ORDIGNO BELLICO A SALERNO:
NOTTE DI ATTESA PER GLI SFOLLATI *
ROMA - Notte di attesa e di disagio per le circa 5.000 persone sfollate dalle loro case a Salerno a seguito del ritrovamento di un ordigno bellico, durante lavori di scavo, nel quartiere del Carmine. Molte sono state anche le persone che non hanno voluto spostarsi dalle loro abitazioni e hanno trascorso in casa la notte.
All’alba, intanto, è stata riaperta la linea ferroviaria Napoli-Battipaglia sulla quale il traffico dei convogli era stato interrotto ieri dopo il ritrovamento della bomba.
Una parte degli sfollati ha trascorso la nottata nella scuola media Medaglie d’oro, assistita dal personale della Protezione Civile. Molti hanno trovato ospitalità presso parenti ed amici.
Per decidere eventuali interventi sull’ordigno da parte degli artificieri occorrerà attendere 144 ore dal momento del ritrovamento, in quanto la pala meccanica che ha toccato con il suo braccio la bomba potrebbe anche aver attivato un meccanismo d’innesco chimico che ha, appunto, un tempo massimo di funzionamento di 144 ore.
La maggior parte delle 5.000 persone che dovrebbe essere sfollata, al momento non vuole abbandonare le abitazioni. La scorsa notte sono state allestiti 1.500 posti letto all’interno dello stadio Vestuti e nella scuola Medaglia d’Oro di via San Giovanni Bosco, ma soltanto una cinquantina di persone vi hanno dormito.
Intanto, venti pattuglie di polizia e carabinieri con i megafoni stanno invitando la popolazione a lasciare le abitazioni rispettando l’ordinanza che il sindaco Vincenzo De Luca ha firmato nella serata di ieri. Chi non lascerà le case è passibile di denuncia.
* Ansa» 2008-09-09 09:46
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Tanti applausi per la guerra dal 1940 al 1943
Tra i militari italiani durò a lungo la fede nella vittoria
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 11.11.2014)
«Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall’Italia», scriveva il 10 agosto del 1946 Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi e Leo Valiani. «Certo il popolo italiano non volle la guerra, se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, gli alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori di università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra e parecchi altri la vollero finché credettero che l’avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra... Anche se si parla delle classi medie e inferiori del popolo italiano, non bisogna dimenticare che una larga parte di esse seguì Mussolini, e che fra esse Mussolini godé di larga popolarità dopo la vittoria nella guerra di Etiopia ed al tempo dello squartamento cecoslovacco; e se le cose gli fossero andate bene nella guerra mondiale, Mussolini sarebbe per molta gente un grand’uomo». «Questa è la verità», concludeva Salvemini; «bisogna dunque smetterla con questa balla che l’Italia non è responsabile».
A 68 anni da quella lettera, Mario Avagliano e Marco Palmieri hanno compiuto un’accurata analisi sulla corrispondenza epistolare e sui diari dei nostri soldati ai tempi del secondo grande conflitto e ne è venuto fuori un libro, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943 (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino), dal quale emerge un quadro ancor più inquietante di quello prospettato nel 1946 da Salvemini. Nel senso che, tenuto conto anche delle lettere di dissenso e perciò censurate o parzialmente autocensurate, «la partecipazione attiva e perfino entusiastica alle politiche fasciste, comprese quelle militari e guerrafondaie» fu pressoché totale. Anche quando le cose per l’Italia si misero male. Persino, in non pochi casi, dopo la destituzione del Duce a fine luglio 1943. Notevole, scrivono Avagliano e Palmieri, «è la persistenza del mito personale di Mussolini che dura decisamente più a lungo rispetto alla reputazione del regime fascista e delle sue gerarchie, già compromesse da tempo».
E perché queste cose vengono approfondite e documentate solo ora? Qui da noi una «guerra della memoria», quella che per Avagliano e Palmieri è una «guerra civile del ricordo, delle celebrazioni e degli studi», ha fatto sì che «l’attenzione riservata alla guerra di liberazione mettesse spesso in ombra la precedente partecipazione alle guerre fasciste, con le quali si è omesso di fare i conti, preferendo soprassedere come se non facessero parte della storia nazionale». Del resto «la stessa definizione di guerre fasciste, a cui spesso si fa ricorso, già di per sé suona come una presa di distanza e un’autoassoluzione che non tiene conto del fatto che esse in realtà furono combattute e pagate da tutti gli italiani». Con un alto grado di consapevolezza.
