Un decalogo per le intercettazioni
di Stefano Rodotà (La Repubblica, 21.06.2006, pp. 1/20)
Le intercettazioni hanno invaso lo spazio pubblico, e pongono seri problemi di legalità. In due direzioni: la tutela della dignità delle persone (è questa la parola giusta da usare, più del riferimento alla privacy, pur indispensabile); la necessità e l’urgenza di ripristinare il rispetto di regole minime di diritto in aree che sembrano essere sfuggite ad ogni logica di legalità, con un inquietante parallelo con quanto accade in parti del territorio nazionale passate dal controllo pubblico a quello criminale. Se è giusto preoccuparsi della "gogna mediatica", è tuttavia impossibile ritenere secondario quello che, dall’estate scorsa, è sotto gli occhi di tutti.
Le vicende in Banca d’Italia e dintorni, la corruzione nel mondo del calcio e nella Rai, i commerci intorno alla sanità e alle società telefoniche, la simbolica discesa agli inferi di casa Savoia scoperchiano una miserabile Italia degli affaracci e turpiloquio, dove si negozia su tutto, dalle direzioni arbitrali alle prestazioni sessuali, dalle autorizzazioni bancarie all’uso "mirato" di trasmissioni televisive. Si scoprono mondi che si danno regole proprie e incuranti del codice penale, che costruiscono reti di protezioni e complicità.
Le inchieste giudiziarie producono solo «bolle di sapone»? Non direi basta leggere le parole sobrie e severe dedicate dal nuovo Governatore alla situazione che si era determinata nella Banca d’Italia. Questo, ovviamente, non vuol dire che, se «l’Italia l’è malata», l’unico dottore debba essere la magistratura, costi quel costi. Una volta di più dobbiamo rifiutare la logica "sostanzialista", per cui il raggiungimento di un fine legittimo giustifica smagliature o vere e proprie violazioni delle garanzie dei diritti. Ma questo deve valere sempre, e per tutti. Va certamente rispettata la privacy di politici o veline, ma il garantismo non può scomparire, ad esempio, quando si affrontano i diversi problemi degli immigrati o dei tossicodipendenti. La legalità è un bene indivisibile.
Divenuta sempre più intricata e scottante, la questione delle intercettazioni non può essere affrontata a colpi d’accetta. Servono distinzioni e analisi accurate, soprattutto per evitare che la denuncia degli abusi si trasformi in pretesto per liberarsi di ogni forma di controllo su comportamenti sicuramente illeciti, per occultare la gravità delle situazioni che vengono rivelate.
È la vecchia storia di chi vuol rompere il termometro per non misurare la febbre. Poiché questo rischio è reale, si spiega perché Marco Pannella invochi la pubblicazione di tutto: non è solo una provocazione, è l’indicazione dell’inaccettabilità di una linea che, una volta di più, vuole distorcere le garanzie per occultare l’illecito.
Non è ammissibile, allora, il ricorso ad un decreto legge per riformare la disciplina delle intercettazioni. Il Parlamento sa da molto tempo che la questione è aperta.
Durante il primo governo Prodi, il ministro della Giustizia aveva presentato un disegno di legge; nella passata legislatura erano ben otto le iniziative parlamentari in materia; sollecitazioni precise erano venute dal Garante per la privacy. Il lungo silenzio parlamentare non è edificante, rivela un’evidente responsabilità politica.
Prima di aggredire i magistrati, i politici riflettano sulle loro inerzie. Ora è sicuramente necessario un lavoro rapido: ma la via migliore è quella del disegno di legge, che permette una reale collaborazione di tutti i parlamentari e una più efficace discussione davanti all’opinione pubblica. E, soprattutto, non si può più accettare il ricorso al decreto legge quando si tratta di diritti fondamentali delle persone.
La riforma, peraltro, non può essere ispirata ad una logica punitiva dei magistrati e dei giornalisti. Dichiarazioni preoccupate per le violazioni dei diritti, come quelle di Francesco Saverio Borrelli o di Nello Rossi, mostrano come nel mondo dei magistrati si manifesti un confortante ritorno della «cultura della giurisdizione» in molti casi sopraffatta da inclinazioni poliziesche. Questo punto va sottolineato, perché l’iter dell’annunciata riforma non può cominciare, come pure si era minacciato, da una drastica riduzione dei casi in cui è legittimo disporre intercettazioni. Ammetterle solo per i casi di terrorismo e di criminalità organizzata, infatti, significherebbe privarsi di un importante strumento di indagine, ad esempio in tutta la materia della corruzione, che è poi quella maggiormente evidente nella situazione che abbiamo di fronte. Una riforma non può costruire una nuova rete di protezione dell’illegalità.
