia dell’uomo che dall’India arrivò in Svezia in bicicletta per amore’ del giornalista e scrittore Per J. Andersson, pubblicato in Italia da Sonzogno nella traduzione di Giulia Pillon e Alessandra Scali, tradotto in 18 lingue, anche il mandarino, di cui sono stati venduti i diritti per farne un film.
"Non avrei mai immaginato, mai avrei avuto la presunzione che la mia storia meritasse di essere raccontata in un libro" racconta Pikay al suo arrivo a Roma con la moglie svedese Lotta che fin da bambina sognava l’India. "Quando Per J. Andersson ha scritto il primo articolo su di me la gente gli continuava a chiedere raccontaci di più. Si è convinto che questa storia andava davvero raccontata dopo il nostro viaggio insieme in India. Ci sono voluti sei anni per completare la stesura" spiega PK che ha fatto anche un ritratto a Valentina Tereškova, la prima donna ad andare nello spazio. "La notizia del ritratto fu riportata sui giornali locali con il titolo: ’L’uomo della giungla incontra la donna dello spazio’. Si è incuriosita anche Indira Gandhi, ho incontrato il suo segretario, e poi siamo diventati amici. Era una donna forte, uno scorpione" racconta PK che ora ha 70 anni.
E proprio un ritratto è all’origine del colpo di fulmine con Lotta a New Delhi, nel 1975. Quando la giovane turista della buona borghesia svedese compare davanti a PK e gli chiede di ritrarla a lui tremano le mani, non riesce a dipingere. Il ritratto poi andrà perduto nel viaggio di ritorno di Lotta: "a Kabul - racconta - mi rubarono la valigia". Da quel momento PK non vuol fare altro che stare con lei e per raggiungerla, visti i pochi soldi per il viaggio, percorre oltre 12 mila chilometri in bicicletta dall’India alla Svezia. Pedala fino allo sfinimento per cinque mesi attraverso l’Afghanistan, l’Iran, verso l’Europa.
"Era l’epoca, come cantavano i Beatles, di love and peace, del flower power" aggiunge. "E’ stato un viaggio di lezioni, in cui ho appreso molto e adesso è diventato un viaggio di benedizione. Quella con Lotta è una storia d’amore che si diffonde come gli anelli sull’acqua. Fa sentire a tante persone che la speranza esiste. Non mi sento il padrone di questa storia così come avviene con il mio corpo, non ne sono il proprietario. E’ un dono che sto imparando a condividere perchè molte persone possano sentirsi meglio" dice Pikay che vive in Svezia da 42 anni.
"In India stiamo facendo beneficenza in alcune scuole pubbliche, soprattutto quelle dove vengono accolti gli intoccabili, fuori casta, come me. Lotta ogni tanto va a verificare come stanno procedendo le cose" racconta Pikay che ha anche sofferto per la sua condizione di intoccabile. E’ padre di due figli, è stato insegnante di pittura in Svezia ed ora è in pensione e viaggia per il libro con la sua Lotta.
Un viaggio come quello compiuto da Pikay negli anni Settanta ora sarebbe impensabile anche per la situazione politica dei paesi che ha attraversato, ma Pikay guarda sempre al cuore. "Se c’è la volontà c’e’ sempre un modo per fare le cose, anche se oggi è più difficile. I pensieri della nostra mente sono pieni di paure e di dubbi che ci bloccano, sono i nostri nemici. Negli anni Settanta, quando ho viaggiato, non avevo paura perchè non sapevo quanto lontano dovessi andare. Meglio non sapere troppo. Essere ciechi come quando si è innamorati è una cosa positiva" sottolinea il protagonista del libro che in Svezia è uscito il 14 febbraio del 2013 e in Germania ha venduto mezzo milione di copie.
* ANSA, 06 giugno 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
La rivolta degli Intoccabili di Gandhi: “Picchiati e discriminati per legge”
India, colpo di spugna della Corte contro chi perseguita un Dalit. In tutto il Paese scoppiano le proteste della casta più umile: sei morti
di Carlo Pizzati (La Stampa, 03/04/2018)
Chennai (India).
Hanno riempito le strade armati di spade, bastoni, aste portabandiera, mazze da cricket e da baseball. Tra spari, incendi e scontri con la polizia, hanno bloccato strade principali, uffici governativi e più di cento treni in diversi Stati dell’India. A terra, alla fine di un lunedì di fuoco, sono rimasti i corpi di sei Dalit, che in Occidente chiamano ancora con il termine derogatorio di «Intoccabili», la casta più umile di un sistema dove in teoria la discriminazione di casta non deve esistere più per legge.
Sono decine i feriti negli scontri scatenati dallo sciopero generale e dalla serrata nazionale, promossi dalla casta più maltrattata d’India: esami di maturità rimandati nel Punjab, morti nel Madhya Pradesh, Uttar Pradesh e Rajasthan, treni bloccati nel Bihar.
Il verdetto
La causa dell’esplosione di rabbia nel sub-continente è una decisione della Corte Suprema di Delhi che, con un verdetto emesso il 20 marzo, ha proibito l’arresto immediato di persone accusate di violenza contro i Dalit. Per capirci meglio, ciò significa che, prima, chiunque venisse colto in fragrante a picchiare o tentare di uccidere un Dalit veniva arrestato immediatamente. Ma, ora, la Corte Suprema ha diluito l’efficacia di una legge creata per tutelare i Dalit, lasciando un margine più ampio a chi commette violenze contro di loro.
In teoria è una decisione garantista, in quanto la Corte specifica che sarebbe più prudente che fosse un alto ufficiale di polizia a verificare i fatti prima di ordinare un arresto. Ma nel contesto indiano il segnale è chiaro: gli appartenenti alla casta più umile saranno meno protetti dalla legge.
I divieti
Stiamo parlando di una categoria che comprende 200 milioni di cittadini, un sesto della popolazione indiana, persone spesso trattate come servi, gente che per i «casteisti» deve solo pulire le fogne, le strade, le case. Sono cittadini indiani a cui, in realtà, nella vita reale, lontana dai dettami della Costituzione, è spesso proibito bere dallo stesso bicchiere, anche se lavato, di quello di un appartenente a una casta più alta, e a cui è proibito addirittura sedersi nelle stesse seggiole di chi è di casta più elevata. L’India di oggi è ancora così, nonostante la Carta costituzionale consideri inequivocabilmente fuorilegge queste discriminazioni.
Annacquare le norme
Il leader dell’opposizione Rahul Gandhi, figlio di Sonia Gandhi, ha criticato il governo per non essersi opposto con abbastanza fermezza a questa svolta legislativa: «Perché annacquare una legge che protegge i Dalit proprio quando le atrocità nei loro confronti sono in aumento?».
I dati gli danno ragione. Secondo il National Crimes Record Bureau, l’ente che documenta i crimini in tutto il Paese, da quando il partito dei fondamentalisti indù del Bjp è al potere, le violenze contro i Dalit sono aumentate. E il 90 per cento dei 145 mila casi di violenze anti-casta è ancora in attesa di processo.
Per entrare nell’assurdità del contesto, nel Gujarat occidentale la settimana scorsa un Dalit è stato picchiato a morte solo perché era in possesso di un cavallo. Che era suo. Regolarmente acquistato. Ma secondo gli estremisti, un Dalit non può né salire, né essere proprietario di un cavallo, prerogativa unica delle caste più alte.
Già nel gennaio scorso, i Dalit si erano scontrati con i fondamentalisti a Mumbai, con conseguenti feriti e danni. Questo perché da due secoli i Dalit celebrano un’antica battaglia tra gli imperialisti britannici e la casta indù dei Peshwas. All’epoca, i Dalit combatterono dalla parte dei britannici e contro gli oppressori induisti. E quindi i Dalit fanno annualmente festa a favore degli ex colonizzatori britannici, scontrandosi sempre, e quest’anno anche con uno sciopero, manifestazione e botte, contro i discendenti delle caste più alte.
Delusione politica
Sullo sfondo c’è in realtà una profonda e seria delusione politica. Alle elezioni del 2014, alcune associazioni Dalit avevano sostenuto il premier Narendra Modi, credendo forse nella sua promessa di trasformazione e modernizzazione dell’India oltre queste antiche e apparentemente inestirpabili divisioni. Le classi più maltrattate avevano creduto che Modi facesse, sì, l’occhiolino ai fanatici induisti avvolti nei mantelli color zafferano, ma che avrebbe in fin dei conti portato più garanzie per gli afflitti, le cosiddette Scheduled Classes.
Così non è stato. Anzi, tutto il contrario. E, nell’era di Modi, le atrocità, gli stupri, le violenze contro la casta più vituperata, mentre la polizia guarda spesso dall’altra parte, si sono invece moltiplicati.
Kausalya, la vedova dai capelli corti sfida l’India dei delitti d’onore
Amava un intoccabile, la sua famiglia l’ha ucciso. Ha vinto in tribunale: è un’eroina
di Marta Serafini (Corriere della Sera, 23.01.2018)
La storia di Shankar e Kausalya potrebbe tranquillamente essere uscita dalle pagine del primo romanzo di Arundhati Roy, «Il dio delle piccole Cose». Ma, come spesso accade quando si tratta del dolore più grande, quello generato dall’ingiustizia, la realtà è capace di superare la narrativa. Tutto ha inizio nel 2014.
Kausalya è figlia di un 38enne imprenditore della casta Thevar, predominante nella regione del Tamil Nadu. Quando lei comunica ai genitori la decisione di diventare una hostess la risposta è secca. «Non se ne parla. Dovresti indossare gonne troppo corte», le dicono. Dopo aver tentato invano di combinarle un matrimonio, mamma e papà costringono la ragazza a iscriversi al college per studiare informatica.
Come racconta la Bbc, Kausalya si annoia. Finché un giorno le si avvicina Shankar, anche lui studente di ingegneria. «Credo di essermi innamorato di te», le dice. Per qualche tempo lei cerca di respingerlo. Sa bene che avere una storia con un intoccabile è impensabile. Shankar è un Dalit, figlio di un contadino, che vive in una capanna in un villaggio della regione.
In India la divisione in caste è stata abolita dalla Costituzione nel 1950 ma la discriminazione nei confronti degli intoccabili è ancora radicata. Per oltre un anno, i due si scambiano messaggi su WhatsApp. Poi iniziano a incontrarsi sull’autobus. Non fanno niente, se non parlare dei loro sogni. Nel luglio 2015 il conducente li denuncia alla famiglia di lei. Risultato, Kausalya viene ritirata dal college e a Shankar viene intimato di tenersi alla larga.
Kausalya scappa di casa e il 12 luglio 2015 si sposa con Shankar. I due vanno alla polizia per chiedere protezione dato che gli attacchi nei confronti dei Dalit sono all’ordine del giorno nella regione del Tamil Nadu (solo nel 2016 sono stati 1.291). «Da oggi se ti dovesse succedere qualcosa non considerarci responsabili», dicono i genitori alla figlia. Nel marzo 2016 il padre assolda cinque sicari, per 50 mila rupie. Kausalya e Shan-kar devono morire. «Volevo mandare un messaggio al mondo», confesserà poi alla polizia. Così in una domenica di sole i due ragazzi vengono accoltellati sotto l’occhio di una telecamera a circuito chiuso di un negozio di Udumalpet. Shankar muore, a causa di 34 ferite. Kausalya si salva ma deve subire numerosi interventi.
«Sono stati i miei genitori». Kausalya trova subito la forza di denunciare mamma e papà e al processo testimonia contro di loro. Fino al verdetto, quando nel dicembre 2017 il giudice, con una sentenza esemplare contro i delitti d’onore, condanna a morte i cinque sicari e il padre. Placare il dolore è difficile, quando le consegnano il telefono di Shankar, Kausalya ritrova le chat degli inizi. «Non so cosa dire, se non che mi manchi». «Anche tu». Kausalya tenta il suicidio. Poi reagisce: si taglia i capelli corti, impara a suonare il tamburo «parai», simbolo dei Dalit, partecipa agli incontri organizzati dai gruppi che combattono contro le persecuzioni nei confronti degli intoccabili. È una battaglia che riguarda 200 milioni di persone in tutta l’India.
Kausalya non è più sola. Con i soldi del risarcimento ha costruito una casa per la famiglia di Shankar e aperto un centro per gli studenti poveri del villaggio. Da vittima si è trasformata in attivista. «L’amore è come l’acqua non lo puoi fermare», dice oggi agli incontri che organizza. E anche se l’ingiustizia rimane, il dolore è un po’ meno forte.
India, la vittoria delle donne: fuori legge il divorzio istantaneo
La Corte Suprema dichiara incostituzionale la pratica diffusa tra i musulmani. Gli uomini non potranno lasciare la moglie pronunciando tre volte una parola
La sentenza della Corte Suprema è stata accolta con grande soddisfazione dalle attiviste indiane. Cinque donne, vittime del «triplo talaq», hanno firmato per prime la petizione depositata alla Corte Suprema
di Carlo Pizzati (La Stampa, 23/08/2017)
È una vittoria per tutte le donne indiane, ma in realtà per tutta l’India, e non solo per le mogli musulmane che hanno accolto ieri con grida di festa la decisione della Corte Suprema di rendere incostituzionale la pratica del «triplo talaq», il divorzio islamico istantaneo.
Al marito bastava pronunciare tre volte la parola «talaq» ovvero «ti divorzio» perché questo avesse valore legale e immediato. E in molti dei casi denunciati negli ultimi anni, i divorziandi non si prendevano nemmeno la briga di dirlo faccia a faccia, ma mandavano una mail, lasciavano una lettera sul tavolo con queste semplici tre parole, o spedivano un messaggio su WhatsApp.
Ciò che è sorprendente è che il voto dei giudici sia stato di 3 contro 2. Le donne ce l’hanno fatta, ma per un soffio. Ora il diritto di divorziare da ubriachi, fuori di sé, o per un capriccio è sospeso. E i giudici hanno dato 6 mesi al Parlamento per trasformare la loro decisione in legge.
Bisogna chiarire che si tratta di un genere di triplo talaq, quello istantaneo, o «talaq-e-bidat» che nella maggioranza dei Paesi islamici è già fuorilegge, ma che in India resisteva fino a ieri. Resta legale l’altro triplo talaq, il «talaq-ul sunnat», che funziona così: il marito dice il primo talaq, ma prima di pronunciare il secondo deve aspettare il successivo ciclo lunare. Se lo pronuncia, allora la moglie si deve preparare al periodo dell’«iddat» che copre tre cicli mestruali. La legge islamica dice proprio così. Se in questo trimestre il marito ci ripensa e si riconcilia con la moglie, bene. Altrimenti è finita.
Secondo la legge islamica, in vigore nelle comunità musulmane indiane, anche la moglie ha diritto a chiedere il divorzio, ma deve restituire per intero la dote pagata dal marito. Siamo ben lontani da una parvenza di parità.
Ieri comunque c’è stata festa tra molte donne indiane, soprattutto tra le cinque coraggiose che hanno firmato per prime la petizione anti-talaq presentata alla Corte Suprema e che ha portato a questo risultato storico. Esultava Shayara Bano, 36enne dall’Uttarkahnd scaricata dal marito con una lettera dopo che i suoceri l’avevano maltrattata per mesi e costretta ad abortire sei volte. Gioiva Ishrat Jahan che dal marito ricevette una telefonata da Dubai, tre talaq e clic. Ed era felice Gulshan Parveen che ha trovato la parola scritta tre volte in un pezzo di carta con un francobollo da 10 rupie, 13 centesimi, ed è stata cacciata di casa con un figlio di 2 anni.
Ma fanno festa anche i politici del partito di governo, il Bjp del fondamentalismo induista dalle forti antipatie anti-islamiche, con il primo ministro Narendra Modi che ha twittato (esagerando) «la decisione della Corte Suprema dà eguaglianza alle donne musulmane ed è uno strumento per dare più potere alle donne». Anche il portavoce dell’opposizione ha twittato accogliendo «la decisione storica, perché l’Islam rifiuta lo sfruttamento delle donne musulmane». E così via in uno sciame di congratulazioni e pacche sulle spalle, raramente giustificate.