Avagliano e Palmieri sfatano il mito «di un’Italia fin dall’inizio contraria alla guerra e che già alla fine del 1940 prende le distanze dal fascismo». Dimostrano come, quantomeno tra i soldati, «il consenso alla decisione del regime di entrare in guerra fu quasi plebiscitario e il momento di rottura (rispetto alla partecipazione ideologica e all’adesione entusiastica alle parole d’ordine del regime) fu invece assai tardivo».
Viene alla luce un «forte ritardo con il quale gli italiani in divisa approdarono alla scelta del distacco da Mussolini e del ripudio della guerra». «Forte ritardo» che, secondo Avagliano e Palmieri, peserà anche sul rovesciamento del regime fascista, partorito in ambito militare (con il concorso della Corona e dei gerarchi fascisti dissidenti), ma «condotto in modo continuista e passatista, senza un chiaro segno antifascista e senza un’intelligente strategia d’uscita dal conflitto». Con «riflessi evidenti non solo sulle vicende del tragico biennio successivo (estate 1943-25 aprile 1945), ma anche sulla futura storia dell’Italia repubblicana».
Fa davvero impressione leggere le missive degli italiani partiti per la guerra nel giugno del 1940. Trasudano la certezza di una vittoria a portata di mano, un odio per gli inglesi e un’assenza di dubbi che lasciano esterrefatti. «Per gli inglesi», scrive un alpino nel settembre del 1940, «è finita la cuccagna, ora anche noi dobbiamo fare un po’ di bella vita, che anche noi abbiamo il diritto di star bene. Lo vogliamo vedere come debbono stare dopo la guerra questi sfruttatori inglesi. Noi potremo fare quello che vogliamo e far venire in Africa anche le nostre famiglie».
Qualcuno come Lamberto Prete, dal fronte francese, ha già dato per finito il conflitto. «La sera», scrive il 30 giugno, «è un incanto con questi tramonti d’oro, con le cime baciate dagli ultimi raggi di sole, con le valli invase dalla penombra, con le strade affollate di gente contenta. La guerra è finita con una facile vittoria e tutti cantano le canzonette del momento».
E, invece, altro che canzonette. In quell’estate del 1940 l’Inghilterra resiste, non crolla. E la guerra a questo punto deve andare avanti. Per quel che ci riguarda, in Grecia e nell’Africa settentrionale. In entrambi i casi l’esercito italiano farà un buco nell’acqua e dovranno intervenire i tedeschi a soccorrerlo.
I nostri connazionali in divisa fanno finta di non capire. Il barbiere genovese Fulvio Valentinelli («che fa ai greci barba e capelli» scrive in una lettera del 14 gennaio 1941) si autoinveste del titolo di «Terrore delle Acropoli» e si dice sicuro che verrà presto «il momento propizio di dare la suonata definitiva ai greci» (14 febbraio).
In Africa un marinaio sentenzia: «Ormai abbiamo visto che la guerra non è per gli inglesi!». Se ne parla come dei «maledetti figli di Albione», «vigliacchi e farabutti». L’artigliere Gino Lanfranchi bolla i britannici come «audaci fresconi che l’illusione ha voluto per un po’ vittoriosi». E, dopo i primi colpi subiti, un aviere sostiene con sicurezza: «Le passeggere iniziative angloamericane ci lasciano più che scettici increduli ... Non sono alcune sporadiche vittorie di Pirro che possono demoralizzarci».
L’anglofobia, notano i due autori, «non è un sentimento concentrato nella fase iniziale della guerra, sull’onda dell’entusiasmo e delle ambizioni di una rapida vittoria, proprio ai danni degli inglesi ritenuti deboli e militarmente inferiori... lascia scorie diffuse anche dopo le sconfitte e dopo tanti mesi passati al fronte».
Il consenso alla guerra, sottolineano Avagliano e Palmieri, «è vasto e diffuso e, nonostante fin dal principio le cose non vadano nel modo sperato e immaginato, rimane a lungo radicato nella coscienza di molti militari, relegando le forme di disapprovazione e malcontento ad una dimensione marginale e comunque riconducibile ai disagi materiali della vita militare e alla delusione per le sconfitte, ma non ad una messa in discussione del fascismo».
