È cambiata la musica Stefano Fassina*
Il Consiglio dei ministri di ieri ha segnato una svolta nella politica economica del nostro paese. Una svolta fortemente riformista, orientata al conseguimento di tre fondamentali obbiettivi: sviluppo, equità, risanamento dei conti pubblici.
La discontinuità con la passata legislatura e il governo Berlusconi è netta, innanzitutto sul piano etico-politico: l’interesse generale torna a prevalere sull’interesse particolare.
Inoltre, la manovra approvata dall’esecutivo non ha messo, come sempre avvenuto durante la gestione del centrodestra, qualche toppa su una situazione di finanza pubblica dissestata, né ha piantato qualche bandierina propagandistica nel campo della crescita economica. Sono stati, invece, avviati, per iniziativa dei ministri Bersani e Padoa-Schioppa e del vice-ministro Visco, provvedimenti strutturali per lo sviluppo e per il risanamento dei conti. Complessivamente, un pacchetto da 7 miliardi a regime, dove il rigore finanziario viene alimentato dall’equità e dall’efficienza e non va a scapito del sostegno agli investimenti pubblici. Anzi, vengono ripristinate le dotazioni minimali di risorse necessarie a non far chiudere i cantieri dell’Anas, ad assicurare l’operatività delle ferrovie, a reintegrare le dotazioni finanziarie per le politiche sociali, per il servizio civile e per la cultura. In sintesi, la cosiddetta «manovrina» di inizio estate si rivela, in realtà, come il primo, importante, tassello nell’esecuzione del programma economico dell’Unione, il cui impianto è stato pienamente confermato: risanamento e sviluppo economico e sociale insieme, nell’equità, senza cadere nella trappola dei due tempi (prima risanamento e poi sviluppo).
Sul piano dei diritti di cittadinanza, dell’equità, della promozione di pari opportunità e del rilancio della produttività (in calo da venti anni in Italia), è difficile sottostimare la portata delle misure proposte dal ministro Bersani, da un decennio al centro del dibattito politico e delle segnalazioni dell’autorità antitrust: i) promozione della concorrenza nel settore dei servizi professionali, attraverso l’eliminazione delle tariffe minime, del divieto di pubblicità, delle limitazione all’associazione dei professionisti e alla prestazione di servizi interdisciplinari; ii) liberalizzazione della distribuzione commerciale e delle attività di panificazione; iii) liberalizzazione della vendita dei farmaci da banco e rimozione di anacronistici limiti all’acquisto di farmacie; iv) eliminazione dei vincoli oggi esistenti alla vendita da parte dei Comuni di nuove licenze per i taxi e redistribuzione della maggior parte dei proventi della vendita di tali licenze tra i tassisti che non acquistano una seconda licenza; v) eliminazione dell’atto notarile per i passaggi di proprietà delle auto; vi) eliminazione nel settore delle polizze auto del vincolo di esclusività tra compagnia assicurativa e agente di vendita; vii) cancellazione dei poteri unilaterali delle banche nei confronti dei clienti per quanto riguarda la modifica delle condizioni e dei costi dei conti correnti; viii) soppressione di numerose commissioni ministeriali e comitati; ix) rafforzamento dei poteri dell’autorità Antitrust; e, infine, potenziamento e apertura alle Regioni, alle Province e ai Comuni del sistema informativo sui prezzi dei prodotti agroalimentari.
Esattamente sullo stesso piano etico, politico ed economico degli interventi proposti dal ministro Bersani insistono le misure fiscali definite dal vice-ministro Visco. Innanzitutto, in coerenza con quanto scritto ed annunciato prima delle elezioni, mai più condoni, interventi che negano la parità di trattamento tra cittadini, ledono i fondamenti dello stato di diritto, promuovo l’evasione. Quindi, cancellazione del concordato + pianificazione fiscale voluta da Tremonti. Poi, un insieme di misure strutturali, finalizzate a: i) prosciugare lo spazio normativo per l’evasione e l’elusione fiscale, in particolare nel settore delle compravendite immobiliari; ii) potenziare gli strumenti dell’Agenzia delle Entrate nella lotta ai comportamenti illeciti; iii) promuovere attività di ricerca, sviluppo ed innovazione; iv) rendere il sistema fiscale meno iniquo nel trattamento dei redditi da lavoro, attraverso l’eliminazione degli ingiustificati privilegi goduti dai manager remunerati con le stock options; v) semplificare gli adempimenti fiscali per i lavoratori autonomi, mediante l’eliminazione dell’obbligo di sottostare al regime IVA nei casi di volumi di attività inferiori a 7000 euro l’anno; vi) ridurre gli adempimenti di tutti i contribuenti, prevedendo la possibilità di pagare l’Ici mediante la dichiarazione dei redditi a compensazione dei crediti maturati dall’imposta sul reddito.
