Democrazia ... annebbiata: "la società sparente"!!!

LA GUERRA SENZA FINE E SENZA FORMA, LA MENZOGNA DEI "BUSH", L’ASTUZIA DEI "GRILLO", DIECI ANNI DI "BERLUSCONISMO", E LA RESPONSABILITA’ DI TUTTI E DI TUTTE. Le metamorfosi in atto nelle democrazie e nei cervelli di ciascuno. Dopo il V-Day, l’"analisi" di Barbara Spinelli - a cura di pfls

mercoledì 19 settembre 2007.
 

Anni di guerra e di blog

di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 16/9/200)7

Anche se la strategia militare di Bush è tornata a infiammare gli Stati Uniti, in Congresso e sulla stampa, quasi si direbbe che la guerra antiterrorista proclamata con solenne convinzione sei anni fa, subito dopo l’attentato alle Torri di New York, si sia smarrita in una sorta di nebbia, e anzi sia divenuta a sua volta nebbia: inafferrabile, opaca, informe, disorientante. Chi parlò di quarta guerra mondiale dovrà ricredersi, perché la permanente emergenza militare-poliziesca non rimanda a conflitti precedenti. È diversa l’essenza dell’odierno conflitto, è diversa la figura del nemico, è diversa la percezione del tempo, del luogo, della realtà, delle vittorie, delle sconfitte. È inedito, infine, l’effetto del conflitto non solo sui regimi democratici ma sulla vita quotidiana d’ogni cittadino, sorvegliato come accade di rado in democrazia. Considerare la guerra anti-terrorista un prolungamento della prima, della seconda e della terza guerra (quella fredda) si sta rivelando un’analisi comoda e cieca: un’analisi che non vede le metamorfosi in atto nelle democrazie e nei cervelli di ciascuno.

Il termine che più s’addice a questa strana guerra è probabilmente quello che Carl Schmitt usò per descrivere l’incommensurabile visione del bene in Dostoevskij, contrapposta al severo formalismo del cattolicesimo: visione caratterizzata da una gestaltlose Weite, una vastità senza forma. Tale è la guerra nella quale siamo immersi, e la sua assenza di forme (cioè di limiti spazio-temporali) spiega come mai viviamo accanto a essa senza più vederla davvero, senza più prender nota delle sue vittime.

Non ne prendiamo nota perché si è infiltrata negli interstizi delle nostre esistenze come polvere caliginosa. Perché il suo essere è fuori dallo spazio, dal tempo, come le forze malefiche di Lovecraft: imprendibile, ineffabile, ovunque incombente. Alcuni elementi di guerre precedenti sono naturalmente presenti. L’estendersi della menzogna e l’uso politico della paura, in primo luogo: non solo le menzogne iniziali ­ sulle armi di distruzione di massa e sui legami di Saddam con Al Qaeda ­ ma un disinformare ormai incessante, sulle guerre e i pericoli più svariati. Il generale Petraeus che guida le operazioni in Iraq e che ha appena testimoniato al Congresso sostiene che la situazione è assai migliorata, dopo l’aumento delle truppe deciso in gennaio, e invece morti e violenze si son moltiplicati. Ha accennato a «incubi umanitari» in caso di ritiro, ma l’incubo già c’è: milioni di iracheni son fuggiti in altri Paesi.

Il concetto di vittoria oscilla, così come sin dall’inizio ha oscillato l’idea della guerra: era guerra vera? E se sì, che vittoria ci si proponeva? Al momento, la vittoria si riduce a un risultato minuscolo, ben modesto: l’accordo in una provincia, quella di Anbar, tra militari Usa e capi tribù sunniti che hanno rotto con Al Qaeda. La provincia rappresenta meno del 5 per cento della popolazione, e l’accordo già vacilla: giovedì è stato ucciso il capo tribù che aveva negoziato con gli Usa, lo sceicco Abdul Sattar Buzaigh al-Rishawi.