I primi segnali di svolta li si possono rinvenire già in un rapporto dell’Ovra del febbraio 1941: «Un senso di ribellione serpeggia fra le masse al pensiero che il fiore della gioventù italiana sia stato e continui a sacrificarsi per la vanità o l’incapacità di alcuni capi e questo stato d’animo di sorda protesta si esaspera alle notizie frequenti e concordi sulla deficienza dell’equipaggiamento e dell’armamento dei nostri soldati, alcuni dei quali scrivono dal fronte greco-albanese alle loro famiglie chiedendo insistentemente indumenti di lana, mentre altri, ricoverati feriti o congelati negli ospedali, diffondono un pauroso senso di sgomento».
Per fortuna, però, c’è l’alleato germanico. I tedeschi in Russia vengono accolti dai nostri con ammirazione e con gioia. «Dai loro volti stranamente anneriti dalla polvere traspare quella particolare espressione fatta d’orgoglio e d’allegrezza che è propria di coloro che vengono dalla linea del fuoco», scrive Urbano Rattazzi. «Sono gli Dei della guerra. Sono simboli». I russi, invece «sono petulanti, antipatici e oltretutto poco cortesi», prosegue Rattazzi; «il nostro corpo di spedizione - un magnifico fascio di energie fisiche e morali - passa sopra le loro orde come un rullo compressore, facendo brillare dinnanzi agli occhi stupiti del mondo intero le virtù eroiche della razza, esaltate da vent’anni di Fascismo». Però «il cameratismo e l’ammirazione verso gli alleati tedeschi sono tutt’altro che unanimi tra i militari italiani», scrivono Avagliano e Palmieri, «e laddove esistono e resistono devono confrontarsi con la dura realtà di una guerra condotta in posizione subalterna e di un rapporto al fronte caratterizzato anche da scontri, frizioni, gelosie, invidie».
Un motivo di fastidio è riconducibile «alla scarsa considerazione che i tedeschi mostrano di avere per il valore militare degli italiani» che si riflette nella redazione dei bollettini di guerra «nei quali spesso non si fa cenno alcuno all’operato dei nostri soldati né vengono loro riconosciuti i giusti meriti». «Oggettivamente è giusto ammettere che i tedeschi non parlano male degli alpini», scrive nel marzo 1942 Vito Mantia dal Montenegro. «Bontà loro ci danno atto del nostro comportamento, salvo però dure critiche per la nostra... sensibilità dimostrata in tante occasioni, dopo le radicali e totali distruzioni inflitte alle popolazioni inermi. La loro determinazione e il loro comportamento razzista di superiorità sprezzante non li porterà lontano».
L’Africa, rispetto alla Grecia, «pone nell’animo degli italiani maggiori questioni di amor proprio», scrivono Avagliano e Palmieri, «e lo scotto per aver dovuto accettare il compromesso di un intervento tedesco è maggiore». Ne è prova quel che si legge in una relazione del Comando generale dei carabinieri del maggio 1941: «Negli ambienti militari la soddisfazione per i nostri successi viene sensibilmente temperata dalla considerazione che molto si deve all’apporto dato dalla potente azione delle forze tedesche». Anche se in più di un caso i militari italiani non danno voce a questo genere di risentimento. Anzi. «Quelli che ci comprendono sono i tedeschi», scrive dalla Libia il caporalmaggiore Bruno Palmisa, «essi ci stimano e sono molto gentili con noi, ci portano da mangiare, ci incoraggiano e ci promettono che molte incresciose questioni verranno al nodo». «I rapporti con i militari germanici», conferma un rapporto della censura, «sono sempre intonati alla stima reciproca e al più perfetto cameratismo». Qualcosa cambia dopo El Alamein: «Pensa solo ai paracadutisti della divisione Folgore», scrive un carrista nel dicembre 1942, «di dodicimila ne sono rimasti tremila e non cedevano ancora se i tedeschi non scappavano i primi». Un caporale aggiunge: «Formiamo l’estremo baluardo difensivo, Rommel ha tagliato la corda».