Dopo poco più di un mese, nonostante alcune difficoltà iniziali e la «distrazione» indotta dalle elezioni amministrative e dal referendum costituzionale, presentate come rivincita dal capo dell’opposizione, incomincia a venir fuori il profilo riformista del governo Prodi, alimentato in particolare dall’Ulivo e dai Democratici di Sinistra, la forza cardine della maggioranza. Nelle scorse settimane nella politica internazionale, ieri nella politica economica risaltano, non sulla carta, ma nel mondo reale e difficile dell’azione di governo, i contorni dell’identità culturale e programmatica delle forze impegnate nella costruzione del Partito Democratico. È un buon inizio, non solo per il centrosinistra, ma per l’Italia. Ora la sfida si sposta in Parlamento e nella società. Le leadership e le forze politiche, culturali ed economiche riformiste devono mobilitarsi. Gli interessi economici e sociali organizzati devono sostenere la spinta decisiva data dal governo, decisiva per invertire la rotta del paese. Anche gli interessi toccati direttamente dai provvedimenti di riforma devono guardare ai destini dell’Italia e, come nei momenti migliori della nostra storia, tenere a bada il proprio «particulare»: le iniziative messe in campo non sono «a somma zero», nel breve periodo, probabilmente, ledono alcune rendite ingiustificate. Nel medio periodo, però, determinano un gioco «a somma positiva», dove tutti vincono, perché il paese torna a crescere, a generare maggiore e migliore occupazione, maggiore ricchezza, migliori opportunità.
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WWW.UNITA.IT, Pubblicato il 01.07.06
C’è un paese che non vuole cambiare
di Luca Ricolfi (LA STAMPA, 5/7/2006)
Prodi aveva promesso di stupirci, e non si può dire che non ci sia riuscito. La raffica di liberalizzazioni varata in questi giorni non era attesa così presto, e comunque ha già ottenuto due importantissimi risultati politici. Innanzitutto ha cancellato l’impressione di incertezza e inconcludenza trasmessa nel primo mese di governo: non sappiamo ancora se questo basti a instaurare una vera e propria «luna di miele» fra Prodi e l’elettorato, ma l’inversione del clima d’opinione è tangibile. In secondo luogo ha gettato lo scompiglio nella Casa delle libertà: di fronte alle misure del pacchetto Bersani i sinceri liberali non hanno potuto far altro che plaudire al nuovo corso, rammaricandosi semmai di non aver avuto il coraggio di fare altrettanto quando erano al governo.
Tutto bene, dunque? Sì, anche se la reazione delle categorie colpite - soprattutto taxisti, farmacisti, notai - mostra quanto impervia sia, in Italia, la strada del cambiamento. Chi in tutti questi anni si è chiesto perché Berlusconi non abbia fatto (quasi) nulla in simili materie, ora ha la risposta: se avesse mosso un dito, avrebbe scatenato l’inferno che ora si annuncia.
Che le categorie interessate reagiscano difendendo i propri interessi, e invocando strumentalmente la concertazione, rientra nell’ordine delle cose. E poiché il governo sta tutelando l’interesse generale, non si può che sperare che esso sappia far valere le sue ragioni nel confronto con le categorie colpite. Ciò detto, non è forse inutile segnalare alcuni elementi che minano o potrebbero indebolire la pur meritoria azione del governo.
Primo. E’ difficile sfuggire all’impressione che il governo abbia deciso di partire da queste categorie perché il loro apporto elettorale è minimo. I notai sono 5 mila, i taxisti meno di 20 mila, le farmacie poco più di 15 mila. Il loro peso complessivo è dunque, più o meno, di 1 elettore su 1000 votanti. Possiamo indignarci per la natura corporativa delle loro proteste, come a suo tempo ci siamo indignati per quelle dei forestali calabresi, dei controllori di volo, degli autoferrotranvieri. Ma resta il fatto che ogni richiesta di sacrifici è tanto più debole quanto più è selettiva, ossia mirata a gruppi e categorie particolari. Oggi tutti (giustamente) ce la prendiamo con i taxisti: ma che cosa diremmo domani, noi indignati di oggi, se meritocrazia e concorrenza entrassero davvero nelle scuole, nelle università, negli ospedali, nel mercato del lavoro? Paradossalmente il messaggio del governo sarebbe più digeribile se il rischio non fosse concentrato su alcune categorie-simbolo, ma investisse credibilmente un po’ tutte le categorie di cittadini: i taxisti si sentirebbero meno capro espiatorio, e chi oggi è risparmiato dalla prima ondata non maramaldeggerebbe troppo, perché saprebbe che lo tsunami non è finito.