Vero è, come ha messo in evidenza Giuseppe D’Avanzo, che il ricorso eccessivo alle intercettazioni rivela pure una inclinazione dei magistrati ad imboccare una via facile, trascurando altre tecniche investigative. Ma si tratta di questioni che non possono essere affrontate con modifiche legislative generali. Servono piuttosto specifiche regole procedurali più rigorose per quanto riguarda tempi e modalità delle intercettazioni, che possono anche favorire una maggiore consapevolezza dei magistrati, e quindi un controllo più attento delle richieste di autorizzazione a mettere i telefoni sotto controllo.
Il cuore del problema sta nella fase successiva, quella che comincia nel momento in cui il magistrato entra in possesso delle intercettazioni. Di questo era stato ben consapevole il legislatore quando, intervenendo nel 1974 proprio a tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni, aveva previsto un intervento del magistrato per stralciare e distruggere quanto appariva non rilevante a fini probatori. È questa parte della disciplina che non ha funzionato, ed è qui che bisogna intervenire.
Considerando le proposte passate e quelle avanzate in questi giorni, si può dire che ci si orienta verso un filtro più rigoroso e selettivo, che appare come la via maestra per evitare che vengano poi messe in circolazione conversazioni irrilevanti o tali da violare la riservatezza e la dignità di persone estranee all’indagine e, in circostanze particolari, degli stessi indagati. I punti da definire sono diversi e riguardano le modalità di acquisizione delle conversazioni ritenute rilevanti, alla cui definizione devono poter partecipare gli avvocati delle parti. Una volta effettuata la selezione, individuate le conversazioni rilevanti e disposta l’acquisizione, il segreto verrebbe meno e i testi potrebbero essere diffusi.
Qui, infatti, l’interesse all’informazione dell’opinione pubblica, spogliato dal puro voyeurismo, potrebbe legittimamente riprendere il sopravvento. Rimane aperta la questione se le conversazioni ritenute non rilevanti debbano essere in tutto o in parte distrutte (come prevede la norma attuale) o se, invece, debbano essere conservate in un archivio riservato.
L’istituzione di uno specifico archivio può consentire l’individuazione di un magistrato che se ne occupa, di un ristretto numero di suoi collaboratori e di procedure controllabili di accesso, facilitando così l’accertamento delle responsabilità nel caso di fughe di notizie. Ma è pure vero che, fatte salve le esigenze di eventuali riscontri successivi su documenti inizialmente ritenuti non rivelanti, proprio l’esperienza di questi mesi ci dice che vi sono conversazioni o loro parti assolutamente estranee, per protagonisti o contenuti, all’oggetto delle indagini, sicché la distruzione diviene la più opportuna forma di garanzia. Si giungerebbe così ad una più precisa delimitazione dell’area delle conversazioni pubblicabili e si sposterebbe anche l’attenzione sulla fonte della notizia, evitando di concentrarsi solo sull’ultimo anello della catena, il giornalista, l’unico immediatamente individuabile. Ma rimane il rischio della violazione del segreto, della pubblicazione di conversazioni non ancora legittimamente acquisite, e quindi del modo in cui dovrebbe essere sanzionato il comportamento del giornalista.
Opportunamente accantonate le proposte di sanzioni penali, l’attenzione si sposta su quelle pecuniarie (che, tuttavia, possono risultare obiettivamente anche più pesanti). Ma bisogna incidere più direttamente non solo o non tanto sulla deontologia professionale quanto piuttosto sulle conseguenze visibili della violazione riscontrabili sul mezzo dove questa è avvenuta (giornale, rete televisiva, sito web). E in questa direzione il garante per la protezione dei dati personali può avere un ruolo significativo.