Poi qualcosa cambia. Scrive sul suo diario, il 23 agosto 1943 (trenta giorni dopo la caduta del fascismo e sedici prima che sia annunciato l’armistizio), Lamberto Prete, di stanza in Grecia: «Fino a qualche settimana fa noi vedevamo soltanto da lontano i militari germanici ed avevamo occasione di avere contatto coi loro ufficiali esclusivamente quando partecipando alla nostra mensa si comportavano da veri porci... I tedeschi ci hanno ignorato fino ad oggi ma ora pretendono che ci poniamo ai loro ordini».
Cresce l’ostilità nei confronti della censura. E «nella sfida al censore si può leggere una prima forma di ribellione al regime stesso». Tuttavia il malumore «non sfocia ancora in dissenso e non assume un connotato politico antifascista... L’atteggiamento di molti è al contrario di radicata fiducia nella buona fede, se non del fascismo e delle sue gerarchie, certamente del Duce». L’esaltazione della figura di Mussolini, scrivono i due autori, «resiste anche ai rovesci militari e si riaccende immancabilmente quando le cose vanno per il meglio e le operazioni militari concedono qualche momentaneo successo».
E anche dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) quando affiorano nelle lettere insulti al dittatore travolto, i sentimenti generali non cambiano. Il generale Tamassia osserva: «Fa impressione questo abbandono improvviso di tutti i più accesi sostenitori del fascismo». Un ufficiale in Albania racconta così il momento della comunicazione alla truppa delle «dimissioni» di Mussolini: «Tutti avevano le lacrime agli occhi ed abbiamo inneggiato al Duce che è e rimarrà il nostro capo». Un tenente colonnello scrive alla moglie: «Sono persuaso che se il Duce si affacciasse allo stesso balcone di Palazzo Venezia ad arringare la folla, tutta l’Italia cadrebbe ai suoi piedi». Tutti nostalgici, in ritardo sui tempi? No, anche Nuto Revelli, reduce dalla campagna di Russia e in procinto di diventare un esponente di primo piano della Resistenza, ricorda, a ridosso della destituzione del Duce, i soldati «morti per nulla, proprio come se la patria non esistesse più». Ha poi un moto di sdegno e annota sul diario: «Vedo i cortei, sento i discorsi, riconosco troppi fascisti di ieri, più fascisti erano ieri, più oggi sono antifascisti e si agitano, spaccano, urlano... Volevo scendere stanotte; forse mi sarei fatto picchiare». Anche per questo tipo di sentimenti in molti continuarono a sostenere il regime, persino dopo la sua caduta. Effetti di quella che Avagliano e Palmieri definiscono «la lunga durata del consenso» al fascismo.
Emergenza, sindrome dell’8 settembre
Dalle alluvioni alle nevicate la sindrome dell’8 settembre
Risaltano l’incapacità o la non volontà di previsione e decisione l’inadeguatezza delle istituzioni, la generosità della società civile
Si sta parlando di scelte soggettive, non di una eterna indole italiana. L’irresponsabilità politica ha lasciato segni profondi
Le polemiche seguite agli ultimi eventi climatici riaprono il problema dell’impreparazione storica del Paese alla gestione di eventi straordinari
di Guido Crainz (la Repubblica, 09.02.2012)
Nelle emergenze nazionali l’evento storico più frequentemente evocato dai commenti è forse l’8 settembre del ’43 (immediatamente seguito da Caporetto), e non è del tutto sbagliato. Richiama incapacità o non volontà di previsione e di decisione, vergogne dei pubblici poteri, dissolvimento delle istituzioni, affannarsi generoso ma impotente di alcune parti, almeno, della società civile. È parte anch’esso di una storia nazionale, e meno di tre anni fa a L’Aquila abbiamo fatto i conti di nuovo con la nostra difficoltà ad imparare dalle esperienze del passato: sia da quelle positive che da quelle negative. Furono allora ignorati e osteggiati quel decentramento e quella capacità di preservare identità e memoria collettiva che erano stati centrali nel Friuli del 1976, e poi nelle Marche e nell’Umbria del 1997. E "scoprimmo" allora che era stata invece riproposta negli anni una scelta già compiuta in precedenza con conseguenze pesantissime: la Protezione civile di Guido Bertolaso aveva infatti ampliato il proprio raggio d’azione ben al di là delle emergenze. Si era fatta carico dei più diversi "grandi eventi", e sin di quelli più estranei alla propria ragion d’essere.