Secondo. Il fatto che l’autodifesa degli interessi colpiti sia dettata dalla convenienza non annulla ipso facto tutte le argomentazioni usate dalle categorie. Alcune di tali argomentazioni andrebbero valutate con rispetto, senza indulgere in atteggiamenti ideologici, tipo «aboliamo tutti gli Ordini professionali», o «liberalizziamo completamente le licenze». Con gli Ordini professionali il problema che il governo deve affrontare non è quello di trovare il coraggio politico di sopprimerli tutti, ma quello di trovare il modo di tutelare sia l’interesse dei cittadini a tariffe più basse (meno barriere all’entrata) sia l’interesse dei cittadini a ricevere servizi di qualità (vigilanza su truffe e ciarlatani). Quanto ai taxisti, fa benissimo il governo a favorire un aumento del numero di taxi circolanti, ma non dovrebbe scordare che esistono anche altre strade - meno punitive nei confronti dei taxisti - per aumentare l’offerta e abbassare le tariffe, specie nelle grandi città. Ad esempio: permettere a tutti i taxi di lavorare nelle ore di punta (cosa spesso impedita dai Comuni), o far rispettare le corsie preferenziali agli automobilisti normali (con conseguente dimezzamento della durata media dei percorsi, riduzione del prezzo della corsa, aumento dei taxi disponibili). Il governo di centro-sinistra ha già dato ampia prova, in passato, di inclinare ad atteggiamenti illuministici, pedagogici, quando non di superiorità morale: proprio perché oggi è dalla parte della ragione, farebbe bene ad ascoltare con estrema attenzione anche le (buone) ragioni delle categorie che protestano.
Terzo. Infine, poiché si prospettano sacrifici, un tocco di sobrietà e di autolimitazione non potrebbe che far bene alla politica, nonché all’immagine del governo. Sappiamo tutti che i conti pubblici dipendono in misura limitata dai costi della politica, e in misura minima da quelli dei parlamentari. E tuttavia, dopo la «carica dei 102» e il miracolo della moltiplicazione delle poltrone, un piccolo segnale che andasse in direzione opposta, limando qualche privilegio e aprendo una delle corporazioni più chiuse del nostro Paese, sarebbe gradito. Molto gradito
LA RIFORMA E LE LOBBY di Guido Viale (la Repubblica, 04.07.2006)
I tassisti, come le farmacie, sono percettori di rendite oligopolistiche grazie alle barriere frapposte all’ingresso di nuovi competitors. In Italia i taxi sono pochi: a Barcellona, modello per tutti i sindaci italiani, i taxi per abitante sono sei volte quelli di Milano. Di qui il prezzo spropositato a cui vengono scambiate le licenze: fino a 200mila euro in città come Roma, Milano o Firenze; una compravendita peraltro illegale, mai registrata ai prezzi effettivi. Il costo di ingresso nel settore viene recuperato con le tariffe. Per il recupero (pay-back) dell’investimento si parla di cinque-dieci anni. 200mila euro recuperati in dieci anni sono un balzello annuo di ventimila euro, quasi cento euro al giorno, cioè da cinque a dieci euro su ogni corsa, che vanno ad aggiungersi alla remunerazione del tassista, al canone associativo e al costo di assicurazione, manutenzione, carburante e rinnovo periodico del mezzo.
In altre città italiane queste stime vanno ridotte di un terzo o della metà. Il balzello, comunque, grava soprattutto sui costi delle imprese: oggi può permettersi il taxi quasi solo chi è rimborsato da una ditta o da un ente.
Una volta recuperato il costo della licenza - nel caso che non sia stata ereditata - i tassisti guadagnano molto: per lo meno rispetto agli addetti a mansioni simili. Quanto, esattamente, non si sa; perché non sono tenuti a rilasciare ricevute (quelle che danno al passeggero non hanno alcun riscontro fiscale): le ha abolite, pochi mesi dopo la loro introduzione, il primo governo Berlusconi. A fronte di questi guadagni, il lavoro dei tassisti è stressante e gli orari sono lunghi: dieci e a volte anche sedici ore al giorno. Non è detto - anzi, non accade quasi mai - che durante il turno siano sempre in moto: stanno fermi, in attesa dei clienti, anche per metà della giornata.
La cessione della licenza rappresenta una sorta di buonuscita, in assenza di tutele previdenziali più adeguate: è un "fai-da-te" eretto a sistema di governo; sulla sua perpetuazione si reggono lobby, clientele e "pacchetti" di voti che stanno all’origine della frammentazione della categoria in associazioni e cooperative che invece di collaborare per rendere efficiente il servizio, si combattono per difendere le prerogative di chi le governa. Basti pensare che nelle principali città italiane, nonostante i molti tentativi esperiti, non si è riusciti nemmeno a istituire un numero unico per le chiamate: cosa che evidentemente pesa sia sulla qualità del servizio (tempi di attesa) che sul suo costo (l’attesa spesso la paga il cliente).