Ci ha pensato la scrittrice dissidente Taslima Nasreen, in esilio dal Bangladesh dal ’94, a zittire tutti con dichiarazioni molto secche, che fanno da eco a Oriana Fallaci: «Perché abolire solo il triplo talaq? Tutta la legge islamica e la Sharia andrebbero abolite. Tutte le leggi religiose dovrebbero essere abolite per il bene dell’umanità. Abolire il triplo talaq non porta certo alla libertà delle donne. Le donne hanno bisogno di essere istruite e dovrebbero diventare indipendenti».
Ma è anche vero che in questo contesto, la decisione della Corte Suprema è almeno un passo nella direzione giusta. Anche perché quest’eguaglianza sventolata dal premier Modi è ben lontana dall’essere consolidata.
Ci ha pensato Asaduddin Owaisi, dell’All India Majlis-eIttehadul Muslimeen, una delle più importanti associazioni musulmane indiane a soffiare un po’ di realismo tra i festeggiamenti: «Dobbiamo rispettare questa decisione. Sarà una sfida degna di Ercole riuscire a farla applicare sul campo». Come a dire: fate pure le vostre leggi, noi continuiamo così.
Ma qualcosa s’è incrinato. Ora le donne musulmane sanno che la legge è dalla loro parte, e avranno meno paura di andare dalle autorità a far valere quello che da ieri è un loro diritto: non farsi scaricare dal marito senza un motivo, senza un soldo, con tre semplici e crudeli paroline.
INDIA
L’India sta perdendo la sua laicità
di Gwynne Dyer, giornalista *
Quando l’India ha conquistato l’indipendenza dal Regno Unito, 70 anni fa, era stata fondata come democrazia laica, in quanto riconosceva a musulmani, sikh, cristiani e altre minoranze religiose gli stessi diritti e lo stesso status della maggioranza indù. Il mahatma Gandhi, grande eroe del movimento d’indipendenza, era un indù praticante, ma fu ucciso da un fanatico indù perché difendeva i diritti dei musulmani dopo l’indipendenza.
Quello di Gandhi è stato uno degli omicidi più “utili” della storia, perché all’epoca gli estremisti indù stavano approfittando del fatto che il Pakistan si fosse dichiarato uno “stato musulmano” per chiedere che l’India si dichiarasse “stato indù”. Dopo la morte di Gandhi il primo premier del paese, Jawaharlal Nehru, riuscì a isolare gli estremisti indù e a sfruttare la rabbia popolare per l’assassinio di Gandhi per confermare l’identità dell’India come stato secolare.
L’India è ancora una democrazia, ma oggi il ritratto di uno degli uomini che cospirarono per uccidere Gandhi è affisso nel parlamento nazionale; il primo ministro Narendra Modi guida un partito, il Bharatiya janata party (Bjp, Partito popolare indiano) creato come ala politica della Rashtriya swayamsevak sangh (Rss, Organizzazione nazionale patriottica), un’organizzazione paramilitare che sostiene la supremazia indù; e i troll hindutva degli estremisti indù storpiano su Twitter la parola “secolare” nel dispregiativo “sickular”.
La storia semplificata
L’hindutva è il genere di suprematismo indù che ha creato la retorica secondo cui “essere indù significa essere costantemente offeso”. È una tesi che considera l’India come una civiltà ferita perché ha passato gran parte degli ultimi mille anni sotto il giogo di numerosi invasori stranieri (non certo un’esperienza unica) e propone come rimedio l’imposizione di una versione estremamente semplificata dell’induismo politicizzato.
In pratica, è solo un’altro tipo di populismo, ma il suo principale sostenitore, il primo ministro Narendra Modi, deve affrontare una società in cui le cui divisioni sono molto più profonde di quelle che toccano alla sua controparte americana, Donald Trump. Tuttavia Modi è un uomo più disciplinato di Trump e non perde tempo a twittare insulti e a litigare a casaccio.
Modi è concentrato sulla crescita economica e in particolare sul miglioramento del tenore di vita della classe medio-bassa, da cui proviene gran parte dei suoi sostenitori. Ma per ottenere e mantenere la maggioranza parlamentare che gli permette di portare avanti il suo programma deve rivolgersi a un pubblico più eterogeneo.
Modi è molto attento al voto dei dalit perché sono la chiave per la conferma del Bjp al governo
Per più di cinquant’anni l’India ha seguito il principio laico secondo cui la religione è una faccenda privata. Subito dopo la nomina, però, Modi ha appoggiato un divieto nazionale per la macellazione delle vacche (già proibita in molti stati). Più recentemente il premier ha vietato anche la macellazione dei bufali. Non sorprende se i vigilantes “protettori delle vacche” abbiano cominciato ad aggredire le persone sospettate di commerciare carne bovina. Negli ultimi due anni queste aggressioni hanno provocato la morte di mezza dozzina di persone.
Modi sostiene il bando perché gli indù delle caste più alte (il gruppo da cui il Bjp riceve gran parte del supporto politico) sono convinti che le vacche siano sacre e non sia permesso mangiarle. Tuttavia gli indù delle caste inferiori, i dalit, mangiano carne bovina e rappresentano quasi un quarto degli elettori in India. Per il Bjp è un problema politico serio.
I musulmani, che gestiscono il commercio di carne bovina e pellami, rappresentano un altro 14 per cento dei voti, ma Modi non si preoccupa di perderli perché i musulmani non voterebbero mai per il Bjp in ogni caso. Il premier è molto attento al voto dei dalit perché sono essenziali per confermare il Bjp al governo.
Un approccio ambivalente
Nel 2014 Modi ha ottenuto una maggioranza schiacciante al lok sabha (la camera bassa del parlamento) ma non ha superato il 31 per cento del voto popolare. Il sistema maggioritario produce questi risultati squilibrati. Ma il rajya sabha (camera alta o senato) è eletto dai governi statali, dove i dalit hanno spesso un importante ruolo politico. Il Bjp non otterrà mai la maggioranza al senato senza l’appoggio dei dalit.
Modi cammina su un filo sottile sulla questione delle vacche sacre: sostiene la protezione degli animali per soddisfare gli elettori delle caste alte, ma condanna l’omicidio dei macellai e dei commercianti di pelli da parte dei vigilantes (che sono però appoggiati dall’Rss, l’organizzazione legata al Bjp).
In realtà, l’intero approccio di Modi all’induismo è piuttosto ambivalente. Due anni fa, per esempio, parlando di sanità in India, il primo ministro si è avventurato in un discorso sul dio Ganesh, dalla testa di elefante: “Veneriamo il signore Ganesh. All’epoca ci dev’essere stato un chirurgo plastico che ha attaccato la testa di un elefante a un corpo umano e così è nata la chirurgia plastica”.
Ipotizzare che Ganesh fosse una chimera creata da antichi chirurghi plastici non è esattamente in linea con l’ortodossia indù. D’altro canto l’idea che l’India fosse ai vertici mondiali della chirurgia plastica qualche migliaio di anni fa può entusiasmare i nazionalisti più ingenui. È un bizzarro miscuglio di idee, ma non certo senza precedenti nella politica populista.
Purtroppo, allo stato attuale i sickular libtard (espressione spregiativa per indicare i liberali laici) sono in ritirata, le minoranze religiose sono emarginate e le persone che definiscono l’India come un “paese indù” sono ai comandi. È ancora presto per sostenere che si tratta di un cambiamento irreversibile, ma è una svolta radicale rispetto ai valori fondativi del paese. L’India è ancora una democrazia, ma comincia a somigliare molto al Pakistan.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
* Internazionale, 20 agosto 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
Arundhati Roy: voci da un’altra India
Venti anni dopo Il dio delle piccole cose, torna con un nuovo romanzo: Il ministero della suprema felicità. E racconta di intoccabili, attivisti kashmiri, trans, prostitute: anime inconsolabili. Che cercano rifugio nell’amore
di Mara Accettura foto di Suki Dhanda *
Quando vinse il booker con il romanzo d’esordio Il dio delle piccole cose Arundhati Roy smorzò gli entusiasmi di chi la considerava già l’erede di Rushdie. Disse che non sapeva se ne avrebbe scritto un altro. E di lasciarla in pace, grazie mille, perché aveva altro da fare. L’attesa è stata estenuante, 20 anni, ma ne è valsa la pena. Perché Il ministero della suprema felicità (sempre per Guanda, il 6 giugno) colpisce dritto al cuore. Straripante di denuncia, travolgente e disperato, punta i riflettori sugli invisibili, tutti quelli che la nuova India, la superpotenza del nazionalismo indù di Modi, occupata a mostrare i muscoli e a contare i soldi ha confinato nell’oblio, o represso con la violenza. Anime inconsolabili, spezzate dalla vita, che cercano riparo nell’amore: trans, prostitute, intoccabili, militanti kashmiri che gridano Azadi!, libertà!, madri in lutto, bimbi abbandonati, animali malconci. «Sono tutti attraversati da un confine», racconta lei, «gli hijira (transgender) quello del genere, Tilo quello della casta, Biplab Dasgupta quello dello Stato, Musa quello dell’indopachistano. Hanno la guerra dentro e fuori di sé». Un mondo poetico e spietato, tessuto come un arazzo, in cui i vivi si appellano a santi improbabili, comunicano coi morti e i cimiteri sono gli ultimi baluardi di conforto e resistenza su cui costruire brandelli di bellezza e felicità.
Piccola e sorridente, una cascata di riccioli grigi, ciabatte di cuoio e uno scialle di lana rossa sulle spalle, Roy appare un po’ frastornata e vagamente fuori posto tra i tappeti e le boiserie dell’hotel a Covent Garden, Londra, dove è arrivata per festeggiare l’uscita del libro in 27 paesi del mondo. «Sono felice. La fiction è la mia vera casa». A 55 anni la sua voce suona lieve, come quella di una bambina. «Scrivere romanzi è come una danza, il mio corpo è totalmente rilassato. So che posso prendermi tutto il tempo che voglio. Nei saggi no, sento urgenza, rabbia. Una grande differenza». Finalmente sono stati accontentati i fan che le rimproveravano di essere scomparsa dalla scena letteraria, come se gli scritti acuminati sul capitalismo, Gandhi, i Dalit, il massacro dei musulmani nel Gujarat, i guerriglieri naxaliti, le dighe sul Narmada e Snowden non contassero.
Qual è stato il motivo di tanta attesa? «Non volevo fare la continuazione del Dio delle piccole cose. E volevo vivere. Questo libro è fatto di vita». A scorrere le pagine dense lo si capisce. «Ho accumulato esperienze come una roccia sedimentaria, nel mio Dna, e a un certo punto il romanzo mi è sembrata l’unica forma per raccontarle». La più libera, per legare storie molto diverse e sbatterci in faccia i segreti più scottanti del Kashmir, quella piccola valle dimenticata, occupata da 700mila soldati, dove la guerra per l’indipendenza è uno stile di vita e solo i morti sono liberi. «C’è molto rumore su quella regione ma nessuno sa che cosa davvero succede. È il trionfo del modo in cui le democrazie amiche del mercato funzionano. Le storie che vengono fuori da là sono sempre corrotte». O non fanno notizia. «Il terrore a volte è una persona che piomba a casa tua e lascia lì i suoi fucili e tu non sai che cosa ti accadrà. Fatti che non verranno mai denunciati in un report sui diritti umani, ma non per questo meno reali».
Il Ministero è il grande romanzo dell’altra India. Il cruccio dell’icona no global infatti è che la gente abbia un’idea edulcorata del suo paese: i film di Bollywood, l’ascesa del libero mercato, i depliant turistici, le scuole di yoga, la ricerca di spiritualità. «Invece no, è diventato un posto molto violento e militarizzato».
L’atmosfera è peggiorata da quando il primo ministro Narendra Modi ha preso il potere ed è cresciuta la marea del suprematismo indù, basato sulle caste. «È sinceramente difficile capire perché ha vinto ancora con una valanga di voti. Sono stati proprio i poveri a essere maggiomente colpiti dalla demonetizzazione. Gente che sta male ma sente di doversi sacrificare per l’induismo, la nazione o chissa che».
Le derive sono aberranti. «Lo scorso anno una folla arrabbiata ha ammazzato un uomo accusandolo di aver mangiato carne di manzo, di fronte alla sua famiglia. Un sacco di leggi speciali permettono detenzioni senza processi o alla polizia di uccidere istantaneamente. Il clima è tremendo. Il risultato è che nessuno è libero di parlare, e quindi non parla». Lei va avanti per la sua strada ma ci si chiede se, con un libro così spietato nel denunciare gli abusi del governo, non abbia paura di ritorsioni. «In India oggi bisogna avere paura di tutto. Non lo dico solo per me. Molti scrittori sono stati uccisi, deportati non solo dal governo ma da gruppi di caste locali, di vigilantes. I giornalisti sono arrestati e torturati, gli attivisti condannati all’ergastolo. Non so davvero che cosa potrà accadere. C’è un clima molto pericoloso, a meno che non si faccia propaganda per il governo».
I detrattori la accusano di sporcare ingiustamente l’immagine della patria. Di avere una visione manichea della vita e di essere una fervente ammiratrice del leader separatista Ali Shah Geelani che vuole reintrodurre la sharia. «Non è vero. Vogliono che io sia neutrale ma non posso, visto che ne succedono di tutti i colori. Quanto a Geelani, è molto chiaro da quello che scrivo che non appoggio la sharia. La verità è che lo stato indiano pubblicizza gli islamici più violenti e non i moderati, proprio per creare un nemico. È tutto complicato». La sua voglia furiosa di capovolgere il mondo non ha dato i risultati sperati. «Quando ho scritto del massacro in Gujarat pensavo che la gente sarebbe stata rimasta scioccata, ma la cosa scandalosa è che non lo era affatto, e che l’allora primo ministro del Gujarat lo è diventato dell’India. Un uomo adorato perché sa mettere i musulmani al loro posto». Per questo la sua visione della natura umana è diventata più amara. «Le persone violente e brutali non sempre vengono punite come nelle filastrocche per bambini. A volte vengono premiate».
Il dio delle piccole cose, scoperto dallo scrittore Pankaj Mishra, diventò un bestseller, finendo per vendere 8 milioni di copie. Sarà interessante capire cosa succederà col Ministero, incoraggiato dal suo grande amico John Berger, il critico d’arte e pittore scomparso qualche mese fa. «Gli avevo letto delle parti, e mi aveva soprannominata utmost (“suprema”, ndr)», sorride al ricordo. Il fallimento non la spaventa, sa che avere successo in un mondo che contesta senza tregua non è semplice. Inoltre: «Quando scrivi un romanzo puoi farlo solo sapendo che potresti fallire. Altrimenti non riesci a sperimentare».
Se la fama è sempre stata semplicemente un mezzo per difendere le cause in cui crede, i soldi le hanno permesso di finanziare l’impegno politico. Guai però a chiamarla attivista. «Non so quando sia stata inventata questa parola. Prima gli scrittori che raccontavano queste cose erano semplicemente scrittori, come Jean-Paul Sartre. Gli attivisti stanno fissi in un posto e combattono una battaglia, a volte tutta la vita. Hanno il diritto di chiamarsi così. Io scrivo per capire o fare qualcosa». Elabora: «Il Kashmir e il Narmada sono due valli, ma hanno cervelli completamente diversi. La prima ha una comprensione molto sofisticata della repressione, del carcere e della morte, mentre la seconda ce l’ha dell’economia dell’acqua e della natura, ma non capisce come funziona la macchina repressiva. Io metto tutto assieme e alla fine ho una visione del mondo. Questo fa di me una scrittrice». Messa così, è quello che dovrebbero costruire tutti gli scrittori: un paradigma, un modo nuovo di percepire la realtà. «Il problema è che oggi sono mercificati. Scrivono un libro, vincono il Booker, l’anno dopo ne scrivono un altro e poi un altro e così riproducono un progetto commerciale». Se non lo fanno, tutti si chiedono se per caso non siano morti. «Esatto. Ma è vero l’opposto. Sono morti gli altri perché sono diventati una moneta. Io non faccio questo, non mi interessa».
Il ministero ha una dimensione epica. Un mondo in cui cui ci si perde e ci si ritrova incontrando decine e decine di volti e storie. Nessuno è troppo marginale per non avere dignità letteraria. Tutti vengono ascoltati e consolati. «Sì volevo fermarmi e dire ciao anche ai personaggi più piccoli, chiedere come stanno, che cosa succede nella loro vita, e poi andare avanti. Non avevo uno schema in testa. A volte la città si trasforma in personaggio, altre è lo sfondo che diventa protagonista».