In passato, il garante è intervenuto tutte le volte che gli è stata segnalata la pubblicazione di brani di intercettazioni chiaramente irrilevanti per l’inchiesta e lesivi della dignità della persona. Ma questi interventi, pur importanti, non solo arrivano quando la violazione è già avvenuta, perché al garante non può essere attribuito né un ruolo incostituzionale di censura preventiva, né il compito di custode del buongusto. Sono anche poco incisivi, perché non riescono ad assumere adeguata rilevanza pubblica. Che cosa accadrebbe se il garante, accertata la violazione, avesse non il vecchio e stanco potere di imporre una rettifica, ma quello di obbligare il mezzo di comunicazione interessato, ad esempio un giornale, a pubblicare in prima pagina un ampio riquadro in cui si dicesse «abbiamo violato la privacy di tizia/o (senza menzionare il fatto specifico, per evitare l’amplificarsi ulteriore della violazione) e ricordiamo a tutti quali sono i criteri e i principi da rispettare (sintetizzati nel riquadro in modo eloquente)»? Non so se questo potrebbe divenire davvero un deterrente. Ma proprio la novità e la gravità degli attentati alla dignità delle persone esigono che si faccia qualche sforzo di fantasia e si cerchino strade diverse, anche se non proprio nuovissime. E spero che non si registri quell’arroccamento del sistema dell’informazione che abbiamo talvolta conosciuto in passato. Come i magistrati avvertono i rischi di derive che delegittimerebbero gravemente la loro funzione, così il mondo della comunicazione dovrebbe recuperare, insieme, la capacità di rispetto delle persone e l’orgoglio del «difensore civico», indagando sui mali italiani senza attendere d’essere preso per mano dai fornitori di intercettazioni.
La vera emergenza
di Claudio Fava *
Ci voleva il presidente dell’Associazione degli Industriali siciliani per farci capire che, nel Paese reale, l’emergenza mafiosa non sono i lavavetri ma i mafiosi: con un gesto senza precedenti Ivan Lo Bello ha comunicato che caccerà dalla sua associazione gli imprenditori che pagano il pizzo a Cosa Nostra. Sono bastate due righe d’agenzia per ribaltare il suggerimento di consociativismo mafioso che l’ex ministro dei Trasporti Lunardi propose qualche anno fa ai siciliani spiegando che alla mafia non c’è rimedio, e che dunque conviene abituarsi a conviverci. Un rimedio dunque c’è: basta non pagare. Ci perdonerà l’assessore Cioni di Firenze, ma ci sembra lontanissima, parole da un altro pianeta, anche la sua fiera intervista di qualche giorno fa.
Quella con cui annunciava la crociata contro gli stracci e i secchi dei maghrebini agli incroci della città. Se parliamo di sicurezza (e di rischi: quelli veri), il Paese reale oggi non sono i semafori di Firenze ma la periferia di Catania. Al signor Vecchio, presidente dei costruttori edili, hanno fatto quattro attentati in otto giorni: bombe, incendi, saracinesche divelte... L’ultimo, due giorni fa, dopo che era già stata disposta dal prefetto la protezione ventiquattrore su ventiquattro nei suoi confronti: una tanica piena di benzina lasciata davanti al deposito di un suo cantiere. Come dire: lo Stato può pure tentare di proteggervi con scorte e vigilanza, ma se noi mafiosi vogliamo farvi saltare in aria l’azienda, non ci ferma nessuno. Dal canto suo, il signor Vecchio ha fatto sapere, per la quarta volta (con una lettera aperta che l’Unità ha pubblicato ieri in prima pagina), che alle cosche lui non pagherà un centesimo.
In altri tempi, tempi non troppo remoti, a un imprenditore così tenace nel rivendicare la propria dignità di cittadino e di uomo, avrebbe fatto subito eco il saggio ammonimento degli altri imprenditori: non fare l’eroe, paga, campa tranquillo, pensa ai figli,che tanto per recuperare i piccioli ti basta evadere un poco di tasse... Andò più o meno così sedici anni fa con l’imprenditore Libero Grassi a Palermo. Grassi non pagò, andò il televisione e davanti a qualche milione di italiani spiegò che se si fosse piegato a quel miserabile ricatto mafioso non avrebbe più avuto la forza di guardare in faccia i figli. Due giorni dopo il presidente della sua associazione di categoria gli fece sapere, a mezzo stampa, che era un fesso, che a Palermo pagavano tutti e che quel baccano non serviva nemmeno al buon nome della Sicilia. Per Grassi fu una condanna a morte: isolato, umiliato, a completare il lavoro ci pensarono un paio di ragazzotti assoldati dalla cosca che pretendeva il pizzo. Lo ammazzarono sotto casa scaricandogli una pistola in testa, così gli altri avrebbero imparato da che parte stare.