Nuove sono invece la natura apocalittica di questa guerra e la determinazione a protrarla indefinitamente, con lo scopo di accrescere poteri centrali fatiscenti: «Durerà generazioni», ha confermato Bush in gennaio. Essa non ha fine né frontiera, perché gli obiettivi non sono indicati e gli orologi son discordanti: non stupisce che la metafora dei due orologi ­ quello di Baghdad, quello di Washington ­ sia ricorrente nelle parole di Petraeus. È indefinito l’esordio bellico, perché siamo abituati a considerare l’attacco alle Torri come principio di tutto, sebbene la guerra cominci in realtà negli Anni Ottanta: quando gli americani armarono gli islamisti radicali in Pakistan per debellare i sovietici in Afghanistan.

Anche questo svapora negli interstizi. I gihàdisti che da sei anni minacciano l’Occidente erano i più osannati alleati dei governi Usa, fino all’11 settembre. A loro andarono soldi, elogi, millenaristi manuali islamici pubblicati in America. Reagan paragonò i mujahiddin afghani ai Padri Fondatori americani. Se questo è vero, paragonare Al Qaeda a Hitler è insensato: le democrazie furono più che ambigue nel ‘38, ma non a tal punto complici e finanziatrici. Né indulgevano nell’escatologia dell’Armageddon, che oggi dilaga. Dilagò nel 2001, quando Bush e Condoleezza Rice dissero che con Saddam si rischiava il «fungo atomico». Il 28 agosto 2007 Bush ha insistito, anticipando a proposito dell’Iran un «olocausto nucleare».

Ma la novità maggiore è la ripercussione sulle vite private, il formarsi d’una «generazione-paura» come l’ha chiamata il regista tedesco Peter Zadek. Non solo la verità è la prima vittima della guerra, ma il regno della necessità si è esteso in maniera abnorme, riducendo gli spazi del libero pensiero, della libera critica, dell’individuo. Ogni opinione contraria è definita anti-patriottica, non solo in America: tanto forte è l’incitazione al conformismo, alle unanimi censure liquidatorie, non solo nel linguaggio politico ma in gran parte dei giornali (l’autocritica della stampa è forte in Usa; è assente in Europa e Italia). Il settimanale Die Zeit scrive che siamo vicini al «delitto di cambio d’opinione», dopo gli attentati sventati in Germania e architettati da terroristi tedeschi convertiti all’Islam. Infatti il nemico di questa guerra senza fine non è solo fuori: è in casa, come in Inghilterra e Germania. È la ragione per cui in questi anni si sono enormemente dilatate le sfere dove la libera critica, l’informazione e le proposte alternative s’esprimono senza censure e autocensure: le sfere alternative dei blog, le iniziative cittadine, il dissacratore sito YouTube creato nel 2005.

L’impresa Beppe Grillo è parte di questo vasto fenomeno (il suo sito è tra i più popolari del mondo: creato anch’esso nel 2005, è annoverato dal settimanale Time tra gli «eroi europei per gli sforzi e il coraggio nel campo dell’informazione pubblica») e accusare la sua avventura di antipolitica è come riproporre un dizionario dei luoghi comuni alla Flaubert. La sua è piuttosto contro-politica, come la chiama Pierre Rosanvallon in un saggio sulla politica nell’era della diffidenza (La Contro-democrazia, Parigi 2006). Sono itinerari che arricchiscono la democrazia in un momento di smarrimento e conformismo delle élite (comprese le élite di giornali scritti e audiovisivi), come lascia intendere Arrigo Levi in un lucido articolo pubblicato ieri su La StampaMa Grillo fa bene alla democrazia»). L’arricchimento avviene attraverso l’astuzia, così familiare a comici di tutte le epoche e regimi (dal francese Coluche all’antisovietico Arkadi Rajkin, evocato da Levi).

Questi eterodossi spazi internet sono attaccati, ovunque. Significativo è quel che accade ultimamente in Germania: una legge proposta dal governo prevede il controllo di tutte le attività online. Anche questo è un effetto della guerra che non dice il suo nome, e che non può esser chiamata, per questo, quarta guerra mondiale. Infatti è guerra e non-guerra. È politica estera e interna-poliziesca. Di volta in volta i suoi demiurghi la dichiarano vittoriosa ma per subito aggiungere, come Bush nel messaggio al Congresso il 13 settembre, che l’«emergenza nazionale continua».