C’è una figura che ci ha ricordato lei. Si tratta di Tilo, l’ex studentessa di Architettura originaria del Kerala, l’outsider votata alla causa. «In un certo senso Tilo è figlia di Ammu, uno dei personaggi del Dio delle piccole cose (la madre dei gemelli, amorevole e selvatica, ndr)», riflette Roy. «Forse, come dice lei, per raccontare una storia frammentata bisogna diventare a poco a poco tutto. Ma probabilmente sì, mi somiglia. Il fatto è che in India tutti sono codici a barre ambulanti. Basta conoscerne il nome e si sa da dove vengono, a che casta appartengono, che lingua parlano. Io sono sempre stata seriamente fuori da questi schemi: i miei hanno divorziato quando avevo due anni e a 16 ero già via di casa (ha vissuto anche in uno slum, ndr). Questo fa di me una persona strana».
Anche il rapporto di Tilo con una madre così difficile e ingombrante è ricalcato sul suo? È risaputo che le due insieme sono come gli Stati Uniti e la Corea del Nord: due potenze nucleari a confronto. «Sì, un po’. A volte guardiamo dentro di noi per trovare le cose che ci disturbano di più. Mia madre ha definito la mia relazione con la morte, perché soffre di una grave forma di asma. Da bambina ho passato molto tempo con lei in ospedale, vigilando su ogni suo respiro con terrore. Ma ogni volta che sembrava spacciata è resuscitata». Nel libro no, muore, esattamente come nel Dio delle piccole cose. Una sorta di esorcismo che la fa sorridere.
Come dice il poeta Nazim Hikmet, citato all’inizio del libro, “Insomma, è tutta una questione di cuore”. Il cuore pulsa in tutti i personaggi, tranne in un paio di cattivissimi. Ci piace pensare che la storia tra Tilo e il guerrigliero Musa abbia un’origine autobiografica. Roy va e viene dal Kashmir ma non ha certo voglia di confidarsi sui suoi amici guerriglieri. «Ovunque vai, l’esercito o l’intelligence ti segue e magari ti minaccia», dice Roy. Tilo e Musa “combaciavano come i pezzi di un rompicapo irrisolto (e forse irrisovibile)”. Separati più volte dalla vita eppure inesplicabilmente uniti. «Sì, certo, si amano senza avere voglia di possedere né di trasformare l’altro in oggetto», dice. Roy è sposata ma vive da sola.
Come è maturata la sua idea dell’amore? «La vita è un esperimento così grande... e io voglio mantenere il diritto di non essere etichettata. Nella nostra società si è o in coppia o single, e single significa soli, mentre io vivo in modo che quelle non siano le uniche scelte. C’è molto amore intorno a me e una grandissima intimità. Ma c’è anche un accordo reciproco: permettere all’altro di cambiare, essere matto, ossessionato, sparire e ricomparire. Ho trovato un piccolo mondo di persone che lo capisce ed è magico. Sono grata. Uomini, donne, lesbiche, etero, transessuali, gente di tutte le caste. È una comunità molto piccola, e non dico che sia replicabile o l’inizio di una specie di rivoluzione sociale, ma è il mio mondo, quello che mi permette di amare, di essere amata. E di essere libera». Un ministero di suprema felicità.
*la Repubblica-D, 05 giugno 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
Le storie di Ujjayini, l’antica città dove con i calendari ha origine il tempo
di Amartya Sen (la Repubblica, 06 febbraio 2017)
L’immensa varietà di sistemi calendariali che si riscontra in India mette in luce un importante aspetto del paese: la sua diversificazione in termini di culture e regioni. Ma l’India non è solo questo. Accanto a tanta eterogeneità c’è anche l’idea di un paese che ha attraversato i secoli come una realtà unitaria. Un’idea, naturalmente, negata da chi continua a ripetere che l’India era solo un vasto territorio frammentato in piccole o medie entità, che solo la forza del dominio britannico è riuscito più tardi a unificare. Non di rado gli inglesi pensano di essere gli «autori» dell’India, una rivendicazione di fantasia creativa perfettamente in linea con le convinzioni di Winston Churchill, per il quale l’India non era una realtà unitaria più di quanto lo fosse l’equatore. Significativo, però, che anche chi nega ogni carattere unitario all’India prebritannica non abbia poi grandi problemi a generalizzare sulla qualità degli indiani come popolo (persino Churchill non poteva fare a meno di affermare che gli indiani erano «il popolo più animalesco del mondo, insieme ai tedeschi»).
Generalizzazioni sugli indiani sono state fatte dai tempi di Alessandro Magno e di Apollonio (uno dei primi «esperti d’India») all’epoca «medievale» dei viaggiatori arabi e iraniani (che sul territorio indiano e il suo popolo hanno scritto molto) fino ai tempi moderni, con Herder, Schlegel, Schelling e Schopenhauer. Va poi notato che ogni ambizioso dominatore - di volta in volta Candragupta, Asoka, ‘Ala ud-Din o Akbar - tendeva a ritenere che il suo impero non fosse completo finché gran parte del paese non fosse sotto il suo controllo. Ovviamente, guardando al passato storico non dobbiamo pensare di trovarvi una preesistente «nazione indiana» in senso moderno, ansiosa di diventare uno Stato nazionale. E tuttavia è difficile non cogliere le identità e i nessi socioculturali che ne sono stati la premessa.
Potremmo chiederci quale contributo possa apportare la riflessione sui calendari a questo dibattutissimo tema. La varietà dei calendari, divisi non solo dai loro riferimenti religiosi ma anche dalle diversità regionali, sembra in rotta di collisione con qualsiasi prospettiva di un’India unitaria. Bisogna però osservare in proposito che molti di questi calendari presentano forti analogie, sia per quanto riguarda i mesi sia per quanto concerne l’inizio dell’anno. Il Kaliyuga, il Vikram Samvat, il Saka, il Shôn bengalese e altri ancora, per esempio, iniziano tutti intorno a metà aprile. Evidentemente l’inizio è stato fissato in relazione allo stesso punto di riferimento, l’equinozio di primavera, dal quale hanno finito per discostarsi nel lungo arco di tempo degli ultimi due millenni, durante i quali la «correzione» relativa al valore intero della lunghezza dell’anno in giorni è stata leggermente inadeguata - ancora una volta in misura piuttosto simile.
Naturalmente, il fatto che per un anno il valore intero di 365 giorni sia solo approssimativo era ben noto ai matematici indiani che elaborarono quei calendari. L’aggiustamento periodico adottato normalmente per compensazione in molti calendari indiani consiste nell’aggiunta di un mese intercalare (definito un malamasa) per rimettere le cose in linea con quanto previsto dal computo. Per ottenere una correzione adeguata è però necessario calcolare la lunghezza dell’anno con precisione, operazione difficile da effettuare con gli strumenti e le conoscenze dell’epoca in cui i vari calendari furono concepiti o riformati. Nel VI secolo il matematico Varahamihira calcolò l’esatta lunghezza dell’anno in 365,25875 giorni, valore prossimo a quello esatto, ma ancora leggermente sbagliato, dal momento che la lunghezza dell’anno sidereo è di 365,25636 e quella dell’anno tropico è di 365,24220. Gli errori hanno finito per discostare i diversi calendari dell’India settentrionale dai punti fissi che avevano preso a riferimento, per esempio l’equinozio di primavera, ma in questo scostamento si sono mossi insieme.
Questa dimostrazione di unità nei piccoli errori ha le sue eccezioni, dal momento che i calendari indiani del Sud (per esempio il Kollam) e i calendari lunari o lunisolari (come quello del Nirvana del Buddha) seguono regole diverse. Sarebbe del resto difficile immaginare una generale uniformità nella varietà di calendari - o di culture - riscontrabile in India. Ciò che bisogna cercare è piuttosto l’interesse che i vari utilizzatori dei diversi calendari sembrano aver avuto per le soluzioni adottate dagli altri.
Uno degli elementi che rivelano la presenza di una prospettiva calendariale unitaria è, come abbiamo visto, l’identificazione di un meridiano primo e di una località di riferimento principale (come Greenwich in Gran Bretagna). È allora interessante notare la posizione che l’antica città di Ujjayini (oggi Ujjain), capitale di varie dinastie induiste (e teatro di numerose attività letterarie e culturali nel corso del I mil- lennio d.C.), conservò a lungo come località di riferimento per molti dei principali calendari indiani. Pare che il calendario Vikram Samvat (con punto zero al 57 a.C.) abbia avuto origine in questa antica capitale. Ma Ujjayini è il luogo di riferimento fondamentale anche per il sistema Saka (punto zero al 78 d.C.) e per molti altri calendari indiani.
Anche oggi, anzi, alla posizione di Ujjaini si fa riferimento per fissare l’orario indiano (sotto questo aspetto la città svolge insomma la funzione di una Greenwich indiana). «L’ora ufficiale indiana», quella che governa le nostre vite, è ancora, con minima approssimazione, l’ora di Ujjayini - 5 ore e 30 minuti in anticipo sul Gmt. Per chi visitasse l’odierna Ujjain, ridotta a un modestissimo e sonnolento paesone, potrebbe forse essere di qualche interesse sapere che quasi duemila anni fa un celebre trattato astronomico, intitolato Paulisa Siddhanta, antesignano del capolavoro dell’Aryabhatiya, concentrava l’attenzione sulla longitudine di tre luoghi del pianeta: Ujjain, Benares e Alessandria. Ujjain resta un’ottima testimonianza del legame fra calendari e cultura.
La letteratura indiana ci ha lasciato splendide descrizioni di Ujjayini, in particolare nell’opera di Kalidasa (V secolo d.C.), forse il più grande poeta e drammaturgo della letteratura sanscrita classica. La raffinata bellezza della Ujjayini di Kalidasa persuase il romanziere britannico Edward Morgan Forster a visitare la città, nel 1914, con l’idea di ricostruire mentalmente come dovesse apparire ai tempi degli incantevoli racconti di Kalidasa. Raccolse vari passi di Kalidasa, fra i quali le emozionanti descrizioni delle sere in cui «le donne si recano in segreto dai loro amati» inoltrandosi in «un’oscurità che si potrebbe tagliare con un ago». Ma dalle antiche rovine della città non poté cavare granché, né gli riuscì di suscitare nella gente del luogo il benché minimo interesse per la sua ricerca storica e letteraria. Immerse le caviglie nel fiume sipra, cantato da Kalidasa con romantici accenti, e abbandonò il suo progetto, rassegnandosi all’idea che «i vecchi edifici sono edifici, le rovine sono rovine».
Senza voler sollevare la questione se in quella rinuncia al rigore storico ci sia un tratto comune, non si può non rimanere impressionati dalla costante centralità che Ujjain ha conservato come luogo di riferimento dell’orario indiano, nonostante il potere politico e il predominio letterario e culturale fossero migrati ormai da tempo altrove. La tradizione può essere grande alleata di un’unità partecipata.
Il personaggio
India, il profeta degli intoccabili, lancia la sfida al premier Modi
Chi è Jignesh Mevani, l’avvocato 35enne passato dalla poesia all’attivismo che è riuscito a mobilitare 20 mila fuoricasta
di Alessandra Muglia, inviata a Ahmedabad*
AHMEDABAD Il nuovo ambasciatore degli intoccabili è un giovane di 35 anni di Ahmedabad, la principale città del Gujarat, lo stato indiano dove è nato e ha governato (per 13 anni) Narendra Modi prima di diventare premier. Jeans e camicia a quadri, Jignesh Mevani si presenta in serata - dopo vari rinvii - per una chiacchierata nell’House of MG, l’hotel dove soggiornò anche il Mahatma Gandhi al suo ritorno dal Sudafrica. Al teorico della non violenza, «preferisco Ambedkar, padre della Costituzione indiana anti caste» dice sintetizzando la sua «agenda» questo avvocato attivista con trascorsi da giornalista e ricercatore universitario.
«Nessuna pressione per sposarmi»
Minuto, barba e occhiali, non ostenta il physique du rôle del leader. Il suo inglese ha il tipico accento indiano di chi non ha mai studiato all’estero. Ma un grande merito ai suoi genitori lo riconosce: «Non hanno fatto pressioni per farmi sposare, non avrei potuto fare l’attivista a tempo pieno». Il primo grande risultato, quello che lo ha fatto approdare sulla scena internazionale, lo ha ottenuto ad agosto quando è riuscito a portare in piazza ad Ahmedabad oltre 20 mila dalit, i fuoricasta, a far alzare la testa agli ultimi tra gli ultimi cittadini della più popolosa democrazia del mondo. Innanzitutto per dire basta ai linciaggi sempre più frequenti perpetrati dai Gau Rakshaks, squadre di vigilantes che proteggono le vacche, sacre per gli induisti,e si accaniscono contro gli addetti alla concia del pellame di mucca, «per lo più dalit e musulmani», torturandoli, a volte fino alla morte, con l’accusa di uccidere le vacche per mangiarsele.
«Tenetevi le mucche, ridateci le terre»
Il suo slogan - «tenetevi le code delle mucche e ridateci le nostre terre» - è diventato il richiamo all’autoaffermazione dei dalit basata sull’autosufficienza economica: «Chiediamo che vengano assegnate le terre che ci spettano per legge» dice questo giovane passato dalla letteratura all’attivismo. Dopo essersi diviso per tre anni a Mumbai tra gli articoli e le ricerche sul poeta Mariz, l’incontro fulminante con Mukul Sinha, avvocato dell’alta corte diventato famoso per aver difeso i musulmani massacrati nel 2002 nel Gujarat.
Stop ai treni
La sua prossima sfida è una grande mobilitazione che dovrebbe portare alla paralisi dei treni il primo di ottobre, sempre ad Ahmedabad.«Per riuscire a bloccare i binari dobbiamo essere almeno in 10 mila» stima. E se questa volta per incendiare gli animi non potrà contare sull’aiuto di alcun video come quello virale sui linciaggi diffuso in Rete prima della grande marcia di agosto, meglio tenersi un piano di riserva: «Se saremo meno agiremo all’interno dei convogli. Siamo pronti a farci picchiare, ma non useremo la violenza» assicura. La speranza è quella di trasformarsi da gruppo dalit a movimento trasversale sostenuto da gruppi di donne, lavoratori informali (la stragrande maggioranza in India), gruppi tribali e associazioni di contadini. Insieme «per smantellare questo sistema feudale, la stuttura delle caste». «Mi invitano o vengono da me perché sono il personaggio del momento, ma non mi faccio illusioni: so che la paura di esporsi è altissima, il timore di vendette, come la sospensione dei sussidi, paralizza». Non è facile lavorare senza il supporto di una struttura («sto lavorando per averla») e senza garanzie economiche («Mi baso su contributi di donatori e amici, presto ricorrerò al crowdfunding»).
«I have a dream»
Il grande salto sulla scena nazionale è previsto per marzo con la mobilitazione indetta in Uttar Pradesh, stato a grande rappresentanza di intoccabili dove si vota il prossimo anno. E chi vince qui di solito si aggiudica anche le elezioni nazionali. Se la sua chiamata alle armi di «intoccabili» e musulmani insieme funziona, la corsa in questo stato chiave diventa interessante. «Modi nel suo primo comizio in Gujarat si è proposto come un leader pro dalit, per la prima volta gli facciamo paura in uno stato dove siamo solo l’8% della popolazione». Lui al comizio non ha potuto andare: è stato arrestato il giorno prima nel timore che potesse portare avanti azioni di disturbo, dopo che in un suo post su Facebook, con piglio visionario, riecheggiando Martin Luther King, scriveva «I have a dream». Il suo sogno: che «le vittime del modello Gujarat facciano volare le sedie in aria durante il comizio di Modi».
* Corriere della Sera, 26 settembre 2016 (modifica il 26 settembre 2016 | 22:52)
La casta degli Intoccabili si ribella a secoli di soprusi
In India per la prima volta migliaia di Dalit in marcia contro la storia
di CARLO PIZZATI (La Stampa, 04/08/2016)
In India, sta iniziando una lenta rivoluzione senza precedenti. È la rivolta degli straccioni, degli spazzini, degli spala-fogne, degli ultimi e bistrattati cittadini della più popolosa democrazia del mondo. Per la prima volta in molti decenni, i Dalit, membri della casta più bassa nella gerarchia induista, si stanno ribellando alle violenze di cui sono da sempre vittime.