Non tutti hanno imparato, non tutti si sono rassegnati. Il presidente degli industriali siciliani, che non fa solo accademia ma rischia anche le proprie aziende e la propria pelle, è uno che non s’è rassegnato. E che ha deciso di portare solidarietà al signor Vecchio senza chiacchiere ma nell’unico modo possibile: mandando a dire ai mafiosi che in Sicilia, tra quelli che non pagheranno più il pizzo, non ci sarà solo il costruttore catanese.
Certo adesso arriveranno i primi pelosissimi distinguo. Qualche commerciante si agiterà dicendo che lui il pizzo non sa cosa sia. Qualche collega di Lo Bello argomenterà che sì, certo, adesso denunciamo, però lo Stato, signori miei, dov’è lo Stato? che fanno a Roma? e cosa c’entriamo noi poveri cristi siciliani? Qualche gioielliere palermitano continuerà a pensare quello che ha sempre pensato: lui non paga il pizzo, al massimo fa un regalo, ecco, un regalino ogni tanto a certi amici, che così non gli fanno più rapine, risparmia sulla vigilanza e tiene la saracinesca alzata fino alle dieci di sera. E a Firenze qualcuno continuerà a lustrarsi con lo sguardo con gli strofinacci sequestrati durante la giornata ai lavavetri. Come se fossero kalashnikov e non scopette.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.09.07, Modificato il: 02.09.07 alle ore 13.01
Unipol, il gip Forleo sotto tiro
Sale la tensione con il Parlamento
Bertinotti e Marini irritati, Violante attacca: «E’ l’ora di capire cosa accade a Milano»
di ANTONELLA RAMPINO (La Stampa, 22/7/2007 - 7:15)
ROMA. Non si entra nel merito della perentorietà con la quale il gip Valentina Forleo ha chiamato in causa in un «disegno criminoso» gli alti vertici dei diesse nella tentata scalata di Unipol a Bnl, ma di certo i presidenti di Camera e Senato non hanno gradito di ritrovarsi sui giornali atti che chiamano in causa il Parlamento.
Franco Marini e Fausto Bertinotti si sono sentiti più volte ieri al telefono, e poi hanno deciso di lasciar trapelare il loro disappunto. Da Palazzo Madama si fa notare che a quarantott’ore dalle notizie riportate da tutti i media ancora non è giunto dal Tribunale di Milano un atto ufficiale che consenta l’avvio della procedura prevista. Bertinotti ha fatto dettare una nota piuttosto dura, «costituisce un problema la diffusione di notizie riguardanti il rapporto tra magistratura e Parlamento». «Non esprimo valutazioni finché non avrò visto gli atti», dice irritato Carlo Giovanardi, il presidente della Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio.
In casa diessina c’è un’ovvia tensione. Che potrebbe salire, e di quanto dipenderà dall’atteggiamento degli alleati. Arturo Parisi, che per primo attaccò la commistione tra politica e affari, ieri valutava che, per carità, «guardare dal buco della serratura delle intercettazioni è scorretto e inutile», anche perché «quel che c’è da vedere era già sotto gli occhi di tutti». E però «la malattia che dobbiamo combattere non è esclusiva dell’Italia e neppure della politica, ma nella politica italiana: si chiama berlusconismo. Una malattia che in emulazione con l’azione di Berlusconi, con l’alibi di difendersi da lui, e talvolta addirittura in cooperazione con lui, ha aggredito la nostra democrazia».