Non parliamo delle innovazioni rese possibili dalle tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni (Itc): nove anni fa l’allora ministro dell’ambiente Ronchi, nel quadro di un decreto sulla mobilità sostenibile, aveva istituito - sulla carta - una nuova modalità di trasporto a domanda, chiamandola impropriamente "taxi collettivo" e assegnandone incautamente la gestione alle aziende di trasporto pubblico locale (Tpl). Le quali, sostenute dai contributi regionali, avrebbero potuto fare una concorrenza sleale ai tassisti. Per reazione un compatto sciopero aveva offerto a Berlusconi l’occasione di un bagno di folla tra i tassisti romani. Il provvedimento era stato subito revocato e reso non operativo.
Le misure sui taxi del sacrosanto decreto-legge del governo Prodi, se non sarà accompagnata da interventi che affrontino tempestivamente la questione nel suo insieme - e purtroppo la questione non è stata nemmeno sfiorata nel lungo processo di elaborazione programmatica dell’Unione - rischia di sortire effetti analoghi. Vale la pena evidenziare rischi e opportunità a cui si espone la decisione del governo:
1. Senza misure di accompagnamento, il decreto è una mera spoliazione di lavoratori che hanno investito molte risorse nell’acquisto della licenza; o che contano su di essa per una tranquilla uscita dal lavoro;
2. Una compensazione monetaria non è praticabile. Le licenze in Italia sono circa quarantamila. A un costo cautelativo di 100mila euro ciascuna, fanno 4 miliardi di euro. Chi li può sborsare di questi tempi? Il Governo? Le Regioni? I Comuni? Nessuno dei tre;
3. Uno scontro frontale con i tassisti alla lunga è pericoloso: innanzitutto perché svolgono un servizio pubblico essenziale; poi, perché possono adottare forme di lotta estreme, come il blocco del traffico, emulando i camionisti che avevano preparato il terreno al rovesciamento violento di Allende. Sarebbe però gravissimo se il governo facesse marcia indietro;
4. È sbagliato però pensare di affidare progressivamente il servizio a imprese gestite con criteri capitalistici e forme di lavoro subordinato o in appalto come accade negli Stati Uniti. Per capire a quali eccessi di sfruttamento, parassitismo, inefficienza, e anche di conflitto sociale, esso possa portare, consiglio la lettura di Taxi! - Driver in rivolta a New York di Biju Mathew, Feltrinelli. Qualità ed efficienza del servizio sono garantite meglio da una compagine di lavoratori indipendenti;
5. Non ci si può aspettare che dalle attuali organizzazioni dei tassisti vengano proposte diverse dalla difesa dello status quo. Non sono venute finora e non c’è motivo perché le cose cambino improvvisamente. Dovrà farsene carico qualcun altro.
Che fare, allora? Alcune considerazioni di buon senso possono contribuire a imboccare una strada vantaggiosa per tutti:
1. La palla passa alle Regioni e ai Comuni che dovranno assegnare le nuove licenze. Dovranno graduarle nel tempo, in modo da permettere a chi la ha acquistata un recupero almeno parziale del suo valore;
2. Occorre introdurre subito la ricevuta fiscale stampata in automatico dal tassametro. È un altro duro colpo per i tassisti! Ma giacché il governo non se li è certo ingraziati con l’attuale decreto, tanto vale completare l’opera e porre le basi di un effettivo rinnovamento del servizio. Così potrà anche monitorare i guadagni effettivi dei tassisti e graduare la liberalizzazione del servizio sulla loro capacità di recuperare almeno una parte del valore perso;
3. Per ridurne l’opposizione bisogna offrire ai tassisti delle chance: per esempio la possibilità di alternarsi su più turni sullo stesso mezzo; la reintroduzione del trasporto dei disabili finanziato dai servizi sociali; la concessione ai titolari di licenze già in essere di nuove licenze per i coadiuvanti familiari e delle licenze, con facoltà di recesso, per i servizi innovativi: quelli basati sulla condivisione del veicolo tra una pluralità di utenti;
4. Occorre soprattutto predisporre normative e agevolazioni per l’acquisizione delle tecnologie necessarie all’innovazione: tassametri a ripartizione di tariffa; display che segnalino la destinazione del veicolo, per consentire la raccolta di nuovi passeggeri lungo il percorso; display e corsie differenziate in base alla destinazione in tutti i grandi poli di attrazione (aeroporti, stazioni, stadi, ospedali, centri commerciali, quartieri dei divertimenti); interconnessioni, software e terminali per servizi su chiamata estemporanea per passeggeri con percorsi e orari compatibili. E poi, servizi a chiamata sostitutivi del trasporto di linea in zone periferiche e orari di morbida; promozione e agevolazione di convenzioni con utenti collettivi: imprese, enti, categorie.