In risposta alla recente fustigazione pubblica di quattro addetti alla concia del pellame, è infatti scattato uno sciopero di migliaia di Dalit che sono accorsi a una manifestazione da dov’è partita una podyatra, una lunga marcia di protesta che attraverserà lo stato del Gujarat per arrivare nella Festa dell’Indipendenza indiana, il 15 agosto, al villaggio di Una, dov’è avvenuto il semi-linciaggio.
Com’è iniziata quest’ultima protesta? L’11 luglio un SUV nero con a bordo alcuni Gau Rakshaks, vigilantes che proteggono la Vacche Sacre, hanno catturato quattro giovani che scuoiavano le carcasse di alcuni bovini, accusandoli di avere ucciso le vacche per mangiarsele. Ma erano carcasse che erano state consegnate per essere spellate, hanno tentato di spiegarsi i Dalit. I Gau Rakshaks non gli hanno creduto, li hanno denudati e presi a bastonate con sbarre di ferro e pali di bambù.
Poi li hanno trascinati fino al villaggio, legati a un’auto e di nuovo frustati, picchiati, derisi per ore sotto gli occhi divertiti di qualche poliziotto. L’errore forse più grave per i torturatori è stato di mettere online il video della missione punitiva, per farsi belli. Subito, le comunità Dalit hanno fatto circolare il video, spedendoselo anche sui gruppi di Whatsapp. Quando i fondamentalisti indù hanno capito il danno, tentando d’eliminare le prove, era troppo tardi, il video era virale. La polizia è stata costretta a intervenire, a fare qualche arresto. Ma la furia e la rabbia dopo decenni, ma in realtà secoli, di soprusi è stata troppa. Più di 20 ragazzi Dalit hanno tentato un suicidio di protesta. Uno di essi è morto ieri.
Un’altra risposta dei Dalit contro i vigilantes induisti che li assalgono e picchiano per il loro ruolo di conciari e addetti al macello di bovini è stata quello di gettare carcasse di vacche di fronte agli uffici pubblici, gridando: «La Vacca Sacra è vostra madre, fatele voi il funerale. Arrangiatevi!» In risposta, un parlamentare del partito fondamentalista al potere, il BJP, ha dichiarato: «Pieno sostegno a chi si assume la responsabilità di insegnare a qualche Dalit ribelle delle importanti lezioni». Come primo risultato, si è dovuto dimettere il governatore dello stato del Gujarat, anche lui del BJP.
«Vogliamo il porto d’armi! Vogliamo imparare le arti marziali! Ne abbiamo avuto abbastanza! Se ci tortureranno ancora, spezzeremo mani e gambe a questi sfruttatori delle caste più alte!», ha gridato l’avvocato Jignesh Mevani, leader del Comitato Dalit di Una contro le Atrocità (Udals) a più di cinquemila manifestanti accorsi ad Ahmedabad, capitale del Gujarat. Ma sono almeno 25mila i manifestanti mobilitati nelle piazze di tutto lo Stato dove fu governatore l’attuale Primo Ministro Narendra Modi che si trova ora ad affrontare la contraddizione tra le sue promesse di sviluppo economico e la politica di polarizzazione e spaccature sociali promossa dalla sua stessa ideologia indù fondamentalista.
«Nel “Gujarat esemplare”, - ha detto ironico Mevani, - sono state fatte 15,500 cause per atrocità contro di noi e i Dalit sono stati espulsi con la violenza da 55 villaggi. Perché Modi non parla di queste atrocità? Perché non ci porta la sua solidarietà?».
Le caste più basse non sono per niente abituate a protestare in questo modo, nel contesto remissivo e tollerante delle sistema dogmatico induista. «Ci vuole un fatalismo inimmaginabile per accettare questo livello di deprivazioni, difficoltà e umiliazioni per migliaia di anni. E mantenere questo sistema di caste richiede un callo emotivo disumano», ha protestato l’editorialista Mitali Saran sul «Business Standard».
Ai Dalit si sono unite anche le associazioni musulmane, categoria colpita dalla «caccia al carnivoro» da quando il fondamentalista Modi è al potere. A settembre, un musulmano la cui famiglia era accusata di mangiare manzo è stato linciato dalla folla. In marzo, due commercianti di bestiame sono stati linciati a Jharkhand.
«C’è un filone storico che vuole rivendicare la purezza, come l’Hindutva dei fondamentalisti», ha dichiarato a La Stampa lo storico Sunil Khilnani. «La diversità non è una minaccia, ci dà una forza strutturale di elasticità. Siamo una nazione bastarda. Questa è la nostra forza, non una debolezza». Convincere i «vigilantes delle vacche» dei fondamentalisti di Modi e le caste privilegiate dell’induismo non sarà facile.
La grande scommessa del gigante indiano
Ha i numeri per superare Cina e Usa ma le caste rischiano di rallentarlo
Ci sono ancora problemi di sanità e istruzione. E il divario fra ricchi e poveri è sempre maggiore
di Thomas Piketty (la Repubblica, 23.01.2016)
MENTRE crescono i dubbi sulla Cina e sul suo sistema finanziario, sempre più persone guardano all’India come alla possibile locomotiva dell’economia mondiale negli anni e nei decenni a venire. La crescita di Delhi nel 2016-2017 dovrebbe sfiorare l’8%, come nel 2015, contro il 6% della Cina. Certo, l’India parte da un livello più basso, con un potere d’acquisto medio di circa 300 euro al mese per abitante (contro i 700 della Cina e i 2mila dell’Unione Europea), ma a questo ritmo potrebbe colmare il distacco dall’Europa in meno di 30 anni (15 per la Cina).
Aggiungiamo che la demografia gioca a favore dell’India: secondo l’Onu, la popolazione indiana entro il 2025 dovrebbe superare nettamente quella cinese (che sta già invecchiando e diminuendo).
Nel XXI secolo, l’India diventerà la prima potenza mondiale per popolazione, e forse anche la prima potenza mondiale in assoluto. Tanto più che può contare su solide istituzioni democratiche ed elettorali, libertà di stampa e Stato di diritto. IL CONTRASTO con la Cina, che ha appena espulso una giornalista francese (senza che Francia ed Europa trovassero nulla da ridire) e il cui modello politico autoritario appare tanto indecifrabile quanto imprevedibile nella sua evoluzione a lungo termine, è stridente.
Le sfide che deve affrontare l’India restano però colossali, a cominciare dal problema delle disuguaglianze. Si fa molta fatica a ritrovare le cifre della crescita nelle inchieste sui consumi tra le famiglie indiane, probabilmente perché una parte sproporzionata dell’arricchimento è intercettata da una ristrettissima élite non adeguatamente coperta dalle inchieste. Dal momento che il governo indiano ha interdetto l’accesso ai dati delle imposte sul reddito all’inizio degli anni 2000 (la Cina non li ha mai pubblicati, però gli introiti fiscali che raccoglie sono superiori), è difficile dire qualcosa di preciso.
Quel che è certo è che gli investimenti pubblici in scuola e sanità rimangono nettamente insufficienti, e questo è un elemento che mina alla base il suo modello di sviluppo. Un esempio emblematico è il sistema sanitario pubblico, che può contare appena sullo 0,5% del Pil contro il 3% della Cina. La verità è che il partito comunista cinese è riuscito, meglio delle élite democratiche e parlamentari indiane, a mobilitare risorse significative per finanziare una strategia di investimenti sociali e servizi pubblici.
Ma solo una politica di questo tipo potrà permettere all’insieme della popolazione di beneficiare della crescita e potrà assicurare uno sviluppo duraturo del paese. La mancanza di trasparenza e l’autoritarismo del modello cinese lo condannano al fallimento, se non ci sarà un’apertura. Ma il modello democratico indiano deve ancora dimostrare la sua efficacia, possibilmente senza passare per le crisi e gli scontri che sono stati necessari, nel XX secolo, per imporre alle élite occidentali le riforme sociali e fiscali indispensabili.
La sfida più importante, spesso trascurata in Occidente, è legata al lascito del sistema delle caste, a cui si aggiunge il rischio di scontri identitari fra la maggioranza induista e la minoranza musulmana (il 14 % della popolazione, 180 milioni di persone su 1,2 miliardi di abitanti), attualmente rinfocolati dal partito nazionalista indù, il Bharatiya Janata Party (Bjp, al potere dal 1998 al 2004 e poi di nuovo dal 2014).
Riassumiamo. Nel 1947, l’India abolisce ufficialmente il sistema delle caste, e in particolare mette fine ai censimenti per casta condotti dai colonialisti britannici, accusati di aver cercato di dividere l’India e irrigidire le sue classi sociali per meglio dominare e controllare il paese. Il governo sviluppa tuttavia un sistema di discriminazione positiva, nelle università e nel pubblico impiego, per i ragazzi provenienti dalle caste più basse (gli Sc/St, che sta per Scheduled Castes/ Scheduled Tribes, ex intoccabili discriminati, quasi il 30% della popolazione). Ma queste misure suscitano crescente frustrazione tra i ragazzi provenienti dalle caste intermedie (gli Obc, Other Backward Classes, circa il 40% della popolazione), schiacciati tra i gruppi più sfavoriti e le caste più alte. A partire dagli anni Ottanta, diversi Stati indiani estendono le politiche di discriminazione positiva a questi nuovi gruppi (a cui possono unirsi i musulmani, esclusi dal sistema iniziale).
I conflitti intorno a questi meccanismi sono tanto più vivi in quanto i vecchi confini tra le caste non sono così netti, e non sempre (anzi) corrispondono alle gerarchie di reddito e patrimonio. Il Governo federale alla fine decide di fare chiarezza su queste complesse relazioni organizzando, nel 2011, un censimento socioeconomico delle caste (il primo dal 1931). Il tema è incendiario e si attende ancora la pubblicazione completa dei risultati.
L’obbiettivo è di trasformare gradualmente queste politiche di discriminazione positiva in regole fondate su criteri sociali universali quali il reddito familiare o il territorio di provenienza, come i software di accesso ai licei o alle università (o per certi aiuti alle imprese) che in Francia cominciano timidamente ad accordare punti supplementari agli studenti borsisti o a quelli provenienti da istituti o territori sfavoriti.
In un certo senso, l’India sta tentando semplicemente di far fronte, con i mezzi dello Stato di diritto, al problema dell’uguaglianza reale, in una situazione in cui la disuguaglianza di status ereditata dalla vecchia società e dalle discriminazioni passate è estrema e minaccia di degenerare in tensioni violente. Sbaglieremmo enormemente se pensassimo che queste sfide non ci riguardano.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Le ragazze del parco
Un telo per dormire sull’erba da New Delhi a Mumbai
Per rispondere agli stupri
La protesta delle giovani indiane che reclamano gli spazi pubblici
di Alessandra Muglia (Corriere della Sera, 16.01.2016)
L’ appuntamento è per questo pomeriggio. In diverse città indiane, da New Delhi a Mumbai, le donne si ritrovano al parco con materassino e coperta. Tutte a terra per un pisolino di gruppo. Una scena decisamente insolita: si dorme per svegliare gli altri. Per combattere paura e pregiudizi. La prima volta, a Bangalore poco più di un anno fa, un vigile aveva provato a far sloggiare Lijya e altre 14 ragazze in dormiveglia al Cubbon Park: «Non potete dormire qui», aveva intimato. Ma loro serafiche: «Questo è un parco pubblico. Chiunque può fermarsi a dormire. Perché non sveglia anche quell’uomo là?». Domanda che costringe il gendarme ad arrivare al punto: «Questo non è un posto sicuro per voi». Replica pacata: «Non si preoccupi per noi».
Fiduciose, indifese, rilassate: così Lijya e le altre hanno inaugurato Meet to sleep (incontrarsi per dormire), iniziativa lanciata da Blank Noise, gruppo di attiviste indiane nel Paese degli stupri, dei delitti d’onore, delle spose bambine e dei matrimoni combinati. «Siamo partite nel 2003 come spazio per poter parlare di abusi e molestie sessuali - racconta al Corriere Jasmeen Patheja, fondatrice del gruppo - io stessa ne avevo subite in strada, e tutti mi dicevano di passarci sopra, che erano cose all’ordine del giorno, che capitavano a tutte. Ho pensato che la città poteva diventare sicura se fosse cambiato l’atteggiamento di chi la frequenta».
Così ha iniziato a mobilitare sul web i cittadini coinvolgendoli in una serie di iniziative per appropriarsi degli spazi pubblici. Meet to sleep rientra nella campagna #INeverAskForIt («non me la sono andata a cercare»), contraltare di quello che spesso si sente dire una donna quando viene molestata: se l’è cercata (uscendo fuori la sera, vestendosi in quel modo e via accusando).
Con Talk To Me (parlami), nel noto «vicolo dello stupro» di Bangalore i volontari invitavano i passanti a sedersi a un paio di tavoli, per parlare. «Alla fine l’abbiamo ribattezzato “vicolo sicuro”: la percezione del posto e la sua reputazione erano cambiati» spiega Jasmeen. Dopo il brutale stupro di una studentessa su un bus di New Delhi nel 2012 è partita l’iniziativa #SafeCityPledge, con i passanti invitati a prendersi un piccolo impegno (messo nero su bianco su un cartello).
Nella stessa direzione si è mosso un altro movimento, #WhyLoiter (Perché gironzolare), anche titolo di un libro-inno al vagare senza meta. Invece le donne si ritrovano sempre a dover dimostrare di avere un motivo per trovarsi in un certo luogo, soprattutto la sera. Per creare un cortocircuito, #WhyLoiter organizza camminate notturne a Mumbai.
Molto è cambiato in India dopo dicembre 2012: la violenza sessuale non è più un tabù, le donne denunciano, i media ne parlano. «Ma che tipo di discorso si sta facendo? - polemizza Jasmeen, attivista e artista, chiamata anche a guidare workshop a Los Angeles, Londra e Germania - Si è discusso tanto di pena capitale per gli stupratori, ma i mostri vivono nella nostra società, che è parte del problema». E se dopo la notte nera di Colonia le donne europee, per non tornare indietro, si ispirassero alla fantasia e al coraggio di chi combatte nell’India sfregiata dalle molestie e dagli stupri?
Raid e linciaggi in strada il terrore dei fanatici hindu
Nel Paese aumentano gli omicidi di “infedeli”
Un uomo ucciso per aver mangiato vitello
di Raimondo Bultrini (la Repubblica, 6.11.2015)
BANGKOK La scintilla della ribellione tra le file dell’India secolare e gandhiana è scattata il 30 settembre, dopo che una folla di induisti in un villaggio a un’ora da Delhi ha ucciso un musulmano di 50 anni a colpi di mattoni, ferito gravemente il figlio e picchiato selvaggiamente il resto della famiglia sospettata di mangiare fettine di vitello.
In realtà nel loro frigo c’era solo carne di capra, ma il raid scatenato dai fanatici di Manipur è stato solo il riflesso di un fenomeno ben più vasto di intolleranza religiosa all’origine di numerosi altri omicidi in vari Stati della più grande democrazia del mondo, e non solo in nome dell’animale sacro per eccellenza degli hindu. Un intellettuale razionalista e uno scrittore contrario all’adorazione degli idoli sono stati uccisi negli ultimi mesi a sangue freddo per aver esposto pubblicamente le loro idee “blasfeme”.
La blanda reazione del governo a base religiosa del Bjp e la lentezza delle indagini per scoprire i responsabili tra le file dei gruppi fondamentalisti hindu, hanno convinto la comunità degli intellettuali ed artisti a raccogliersi per una protesta comune, diventata clamorosa con la decisione di 30 scrittori e filmaker di restituire i premi statali ottenuti durante la loro carriera.
Per ultimo è stato uno dei più idolatrati attori di Bollywood, Shah Ruk Khan, a mettere tutto il peso della sua popolarità dalla parte del movimento progressista: «L’intolleranza religiosa - ha detto - e l’intolleranza di ogni genere, è la cosa peggiore e ci porta verso le ere oscure».
Per tutta risposta il potente ministro delle Finanze, Arun Jaitley, su Facebook ha definito il premier Narendra Modi «la peggiore vittima dell’intolleranza ideologica del Congresso, degli intellettuali di sinistra e degli attivisti». Ma gli episodi inquietanti come quello che del 30 settembre sono continuati, e lunedì scorso un altro musulmano è stato picchiato a morte in un villaggio vicino Manipur, nel Nord est, con l’accusa di aver rubato una mucca.