Non dice di più il ministro della Difesa, ma a chi si riferisce è chiaro: a D’Alema e ai «dalemoni». Quando invece i diesse si sono al momento chiusi nel recinto della difesa «tecnica», Anna Finocchiaro nota che «c’è un esercizio abusivo del potere perché Clementina Forleo è un gip e non un pm, dunque non può esercitare l’azione penale», non può sostenere che c’è «un disegno criminoso». E tuttavia, c’è da notare, Clementina Forleo ha motivato la richiesta di poter mantenere agli atti, e non distruggere come prevede la legge Boato del 2003, il testo di intercettazioni che ritiene penalmente rilevanti. E questo, secondo Ignazio La Russa di An, che da presidente della Giunta per le autorizzazioni si è occupato in precedenti legislature dei casi Previti e Dell’Utri, «non è di per sé uno scandalo». Il fatto, dice, è che «ci si chiede una cosa ridicola: il danno alla reputazione dei politici è già fatto, e il gip vuole dal Parlamento il permesso di non distruggere intercettazioni ormai pubbliche e che resteranno negli archivi dei media». Quanto al ritardo con cui gli atti arriveranno in Parlamento, «è una cosa normale, accaduta tante volte».
Anche per Luciano Violante, ex presidente della Camera, «il ritardo ha una sua fisiologia». Ma «siamo di fronte a una fuga di notizie per finalità politiche, un fatto inaccettabile: non è la prima volta che succede, e non è la prima volta a Milano, dove pure ci sono magistrati di altissima professionalità, forse sarebbe il momento che qualcuno si occupasse di vedere cosa accade in quel tribunale». Una presa di posizione che non mancherà di suscitare polemiche e che suona, dopo l’irritazione manifestata da Mastella contro la Forleo, come un invito al ministro di Giustizia ad avviare un’ispezione. Proprio questo è il punto anche se si ascolta l’altro campo dello schieramento politico. «Se le cose stanno per come le abbiamo lette sui giornali, non ci sono estremi di reato» dice il coordinatore di Forza Italia Fabrizio Cicchitto. Per il quale il punto però è lo stesso sollevato da Marini e Bertinotti: «Forleo ha creato il caso prima ancora di inviare le carte al Parlamento. Un attacco pregiudiziale, molto pericoloso».
Il plenum del Consiglio superiore della magistratura interviene sull’attività di spionaggio sui giudici
"Il Sismi ha svolto un’attività estranea ai compiti dei servizi fatta per intimidire e far perdere credibilità"
Toghe spiate, Csm contro il Sismi
"Fu il servizio e non settori deviati" *
ROMA - E’ stato il Sismi e non i "settori deviati" del servizio a svolgere l’attività di spionaggio nei confronti magistrati che è venuta alla luce con la scoperta dell’archivio di via Nazionale a Roma. A dirlo è una risoluzione approvata all’unanimità dal Plenum del Csm.
Secondo il Consiglio superiore della magistratura il Sismi ha svolto un’attività "estranea" ai suoi compiti con lo scopo "intimidire" e far "perdere credibilità " ai magistrati.
Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, prima dell’approvazione da parte del plenum di Palazzo dei marescialli aveva dichiarato che "c’è stato uno sviamento di poteri da parte del Sismi. L’attività del servizio è andata al di là delle proprie attribuzioni e competenze".
La risoluzione del Csm arriva dopo le dichiarazioni dell’ex funzionario Pio Pompa che aveva voluto sminuire l’importanza dell’archivio. "La quasi totalità del materiale sequestrato nei miei pc personali - aveva scritto nella dichiarazione spontanea consegnata ieri pomeriggio al pm Pietro Saviotti - proviene da fonti aperte (internet, organi di informazioni, etc.). Le informazioni contenute nei files attinenti a magistrati sono tutte, ribadisco tutte, di fonte pubblica, giornalistica o informatica".
* LA REPUBBLICA, 4 luglio 2007
LE IDEE
I sette peccati capitali di Internet (e le sue virtù)
di STEFANO RODOTA’ *
Qual è il destino dei parlamenti nell’età dell’informazione e della comunicazione? Alcuni anni fa, quando cominciò il dibattito sulla democrazia elettronica, sembrava che le nuove tecnologie avrebbero portato ad una progressiva scomparsa della democrazia rappresentativa, sostituita da forme sempre più diffuse di democrazia diretta. Nel nuovo agorà elettronico i cittadini avrebbero potuto prendere sempre la parola e decidere su tutto.