Esattamente come era successo con esiti disastrosi nella ricostruzione dell’Irpina, con l’allargarsi degli interventi (e degli sperperi, e degli intrecci fra corruzione, politica e cosche) sino ad aree e a questioni che con il sisma non avevano nulla a che fare. Quella deformazione stava per esser resa definitiva, estendendo a dismisura l’assenza di controlli e vincoli: quell’esito fu impedito all’ultimo istante non da un ripensamento del governo ma dalla provvidenziale pubblicazione di intercettazioni che rivelavano verminai. Di scelte, di decisioni soggettive stiamo dunque parlando. Non di un’eterna indole degli italiani ma di responsabilità politiche: o meglio, di una irresponsabilità della politica che ha lasciato segni profondi.
Talora anche denunce di altissimo profilo rimasero inascoltate. Così fu proprio all’indomani del dramma irpino, quando il Presidente della Repubblica Pertini irruppe dai teleschermi nelle case degli italiani per denunciare carenze gravi dei soccorsi e per condannare al tempo stesso vergogne del passato. Disse con forza che non avrebbe dovuto ripetersi un altro Belice ma non ebbe ascolto. Pochi mesi dopo si svolse ancora sotto i suoi occhi, davanti al pozzo di Vermicino e nell’agonia di Alfredino Rampi, una rappresentazione della nostra impreparazione, inefficienza e improvvisazione. Era al tempo stesso l’annuncio di quanto i media stavano invadendo e trasformando il nostro vivere anche su questo terreno. La Protezione civile ebbe origine allora: era l’impegno ad un mutamento radicale, non più rinviabile.
Certo, nel paralizzarsi delle città e delle vie di comunicazione dopo nevicate molto meno drammatiche che in altri Paesi tutto sembra ripetersi negli anni, con poche variazioni. Nel gennaio del 1985, ad esempio, non si erano ancora spente le polemiche sull’imprevidenza di Roma che Milano veniva bloccata dalla "nevicata del secolo" (termine già coniato in precedenti occasioni, per la verità): e l’immagine inquietante di un’efficienza perduta veniva a turbare per un attimo il frenetico ottimismo della "Milano da bere".
In realtà da noi sarebbero molto più necessarie che altrove misure di prevenzione, cure costanti e interventi metodici nei confronti dei territori a rischio: basti pensare allo "sfasciume pendulo sul mare" di cui parlava Giustino Fortunato più di un secolo fa per certe parti del Mezzogiorno. O alle basse terre gravitanti sul Delta del Po, bonificate da un lavoro plurisecolare ma inevitabilmente esposte alle insidie del grande fiume: dalle alluvioni ottocentesche raccontate da Riccardo Bacchelli ne Il Mulino del Po a quella del 1951, che diede una potente spinta all’esodo. Sino alla piena del 1994, ancora nella memoria. E naturalmente si pensi, per altri versi, alle aree devastate dalla speculazione o a quelle degradate dallo spopolamento. Eppure l’incuria è diventata col tempo quasi la regola: e troppo tardi e fugacemente ci interroghiamo su quel che avremmo potuto e dovuto fare. Come nella Sarno del 1998 o nella Valtellina del 1987 e molte altre volte ancora. L’elenco sarebbe davvero lungo e in molti casi il disastro, ben lungi dall’essere dovuto solo alla natura, è stato favorito o provocato da responsabilità dirette e gravissime, come nel Vajont del 1963.
Spesso, va aggiunto, le carenze istituzionali sono state parzialmente compensate grazie a un volontariato appassionato e generoso: è un termometro del Paese e c’è da allarmarsi se si allenta, se ci appare meno diffuso e vigile. E certo ha dato il meglio di sé quando ha potuto incontrarsi con istituzioni all’altezza dei loro compiti e con una più ampia partecipazione delle popolazioni. Non è accaduto spesso ma è accaduto: dalla Firenze invasa dalle acque del 1966 al Friuli di dieci anni dopo, e sino a tempi recenti.
La nostra storia ha dunque molti volti ma ci dice anche che la "sindrome dell’8 settembre" può essere sconfitta. La capacità o l’incapacità del Paese di attrezzarsi per far fronte alle emergenze è dunque un aspetto centrale. O meglio: è un elemento decisivo per una rifondazione della politica che abbia nel suo orizzonte non le prossime elezioni ma le prossime generazioni.