Due settimane fa una delle numerose “pattuglie di difesa” dell’animale sacro costituite in diversi Stati dai devoti dei Veda, ha linciato l’autista di un camion che trasportava una mandria lungo le strade dell’Himachal Pradesh.
E ancora, il 18 ottobre, nel Kashmir del sud, folle inferocite hanno lanciato un ordigno incendiario contro un automezzo e ustionato a morte un ragazzo sospettato di commerciare bovini, provocando uno sciopero generale in tutta la delicata regione a maggioranza islamica contesa con il Pakistan. In questo caso il Bjp è sceso direttamente in campo con i suoi deputati locali che hanno assaltato un collega musulmano mentre reclamava provocatoriamente in aula il diritto di mangiare carne di mucca.
La lista degli episodi di violenza registrati da nord a sud è lunga e comprende intimidazioni, ronde notturne contro il “vizio”, stupri di ragazze colpevoli di sposare uomini di altre caste e fedi, boicottaggi di film e libri giudicati irriguardosi verso gli dèi e gli eroi dell’India.
Ma l’assassinio dell’attivista sociale e razionalista Govind Pansare nel febbraio scorso in Maharastra, e quello dello scrittore Malleshappa M. Kalburgi, ucciso ad agosto in Karnataka, hanno alzato il livello di allarme contro la minaccia costante posta dai gruppi più estremi dello schieramento politico e religioso che supporta il governo.
La stessa Sonia Gandhi, leader del Congresso, ha guidato una marcia fino al palazzo presidenziale per accusare direttamente Modi di essere responsabile, con il suo silenzio, del clima di “paura e intimidazione” che regna nel Paese.
India, ribellati alle caste
Ogni sedici minuti un Intoccabile è vittima di un crimine. Come Surekha, uccisa perché aveva lottato per i suoi diritti
“Da studentessa non trovai menzione del concetto di casta nei testi scolastici, eppure si evinceva dal nome delle persone, dal lavoro che facevano o dai matrimoni che combinavano”
Perché, chiede la scrittrice Arundhati Roy, il mondo si mobilita contro le ingiustizie, ma non censura il sistema sociale induista?
Surekha non poteva aspirare a vivere bene, il villaggio non le permetteva di collegarsi alla rete elettrica, di irrigare i suoi campi o di attingere acqua al pozzo pubblico
Ogni settimana 13 Dalit vengono assassinati e sei rapiti. Le statistiche non contemplano le amputazioni o le umiliazioni, come essere svestiti e costretti a sfilare nudi
di Arundhati Roy (la Repubblica, 27.11.2014)
MIO PADRE era un Indù riformato, un Brahmo. L’ho conosciuto solo da adulta. Sono cresciuta con mia madre nella sua famiglia cristiana siriana del villaggio di Ayemenem, in Kerala, nell’India sud occidentale. Allora governavano i comunisti, ma vivevo tra le divisioni del sistema delle caste che squarciava e crepava il tessuto sociale. Ayemenem aveva la sua chiesa “Paraiyan”, in cui sacerdoti “Paraiyan” predicavano ai fedeli “intoccabili”. La casta si evinceva dal nome delle persone, da come si riferivano le une alle altre, dal lavoro che facevano, dagli abiti che indossavano, dai matrimoni che combinavano, dalla lingua che parlavano. Ma da studentessa in nessun testo scolastico trovai menzione del concetto di casta, mai.
Fu leggendo Annientamento della Casta il testo scritto per una conferenza del 1936 da BR Ambedkar, autore e pensatore indiano, che mi resi conto, allarmata, della falla esistente nel nostro universo pedagogico. Leggere Ambedkar mi chiarì anche il motivo per cui quella falla esiste e continuerà ad esistere finché la società indiana non subirà un cambiamento radicale e rivoluzionario.
Se avete sentito parlare di Malala Yousafzai, una dei due vincitori del premio Nobel per la pace di quest’anno, ma non di Surekha Bhotmange, vi invito a leggere Ambedkar. Malala aveva solo 15anni, ma aveva già commesso vari reati. Innanzitutto era una ragazza, abitava nella valle dello Swat in Pakistan, poi era una blogger della Bbc , era apparsa in un video del New York Times e frequentava la scuola. Malala voleva fare il medico, suo padre voleva che entrasse in politica. Era coraggiosa. Lei (e il padre) ignorarono i Taliban quando dichiararono che le scuole non erano destinate alle ragazze e minacciarono di uccidere Malala se non avesse smesso di criticarli apertamente. Il 9 ottobre 2012 un killer la fece scendere dal bus della scuola e le piantò una pallottola in testa. Malala fu trasportata in aereo in Inghilterra e, dopo aver ricevuto le cure migliori del caso, sopravvisse. Fu un miracolo.
Il presidente degli Stati Uniti e il segretario di Stato americano le inviarono messaggi di sostegno e solidarietà. Madonna le dedicò un brano. Angelina Jolie scrisse un articolo su di lei. Malala è apparsa sulla copertina del Time . Pochi giorni dopo il tentato omicidio, Gordon Brown, inviato speciale delle Nazioni Unite per l’educazione globale, lanciò la petizione “Io sono Malala” per esortare il governo del Pakistan a garantire l’istruzione a tutte le bambine. In Pakistan proseguono i raid dei droni americani con la missione femminista di “far fuori” i terroristi islamisti misogini.
Surekha Bhotmange aveva 40 anni e, come Malala, vari reati alle spalle. Era una donna in primis - una dalit “intoccabile” che viveva in India ed era povera in canna. Era più istruita del marito, quindi faceva le veci di capo famiglia. Ambedkar era il suo idolo. Come lui, la famiglia di Surekha aveva ripudiato l’induismo per convertirsi al buddismo. I figli di Surekha erano istruiti. I due maschi, Sudhir e Roshan, avevano frequentato l’università. La figlia, Priyanka, aveva 17 anni e stava terminando le superiori. Surekha e il marito avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno nel villaggio di Khairlanji, nello stato del Maharashtra. La loro proprietà era circondata da fattorie appartenenti a caste che si consideravano superiori alla casta Mahar, cui apparteneva Surekha.
Poiché era una Dalit e non aveva diritto ad aspirare a vivere bene, la panchayat (assemblea) del villaggio non le permise di collegarsi alla rete elettrica né di trasformare la capanna di fango col tetto di paglia in una casa di mattoni. Gli abitanti del villaggio non permettevano alla famiglia di Surekha di irrigare i campi con l’acqua del canale, o di attingere al pozzo pubblico. Cercarono di costruire una strada pubblica attraverso la proprietà della donna e, alle sue proteste, passarono coi carri trainati da buoi sui suoi terreni. Lasciavano le loro bestie pascolare sulle sue coltivazioni.
Ma Surekha non cedette. Si rivolse alla polizia che non le prestò orecchio. Nel corso dei mesi la tensione nel villaggio salì alle stelle. A mo’ di avvertimento, gli abitanti aggredirono un parente della donna, lasciandolo moribondo. Surekha sporse nuovamente denuncia. Questa volta la polizia procedette a degli arresti, ma gli accusati furono rilasciati su cauzione quasi subito.
Il giorno del rilascio, il 29 settembre 2006, alle sei di sera, circa 40 persone del villaggio, uomini e donne, arrivarono furibondi sui trattori e circondarono la casa dei Bhotmange. Il marito di Surekha, Bhaiyalal, che era nei campi, udì il rumore e corse a casa. Nascosto dietro un cespuglio vide la folla aggredire la sua famiglia. Corse a Dusala, la città più vicina e, attraverso un parente, riuscì a chiamare la polizia. (Servono i contatti giusti anche solo perché la polizia risponda a telefono).
I poliziotti non arrivarono mai. La folla trascinò fuori di casa Surekha, Priyanka e i due ragazzi, uno parzialmente non vedente. Ai ragazzi fu ordinato di stuprare la madre e la sorella; al loro rifiuto vennero mutilati dei genitali e infine linciati. Surekha e Priyanka subirono uno stupro di gruppo e vennero massacrate di botte. I quattro corpi vennero gettati nel vicino canale dove furono ritrovati il giorno successivo.
Inizialmente la stampa presentò l’accaduto come “delitto d’onore”, riportando che gli abitanti del villaggio erano indignati perché Surekha aveva una relazione con un parente (la vittima della precedente aggressione). A seguito delle proteste di massa inscenate dalle organizzazioni Dalit, la magistratura fu infine spinta a prendere atto del delitto.
Comitati di cittadini indagarono sull’accaduto, rivelando l’inquinamento delle prove. Nel primo grado di giudizio i principali autori del delitto vennero condannati a morte, ma non venne invocata la legge di Prevenzione delle atrocità riferita alle caste e alle tribù intoccabili - il giudice ritenne che il massacro di Khairlanji fosse un crimine dettato da desiderio di “vendetta”. Disse che non sussistevano prove dello stupro e che l’omicidio non aveva connotazioni di casta.
Se un giudice indebolisce il quadro giuridico in cui è inserito il reato per il quale commina poi la pena di morte, non fa che spianare la strada alla riduzione o addirittura alla commutazione della pena da parte dell’organo di giudizio superiore. Non è una prassi insolita, in India. La condanna a morte di un individuo, per quanto efferato sia il suo crimine, difficilmente può essere definita un atto di giustizia. L’ammissione da parte del tribunale che il pregiudizio di casta continua ad essere un’orrenda realtà in India sarebbe stato un passo in direzione della giustizia. Invece il giudice si è limitato a cancellare la casta dal quadro.
Surekha Bhotmange e i suoi figli vivevano in una democrazia orientata al mercato, quindi niente petizioni Onu con lo slogan “Io sono Surekha”, né messaggi indignati di capi di stato rivolti al governo indiano. Meno male, non vogliamo mica che ci sgancino bombe addosso solo perché da noi vige il sistema delle caste.
«Per gli intoccabili», scrisse Ambedkar nel 1945, con un coraggio che gli intellettuali di oggi in India fanno fatica a trovare, «l’induismo è una vera camera degli orrori». Per un autore dover usare termini come “Intoccabili”, “casta intoccabile”, “classe arretrata” e “altre classi arretrate” per definire esseri umani come lui è come vivere in una camera degli orrori. Dato che Ambedkar ha usato il termine “Intoccabili” con rabbia fredda, lucida, e senza batter ciglio, devo farlo anch’io.
Oggi il termine “Intoccabile” è stato sostituito da quello Marathi “Dalit” (“gente svantaggiata ”), che viene a sua volta usato in maniera intercambiabile con “casta registrata.” Questa prassi, come indica lo studioso Rupa Viswanath, non è corretta, perché il termine “Dalit” include intoccabili che si sono convertiti ad altre religioni per sfuggire allo stigma della casta (come i Paraiyan del mio villaggio che si erano convertiti al cristianesimo), non considerati nell’accezione “casta registrata”.
La nomenclatura ufficiale del pregiudizio è un labirinto che porta ad una burocratizzazione del discorso. Per tentare di evitarlo, nella maggior parte dei casi, ma non sempre, uso il termine “Intoccabile” quando mi riferisco al passato e “Dalit” quando scrivo del presente. In riferimento a Dalit convertiti ad altre religioni specifico Dalit sikh, Dalit musulmani, o Dalit cristiani.
Stando ai dati ufficiali del National Crime Records Bureau ogni sedici minuti un Dalit è vittima di un crimine commesso ai suoi danni da un non Dalit; ogni giorno più di quattro donne Intoccabili vengono stuprate da Toccabili; ogni settimana 13 Dalit vengono assassinati e sei Dalit rapiti; nel solo 2012, l’anno in cui una ventitreenne venne uccisa a Dehli dopo uno stupro di gruppo, sono state violentate 1574 donne Dalit (di regola si calcola che venga denunciato solo il 10 per cento degli stupri o altri reati commessi ai danni di Dalit) e 651 Dalit sono stati assassinati. Questo solo per quanto riguarda gli stupri e le carneficine.
Non sono contemplate le umiliazioni, come essere denudati e costretti a sfilare nudi, a mangiare merda (letteralmente), i sequestri dei terreni, il boicottaggio sociale in varie forme, la limitazione di accesso all’acqua potabile. Bant Singh, un Dalit Mazhabi Sikh dello stato del Punjab, nel 2005 ha subito l’amputazione di entrambe le braccia e di una gamba perché aveva osato sporgere denuncia contro gli stupratori della sorella. Il suo caso non compare nelle statistiche ufficiali dei reati: non esiste la categoria “triplice amputazione”.
«Se la comunità si oppone ai diritti fondamentali non c’è legge, né parlamento, né magistratura che possa garantirli nel vero senso della parola», diceva Ambedkar. «Cosa se ne fanno dei diritti fondamentali i negri in America, gli ebrei in Germania e gli intoccabili in India? Come diceva Burke, non si è ancora trovato il metodo per punire le masse». Chiedete a un qualunque poliziotto di campagna in India e probabilmente vi dirà che il suo compito è “mantenere la pace”. Questo si fa per lo più difendendo il sistema delle caste. Le istanze dei Dalit infrangono la pace.
Altri abomini contemporanei come l’apartheid, il razzismo, il sessismo, l’imperialismo economico e il fondamentalismo religioso sono stati oggetto di critica sotto il profilo politico e intellettuale a livello internazionale. Come mai il sistema delle caste in India - una delle modalità più brutali di organizzazione sociale gerarchica che l’umanità conosca - è riuscito a sfuggire a un simile scrutinio e censura? Forse perché è ormai talmente fuso con l’Induismo e, per estensione, con ciò che è giudicato bello e buono (il misticismo, lo spiritualismo, la non violenza, la tolleranza, il vegetarismo, Gandhi, lo yoga, il turismo zaino in spalla, i Beatles) che, almeno dal di fuori, sembra impossibile scardinarlo e tentare di comprenderlo.
(Copyright Arundhati Roy Traduzione di Emilia Benghi)
Contraddizioni d’India
Il premio Nobel analizza l’economia del Paese, in cui per masse di cittadini la crescita non si è tradotta in benefici
di Giorgio Barba Navaretti (Il Sole-24ore-Domenica, 20.04.2014
«La pazienza è una forma minore di disperazione travestita da nobile virtù» secondo Il dizionario del diavolo scritto da Ambrose Bierce nel 1906. Questa definizione, per Jean Drèze e Amartya Sen ben rappresenta la straordinaria capacità di sopportazione degli indiani, che solo ogni tanto esplode in rabbia violenta, soprattutto negli scontri religiosi tra musulmani e indù.
Capacità di sopportazione che potrà determinare l’esito della lunga tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento indiano. L’India, infatti, è profondamente divisa tra le classi medie (20% della popolazione) che hanno beneficiato enormemente della rapida crescita economica e della modernizzazione del Paese e una massa ancora immensa di indigenti, che non hanno accesso neppure ai servizi più essenziali. Metà delle famiglie ancora vive in case senza gabinetti.
Il fuoco dei media e dei commentatori occidentali sulla straordinaria ascesa delle classi più privilegiate nasconde e allontana dal dibattito pubblico e dall’azione politica il dramma di milioni di persone che ancora vivono nelle condizioni di povertà dei tempi dell’indipendenza. Il grande premio Nobel indiano e il suo co-autore di lunga data, economista di origine belga trapiantato in India, hanno scritto un lungo saggio che ci conduce nelle pieghe nascoste e nei contrasti più profondi dell’economia indiana e che è un "must" per chi voglia capire l’immenso Paese.
L’attenzione ai dimenticati potrà apparire sorprendente al lettore distratto. Rispetto al 1950 l’India di oggi ha un reddito pro capite cinque volte maggiore (negli ultimi vent’anni è cresciuto in media dell’8% all’anno), una durata della vita attesa alla nascita che è passata da 32 a 66 anni, un tasso di mortalità infantile che è calato da 180 a 44 per migliaia di nuovi nati, una percentuale della popolazione che vive al di sotto della linea di povertà che è calata dal 47% al 22% nelle campagne e dal 35% al 20% nelle città (centinaia di milioni di poveri in meno).