Per questo è così importante riconoscere che invece è fallita. Lo spiega molto bene Michael Ignatieff, in un bellissimo articolo sul New York Times del 5 agosto 2007. Inizialmente favorevole alla guerra, Ignatieff ha scoperto che tutto quel che aveva immaginato più che pensato era sbagliato: fu travolto dall’emozione, e in politica l’emozione inquina; aveva fantasticato pericoli, e ignorato il principio di realtà. Aveva creduto nella guerra umanitaria e morale, per poi scoprire che la morale è una sola: morale è chi calcola le conseguenze delle proprie azioni, non chi compiaciuto s’installa nel bene.

Riconoscere i propri sbagli e fallimenti è l’atteggiamento veramente morale, oltre che politico («Più utile dell’imperativo morale è la responsabilità per le conseguenze», scrive l’editorialista del blog contropagina.com. Una constatazione cui si potrebbe aggiungere: non solo più utile, anche più decente). Chi non riconosce gli errori, chi come Bush presenta il ritiro delle truppe come vittoria, resta intrappolato nella guerra senza fine e senza forma, che durerà «molte generazioni». Solo fissare il limite e riconoscere l’errore riporta la guerra alla sua dimensione normale: rendendola non inesauribile ma esauribile, non apocalittica ma terrena, non fantasticata, dunque ideologica, ma reale.


L’analisi di Barbara Spinelli

Al di la’ del paradosso istituzionale del mentitore.

Governo Prodi: uscire dal berlusconismo, velocemente!!!

a cura di Federico La Sala *

Dieci anni caratterizzati da un rapporto arbitrario con la legge, una monocrazia televisiva, una confusione sistematica tra interesse pubblico e interesse privato.

[...] Il nome scabroso di dittatura è stato dato perché s’adatta allo speciale dramma di Prodi. La sua è una sorta di Grande Coalizione escogitata per uscire dal berlusconismo, che non è stato una dittatura ma un’anomala monocrazia. È una coalizione che s’apparenta al Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale formato tra le forze più diverse per ricostruire una legalità dopo il ’43. Se oggi Berlusconi è ancora così potente (influenzando telegiornali, giornali, politici) vuol dire che non ne siamo usciti. Che da questa malattia urge guarire, ciascuno facendo un esame di coscienza. Cercando di capire cosa stiamo dimenticando, quale pericolo stiamo sottovalutando, quel che dobbiamo fare per rimettere un po’ di morale e verità nella politica [...] ___

Il perdente radicale

di Barbara SPINELLI (La Stampa, 25/2/2007)

Per capire la natura dell’ultima crisi di governo bisogna probabilmente smettere di usare questa parola: crisi. Crisi ha qualcosa di subitaneo e circoscritto: l’atto d’irresponsabilità di due senatori della sinistra radicale avrebbe precipitato un governo già di per sé litigioso, ma il caso di coscienza non si estenderebbe oltre il perimetro della maggioranza. Il dizionario Devoto descrive la crisi come «esacerbazione o insorgenza improvvisa di fenomeni morbosi violenti, per lo più di breve durata». Crisi è anche un eufemismo: tutto il tessuto intorno è sano, solo quel punto lì è strappo da rammendare.

