[...] Incredibile ma vero: a Bruxelles si discute se brevettare i broccoli. Avete presente i bambini arroganti dei cartoni animati? Non soltanto arroganti, pure incapaci, per essere precisi. Non sanno costruirsi un castello di sabbia, ma sanno spaventare gli altri bambini, sicché aspettano che ne sia uno pronto, poi arrivano e dicono «questo è mio» e se non glielo lasciano finisce a botte. Ecco, il format è molto simile, solo che al posto dei bambini arroganti ci sono le multinazionali [...]
Se scoppia la guerra per brevettare il broccolo
di CARLO PETRINI (la Repubblica, 30 Dicembre 2011)
Incredibile ma vero: a Bruxelles si discute se brevettare i broccoli. Avete presente i bambini arroganti dei cartoni animati? Non soltanto arroganti, pure incapaci, per essere precisi. Non sanno costruirsi un castello di sabbia, ma sanno spaventare gli altri bambini, sicché aspettano che ne sia uno pronto, poi arrivano e dicono «questo è mio» e se non glielo lasciano finisce a botte. Ecco, il format è molto simile, solo che al posto dei bambini arroganti ci sono le multinazionali, al posto dei bambini capaci di fare i castelli di sabbia ci sono gli agricoltori e i ricercatori indipendenti e al posto dei castelli c’è il cibo.
Non il cibo Ogm, non chissà quali altri futuribili prodotti, ma proprio la frutta e la verdura che compriamo tutti i giorni al mercato, quella "normale". Questa è la nuova frontiera dell’azione delle multinazionali: brevettare quel che ogni giorno arriva nel nostro piatto.
Facciamo un passo indietro: la questione dei brevetti è questione complessa, che inizialmente - ovvero quando i brevetti stessi vennero ideati - doveva riguardare le invenzioni, quindi cose utili, nuove, che potevano essere riprodotte con un processo descrivibile. All’inizio questo riguardava solo le invenzioni industriali e tutto filò liscio. Ma all’inizio degli anni Ottanta un ricercatore americano ottenne il primo brevetto su un batterio, ovvero su un organismo vivente, da lui geneticamente modificato, in grado di degradare le molecole di petrolio grezzo e quindi di bonificare aree inquinate. Da qui derivò la possibilità per i produttori di Ogm di brevettare le sementi, e dunque il divieto per gli agricoltori di riprodurle secondo i metodi tradizionali, e l’obbligo ad acquistare le nuove sementi ad ogni stagione.
Ma adesso siamo davanti a una cosa diversa. Perché le multinazionali non chiedono brevetti su sementi modificate con le tecniche della transgenesi. Diciamo che hanno alzato il tiro... o lo hanno abbassato, difficile dire.
In questo caso parliamo di broccoli. Il broccolo è una pianta naturalmente ricca di molecole con proprietà anticancro che si chiamano glucosinolati e allora un’azienda ha studiato il genoma dei broccoli per capire in quali condizioni le concentrazioni di glucosinolati risultano maggiori. Ha così scoperto che i broccoli contengono più glucosinolati quando hanno un determinato assetto genomico e che, selezionando la piante migliori e incrociandole con metodi tradizionali, è possibile ottenere una pianta con l’assetto desiderato. Complicato, vero? Sì, complicatissimo.
Infatti hanno brevettato questa scoperta, perché il procedimento lo hanno inventato loro e ne sono orgogliosi. Ma tutto ciò non era sufficiente. Perché invece i broccoli, con i loro glucosinolati, non li hanno inventati loro e quindi se un altro ricercatore, o un agricoltore evoluto, decide di misurare i glucosinati che ci sono in un broccolo, con un procedimento chimico, e poi incrociare tra loro - sempre con sistemi tradizionali - solo quelli con i tassi più alti, ottiene per un’altra strada quello che i primi hanno ottenuto studiando i Dna.
Ecco che allora i nostri bambini prepotenti hanno pensato bene di chiedere i brevetti di tutti i broccoli che possiedono quel determinato livello di glucosinolati che loro sono riusciti a ottenere in laboratorio. Occhio: non sul procedimento, né sulla molecola, né sui semi. Ma proprio sui broccoli stessi, quelli che ci sono al mercato, perché siccome l’idea di un broccolo con un’alta concentrazione di glucosinati è loro, allora brevettano l’idea, il pensiero che esista questo broccolo.