Progressi straordinari, ma che non si sono realmente trasformati in benefici veri per coloro che rimangono alla base della piramide sociale ed economica. I dati sulla crescita economica nascondono il fatto che in molti indicatori di benessere umano l’India è stata raggiunta e superata da Paesi che ancora sono in media molto più poveri come il Bangladesh e il Nepal. Usando queste misure, nell’Asia del Sud oggi solo il Pakistan sta peggio dell’India. E se è vero che la proporzione di individui al di sotto della linea di povertà si è ridotta, il livello della soglia è talmente miserabile che superarla di poco non significa certo un miglioramento delle condizioni di vita effettive.
Oltre all’analisi puntuale e poco nota su questi trend di sviluppo fatta dai due autori, la parte davvero interessante del libro è la relazione tra questa evoluzione e la democrazia. Il lunghissimo processo elettorale in tutto il Paese (dal 7 aprile al 12 maggio) con un’altissima partecipazione degli aventi diritto (815 milioni) è la dimostrazione di quanto solida e pervasiva sia la democrazia indiana dall’indipendenza.
Ora, dato che i poveri hanno un voto e sono molto numerosi e possono dunque influenzare le scelte di governo, non si capisce come mai i successi nella crescita economica non si siano tradotti in politiche inclusive che migliorassero le condizioni economiche e sociali della base della piramide.
Come è possibile che oggi le condizioni sociali siano assai migliori in Cina, dove la democrazia certo non c’è? Il confronto tra i due colossi asiatici è forse indice che la democrazia non sia efficace nell’eliminare la povertà? Domanda retorica a cui i due autori rispondono ovviamente no. Il problema non è la democrazia in sé ma il suo funzionamento.
Del resto in una delle sue analisi più lucide su fame e carestie pubblicata sull’«Economic Journal» del 1983, Sen sosteneva come, grazie alla democrazia e alla diffusione delle informazioni attraverso la libera stampa, in India non sarebbe stato possibile l’esplodere di fami devastanti come quella cinese del ’58 dove in tre anni morirono tra i 14 e i 16 milioni di persone. Come è possibile che questa stessa democrazia non abbia invece indotto politiche efficaci di redistribuzione in questi anni di forte crescita?
Il problema per Sen e Drèze, in linea con il principio di John Rawls di democrazia deliberativa, è la mancanza di «governo attraverso la discussione» pubblica. La democrazia è tale non solo attraverso il voto, ma anche attraverso la partecipazione della popolazione alla deliberazione, al dibattito sulle scelte politiche e sul loro merito. Solo i problemi e le questioni che diventano oggetto di deliberazione hanno valenza politica, ossia diventano di rilievo per la classe politica.
Le fami e le carestie, anche se colpiscono una proporzione limitata della popolazione, sono eventi così drammatici e simbolici da avere immediata copertura di stampa. Questioni meno eclatanti ma fondamentali per il benessere dei cittadini, come la qualità della nutrizione, l’accesso alle scuole o la salute pubblica, sono argomenti molto poco coperti dai media.
In India i poveri, anche se votano, sono completamente esclusi dalla componente deliberativa della democrazia. Non hanno voce nel dibattito pubblico e la libera stampa indiana è totalmente indifferente ai problemi e alle sofferenze degli indigenti.
Delle centinaia di milioni di indiani che vivono ancora in condizioni di grandi miseria si parla poco. E quando si fa riferimento a politiche populiste, ad esempio l’aumento dei salari dei funzionari pubblici o i sussidi ai prezzi della benzina, sono di fatto politiche rivolte a una parte della popolazione comunque infinitamente più benestante dei miserabili al fondo della piramide.
Insomma, la disuguaglianza economica viene rafforzata e consolidata dalla disuguaglianza nell’accesso al dibattito pubblico. Ma i poveri votano lo stesso, direte giustamente. Certo, ma come le persone votano dipende anche da quanto capiscano i problemi da affrontare e se pensino che debbano e possano essere affrontati.
I poveri indiani, dunque, non solo sono al di sotto della soglia di povertà, ma anche al di sotto della soglia di consapevolezza necessaria a uscire dalla miseria attraverso il voto e l’azione politica democratica. Il voto cambierà poco se nel seggio elettorale la loro disperazione non si trasformerà in impazienza.
GRAN BRETAGNA
Amarsi a Londra al tempo delle caste
una coppia indiana sfida la tradizione
Lei è una bramina, la classe dei più ricchi. Lui un paria, la categoria degli impuri. La religione vieta il matrimonio, gli amici li abbandonano ma loro, due avvocati, non si arrendono: "Basta alle discriminazioni". E ottengono una clausola nella legge inglese
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - Giulietta e Romeo, al tempo delle caste. Solo che il tempo è oggi, e il luogo è Londra. Due ragazzi inglesi, ma di origine indiana. Lui un "intoccabile", la categoria degli impuri e dei miserabili; lei una bramina, la classe più alta, quella dei custodi della fede e del sapere. Due giovani innamorati, divisi da un’antica tradizione che vieta le unioni tra membri di caste differenti, ufficialmente messa al bando quando l’India acquisì l’indipendenza, in realtà ancora osservata da molti. Umiliati, offesi, spinti da colleghi, parenti e amici a separarsi, questi due moderni Giulietta e Romeo - diversamente dai predecessori shakesperiani - sono rimasti insieme, si sono sposati, hanno avuto un figlio. E un giorno hanno raccontato la loro storia alla camera dei Lord, affinché l’arcaico sistema delle caste sia vietato dalla legge britannica e perseguito come forma di discriminazione.
I nomi dei protagonisti non sono noti. Il Times di Londra, che rivela la vicenda, concede loro l’anonimato per proteggerli da ulteriori vessazioni. Chiamiamoli perciò come i due personaggi creati dalla fantasia di Shakespeare. Premessa: la costituzione indiana del 1949 abolì le caste, riservando specificatamente una quota di posti di lavoro nel pubblico impiego a coloro che provenivano dalle caste più basse, o dalla sottocasta dei "dalit", gli impuri, i paria, gli intoccabili, ai quali nell’India del passato venivano assegnati i mestieri più infami, come raccogliere feci nelle strade. Ma un’ampia parte della società indiana ha continuato a rispettare le caste: con i bramini sulla sommità della piramide sociale, seguiti dalla casta dei guerrieri e dei governanti, quindi da quella di agricoltori e commercianti, poi da quella dei servi. E quando milioni di emigranti indiani sono sbarcati nel Regno Unito, molti hanno portato con sé l’antica legge che proibiva i matrimoni tra appartenenti a caste diverse. Giulietta, figlia di bramini, non è religiosa. Si laurea in legge, inizia a lavorare come praticante in un importante studio legale, in una città delle Midlands, cuore dell’Inghilterra. Lì un giorno i suoi occhi incontrano quelli di un altro giovane di estrazione indiana: Romeo, praticante nel suo stesso studio. E’ amore al primo sguardo. E, per un po’, va tutto bene. Ma quando colleghi, amici e familiari scoprono che lui proviene da una famiglia di "intoccabili", la loro relazione diventa uno scandalo. Anche i senior partner dello studio sono indiani. Cominciano a fare pressioni su Giulietta perché lasci il fidanzato. Maltrattano lui, cercano di allontanarlo. Due brillanti carriere si arenano per una chiara forma di discriminazione.
I due giovani si rivolgono a un avvocato specialista di queste cause. Senonché l’Equality Act, la legge che punisce discriminazioni sulla base del sesso, della religione, della razza, non ne prevede sulla base delle caste. E’ ovvio: siamo in Gran Bretagna, nel ventunesimo secolo, dove può esistere il razzismo ma non certo la discriminazione tra bramini e intoccabili, no? E invece sì, esiste anche quella. Giulietta e Romeo non demordono. Si sposano. Hanno un figlio. Non ricevono cartoline d’auguri e doni da parenti ed amici: sono diventati, a tutti gli effetti, due intoccabili. Ma non si arrendono nemmeno davanti a questo. Ottengono un’udienza a porte chiuse davanti a una commissione della camera dei Lord. Raccontano la loro storia. E i Lord, impressionati, aggiungono - due mesi fa - una piccola clausola all’Equality Act, includendovi la discriminazione sulla base delle caste. In autunno il parlamento deciderà se vietarla espressamente per legge.
Il pregiudizio di casta provoca abusi e violenze, anche oggi, anche tra gli indiani d’Inghilterra. Gli intoccabili sono sottoposti a prese in giro e bullismo. Uno confessa che a scuola i compagni lo costringevano a pulire i gabinetti. Altri parlano di rapporti d’affari interrotti, di amori vietati. Nel 2005, una giovane londinese di 25 anni fu massacrata dal padre, dal fratello e dai cugini, perché aveva confessato di amare un uomo di una casta inferiore. Ma le organizzazioni induiste non ammettono volentieri il problema, temendo che riconoscere l’esistenza del sistema delle caste serva a colorare con uno stereotipo razzista tutta la loro comunità, facendola passare per retrograda. "Invece di occuparsi delle caste dell’India", dice in proposito Bharti Tailor, segretario generale dell’Hindu Forum of Britain, "perché gli inglesi non si preoccupano delle loro insuperabili differenze di classe? Non è forse una casta anche la famiglia reale?". Come che sia, Giulietta e Romeo sperano che la loro storia abbia un lieto fine. Anche gli amori difficili possono essere felici.
* la Repubblica, 06 luglio 2010
3 giugno 2009 - 20.51
India: una Intoccabile guida Camera bassa, per la prima volta *
NEW DEHLI - La storia politica indiana si è arricchita oggi di un nuovo evento inedito con l’elezione alla presidenza della Lok Sabha (Camera bassa) di una Intoccabile, Meira Kumar, che molti vedono già come rivale di Kumari Mayawati, universalmente nota come la "regina dei dalit". Kumar è stata nominata raccogliendo la quasi unanimità.
Analisti e stampa locale hanno dedicato alla vicenda numerosi commenti, sottolineando fra l’altro come il ruolo delle donne nella politica indiana stia crescendo a vista d’occhio, dopo l’elezione alla presidenza dell’Unione di Pratibha Patil (anche qui, prima volta di una donna), e la conferma ai vertici del partito del Congresso della potentissima Sonia Gandhi.
A 64 anni Meira Kumar, che ha una formazione diplomatica, è la prima donna che ricopre il delicato incarico di presidente della Lok Sabha, ma soprattutto è la prima Intoccabile che arriva così in alto nella gerarchia del potere istituzionale.
Volto sereno e sorridente, la nuova presidente della Camera è stata eletta deputato nel turbolento stato del Bihar e secondo gli esperti avrà il suo da fare per imporsi ad un’assemblea di 545 membri che è teatro di accese battaglie politiche.
* SDA-ATS
di Evelina Marchesini *
Rivoluzione negli organismi di governo dell’India. Per la prima volta una donna è stata scelta a presiedere la nuova Camera Bassa che si insedia domani. Meira Kumar, 64 anni, parlamentare del Congresso sarà infatti la "speaker" del Lok Sabha (Assemblea del popolo) che conta 543 deputati.
A volere la sua nomina, che sarà formalizzata nella sessione del 3 giugno, è stata Sonia Gandhi, la leader del Congresso, del partito di maggioranza che ha trionfato nelle elezioni di maggio-aprile. Di estrazione "dalit" (gli "intoccabili"), Kumar è originaria dello Stato settentrionale del Bihar e fa parte di una dinastia politica essendo la figlia di un ex vice primo ministro.
Ha una lunga esperienza come diplomatica (nelle ambasciate in Spagna, Regno Unito e Mauritius) e nel precedente governo come ministro per la giustizia sociale dove si era battuta, in particolare, per la promozione di matrimoni tra caste differenti. Era stata riconfermata venerdì scorso nella nuova compagine governativa di Manmohan Singh come ministro per le risorse idriche, incarico da cui dovrà dimettersi.
Non è la prima volta che Sonia Gandhi affida una delle massime cariche istituzionali a una donna. Nel 2007, un’altra "fedelissima" del Congresso, Pratibha Patil era stata scelta come presidente della Repubblica al posto dello scienziato nucleare mussulmano Abdul Kalam. Secondo Wikipedia, Meira Kumar è nata nel 1945 nel Patna e suo marito, Manjul Kumar, è un avvocato della Suprema corte indiana. La coppia ha tre figli, tutti e tre sposati. Viene definita una sportiva, ha collezionato medaglie nel tiro con il fucile ed è anche una poetessa.
* Il Sole-24 Ore, 31 maggio 2009
L’India vota
La leader degli Intoccabili sogna l’exploit
Da un anno Mayawati governa l’Uttar Pradesh, il più popoloso Stato dell’Unione indiana.
Fra un mese potrebbe dirigere l’intero Paese. L’India ha già avuto una donna premier. Mai però sinora un’«intoccabile».
La rivincita. Mayawati Kumari potrebbe diventare l’ago della bilancia per il nuovo governo
La maratona elettorale. Si svolgerà in quattro tornate e passerà un mese per avere i risultati
di Gabriel Bertinetto (l’Unità, 17.04.2009)
Tutelati dalle leggi dello Stato. Disprezzati dal comune pregiudizio. Vittime di discriminazioni sociali e di violenze, tollerate nei fatti quanto estranee ai valori fondanti della democrazia indiana. Sono i dalit, gli «intoccabili», i fuoricasta. Il mahatma Gandhi voleva sollevarli dal fango della loro atavica esclusione. Li chiamava «harijan» (paria), cioè «figli di Dio». Una bella parola, cui tuttora corrisponde spesso purtroppo una condizione abominevole. Sono loro i mestieri più sporchi: pulire le latrine, rimuovere le carcasse, maneggiare i concimi più luridi. Esseri impuri, da tenere a distanza, ai quali vietare l’accesso ai templi come ai ristoranti. Intoccabili, appunto.
Per 170 milioni di indiani, il 16% rispetto alla popolazione complessiva, ma quasi un quarto sul totale dei cittadini di fede indù, è vicino forse il momento della rivincita. Una di loro potrebbe ricevere talmente tanti voti da diventare l’ago della bilancia, quando, fra un mese circa, si tireranno le fila della maratona elettorale iniziata ieri e destinata a proseguire attraverso quattro successive tappe sino al 16 maggio prossimo. Si chiama Mayawati Kumari, 53 anni, e dirige il «Bahujan Samaj» («Partito della maggioranza», Bsp).
Poco più di un anno fa Maywati stravinse le elezioni nello Stato dell’Uttar Pradesh, diventandone primo ministro. Ed ora, confortata dalle previsioni di analisti e sondaggi, spera di replicare il successo su scala nazionale. Impensabile che possa scavalcare i due partiti maggiori, di governo e di opposizione, rispettivamente il «Congresso» ed il «Bharatiya Janata» (Bjp). Ma la probabile crescita nei consensi popolari, accompagnata al pronosticato calo dei due colossi, darebbe a Mayawati una tale forza contrattuale, da permetterle persino, si dice, di barattare il sostegno all’uno o all’altro con la poltrona di premier.
Un gran passo in avanti per l’intoccabile Mayawati. Da bambina andava a scuola scalza come tanti coetanei poveri della poverissima India. Abitava a Delhi con otto tra fratelli e sorelle che Ram Rati, la mamma, aveva avuto da Prabhu Das, un impiegato della compagnia telefonica statale. La democrazia indiana promuove il riscatto degli umili e cerca di contrastare il peso di tradizioni strumentalizzate per usi socialmente nefasti. Quote di impieghi pubblici ed iscrizioni scolastiche ed universitarie sono riservate ai fuoricasta ed ai membri delle caste più basse. Beneficiando di quei meccanismi di tutela, il padre aveva trovato un lavoro da colletto bianco, e grazie a quegli stessi meccanismi Mayawati conseguì un diploma in legge. Nel 1977 l’incontro con Kanshi Ram, fondatore del Bahujan Samaj, segnò una svolta nella sua vita proiettandola in politica.
INSOLITA ALLEANZA
Diversamente dal Congresso, che si è sempre rivolto ai connazionali con un messaggio interclassista intersecato con l’appello alla collaborazione fra le caste, il Bsp di Kanshi Ram si ispirava ad un’ideologia che mette al primo posto l’avanzamento delle caste inferiori, e soprattutto di coloro che sono addirittura considerati fuori dalla ripartizione in caste, i paria, così come di quel quasi venti per cento di cittadini che non si riconoscono nella religione di Brama Shiva e Vishnu: buddhisti, cristiani, musulmani. Eppure per ottenere nelle urne il trionfo che le consente di governare da oltre un anno in Uttar Pradesh, Mayawati ha dovuto varare un’inedita alleanza fra gli infimi scalini della scala sociale, naturale bacino elettorale del Bsp, e la casta superiore, quella dei bramini. L’esercito dei senzaterra delle campagne ha trovato nei gruppi dirigenti delle città sostegno nella lotta contro i proprietari terrieri delle caste intermedie.