La memoria dell’antica Atene e il modello dei town meetings del New England apparivano come la forma nuova della democrazia, con un intreccio tra antico e nuovo che avrebbe via via cancellato il ruolo dei parlamenti. Oggi queste ipotesi sono lontane, e la democrazia elettronica segue strade diverse da quelle di una brutale e ingannevole semplificazione dei sistemi politici. Ma questo non vuol dire che i parlamenti possano trascurare le grandi novità determinate dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che incidono profondamente sul loro ruolo e sul modo in cui si struttura il loro rapporto con la società. Non siamo di fronte a semplici strumenti tecnici, ma ad una forza potente, la tecnologia nel suo complesso, che sta trasformando in modo radicale le nostre società.
Stiamo passando, su scala mondiale, da un equilibrio tecnologico all’altro. Il primo, grande compito dei parlamenti, oggi, è dunque quello di cogliere questo momento, di compiere tempestivamente le scelte intelligenti necessarie perché l’insieme delle tecnologie si risolva in un rafforzamento complessivo della democrazia.
Sono divenute chiare alcune linee di analisi e di intervento, che possono essere così riassunte:
evitare che le nuove tecnologie portino ad una concentrazione invece che ad una diffusione del potere sociale e politico;
evitare che le nuove tecnologie si consolidino come la forma del populismo del nostro tempo, con un continuo scivolamento verso la democrazia plebiscitaria.
evitare che ci si trovi sempre più di fronte a tecnologie del controllo invece che a tecnologie delle libertà;
evitare che nuove disuguaglianze si aggiungano a quelle esistenti;
evitare che il grande potenziale creativo delle nuove tecnologie porti non ad una diffusione della conoscenza, ma a forme insidiose di privatizzazione.
Pure l’età digitale, dunque, ha i suoi peccati, sette come vuole la tradizione, e che sono stati così enumerati: 1) diseguaglianza; 2) sfruttamento commerciale e abusi informativi; 3) rischi per la privacy; 4) disintegrazione delle comunità; 5) plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia; 6) tirannia di chi controlla gli accessi; 7) perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale. Non mancano, tuttavia, le virtù, prima tra tutte l’opportunità grandissima di dare voce a un numero sempre più largo di soggetti individuali e collettivi, di produrre e condividere la conoscenza, sì che ormai molti ritengono che la definizione che meglio descrive il nostro presente, e un futuro sempre più vicino, sia proprio quella di "società della conoscenza".
Al di là delle immagini e delle metafore, i parlamenti non sono chiamati a scegliere tra il bene e il male. Di fronte ad una realtà complessa, nella quale convivono società della conoscenza e società del rischio, i parlamenti non sono chiamati scegliere tra bene e male. Devono ribadire la loro storica e insostituibile funzione di custodi della libertà e dell’eguaglianza. Non sono riferimenti retorici. La tecnologia è prodiga di promesse.
Alla democrazia offre strumenti per combattere l’efficienza declinante, e arriva fino a proporne una rigenerazione. Ma, se guardiamo al mondo reale, alle tendenze in atto, rischiamo di incontrare sempre più spesso un uso delle tecnologie che rende capillare e continuo il controllo dei cittadini. A queste tendenze bisogna reagire, non solo per sfuggire ad una sorta di schizofrenia istituzionale che spinge verso la costruzione di un mondo diviso tra le speranze di libertà e l’insidia della sorveglianza. E’ necessario soprattutto considerare realisticamente le dinamiche sociali, a cominciare da quelle che rischiano di produrre nuove diseguaglianze.
Questo problema viene solitamente indicato con l’espressione digital divide, ed effettivamente l’uso delle tecnologie, di Internet in primo luogo, produce stratificazioni sociali, l’emergere di nuove categorie di haves e di have nots, di abbienti e non abbienti proprio per quanto riguarda la fondamentale risorsa dell’informazione. Ma le più attendibili ricerche sul digital divide mettono in evidenza che il divario tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati, per quanto riguarda l’accesso ad Internet, non può essere esaminato riferendosi prevalentemente alle differenze di reddito. Pur rimanendo profondissime, infatti, le distanze riguardanti Internet tendono a ridursi più rapidamente di quelle relative alla ricchezza.
Questo vuol dire che i fattori influenti non sono tanto quelli economici, quanto piuttosto quelli sociali e culturali.
Conoscenza è parola che sintetizza le possibilità di accedere alle fonti, di elaborare il materiale, raccolto, di diffondere liberamente le informazioni. Già nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite si è affermato il diritto di ogni individuo alla libertà di opinione e di espressione "e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere". Oggi questo diritto è in pericolo per la pretesa di molti Stati di controllare Internet, per l’esercizio di veri poteri di censura, per le condanne di autori di quelle particolari comunicazioni in rete che sono i blog.