Farebbe ridere se non fosse grottesco. Come se qualcuno trovasse un sistema ad altissima tecnologia per fare nascere solo gatti neri e poi volesse il brevetto non solo su quelli che produce lui con il suo sistema, ma anche su tutti i gatti neri che ci sono in circolazione, e che mai ci saranno. Ecco dove stiamo andando.
L’Epo, ovvero l’ufficio europeo dei brevetti (European Patents Office) non ha trovato che la richiesta fosse assurda, e nonostante le proteste che si stanno levando da più parti della società civile, ha continuato la procedura.
Cosa significa tutto questo per noi comuni mortali? Intanto significa che ormai il primo che si sveglia la mattina, a patto di avere una camionata di denaro, può studiare una cosa già esistente in natura, e poi quando ne ha capito i segreti può dire che è sua. E questo è non solo contro ogni logica e ogni giustizia, ma è addirittura al di là dei limiti che la legge europea sui brevetti impone quando dice che essi valgono solo per le "invenzioni biotecnologiche".
Secondariamente significa che se tutto - non solo le cose, ma anche le qualità delle cose - diventa "di qualcuno", allora tutto costerà di più. Perché i brevetti costano. E non costerà di più solo fare ricerca e migliorare le varietà a nostra disposizione, ma costerà di più anche fare la spesa, perché prima o poi questi costi ricadranno da qualche parte, e non è difficile immaginare che ricadranno sui banchi dei nostri supermercati. Infine significa che il cibo sarà il terreno di scontro delle prossime guerre, economiche e non solo. Le società di capitali hanno capito già da un pezzo e molto bene quello che la politica stenta a vedere.
Se c’è un bene durevole la cui domanda non può cadere, perché i consumatori non possono decidere di farne a meno, è il cibo. Una saggia politica partirebbe da qui per capire che i consumatori sono prima di tutto cittadini e che ogni politica che non si basi sulle esigenze alimentari (e dunque di salute, ambiente, educazione, giustizia...) dei cittadini è una politica miope e dannosa.
LA NOMINA
FAO, arriva il nuovo direttore
Un brasiliano dal sangue calabrese
José Graziano da Silva ha anche la nazionalità italiana, ha 63 anni ed è stato tra i responsabili dell’ideazione e della realizzazione del programma "Fame Zero" lanciato nel 2003 nel suo paese che ha conseguito enormi risultati. Tra il 2006 ed il 2011 è stato Vice Direttore Generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite *
ROMA - José Graziano da Silva - brasiliano con anche un’altra nazionalità, quella italiana e sangue calabrese nelle vene - dal 1° gennaio inizia il suo mandato come nuovo Direttore Generale della FAO. L’intendo dichiarato del nuovo capo dell’agenzia ONU impegnata nella lotta alla fame è quello di promuovere un rinnovato impegno per la sicurezza alimentare, e propone di incrementare il sostegno della FAO a favore dei Paesi a basso reddito con deficit alimentare - specialmente quelli con crisi prolungate.
Tutte le altre sfide globali. "Creeremo gruppi di lavoro - ha detto - che mettano assieme tutte le competenze dell’Organizzazione, per dare consulenza sulle politiche di sviluppo, sulla programmazione degli investimenti, sulla mobilizzazione delle risorse, sulla risposta alle emergenze, per uno sviluppo sostenibile. La lotta per l’eliminazione della fame non deve essere separata dalle altre sfide globali - ha aggiunto - come quella di rilanciare le economie nazionali, proteggere le risorse naturali dal degrado e mitigare e adattarsi al cambiamento climatico".
Ancora 925 milioni di persone affamate. La FAO è stata tra le prime agenzie ONU ad essere create, dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’idea era che la pace finalmente raggiunta avesse creato le condizioni per assicurare la liberazione dell’umanità dal giogo della fame. Eppure, dopo oltre mezzo secolo, al mondo ci sono ancora circa 925 milioni di persone che soffrono la fame cronica e molti paesi sono ben lontani dal raggiungimento del Primo Obiettivo di sviluppo del Millennio, quello cioè di dimezzare, tra il 1990 ed il 2015, la proporzione di persone che vivono in condizioni di fame e povertà estrema. Come Direttore Generale della FAO Graziano da Silva punta all’eliminazione della fame, ad una produzione e consumo alimentare sostenibili, ad una maggiore equità nella gestione mondiale degli alimenti, al completamento della riforma interna della FAO per migliorarne l’efficienza, la trasparenza e l’attendibilità, l’allargamento delle partnership e della cooperazione sud-sud. Graziano da Silva terrà la sua prima conferenza stampa come Direttore Generale martedì 3 gennaio 2012.