In taxi non si può aspettare Godot
di Guido Viale (ilmanifesto, 13.07.2006)
Il taxi è un servizio pubblico di valenza strategica perché è uno dei pilastri dei sistemi di mobilità flessibile che - integrati in soluzioni intermodali con il trasporto di linea - sono l’unica strada percorribile per riportare la mobilità urbana entro un quadro di sostenibilità. Nel momento in cui, grazie al decreto Bersani, vengono ridefinite e negoziate le condizioni generali di esercizio di questo servizio è quindi opportuno inquadrarle in una visione strategica dell’evoluzione futura della mobilità urbana. Anche perché, ove si presentino situazioni di stallo tra le parti, come è avvenuto con gli scioperi dei giorni scorsi, e come potrebbe verificarsi nuovamente nel corso della trattativa, l’unico modo per venirne a capo è quello di allargare l’ambito del negoziato, chiamando in causa altre parti in causa ( stakeholder) dirette o indirette, attuali o potenziali; non solo associazioni di consumatori, e comuni, ma anche grandi utenti: imprese e enti come ospedali, impianti sportivi, scuole, università, strutture del decentramento amministrativo, comitati, associazioni, ecc.
L’obiettivo strategico della ridefinizione del servizio è lo spostamento modale di una quota crescente della mobilità urbana e periurbana dall’auto privata al servizio pubblico e dal trasporto individuale al veicolo condiviso. Condizione indispensabile perché il servizio di linea possa rispondere e fare fronte a un trasferimento ( modal shift) consistente, ancorché graduale, di passeggeri dall’auto privata è la sua stretta integrazione con modalità di trasporto flessibile: car-pooling e car-sharing, rimanendo nell’area del trasporto privato; taxi, individuale e collettivo, nell’area del servizio pubblico. Il servizio pubblico non può infatti coprire il fabbisogno di mobilità creato dalla struttura e dall’organizzazione della città contemporanea con il solo trasporto di linea: in particolare nelle zone periferiche, nelle fasce orarie notturne e di «morbida» (cioè con poco traffico), o per particolari categorie di utenti, o in svariate circostanze saltuarie che possono intervenire nella vita di chiunque. Ma costringere il cittadino utente a tenere un’auto a propria disposizione per far fronte a questi bisogni è un invito a usarla sempre.
Di qui la necessità di un grande potenziamento dei servizi di taxi; potenziamento che tuttavia, nelle modalità della loro attuale organizzazione, incontra ostacoli quasi insormontabili, tutti riconducibili a tre categorie: il costo, la disponibilità di vetture, le modalità di erogazione.
Il costo del servizio dipende da diversi fattori: il contingentamento - e, conseguentemente, il costo di acquisizione - delle licenze; la congestione urbana - nelle metropoli italiane, maggiore che in qualsiasi altra città europea - che dilata tempi e costi di ogni spostamento; la scarsa trasparenza della tariffa, che non permette di evidenziare i ricavi netti dei tassisti, che non sono tenuti a rilasciare ricevute con valore fiscale. Partendo da quest’ultimo punto, non c’è nessun comparto in cui sia altrettanto facile accertare costi e ricavi di un’attività economica. I tassisti vendono un solo bene (i chilometri percorsi) certificati per legge dal tassametro e acquistano pochi input (veicoli, manutenzione, assicurazione, carburante e quote associative): tutti fatturati e/o certificabili. Come tutti i lavoratori autonomi, anche i tassisti piangono miseria, ma sapere quanto guadagnano effettivamente è condizione essenziale non solo per la lotta all’evasione fiscale, ma anche per modulare le eventuali compensazioni di una riduzione o di un azzeramento del valore delle licenze. Il quale attualmente è elevatissimo e incide in misura sostanziale sulla tariffa.
E’ evidente che se si vuole ridurre al minimo - compatibilmente con la salvaguardia dei diritti e delle condizioni di lavoro dei tassisti - il costo dei taxi, il valore della licenza va azzerato (le licenze vanno assegnate gratuitamente e restituite al comune quando il tassista si ritira). Ma è un’operazione che non si può fare di colpo: richiede almeno due o tre tempi, mettendo in vendita le nuove licenze a prezzi scontati (ma non all’asta: il loro valore tornerebbe su rapidamente) e destinando i proventi - come prevede il decreto Bersani - a compensare chi la licenza l’ha già pagata. Ma non in eguale misura a tutti. I tassisti che l’hanno comprata da dieci o dodici anni se la sono già ripagata abbondantemente; quelli che l’hanno comprata da poco rischiano invece il tracollo. Le compensazioni dovranno quindi essere differenziate; e per farlo occorre un quadro chiaro dei redditi degli interessati. Dopo di che, il livello della tariffa da praticare ai clienti potrà essere oggetto di una contrattazione collettiva con la controparte, che è il comune, tenendo conto del fatto che nella remunerazione dei tassisti dovrà essere compreso il costo di un’assicurazione che consenta loro a tempo debito un’uscita tranquilla dal lavoro: cosa che attualmente viene assicurata dalla cessione della licenza. Quanto alla congestione, è evidente che il problema non riguarda solo i tassisti, ma tutti coloro che devono spostarsi, sia con l’auto propria che con un servizio pubblico. Con un traffico scorrevole (basterebbe, per cominciare, sanzionare drasticamente il parcheggio in seconda fila) la velocità - e, quindi, anche la capacità complessiva - dei servizi pubblici, sia di linea che di taxi, potrebbe raddoppiare anche a parità di veicoli e di consumi (meno stop and go). Spostamenti più veloci, minore durata delle corse: cioè più corse e minor costo di ciascuna. Ma anche maggiore disponibilità di taxi liberi: cioè minor tempo di attesa.