Questa situazione non può essere ignorata, soprattutto perché alcune grandi società - Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone - hanno annunciato per la fine dell’anno la pubblicazione di una "Carta" per tutelare la libertà di espressione su Internet. I parlamenti non possono accettare che la garanzia del free speech, che gli Stati Uniti vollero affidare al Primo Emendamento della loro Costituzione, divenga materia di cui si occupano solo i privati, che evidentemente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi. Internet è il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione di potere. Un luogo dove tutti possono prendere la parola, acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune, e costruire così un mondo diverso di cui tutti possano egualmente dirsi cittadini.
Ma tutto questo può diventare più difficile, per non dire impossibile, se la conoscenza viene chiusa in recinti proprietari senza considerare proprio la novità della situazione che abbiamo di fronte e che impone di guardare alla conoscenza come il più importante tra i beni comuni.
La questione dei beni comuni è essenziale. Parole nuove percorrono il mondo - open source, free software, no copyright - dando il senso di un cambiamento d’epoca. Oggi, infatti, il conflitto tra interessi proprietari e interessi collettivi non si svolge soltanto intorno a risorse scarse, in prospettiva sempre più drammaticamente scarse come l’acqua. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di "chiusura" simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili. Questa scarsità artificiale, creata, rischia di privare milioni di persone di straordinarie possibilità di crescita individuale e collettiva, di partecipazione politica.
La sfida lanciata ai parlamenti non riguarda soltanto la necessità di trovare nuovi equilibri tra logica della proprietà e logica dei beni comuni. Investe lo stesso modo d’intendere la cittadinanza. La vera novità democratica delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, infatti, non consiste nel dare ai cittadini l’ingannevole illusione di partecipare alle grandi decisioni attraverso referendum elettronici. Consiste nel potere dato a ciascuno e a tutti di servirsi della straordinaria ricchezza di materiali messa a disposizione dalle tecnologie per elaborare proposte, controllare i modi in cui viene esercitato il potere, organizzarsi nella società. Con questo vasto mondo - in cui la democrazia si manifesta in maniera "diretta", ma senza sovrapporsi a quella "rappresentativa" - i Parlamenti devono trovare nuove forme di comunicazione, attraverso consultazioni anche informali, messa in rete di proposte sulle quali si sollecita il giudizio dei cittadini, procedure che consentano di far giungere in parlamento proposte elaborate da gruppi ai quali, poi, vengano riconosciute anche possibilità di intervento nel processo legislativo.
La rigida contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta potrebbe così essere superata, e la stessa democrazia parlamentare riceverebbe nuova legittimazione dal suo presentarsi come interlocutore continuo della società. In questa prospettiva, i parlamenti debbono soprattutto impedire che le esigenze di lotta a terrorismo e criminalità e le richieste del sistema economico portino alla nascita di una società della sorveglianza, della selezione e del controllo, alterando quel carattere democratico dei sistemi politici di cui proprio i parlamenti sono i primi ed essenziali garanti. Proprio le tecnologie, con la loro apparente neutralità, hanno rafforzato le spinte verso la creazione di gigantesche raccolte di dati personali.
La politica sta delegando alla tecnica la gestione dei più diversi aspetti della società, dimenticando, ad esempio, un principio chiaramente indicato nell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questa norma si ammettono limitazioni dei diritti per diverse finalità, compresa la sicurezza nazionale, a condizione però che si tratti di misure compatibili con le caratteristiche di una società democratica. I parlamenti devono esercitare con il massimo rigore questa funzione di controllo, senza delegarla ad altri organi dello Stato, fossero pure le corti costituzionali. Solo così possono evitare la trasformazione dei cittadini in sospetti, ed impedire che, con l’argomento della difesa della democrazia, sia proprio la democrazia ad essere perduta.