Ansa» 2008-09-10 13:35
ORDIGNO BELLICO A SALERNO, SINDACO RINVIA L’APERTURA DELLE SCUOLE
SALERNO - Il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca ha disposto con un’ordinanza il rinvio dell’apertura dell’ anno scolastico in città, previsto il 15 settembre, al 17 settembre. Secondo quanto si è appreso la decisione del sindaco è dettata dalla mancanza di agenti di polizia municipale da destinare alla viabilità ed alla sorveglianza dei plessi scolastici in seguito al ritrovamento di un ordigno bellico lunedì scorso, che ha provocato l’ evacuazione di circa cinquemila residenti.
RINVIATA SALERNITANA-FROSINONE - Il prefetto di Salerno Claudio Meoli, ha deciso il rinvio della gara di serie B Salernitana-Frosinone. "Non ci sono le condizioni di sicurezza" ha detto poco fa il prefetto ai giornalisti nel corso di un briefing sulle operazioni di disinnesco dell’ordigno bellico trovato l’altro ieri, che ha reso necessaria l’evacuazione di circa cinquemila persone.
Hanno trascorso la seconda notte fuori dalle proprie case, quasi tutte ospitate da parenti ed amici, le circa cinquemila persone sfollate a Salerno a seguito del ritrovamento di un ordigno bellico inesploso nel rione del Carmine.
Nelle strutture provvisorie realizzate in città per dare ospitalità agli sfollati - che abitano in un raggio di 250 metri di distanza dal punto del ritrovamento - hanno dormito la notte scorsa solo pochissime persone: 11 nello stadio Vestuti e 28 nella scuola Medaglie d’Oro.
Per intervenire sulla bomba e neutralizzarla, gli artificieri dell’Esercito dovranno attendere fino a domenica prossima. Dovranno essere infatti trascorse almeno 144 ore dal ritrovamento perché la pala meccanica il cui braccio ha spostato l’ordigno durante lavori di scavo potrebbe aver determinato un innesco chimico dell’ordigno, di fabbricazione inglese, il cui tempo massimo di attivazione arriva fino a cinque giorni.
Durante la nottata numerose pattuglie di polizia, carabinieri, guardia di Finanza, corpo Forestale dello Stato e polizia municipale di Salerno hanno girato in continuazione nelle strade della zona sgombrata per vigilare sulle case abbandonate dagli sfollati e prevenire casi di sciacallaggio.
La bomba, trovata ieri, potrebbe esplodere nelle prossime 144 ore
Sgomberati tutti gli abitanti nel raggio di 250 metri dal congegno
Salerno, ordigno bellico in città
In cinquemila sfollati dal centro
Allestite strutture di emergenza per chi ha dovuto abbandonare la propria abitazione
SALERNO - Allarme bomba e pericolo per il centro di Salerno fino a domenica. Per i prossimi giorni cinquemila abitanti dovranno vivere fuori dalle loro abitazioni a causa di un ordigno dell’ultima guerra mondiale rinvenuto in un cantiere di via Rafastia e classificato dagli artificieri come "pericoloso".
Il congegno, cinquecento libbre a innesco ritardato, una volta rimosso potrebbe esplodere nelle 144 ore successive. Così, per evitare pericoli, è stata decisa l’evacuazione degli abitanti di tutti gli stabili nel raggio di 250 metri dal luogo di ritrovamento della bomba. Circa cinquemila persone saranno costrette a trovare, per i prossimi sei giorni, un alloggio alternativo.
Secondo la Prefettura di Salerno, al momento circa l’80% dei residenti interessati ha lasciato la propria abitazione. Nelle prossime ore le forze dell’ordine provvederanno a sgomberare le restanti abitazioni che rientrano nella zona al confine con il luogo del ritrovamento.
Intanto gli sfollati si organizzano come possono. La maggior parte ha trovato sistemazione presso parenti e amici ma alcuni, soprattutto anziani e famiglie con difficoltà economiche, hanno trascorso parte della notte nelle strutture di emergenza allestite dal Comune.
Il sindaco di Salerno De Luca esprime soddisfazione per lo svolgimento dell’evacuazione. "Stiamo intervenendo per spostare qualche residente ancora in area a rischio ma comunque marginale rispetto al luogo del ritrovamento e siamo estremamente soddisfatti - ha spiegato il primo cittadino - il piano ha funzionato perfettamente. E’ stata un’ottima prova di efficienza e di capacità organizzativa, oltre che di collaborazione di tutte le forze dello Stato".