L’Uttar Pradesh è il più popoloso Stato dell’Unione ma anche uno dei più poveri. Fra il 1999 ed il 2008 il prodotto lordo è cresciuto qui a ritmi inferiori al 5%, un’inezia rispetto alla media nazionale. Quasi metà del reddito proviene dall’agricoltura, e nei lavori dei campi sono impegnati tre quarti degli abitanti. Mayawati ed il Bahujan Samaj hanno trovato seguito nella sconfinata massa di braccianti e contadini senza terra. Hanno dato voce agli intoccabili indù, ai buddhisti emarginati, alle caste più basse. Che nelle zone rurali, assai più che nelle città, subiscono le conseguenze dell’emarginazione perpetrata dietro il paravento delle consuetudini e dei valori religiosi.
STIMATA SORELLA
L’Uttar Pradesh contribuisce massicciamente a rimpolpare le statistiche sugli atti di violenza commessi contro i dalit in India. Ogni anno vengono ufficialmente registrati nel Paese 110mila casi di omicidi, stupri, aggressioni ai danni dei fuoricasta. L’opinione comune è che la cifra sia in realtà molto più alta, perché tanti episodi non sono denunciati.
Mayawati ha alzato la voce contro intolleranza ed abusi. Ha promosso iniziative legali contro funzionari disonesti e poliziotti infedeli. Non è uscita indenne a sua volta da pesanti accuse di corruzione e autoritarismo. Ha lanciato grandi opere pubbliche, ma non è riuscita per ora a ridurre in maniera evidente la disoccupazione. Il bilancio della sua azione di governo nell’Uttar Pradesh non è tutto positivo. Ma per molti intoccabili oggi è un raggio di luce nel buio. La chiamano «Behenji» (Stimata sorella). Ieri molti hanno probabilmente votato per lei e altri lo faranno nelle prossime tornate.
L’omicidio è avvenuto a Patna, uno dei villaggi del Bihar, nell’est del Paese
Ucciso "intoccabile" 15enne
per una lettera d’amore
Aveva scritto a una ragazza di casta superiore: è stato gettato sotto un treno davanti alla madre
Manish è stato preso mentre andava a scuola. È stato picchiato, bastonato, portato per le strade del villaggio con la testa rasata, e poi gettato sotto un treno, sotto gli occhi della madre. E tutto questo perché Manish Kumar, 15 anni, aveva osato scrivere una lettera d’amore a una ragazzina di una casta diversa dalla sua. Rompendo una regola che, seppure ufficialmente abolita, continua a esistere - e a uccidere - in India.
GUERRA TRA «INTOCCABILI» - L’omicidio è avvenuto giovedì a Patna, uno dei villaggi del poverissimo stato del Bihar, nell’est del Paese. La polizia - spiega alla Reuters il sovrintendente del distretto di Kaimur, Rajesh Kumar - ha arrestato sei uomini e sospeso un agente, incapace di impedire il massacro. Incapace di impedire che la madre del ragazzo, Lalit Devi, osservasse «inerme le ruote del treno che lo uccidevano, mentre chiedevo pietà», come la donna ha detto in caserma. Il ragazzino apparteneva ai Ravidas, una delle molte suddivisioni della casta dei Dalit, gli «intoccabili». Storicamente i Ravidas lavorano come conciatori - un’occupazione che in India, dove la mucca è animale sacro, viene considerata impura. Per questo, pur essendo come i Ravidas «intoccabili», i Dhobi - il gruppo cui appartiene la ragazza di cui Marish si era innamorato, gruppo storicamente dedito alla tintoria - sono una sottocasta superiore. Per questo una semplice lettera d’amore, spedita ad agosto ma scoperta pochi giorni fa dai genitori, è un affronto intollerabile. Da lavare col sangue.
LE CASTE - «La crudeltà di questo assalto ha destato un grande interesse, ma incidenti simili sono tutt’altro che rari», ha detto il sociologo Prakash Louis. Il sistema delle caste, infatti, continua a sopravvivere nella «più grande democrazia del mondo». E, pur senza valore giuridico, continua a dividere gli indù in quattro caste - i Bramini, o sacerdoti, i Kshatriya o guerrieri, i Vaishya, mercanti o contadini, e i Sudra, artigiani. Al di fuori del sistema restano gli «intoccabili», I Dalit. E nonostante le molte leggi approvate, dall’indipendenza dell’India, per cancellare le discriminazioni, poco è cambiato nella società. I pasti, le occupazioni, i luoghi di preghiera sono rigidamente separati. Sui siti di appuntamenti (come Shaadi.com) si può specificare a quale casta si appartiene. E anche nei cimiteri cattolici - una religione per cui le caste non esistono - le tombe sono raggruppate per casta.
LE ECCEZIONI - Gli episodi positivi - come quello di Rajeev Singh, 45 anni, della casta dei Vaishya, sposato da 18 anni con Anita Pharti, 42enne Dalit - sono un’eccezione. «Noi siamo stati fortunati» spiega Rajeev al Washington Post. Nonostante il matrimonio tra membri di caste diverse sia legale da 50 anni, e di recente sia incentivato dal governo con buoni da mille dollari, il numero di omicidi «d’onore» è cresciuto, rivela la All India Democratic Women’s Association. Sette i casi, solo nell’ultimo mese. «Questo indica che la nuova generazione sta lottando per la libertà di sposarsi fuori dalle caste» spiega Shashi Kiran, giudice nella Corte Suprema Indiana. Casi come quello di Shubash Chander, 57 anni, immigrato indiano a Chicago, che a gennaio ha ucciso figlia, genero e nipote «perché quel matrimonio era al di fuori dalle caste», testimoniano, dice Kiran, «che siamo una società che lotta ancora con il cambiamento». Una lotta che giovedì ha ucciso anche il piccolo Manish, con la sua lettera d’amore.
Davide Casati
* Corriere della Sera, 23 novembre 2008
la Repubblica 30.12.2007
La rivolta dei fuoricasta
India ancestrale
La recente marcia su New Delhi dei dalit, gli intoccabili, e degli adivasi, gli aborigeni, che formano un quarto della popolazione indiana e che rivendicano terre e diritti, è la manifestazione-simbolo della complessa guerra di tutti contro tutti che da anni dilania il paese dei bramini
Nonostante le numerose leggi garantiste e il sistema delle quote per pubblico impiego e università centinaia di milioni di cittadini sono ancora discriminati
Nel 2005 il ministero dell’Interno ha contato ventiseimila casi di violenze commesse contro le caste inferiori: case distrutte, omicidi, stupri
È la rivolta degli intoccabili. Erano più di ventimila nelle strade di New Delhi, qualche settimana fa, i manifestanti arrivati alla meta dopo quasi un mese di marcia. Migliaia e migliaia di dalit, gli intoccabili fuoricasta, e adivasi, gli aborigeni delle tribù cacciati in gran numero dalle terre e dalle foreste ancestrali per far posto a industrie, dighe, ferrovie e autostrade della moderna, «incredible India». Erano partiti da Gwalior, nel Madhya Pradesh, e lungo tutti i trecento chilometri del percorso avevano gridato sempre lo stesso slogan: «Hal karo, bhai, hal karo, zameen ki samasya hal karo!», risolvete, per favore risolvete il problema delle terre. In un paese ormai abituato a rivolte, proteste e manifestazioni quotidiane di milioni di esclusi dal boom tecnologico, ben pochi giornali e tv hanno riferito di questa satyagraha su modello gandhiano dei poveri tra i poveri, giunti da tredici diversi stati della grande federazione.
Nemmeno quando il 19 ottobre tre partecipanti, membri della tribù sahariya, sono stati investiti e uccisi da un camionista ubriaco. Forse qualche titolo in più l’avrebbero guadagnato assaltando per protesta autobus, posti di polizia o uffici pubblici, come è successo altrove. Ma, fedeli ai principi non violenti, hanno sepolto i loro morti, gli hanno reso un omaggio commosso e si sono rimessi in cammino verso la capitale.
La marcia Gwalior-Delhi è solo l’ultima delle clamorose iniziative prese "dal basso" per tentare di risollevare le sorti di centinaia di milioni di cittadini inesorabilmente legati a uno status sociale che ha matrici religiose antiche e, evidentemente, ancora indelebili nonostante la miriade di leggi garantiste scaturite dalla nobile Costituzione scritta sessant’anni fa dallo storico leader dei dalit Bhimrao Ambedkar.
Dalit e adivasi - rispettivamente il sedici e l’otto per cento della popolazione - hanno teoricamente goduto in questo ultimo mezzo secolo di privilegi impensabili nel passato, a partire dalle quote riservate di impieghi pubblici e posti nelle università. Ma una grande massa di almeno mezzo miliardo di esseri umani continua a essere in gran parte vittima dei pregiudizi inculcati a ogni livello nel dominante sistema induista di caste dei varna (letteralmente, i colori), formati dalle categorie "superiori" dei sacerdoti-intellettuali bramini, dei guerrieri kshatriya, dei commercianti vaisya, e da quella inferiore ma numericamente dominante dei servitori, o sudra, pari al cinquanta per cento del miliardo e cento milioni di indiani. Anche questi ultimi, raccolti sotto l’altrettanto discriminante denominazione di Obc (sigla inglese per "altre caste arretrate") subiscono a loro volta il peso di un’atavica sottomissione, di un peccato originale che nell’induismo significa "impurità", "intoccabilità". Come i dalit e gli aborigeni, ben pochi sudra-Obc hanno posti rispettabili o possiedono terre proprie, oltre a essere spesso vittime di abusi razziali. Ma il diritto alle quote riservate acquisito grazie al loro peso elettorale - più che a criteri di giustizia sociale - ha creato, all’interno del ginepraio di oltre tremila caste e sottocaste delle Obc, sacche di privilegio che sono andate a pesare, ancora una volta, sugli ultimi gradini del sistema.
È in questa fase storica che dal cilindro magico della «più grande democrazia dell’Asia» è emersa nel maggio di quest’anno Mayawati Kumari, una vera e propria regina dei dalit destinata - almeno nei suoi intenti - a cambiare per sempre il volto politico e sociale del continente. Le immagini della sua terza cerimonia d’investitura a primo ministro dell’Uttar Pradesh, il più popoloso Stato dell’India, sono state celebrate come le più significative icone della fine di un’era. Frotte di neo-ministri bramini, che in passato non avrebbero mai mangiato al suo stesso tavolo, si sono prostrati a toccarle la veste in segno di deferenza, dopo che con abile mossa strategica se li è fatti alleati per battere il precedente governo dominato dal potente clan Obc degli Yadav. In America, dove si guarda con attenzione inedita all’India, il settimanale Newsweek ha inserito Mayawati tra le otto donne più influenti del mondo e la sua ibrida alleanza intercasta è seguita con ansia crescente dallo stesso governo in carica a Delhi, consapevole che la politica liberista del Congresso ha lasciato indietro anche un numero consistente di bramini, incapaci di preservare i privilegi e stare al passo coi tempi.
E alla vigilia di Natale il partito di Sonia Gandhi ha dovuto assistere in Gujarat alla vittoria di un altro nemico altrettanto minaccioso, Narendra Modi, figlio di un venditore di tè e membro delle Obc nonché icona del Bjp, il partito castista e nazionalista per eccellenza, che tra il 1998 e il 2004 ha governato il Paese. Nonostante l’accusa di aver appoggiato le rivolte hindu che cinque anni fa costarono la vita a tremila musulmani, anche lui per la terza volta ha conquistato alle urne uno stato da trenta milioni di anime, raccogliendo i voti di elettori sia di casta alta che sudra come lui, compresi dalit e tribali. Il suo successo, attribuito al forte carisma e ai progressi economici nel suo stato fortemente industrializzato, di certo conferma che la dinamica dei varna e il loro peso in politica resta ancora un mistero insondabile. Ma se è vero che il sistema delle garanzie sociali e la modernizzazione del Paese hanno spinto in alto milioni di ex paria istruiti verso le categorie del ceto medio, le motivazioni della marcia dei ventimila da Gwalior a Delhi e i settemilacinquecento casi di abusi contro i dalit nel solo Uttar Pradesh dall’elezione di Mayawati in poi, dimostrano che per masse di fuoricasta le discriminazioni sociali sono forse peggiori che nel passato. L’ultimo dato reso noto dall’Ufficio nazionale d’investigazione del ministero degli Interni riporta nel 2005 oltre ventiseimila casi di atrocità contro le caste inferiori. È stato calcolato che ogni ora - specialmente nelle aree rurali - due dalit vengono uccisi, due case di poveracci vengono distrutte e due donne violentate. Nello stesso lasso di tempo altrettanti intoccabili subiscono aggressioni per i motivi più disparati, una violazione ai rigidi divieti imposti dalla tradizione di entrare nei villaggi o nei templi delle caste alte, di attingere acqua dalla stessa fonte, di indossare le scarpe o il cappello al passaggio di un bramino, di intrattenersi fuori dai loro ghetti o - peggio di tutti - reclamare terre o innamorarsi di una persona d’altra casta. Che non si tratti di fenomeni relegati alle sole popolazioni arretrate delle campagne lo dimostra un recentissimo caso avvenuto nella tecnologica Hyderabad, capitale dell’Andra Pradesh, dove la figlia di un celebre attore di basso ceto, Chiranjeevi, ha sposato il figlio di un bramino tra scandali e minacce di morte.
Chi viaggia per l’India impiega anni a capire lo stratificato e sempre più sottile processo di esclusione che da almeno tremila anni affligge la società, complice l’ortodossa interpretazione delle sacre scritture dei Veda fornita dai loro depositari, principalmente gli intellettuali bramini che dominano il mondo dei media e della politica pur professando spesso una mentalità laica. Un fenomeno al quale non sono immuni gli stessi comunisti che governano su modelli capitalisti stati come il Bengala e il Kerala, al punto da trasformare in un caso nazionale l’impresa di Gaurishankar Rajak, un lavapanni del villaggio di Dumba, nel Jharkhand, che tutte le settimane da ventuno anni scrive a mano e distribuisce a sue spese in ciclostile un battagliero giornaletto dedicato ai problemi dei dalit come lui.
I casi eclatanti di cronaca non mancano mai, l’ultimo qualche tempo fa proprio in un villaggio dell’Uttar Pradesh governato da Mayawati, dove un’anziana dalit di nome Jeewam Shri è stata data alle fiamme dal padre di una ragazza di ceto elevato, che non voleva fidanzarla al figlio di Jeewam. Prima di morire la donna ha fatto il nome del suo aggressore ma, invece di ribellarsi, il promesso sposo e gli altri parenti hanno preferito abbandonare il villaggio. Spesso infatti la giustizia indiana procede con tale inefficacia o lentezza che le vittime diventano bersaglio di ulteriori violenze, com’è accaduto lo scorso anno a un attivista dalit del Punjab, Bant Singh, al quale sono stati mutilati tutti e quattro gli arti per aver cercato giustizia contro i violentatori di sua figlia, tutti membri di una casta superiore.
Anche casi di massacri contro intere comunità di intoccabili, pure riportati con grande risalto dalla stampa, sono finiti senza colpevoli. Come nello stato Far west del Bihar, dove opera la milizia dei latifondisti hindu Ranvir Sena. Con la giustificazione di voler fare piazza pulita dei maoisti naxaliti che si battono con le armi contro i soprusi dei proprietari terrieri bhumihar, il Ranvir Sena ha portato a termine dalla sua nascita nel ‘94 una clamorosa serie di stragi rimaste tutte impunite: le più eclatanti nel ‘97 a Laxmanpur Bathe (sessanta dalit uccisi tra cui ventinove donne e sedici bambini), nel gennaio del ‘99 a Shanker Bigha (ventitré vittime), e nel febbraio dello stesso anno a Narayanpur (dodici morti).