Questo è il discorso
che Stefano Rodotà
ha tenuto a Montecitorio
per l’apertura della
Conferenza internazionale
dell’Unione interparlamentare
* la Repubblica, 6 marzo 2007
CORRUZIONE IN SALDO di Luigi La Spina (La Stampa, 21 giugno 2006)
Ogni scandalo italiano resta, nell’immaginario dell’opinione pubblica, fissato in un dettaglio. E’ una parola, un gesto, una figura. Non è quasi mai la cosa più importante, il giudizio più azzeccato, la conseguenza più grave. Ma è il particolare che ne fissa il ricordo, nell’accavallarsi di vicende di corruzione, diverse nelle circostanze, ma, alla fine, tutte simili nei percorsi grigi dell’animo umano. Così fu per le banconote gettate freneticamente nel water del «mariuolo» Mario Chiesa all’inizio di Tangentopoli. O per l’involontaria autodefinizione di «furbetti del quartierino» che consegnò Ricucci e compagni sia alle patrie galere sia alla galleria degli immortali «tipi» italiani.
Quello che colpisce oggi, nell’intreccio di cupole calcistiche, di altezze decadute, da ormai molto tempo, di nuovi ceti politici, sbrigativi e arrembanti, sono i numeri. Quelli che definiscono i prezzi dell’onore perduto, in una stagione di corruzione a saldo. Dove il simbolo del vero declino italiano forse non sta né nella fantasia del malcostume, né nella gravità dei peccati e neanche in quella cornice di teatrale e tragica grandezza del male che trasforma comparse di cronaca in protagonisti della storia. Sono le cifre del biglietto omaggio o il costo della maglietta di Del Piero, le sparagnine ricompense di un re presunto, da 200 a 300 euro, per una compiacente compagnia femminile, i 500 euro concordati tra i faccendieri per l’interessamento di Sottile ai loro traffici.
Lo squallore che avvolge questa Italia, allora, non è tanto la quantità degli scandali, ma la loro qualità infima, fatta di ambizioni modestissime, di abitudini provinciali che resistono alle supposte modernità dei costumi, di un turpiloquio ossessivo e banale. C’è forse un rapporto tra la scarsa considerazione di se stessi che fa svendere il proprio potere, anche quello supposto, sul mercato della corruzione e l’affanno nella competizione italiana sul mercato della competitività internazionale? Se l’onore, la carriera e persino il rischio della prigione valgono così poco per tanti uomini della nostra classe dirigente dipende solo dalla speranza di una diffusa impunità oppure anche dalla consapevolezza dell’apertura di una grande svendita italiana. Un incanto pubblico e miserevole di vecchi ideali smarriti nei cimiteri delle ideologie, di cinismi trasformati in dannunziani sfoggi di intelligenza, di precari successi televisivi per pochi e di interminabili precarietà professionali per tanti.
E’ inutile perciò ricorrere al moralismo di chi fa finta di meravigliarsi per comportamenti che tutti conosciamo sui nostri posti di lavoro, nelle nostre case, persino nella cerchia dei nostri amici o familiari. Ed è ipocrita gridare alla punizione esemplare, sperando che, questa volta, risparmi la nostra parte e si accanisca sull’avversario. Non servono generici appelli all’etica, nostalgie per le antiche virtù dimenticate, confronti generazionali che si risolvono sempre a vantaggio del passato. Sarebbe forse più proficuo cercare di capire perché il rispetto di se stessi e l’orgoglio di dire «no» valgano così poco sull’attuale mercato pubblico italiano. Sarebbe meglio cominciare a praticare una domestica «tolleranza zero» nel costume privato e sollecitare la nostra classe politica a comportamenti adeguati in quello pubblico.
A quest’ultimo proposito, ricordiamo con piacere la promessa di Prodi, quella di stupire gli italiani. Sarebbe davvero stupefacente se il primo accordo del nuovo governo con l’opposizione, tanto auspicato anche dal Presidente della Repubblica, non avvenisse su questioni fondamentali, come la nostra presenza in Afghanistan o su alcune misure per fronteggiare la crisi dei conti dello Stato. Ma avvenisse, con un accordo trasversale tra tutti i partiti, sulle intercettazioni, come proposto dal ministro della Giustizia Mastella. E’ davvero curioso come lo scatto di indignazione parlamentare, unanime e vibrante, sia avvenuto per le modalità della loro pubblicazione e non per i contenuti che rivelavano comportamenti scandalosi. Non vorremmo che, in nome della sacrosanta privacy degli italiani, si volesse soprattutto tutelare la privatezza degli affari sporchi di alcuni di loro.