* la Repubblica, 9 settembre 2008.
Salerno, paura per ordigno bellico
Tutti i numeri utili
"La zona deve essere evacuata, allarme bomba": qualcuno lo ha sentito in tv, qualcun altro è stato svegliato nel cuore della notte dalle forze dell’ordine che bussavano alla porta e dall’altoparlante dei vigili urbani che a tutti segnalava. E’ così che, nel centro di Salerno, è iniziata la lunga notte di migliaia di cittadini: famiglie, tantissimi anziani, che in fretta e furia hanno dovuto lasciare le proprie case e trasferirsi, la maggior parte dai loro parenti e circa un centinaio nelle strutture allestite al campo sportivo Vestuti e alla scuola elementare Medaglie d’Oro.
C’è paura ma anche rabbia tra gli sfollati: "Come faremo, con questo caldo, a restare qui fino a domenica", dice la signora Anna.
"Abbiamo avuto paura, siamo quasi scappati", racconta Antonia Frascino, 66 anni. La donna, insieme alla figlia di 37 anni, ha trascorso la notte insieme a circa una ventina di persone nella palestra dello stadio Vestuti: brandine, posizionate alla buona e personale della Protezione civile in ogni dove.
AUTOSTRADA Lungo l’A3 (Napoli-Salerno) è ancora chiusa l’uscita di Salerno su disposizione della prefettura nell’ambito degli interventi per il disinnesco dell’ordigno bellico trovato all’interno di un cantiere nel centro della città. Per chi, provenendo da Napoli, è diretto verso la città di Salerno, si consiglia di uscire allo svincolo successivo di Salerno Fratte.
Autostrade per l’Italia invita quanti sono in viaggio a mantenersi aggiornati sulle condizioni di viabilità, rimanendo sintonizzati su Isoradio. Per avere informazioni di traffico in tempo reale si può chiamare il Call Center Viabilità di Autostrade per l’Italia al n.840042121 o il numero verde del Cciss 1518 per un aggiornamento sulle condizioni di viabilità sulla rete
NUMERI UTILI Per informazioni sulle zone interessate dallo sgombero nella città di Salerno a seguito del ritrovamento di un ordigno bellico sono stati attivati i seguenti numeri telefonici: numero verde 800 89 00 33, nonchè i numeri 089/663111 - 089/663132 - 089/753822. Lo rende noto la prefettura di Salerno.
I cittadini interessati dal’evacuazione, che non abbiano trovato diversa, idonea sistemazione, si legge ancora nella nota della prefettura, possono recarsi presso lo Stadio Comunale "Vestuti" in piazza Casalbore, ove è stato predisposto un centro di raccolta ed accoglienza.
La zona interessata è stata transennata e presidiata dalle forze dell’Ordine e della polizia municipale. La prefettura, infine, ribadisce che l’ordine di sgombero non può essere disatteso e ogni violazione dello stesso sarà perseguita penalmente.
SFOLLATI NELLA SCUOLA La scuola elementare Medaglie d’Oro sarebbe stata la prima, a Salerno, a inaugurare l’anno scolastico se non fosse scattato l’allarme bomba. Ora, nei corridoi, nella palestra, dovunque, sono stati collocati oltre 150 letti per ospitare gli sfollati delle zone tra via Rafastia, Principati e Vernieri e così, gli oltre 500 alunni, tra materne ed elementari, non potranno andare a scuola dall’11 settembre così come si era deciso: la dirigente scolastica Angela Doddato dà una mano ai cittadini, soprattutto agli anziani, che hanno trascorso la notte nella sua scuola. Gli alloggi di fortuna sono fra i disegni degli alunni e la dirigente quasi si dispiace di disturbare le famiglie che riposano davanti anche alla sua stessa stanza.
"Stiamo cercando di informare tutte le famiglie dello slittamento dell’apertura della scuola - dice la Doddato - purtroppo penso che non riusciremo ad aprire prima di martedì o mercoledì prossimo e penso che a breve arriverà l’ordinanza di chiusura anche per i nostri uffici. Non è colpa di nessuno, ora l’importante è assistere al meglio questi poveri cittadini".
* la Repubblica, 09 settembre 2008.