Meglio dunque parlare di malattia, o di male italiano. È un male non legato a una sola forza ­ l’ideologismo di un’estrema sinistra che ha avuto la sciagurata leggerezza di candidare irresponsabili al Parlamento ma è una patologia che affligge la maggior parte dei politici e quasi tutta la classe dirigente (cioè chiunque eserciti indirettamente responsabilità nella pòlis: attori economici, intellettuali, giornalisti). I sintomi sono chiari: una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre quando s’occulta il passato, una mancanza continuativa di coscienza etica. Quel che si è dimenticato è l’epoca che segna il nostro tempo: dieci anni dominati da Berlusconi, caratterizzati da un rapporto arbitrario con la legge, una monocrazia televisiva, una confusione sistematica tra interesse pubblico e interesse privato. La minaccia che si sottovaluta è il ritorno di quell’esperienza. La coscienza etica mancante è quel che impedisce di riconoscere in se stessi la soggezione, radicata e quindi malata, alla forza di Berlusconi. Quest’ultimo continua a determinare il nostro modo di giudicare la politica, di semplificarla, di sprezzarla. In realtà sono nove mesi che gran parte della classe dirigente guarda al governo Prodi attraverso le lenti falsificatrici di Silvio Berlusconi.

Se la crisi sembra al momento superata, se i partiti dell’Unione hanno deciso di non farsi più la guerra e di provare un’intesa rispettosa della guida di Prodi, è perché tali mali sono stati intuiti. Come spesso accade, la paura può esser consigliera cattiva ma anche ottima, e la paura di riconsegnare per la terza volta l’Italia a Berlusconi ha dato forza e nuovo senso della realtà alla coalizione. La paura può servire anche ad aprire salutari casi di coscienza, nella sinistra radicale ma non solo: nella maggioranza, nell’opposizione, e in chiunque osservi e commenti la politica nazionale. È come se per tutti un gioco finisse, distruttivo-autodistruttivo, e il caso di coscienza consiste nel guardare in faccia quella soggezione verso Berlusconi. Sono mesi che quest’ultimo proclama illegittimo il governo ed è un giudizio che inconsapevolmente è interiorizzato da molti.

L’intimidazione è enorme e produce malattie che scombinano le menti: le più svariate menzogne vengono prese per vere, i riconteggi dei voti d’aprile vengono accettati creando precedenti gravi, il tentativo di conciliare la sinistra radicale con la responsabilità è giudicato in anticipo inane e in genere passa l’idea che un governo vada giudicato sull’istante, all’ombra del prossimo voto locale, non sull’arco di qualche anno almeno di legislatura.

È una strana sindrome, che fa pensare al perdente radicale descritto da Enzensberger. Nel perdente radicale, osserva lo scrittore citando il filosofo Odo Marquard, «la delusione aumenta con ogni progresso, perché dove i progressi civili sono effettivamente vincenti ed eliminano effettivamente i mali, raramente suscitano entusiasmo: diventano ovvii, e l’attenzione allora si concentra sui mali che restano. Vige insomma la legge della crescente incidenza del rimanente. Quanto più negativo scompare dalla realtà, tanto più irritante diventa il negativo residuale, proprio perché diminuisce» (Enzensberger, Il perdente radicale, Einaudi). Il terroristico perdente radicale è scontento di qualsiasi presente.

L’antipolitico spregio della politica, ereditato dal decennio berlusconiano, ha radici che sopravvivono. Sono tante le menzogne di Berlusconi, e tutte mirano a far apparire Prodi illegittimo. Ha cominciato fin dall’inizio della legislatura e in questi giorni ha moltiplicato gli attacchi di questo genere senza che nessuno l’obbligasse a tener conto della legalità oltre che della sua idea di legittimità extralegale. Poi con Alleanza Nazionale e altri partiti ha ripetuto che i senatori a vita non possono sostenere la maggioranza senza perdere dignità morale e anche in tal caso pochi hanno obiettato.