Ottavo Direttore Generale. Da Silva è l’ottavo Direttore Generale della FAO e subentra al senegalese Jacques Diouf, in carica dal 1994 al 2011. Il suo mandato durerà fino al luglio del 2015. E’ stato tra i responsabili dell’ideazione e della realizzazione del programma brasiliano "Fame Zero", lanciato nel 2003 e che ha conseguito enormi risultati. Tra il 2006 ed il 2011, precedentemente alla sua elezione, è stato Vice Direttore Generale della FAO e Rappresentate Regionale per l’America Latina ed i Caraibi. Nato il 17 novembre del 1949, di nazionalità brasiliana e italiana, ha conseguito un Bachelor in Agronomia ed un Master in Economia e Sociologia Rurale presso l’Università di San Paulo, oltre ad unun PH. D. in Scienze Economiche presso l’Università di Campinas. A tutto questo vanno aggiunte altre due lauree post-dottorato in Studi Latino Americani, conseguite all’University College di Londra e in Studi Ambientali presso l’Università della California, Santa Cruz.
* la Repubblica, 30 dicembre 2011
Prima si gusta e poi si pensa, la lezione di Onfray
di Cristina Taglietti (Corriere della Sera, 02.01.2012)
Dal nichilismo alimentare dei cinici alla rivoluzione culinaria futurista: la «diet-etica» per Michel Onfray è una cosa seria. Un’espressione dell’ateismo e dell’immanenza, sulla scorta di Feuerbach che scriveva «l’uomo è ciò che mangia» e dell’ultimo Foucault secondo il quale: «La pratica della dieta come arte di vivere è (...) un modo di costituirsi come un soggetto che ha del proprio corpo una preoccupazione giusta, necessaria e sufficiente». Onfray, noto per le sue tesi spesso controversiali, si incarica di mettere ordine tra il pensiero e la pancia dei pensatori in un saggio scritto nel 1989 (Les ventres des philosophes è il titolo in originale anche se Onfray avrebbe preferito «Diogene cannibale») che gli diede una certa notorietà in patria e che ora l’editore Ponte alle Grazie ha tradotto in italiano (I filosofi in cucina, traduzione di Giovanni Bogliolo, pp. 158, 13).
Un interesse, quello per la gastronomia, che Onfray dichiara di aver succhiato con il latte materno: una madre brava cuoca e un padre bravo ortolano in una famiglia povera in cui non si poteva andare al ristorante, in vacanza, al cinema, a teatro, e «i pasti erano le uniche occasioni edoniste». Il libro, racconta Onfray nell’intervista in Appendice, ha generato anche un equivoco relegando il suo autore alla facile etichetta di «filosofo della gastronomia» che, secondo lui, era un modo per neutralizzare un postulante spesso invitato nei talk show, ma che gli studiosi volevano ignorare. E invece Onfray ci tiene a inserire il saggio in un percorso teorico coerente perché «la tavola, come pure il letto, costituiscono un luogo altrettanto filosofico quanto la scrivania o la biblioteca».
La rassegna di Onfray comincia dal cinico Diogene, che oppone «al cotto consensuale dell’istituzione nutritiva» il nichilismo alimentare più sfrenato, caratterizzato dal rifiuto del fuoco e, quindi, centrato sul crudo. Onfray passa attraverso Rousseau, «plebeo nell’animo», figura emblematica della rinuncia in materia di gastronomia («al di là del fabbisogno fisico, tutto è fonte di male») e Kant, «buona forchetta dedita a una pratica nutritiva priva di ambiguità» che tuttavia, relegando l’odorato e il gusto a sensi inferiori e soggettivi, reputa impossibile qualunque teoria critica del gusto alimentare, oggetto troppo impreciso per una scienza stabile.
Ma è su Nietzsche, il filosofo che più di ogni altro «ha affermato il ruolo determinante del corpo nell’elaborazione di un pensiero», che, evidentemente, Onfray trova la convergenza maggiore: «Scegliere il proprio alimento significa elaborare la propria essenza» perché la scelta «è accettazione della necessità, che anzitutto bisogna scoprire». La preoccupazione dietetica, quindi, nel Nietzsche riletto da Onfray, diventa illustrazione pragmatica della teoria dell’amor fati e al tempo stesso un invito all’ascesi del diventa chi sei.
Onfray ci invita al banchetto, a patto che siamo disposti ad ammettere che il corpo è l’unica via di accesso alla conoscenza. Il pasto è decisamente gustoso e, alla fine, nonostante le portate succulente, anche di (relativamente) facile digestione.