La congestione, purtroppo, è un cane che si morde la coda: non si può limitare in misura sostanziale la circolazione di auto private - e, quindi, alleggerire la congestione - se non sono disponibili soluzioni alternative, a minor costo e altrettanto personalizzate (il taxi, in realtà, è più personalizzato dell’auto privata, perché fa un servizio porta-a-porta, mentre nessuno è più in grado di posteggiare la propria auto sotto casa o nei pressi delle sue destinazioni). Ma non si possono rendere disponibili queste soluzioni alternative se prima non si liberano le strade da un buon numero di auto private. Solo la moltiplicazioni di taxi a basso costo può permettere di uscire gradualmente da questo circolo vizioso. Secondo punto: la disponibilità di vetture in circolazione. I difensori dello status quo - i tassisti - sostengono che i taxi non sono pochi, che la domanda è inferiore all’offerta, tanto è vero che loro stanno spesso fermi per una parte rilevante della giornata. Ma con le tariffe attuali la domanda non può che essere quella che è e non può aumentare: pochi benestanti, più tutti coloro che sono rimborsati da una ditta o da un ente, più qualche situazione di emergenza. Se invece le licenze fossero libere, aumenterebbe il numero dei taxi e le tariffe non potrebbero che scendere fino a ridurre i tassisti alla fame (è la legge della domanda e dell’offerta). L’utenza certo aumenterebbe, ma in questa corsa al ribasso si degraderebbe anche la qualità del servizio.
Tra i due estremi occorre trovare una mediazione a cui il mercato da solo non potrà mai arrivare. Per questo sia le tariffe che il numero di licenze devono essere oggetto di una contrattazione con le autorità municipali. Ma per farlo occorre trasparenza: i redditi dei tassisti devono essere chiari come quelli dei metalmeccanici (e lo stesso vale, ovviamente, per qualsiasi altra categoria). Lo standard del servizio deve essere uguale per tutti i taxi in circolazione: se fosse differenziato per sigla o, peggio, per marchio (nel caso di cumulo delle licenze in capo a un’ impresa), la concorrenza sullo standard del servizio segmenterebbe l’offerta e si frantumerebbe la domanda (tra chi aspetta il taxi buono, e chi cerca quello a minor costo) e l’aumento delle licenze non comporterebbe più alcun vantaggio.
Comunque, se si riflette sui costi della situazione attuale, ci si accappona la pelle. Come ha già notato il liberista Giavazzi (ma non lasciamo ai liberisti il monopolio del buonsenso!) l’Italia sta spendendo cento miliardi di euro - in realtà sta solo lasciando un debito in eredità ai nostri figli - per l’alta velocità: un treno che tra Milano e Roma farà guadagnare poco più di un’ora; che poi si perde aspettando un taxi per mezz’ora sia all’arrivo che alla partenza. Lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto senza alta velocità, e con un po’ di taxi in più.
Quanto all’organizzazione del servizio, il divieto del cumulo delle licenze è una salvaguardia della qualità del servizio, oltre che garanzia per le condizioni di lavoro dei tassisti. Introdurre in questo campo il lavoro salariato o, peggio, l’affitto a giornata del «medaglione» (la licenza), come succede negli Stati uniti, è come tornare alla mezzadria o alla colonìa in agricoltura: parassitismo, sfruttamento e inefficienza. Ma per quanto riguarda le modalità di erogazione del servizio, oggi ne esistono praticamente solo due: l’attesa del cliente al posteggio e la chiamata, o la prenotazione, telefonica del radiotaxi. Molti regolamenti comunali prevedono anche soluzioni di taxi collettivo, ma a parte qualche corsa per l’aeroporto, chi le ha mai viste? Nelle grandi città italiane i tassisti non vogliono neppure il numero unico per le chiamate, moltiplicando così - a spese del cliente - i tempi di attesa per l’arrivo di una vettura.
Eppure il taxi collettivo - accanto a quello individuale, che continuerà a esistere per le situazioni di emergenza e per i clienti che se lo possono permettere - è la vera soluzione per abbassare drasticamente il costo delle corse e per rendere il taxi una modalità di trasporto alla portata di tutti: per lo meno nelle situazioni in cui il trasporto urbano e periurbano di linea non è economicamente né ambientalmente sostenibile (i bus che viaggiano vuoti costano, inquinano, e non servono a nessuno). Integrato a un trasporto di massa potenziato lungo le linee di forza della mobilità urbana, il taxi collettivo moltiplicherebbe l’utenza (la domanda pagante) del servizio pubblico: sia quella propria che quella del trasporto di linea; e con essa l’offerta, cioè il numero delle vetture disponibili.