Anche questa è soggezione e sta a indicare come l’Italia, contro le speranze di Montanelli, non sia ancora vaccinata. Perché l’intimidazione funziona in pieno, come se Berlusconi fosse ancora al potere pur non essendo più al governo. Come agli inizi della sua carriera politica, è il controllo sociale che continua a latitare, e questo gli permette di mentire impunemente. Chi urla contro i senatori a vita mentre vanno a votare usa una violenza spaurente non molto diversa dai manganelli. Chi li denuncia farebbe bene a ricordare la lettera che Cossiga, irritato per le accuse d’immoralità rivolte ai senatori a vita nel maggio 2006, quando Prodi ebbe la fiducia, scrisse a Berlusconi. Puntigliosamente, Cossiga ricorda il giorno in cui quest’ultimo ottenne la fiducia dei senatori, il 18 maggio ’94: «Fui autorevolmente incaricato (...) di “organizzargliene” una (di fiducia)! I senatori erano trecentoventisei, di cui undici erano senatori a vita, presenti in Aula furono trecentoquindici e trecentoquattordici i votanti; centocinquantotto voti era la maggioranza richiesta. Votarono sì centocinquantanove senatori, centocinquantatré furono i contrari e due gli astenuti, che al Senato valgono per voto contrario. Il governo Berlusconi ottenne la fiducia per un solo voto, a garantirla tre senatori a vita: Giovanni Agnelli, Francesco Cossiga e Giovanni Leone. Nessuna accusa di immoralità ci fu rivolta allora né dalla sinistra né da te!». Ma non solo chi denuncia dovrebbe ricordare. È responsabile anche chi lascia dire stupidaggini (telegiornali, quotidiani, politici) senza subito ricordare agli italiani i fatti del passato.

Adesso che si tenta una ripresa del governo Prodi sarà utile riconoscere il persistere di questa sindrome, di intimidazione e soggezione: consegnare per la terza volta l’Italia a Berlusconi è un’opzione che deve sparire. Questo vuol dire far politiche riformiste e una politica estera coerente con gli impegni internazionali ma anche eliminare il triplice male dell’amnesia, della sottovalutazione dei pericoli, della menomata coscienza etica.

Significa smettere di fare favori personali a Berlusconi e dunque approvare al più presto una legge sul conflitto d’interessi, senza ripetere il gravissimo peccato d’omissione della sinistra nel 1996-2001. Rinviarla per l’ennesima volta sarebbe non un errore, ma un crimine. Significa non lasciar passare le menzogne sui senatori a vita. Significa, per personalità che tengono all’etica come Pier Ferdinando Casini, sottoporre a esame i propri comportamenti durante il governo Berlusconi e ammettere, come fa oggi Follini, che governare con Calderoli non è meno peggio che governare con Diliberto. Significa votare con questo governo, se la politica estera di D’Alema rompe con le scelte berlusconiane in nome d’una continuità con De Gasperi-Andreotti. Votando contro, Andreotti ha non solo votato contro se stesso. Ha fatto politichetta anziché politica.

Ha scritto Eugenio Scalfari nei mesi scorsi che l’Italia è come uno specchio rotto: ognuno crede di scorgere nel frammento il tutto, e non vede in realtà che se stesso. Non sarà male che questa tentazione finisca, e ben venga l’autorevolezza rivendicata da Prodi. Forse i punti 11 e 12 del suo piano sono i più essenziali, riguardando proprio questo: il suo portavoce sarà portavoce non solo del premier ma del governo, e in caso di contrasto nella maggioranza sarà Prodi a decidere. Lo stesso Scalfari aveva consigliato quest’autorevolezza, quando chiese al premier di esercitare una dittatura di salute pubblica. Questo gli darà forza nell’Unione, verso gli oppositori, e non per ultimo nei rapporti con chi nella Chiesa vorrebbe far politica al posto dei governi sui «temi sensibili».

Il nome scabroso di dittatura è stato dato perché s’adatta allo speciale dramma di Prodi. La sua è una sorta di Grande Coalizione escogitata per uscire dal berlusconismo, che non è stato una dittatura ma un’anomala monocrazia. È una coalizione che s’apparenta al Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale formato tra le forze più diverse per ricostruire una legalità dopo il ’43. Se oggi Berlusconi è ancora così potente (influenzando telegiornali, giornali, politici) vuol dire che non ne siamo usciti. Che da questa malattia urge guarire, ciascuno facendo un esame di coscienza. Cercando di capire cosa stiamo dimenticando, quale pericolo stiamo sottovalutando, quel che dobbiamo fare per rimettere un po’ di morale e verità nella politica.

* Il dialogo, Domenica, 25 febbraio 2007


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