Ma il Bihar non è un’eccezione. A distanza di quindici anni, il governo del Rajastan non ha ancora pubblicato gli atti del processo senza colpevoli contro gli autori della strage di diciassette dalit bruciati vivi nel villaggio di Kumber. E per arrivare a tempi più recenti, nel Maharastra, a poche ore dalla capitale del commercio e dello spettacolo Mumbay, procede tra sospette lentezze il processo contro gli autori del linciaggio di massa avvenuto un anno fa nel villaggio di Khairlanji. La quarantenne dalit Surekha e sua figlia di diciassette anni sono state picchiate, stuprate e mutilate pubblicamente da centocinquanta powar e kalar (due caste classificate come Obc) che hanno anche bastonato a morte altri due figli. La colpa di Surekha era stata di testimoniare contro dodici membri delle caste superiori - tali si considerano anche molte Obc - che avevano ucciso un dalit per una contesa di terre. Per la prima volta l’episodio sembrò scatenare un movimento nazionale dei fuoricasta, che scesero in piazza in diversi stati e continuarono per giorni minacciando di marciare su Delhi. Ma, come sempre nella storia degli oppressi dell’India, non sono riusciti a trovare un’unità di intenti e di azione, divisi da odi, pregiudizi atavici e interessi di clan spesso determinati dalla confusione legislativa con cui vengono applicate in diversi stati e con diversi criteri le stesse leggi di garanzia.
Le quote di posti pubblici e di accessi universitari riservate a dalit, tribali e Obc (fino a un tetto del 49,5 per cento del totale fissato dalla Corte suprema), dopo aver scatenato le proteste e le ondate di suicidi di membri delle caste alte nel ‘90, sono state anche la causa di vere e proprie guerre tra poveri per stabilire gli aventi diritto. Nel complicato mosaico di clan e sottoclan avvengono infatti spesso cambi di status che seguono di regione in regione esigenze elettorali, prima che di censo. Una delle battaglie più sanguinose si è verificata a giugno in Rajasthan tra gujjar e meena, con trenta morti, cento feriti e il blocco di importanti arterie come la Jaipur-Delhi. I gujjar, ex pastori oggi catalogati come Obc, avevano visto ridotte le loro percentuali di posti riservati dopo il declassamento alla loro medesima categoria - sempre per motivi di quote - della popolosa ed elettoralmente potente comunità di proprietari terrieri jaat. Per recuperare parte dei diritti persi, i gujjar del Rajasthan hanno allora chiesto di autodeclassarsi al gradino di scheduled tribe, ovvero di tribù aborigena. Ma così facendo andavano a intaccare la percentuale di posti riservati già attribuiti ai clan tribali dei meena e dei bhil, che hanno risposto con altrettanta durezza, sia nelle piazze che in parlamento.
Ovunque, nell’India delle "mille rivolte" raccontata da Naipaul, ci si batte ormai con le unghie e con i denti per un posto in quota, affidandosi al partito che promette più posti in cambio di voti, alimentando le critiche di quanti temono che la spartizione tra caste finirà con lo sgretolare un sistema, magari ingiusto ma consolidato e efficace, di avanzamento per meriti.
La realtà è che i meriti sono stati acquisiti dai ceti alti grazie al tradizionale accesso all’educazione, mentre i posti disponibili in uffici pubblici e scuole specializzate non sono facilmente moltiplicabili, specialmente oggi che avanza il processo di privatizzazione lasciato in mano alle grandi imprese dove non contano quote e leggi anti-apartheid.
Per questo la marcia dei ventimila da Gwalior a Delhi rischia di aver percorso invano la strada dell’utopia. Come Gandhi, otterranno forse ammirazione e rispetto ma non le loro terre ancestrali.
Cambia l’India delle caste
Il partito Il Bsp ha messo insieme brahmini e dalit I paria Sono 200 milioni. Costretti ai lavori più umili
La scalata degli Intoccabili
La sfida di Mayawati, regina discussa e molto popolare
di Paolo Salom (Corriere della Sera, 06.08.2008)
È la regina degli intoccabili. Behenji, sorella, di 160 milioni di indiani - i dalit - costretti a guardare il mondo dal basso della loro infima condizione di fuori casta. Mayawati Kumari, per tutti soltanto Mayawati secondo l’uso dei paria, ha però deciso di spezzare le catene assegnate dal destino e conquistare un onore che mai nel passato una come lei aveva osato sognare: guidare l’India. A 52 anni, l’umile figlia di un impiegato, cresciuta in una baraccopoli di New Delhi, amata da molti ma detestata dai più, combatte una battaglia che potrebbe rivoluzionare il futuro del Subcontinente. La sua formazione, il Bahujan Samaj Party (Bsp), alle prossime elezioni generali - nel 2009 - potrebbe diventare l’avanguardia di un «terzo fronte» in grado di scardinare l’alternanza di potere tra il Partito del Congresso dei Gandhi e i nazionalisti indù del Bharatiya Janata Party (Bjp).
Un compito non facile. Mayawati come Nehru o come Indira? In realtà, questa parlamentare controversa, dalla personalità fortissima, sta costruendo la sua fortuna con un’abilità e una lucidità raramente mostrate sulla scena di un Paese che adora ancora affidarsi alle dinastie, possibilmente ai brahmini. Lei è unica, non assomiglia a nessuno, se non altro per il suo stile di governo: a un tempo visionario e spietato.
«L’emergere di Mayawati ha aperto un nuovo orizzonte a diversi gruppi politici- ha spiegato alla Bbc Shekhar Gupta, direttore del quotidiano Indian Express -. La sua immagine giganteggia. Il terzo fronte è nato e Mayawati ne è il fulcro». In realtà, il partito di Mayawati a livello nazionale è ancora debole (17 parlamentari su 802) ma a livello locale è forte nello Stato più importante della Federazione, il popoloso Uttar Pradesh, dove l’anno scorso ha conquistato la maggioranza assoluta (e lei è diventata chief minister, come dire governatore). Ma è la strategia adottata dalla regina dei dalit che ha fatto gridare al miracolo e ha trasformato i sondaggi in un’incoronazione annunciata. Mayawati, infatti, sta plasmando il suo potere su un’alleanza che trascende l’appartenenza di casta o di religione - il vero tabù in India. Ha convinto 52 brahmini (la casta che sta al vertice) a fare campagna elettorale a fianco degli intoccabili. Non solo: nello stesso partito convivono anche 29 esponenti di religione musulmana. Nel Paese - la più grande democrazia del mondo - che vede le baruffe tra indù e islamici sfociare in stragi ripetute, è forse il segno più evidente della capacità di questa donna eterodossa - una vera lady di ferro - di attirare il consenso, nonostante alcuni aspetti controversi che ne fanno un’icona per nulla immacolata.
Un esempio? Lei, nata povera e senza diritti, adora vivere nel lusso (le sono intestate diverse proprietà) e non si preoccupa di nascondere in pubblico gioielli da Mille e una notte. Quando è seduta alla sua scrivania di chief minister dell’Uttar Pradesh, inoltre, dipendenti e collaboratori bussano alla porta tremebondi e finiscono ginocchioni al suo cospetto: Mayawati licenzia con la facilità con cui respira. Ciononostante, in India la sua carriera è portata ad esempio. E la possibilità che diventi primo ministro - se può sgomentare molti - è vista come il segno dei tempi che cambiano, un passaggio di immenso valore simbolico.
«Significherebbe - spiega l’analista politico Mahesh Rangarajan - che può farcela anche una donna dalit nata in uno Stato povero e popoloso, una persona che si è guadagnata il rango attraverso lo studio e la fatica, non ereditandolo attraverso il matrimonio o il lignaggio». Del resto, come avrebbe potuto? Nata il 15 gennaio 1956, Mayawati, da ragazzina, si divideva tra la scuola (dove andava scalza) e l’aiuto domestico. Suo padre e sua madre potevano sacrificarsi per darle un’istruzione. Ma una cosa non avrebbero mai potuto assicurarle: una vita libera dal disprezzo che i dalit, gli «oppressi », attirano per il loro essere semplicemente quello che sono agli occhi di molti indiani: gli ultimi, i reietti, i destinatari di una vita miserabile perché così è stabilito «per sempre» dal ciclo della vita. Non per Mayawati, però. Che studia, si laurea in legge e diventa insegnante per conquistare il diritto, per sé e per quelli come lei, di bere il tè nelle stesse tazze dei brahmini, o di attingere l’acqua nei pozzi comuni. La condizione di casta tuttavia si imprime sulla sua coscienza, scatenando una rabbia che, una volta entrata in politica, non cercherà mai di dominare: «Lasceremo sulle caste alte l’impronta delle nostre scarpe», ebbe a dire un giorno uscendo da un comizio. Frase mai smentita che le era sgorgata dal profondo.
D’altro canto è proprio per questa sua «forza primordiale», per questa capacità di esaltare e trasformare le debolezze in vantaggi che Mayawati fu scelta e considerata sin dall’inizio «l’erede» da Kanshi Ram, fondatore nel 1984 del Bsj, il partito nato con lo scopo di dare voce ai dalit. Kanshi Ram, di fronte alla sua protetta, aveva subito preconizzato un futuro che allora appariva semplicemente inconcepibile. Lei, che aveva inutilmente cercato di superare gli esami per entrare nell’Amministrazione pubblica indiana, nelle sue parole «sarebbe diventata una regina destinata a decidere la sorte dei funzionari di rango, piuttosto che diventare una di loro». Verissimo: il popolo dalit la chiama «regina», oltre che «sorella ». E, come chief minister (con maggioranza assoluta nel Parlamento locale) dell’Uttar Pradesh, Mayawati ha potere - che usa come abbiamo visto senza alcuno scrupolo - su tutti coloro che da lei dipendono, siano brahmini o meno.
C’è da chiedersi come questa donna che ha imboccato con tanta decisione la strada del riscatto riesca ad affascinare ben oltre i confini di casta. Certo, ha promosso l’alleanza con brahmini e musulmani. Ma perché questi l’avrebbero accettata? Perché l’India dovrebbe volere un’intoccabile nell’ufficio più importante? Non è bella, non ha certo il fascino di una diva di Hollywood. E nemmeno il portamento di una Sonia Gandhi. Si veste con colori chiassosi e non ha stile. Non si vergogna di esibire le sue ricchezze né si preoccupa di giustificarne l’origine. Eppure piace. Non sa l’inglese, non conosce a fondo la Costituzione o le leggi del suo Paese. Eppure le sue posizioni in Parlamento suscitano ammirazione. Forse perché si oppone agli Stati Uniti e all’accordo nucleare che ha rischiato di far cadere il governo di Manmohan Singh («Non dobbiamo diventare i servi degli Usa», ha denunciato di recente). In più vorrebbe portare a compimento l’opera di B. R. Ambedkar (1881-1956), un paria di nascita, autore di numerosi scritti sui temi della sua condizione, riassunti nell’articolo 17 della Costituzione indiana, che vieta la «pratica dell’intoccabilità ».
In teoria: dei 200 milioni di poveri e sottonutriti del Subcontinente, la stragrande maggioranza sono tuttora dalit, disprezzati e legati per la vita ai lavori più umili. Mayawati queste cose le sa perché le ha provate sulla propria pelle. Ma è anche riuscita a spezzare le catene, invisibili ma ferree, della sua condizione. Diventando ricca e potente, soprattutto potente. Questo forse è l’aspetto che più affascina. Non era nessuno e ora è qualcosa di molto di più, per tutti: una promessa.
Missione low cost, l’India alla conquista di Marte
Tecnologia tutta indiana La rivincita dell’Asia dove vive il 40% degli scienziati del mondo
Decollato alle 14,38 locali il razzo per il pianeta rosso, costo dell’operazione: 73 milioni di dollari
di Pietro Greco (l’Unità, 06.11.2013)
La Mars Orbiter Mission, chiamata familiarmente «Mangalyaan», è iniziata ieri con pieno successo alle 14,38 ore locali presso l’Indian Space Research Organisation’s Satish Dhawan Space Centre di Sriharikota.
Stiamo parlando del centro spaziale che si trova sulle coste orientali del subcontinente indiano che affacciano sul Mare del Bengala. L’astronave punta decisa su Marte, dove conta di arrivare per il 21 settembre del 2014 dopo aver viaggiato per 200 milioni di chilometri.
Ma non ha fatto in tempo a partire, che Mangalyaan ha già battuto un paio di record. Con un costo di appena 73 milioni di dollari, è la missione interplanetaria più economica della storia. Per fare altrettanto gli americani o gli europei spendono anche dieci volte tanto. Inoltre, dopo il fallimento di un tentativo esperito dalla Cina nel 2011 (l’astronave era montata su un missile russo) e del tentativo fatto dal Giappone nel 1998, l’India è il primo paese asiatico il quarto in assoluto, dopo Usa, Urss/ Russia ed Europa a inviare una sonda verso il pianeta rosso.
Gli obiettivi scientifici, dicono i critici, sono modesti: misurare con buona accuratezza la presenza di metano nella tenue atmosfera del pianeta rosso. Ma questi analisti pelosi non tengono in considerazione che l’obiettivo principale era (ed è ancora) verificare se l’India è capace di progettare, avviare e portare a termine una missione interplanetaria completamente da sola.
Tutto indiano è, infatti, il razzo che ha portato fuori dall’orbita terrestre la sonda. Tutta indiana è la sonda. Tutti indiani gli strumenti scientifici a bordo. Inoltre i cinquecento scienziati e i tecnici spaziali indiani che dal centro Isro (Indian Space Research Organisation) di Bangalore seguono Mangalyaan ricordano che nel 2008 la missione Chandrayaan, inviata con pochi mezzi sulla Luna, è sta la prima a dimostrare in maniera inoppugnabile che c’è acqua sul nostro satellite naturale.
Ma, a prescindere dal fatto che la Mars Orbiter Mission riuscirà davvero ad agganciare l’orbita marziana e a misurare la presenza di metano nell’atmosfera del pianeta, la navicella ha già restituito qualcosa alla più grande democrazia del mondo che l’ha voluta e finanziata, sfidando le critiche di chi sostiene che il Paese è ancora troppo povero per potersi permettere il lusso di un programma spaziale autoctono così ambizioso.
UN GRANDE PAESE
Mangalyaan che sfreccia nello spazio è la dimostrazione che un Paese grande si sta affermando come un grande Paese. Che l’India sta uscendo definitivamente dal novero dei Paesi in via di sviluppo e che è una potenza emergente. Capace di schierare centinaia di migliaia di scienziati (tra cui molti matematici e informatici, tra i più bravi al mondo) e di portare avanti, in proprio, magari in austerità, programmi tecno-scientifici di valore assoluto. Non c’è dubbio che i programmi spaziali hanno un interesse anche militare. E che l’India è una potenza nucleare che vuole mostrare i muscoli ai suoi vicini (Pakistan, Cina). Ma è anche vero che Mangalyaan è qualcosa di più. È il grido d’orgoglio di un Paese che si appresta a diventare il più popoloso del mondo.
È anche un investimento nel futuro. Perché, contrariamente a quanto dicono i critici, le spese in progetti scientifici e di alta tecnologia hanno quasi sempre una ricaduta enorme. E non solo in termini psicologici. Ma anche in termini economici. Sono motori dell’innovazione.
Ma Mangalyaan non appartiene solo all’India. È la sonda di un intero continente. Il più grande e, oggi, più dinamico del pianeta: l’Asia. È la plastica dimostrazione che è lì, in Oriente, che si sta costruendo il futuro in maniera più rapida ed efficace che in ogni altra parte del mondo. D’altra parte è già lì, in Asia, che risiede la maggioranza degli scienziati del mondo (il 40%). Ed lì, di qui a qualche anno, che risiederà la maggioranza assoluta dei ricercatori.
Ciò non toglie che Mangalyaan segni una novità nella speciale competizione tra i due giganti asiatici, l’India e la Cina. Il paese di Confucio negli ultimi decenni è sempre arrivato prima del Paese che ha dato i natali a Buddha. I cinesi crescono di più e da più tempo in economia. Sono arrivati prima sulla Luna. Sono arrivati primi nello spazio, primi sulla Luna, primi a mandare un loro uomo nello spazio (gli indiani non ci sono ancora riusciti). Con Mangalyaan è la prima volta che l’India batte la Cina nella competizione spaziale. E questo vorrà pur significare qualcosa, dicono gli occhi lucidi per l’orgoglio a New Delhi.