Le soluzioni gestionali (tariffe a ripartizione, convenzioni con grandi utenze, corsie differenziate per destinazione e display per orientare i clienti ai parcheggi, call center unificati, ecc.) e tecnologiche (apparati di localizzazione, connessione a banda larga on board, software di gestione) per riorganizzare i servizi di taxi e consentire la condivisione della vettura tra utenti diversi con percorsi e orari tra loro compatibili sono già tutte pronte. Ma queste soluzioni molti assessori nemmeno sanno che esistono. I tassisti non le vogliono, perché a loro le cose vanno bene così. Gli utenti non le hanno mai viste e non hanno idea di come funzionerebbero.
E aspettando Godot, il prezzo del petrolio continuerà a salire. Fino a che ci ritroveremo tutti a piedi.
SE SI SCEGLIE L’EQUITA’ di Paolo Leon*
Questa delle liberalizzazioni è stata un’ottima mossa da parte del governo, e illustra bene il suo concetto di equità: si colpiscono alcuni gruppi d’interesse che rappresentano un pezzo di ceto medio - come i proprietari di taxi - ma anche grandi lobby come le banche.
L’idea è di ridurre le rendite e di favorire i consumatori e i risparmiatori, articolando però l’intervento così da non favorire nessun ceto in particolare.
I proprietari dei taxi si lamentano perché la loro rendita (il valore della loro stessa licenza) diminuisce al crescere del numero di licenze rilasciate; ma dimenticano che la loro rendita è di norma crescente, perché al crescere della domanda di taxi, il numero dei taxi resta costante. Il problema dei taxi, simile in questo a molte altre professioni protette, è che complessivamente la categoria non sembra aver adottato una propria deontologia. I gruppi di interesse, come le corporazioni, sono giustificabili in un’economia di mercato, se costituiscono una correzione delle violenze, soprusi e ingiustizie che il mercato facilmente determina. Ciascuna corporazione deve dunque darsi una regola che non attiene alla propria protezione, ma al servizio che la stessa corporazione deve creare a favore dei cittadini. Il taxi non esiste per far guadagnare qualcuno che lo guida, ma per facilitare la mobilità: è per questo che il taxi è un servizio pubblico e il tassista è un professionista; proprio perché è tale, il proprietario non può voler massimizzare la rendita da licenza. D’altra parte, sbagliano quelli che ritengono che anche il taxi debba affrontare il libero mercato: dove ciò avviene, come negli USA, il tassista è tra le più umili figure di quella società, più spesso sfruttato che considerato un professionista. La Confederazione Nazionale dell’Artigianato si lamenta perché non è stata chiamata alla partecipazione, prima delle nuove decisioni del Consiglio dei ministri: ma è chiaro che sarebbe stato difficile ottenere un vero forte cambiamento nella stessa mentalità di questa categoria, se i provvedimenti fossero stati negoziati. Dall’esperienza di questa liberalizzazione scaturisce, se il Governo fa sul serio, come sembra, una vera linea politica, che non attiene soltanto alle rendite o ai comportamenti anticompetitivi. Mentre si deve insistere che la concertazione è sempre necessaria, è bene far sapere ai futuri partecipanti che una precondizione s’impone, e cioè che ciascun partecipante dichiari la propria deontologia. Qualcuno al Governo ha recentemente dichiarato che il Governo concerta, e poi decide da solo: questo è il metodo Berlusconi, non quello del centrosinistra. Ad esempio, la concertazione con la Confindustria è importante, ma se vogliamo seguire il concetto usato per i taxi, allora la Confindustria deve dichiarare cosa intende fare per la crescita del paese, prima della concertazione e prima di esporre le proprie richieste al Governo e ai cittadini.
Sbaglia anche chi confonde le corporazioni con le lobby: quella bancaria è una lobby, non una corporazione, e le misure recenti sono solo un primo atto volto a ridurre la rendita bancaria e finanziaria. Non ci sono solo le leggi sul risparmio che debbono indurre comportamenti virtuosi nel mondo del credito e delle finanza, ma anche la deontologia, e questo mondo non ha mai chiarito, dopo le privatizzazioni, quale sia la propria morale - non c’è un Esculapio per il credito. Al contrario, le protezioni di Fazio hanno dato a questo settore l’idea che le rendite sono un proprio diritto: non è un caso che da quando si fa concertazione, al tavolo delle parti sociali non è mai stato chiamato il mondo del credito, quasi fosse al di sopra delle parti, anche se poi deve finanziare le stesse decisioni prese a quel tavolo.
Il ragionamento è solo in parte diverso per molte altre lobby, qualche volta implicite, raramente esplicite: nelle assicurazioni, nelle telecomunicazioni, nei media, nelle autostrade (rispetto al cui ruolo mondiale la società italiana è del tutto indifferente), nel petrolio e nel gas - in breve tutte le vere, grandi lobby presenti nel nostro paese sono sfuggite al proprio ruolo sociale, pensando, dopo le privatizzazioni, che il loro compito consistesse nel massimizzare gli utili, e cioè la sommatoria di profitti e di rendite.
Spero che il Governo, mentre continua con le liberalizzazioni nei servizi, non perda di vista il ruolo sociale delle associazioni, ma pretenda da ciascuna un comportamento concertativo, non egoistico. Altrettanto, credo, debbono fare Regioni ed Enti Locali. Se si riduce la protezione delle farmacie, si guardi anche ai dentisti. Se si disciplinano gli avvocati (che pur sono in concorrenza, visto il loro sterminato numero) si guardi ai dottori commercialisti, ai geometri, in genere agli ordini o alle associazioni professionali. Ma non vale la pena colpevolizzare tutti, e dare l’impressione che occorra ogni volta introdurre il libero mercato, con il ragionamento che si favorisce il consumatore: è giusto ridurre le rendite, ma è anche giusto chiedere nella concertazione comportamenti attenti al rigore e alla giustizia, valorizzando lo spirito associativo.
* www.unita.it, Pubblicato il 03.07.06
ECONOMIA Movimento consumatori: svolta epocale Secondo Mv per la prima volta una riforma vede al centro i consumatori (La Stampa, 01. 07. 2006)
ROMA. «È la prima volta che in Italia si vara una riforma che vede al centro i consumatori». Così il Movimento Consumatori nel valutare l’azione del Governo italiano che «mette mano al tema della concorrenza su ordini professionali, taxi,banche, farmacie, assicurazioni, esercizi commerciale».
«La riforma -sottolinea l’associazione dei consumatori- rappresenta un primo ma epocale intervento volto alla modernizzazione del Paese mettendo al centro la concorrenza ed il consumatore per il rilancio del sistema Italia, incidendo così sull’intera qualità della vita dei cittadini messi in secondo piano, da sempre, rispetto agli interessi di lobby ed interessi particolari. Se attuata correttamente, l’azione del Governo rispecchia le richieste sostenute da anni dalle associazioni dei consumatori in Italia e in tal senso è assolutamente positiva e rappresenta l’avvio di un cambiamento ampio e dalle enormi potenzialità».
Riforme, intervista al ministro per lo Sviluppo: "Il vero bipolarismo si fa sui problemi che stanni a cuore alla gente"
Bersani: "Siamo pronti al dialogo ma rispettiamo i cittadini" di MARCO PATUCCHI*
ROMA - "All’opposizione dico che su queste misure vorremmo un consenso il più largo possibile, perché la vera civiltà del bipolarismo non si fa sulle cose astratte, ma sui problemi veri che stanno a cuore alla gente: i consumatori non sono né rossi, né verdi, né blu. E anche alle categorie do la massima disponibilità al dialogo, ma a patto che si sgomberi il campo da volgarità, come il riferimento alle Coop, e che non si neghino i problemi". Pierluigi Bersani è nella sua casa di Piacenza dove può finalmente gustarsi una partita del Mondiale, dopo i giorni intensissimi che hanno portato, nella massima segretezza, al varo delle nuove norme sulla concorrenza "destinate - sono parole del premier Romano Prodi - a cambiare la vita di milioni di italiani". E che per il momento hanno scatenato la rivolta di tassisti, farmacisti e commercianti. Così, tra un tunnel di Figo e un cross di Beckham, il ministro dello Sviluppo Economico prova a spianare la strada al decreto sulle liberalizzazioni.
Partendo da una puntualizzazione che rivela il vero obiettivo della riforma: "Impedire ad una banca di addebitarti 30 euro sul conto corrente senza avvertirti non è tanto liberalizzare quanto rispetto del cittadino. Ecco perché - aggiunge Bersani - ho intitolato il pacchetto di interventi "Cittadino consumatore": qui si tratta di animare l’economia, abbassare i prezzi e aprire le porte ai giovani".
Intanto, però, c’è da confrontarsi con le barricate delle categorie e di buona parte del centrodestra. Si sta attrezzando? "Manderò una lettera ai capigruppo di maggioranza e opposizione per informarli che al ministero stiamo organizzando una sorta di sportello tecnico dove i parlamentari potranno approfondire tutti gli aspetti della riforma. Anche il Consiglio nazionale dei consumatori sarà un punto di riferimento per il Parlamento, perché è giusto che oltre alle lobby possano esprimersi pure gli utenti. Intanto, ribadisco la disponibilità al dialogo con il centrodestra, o quantomeno con le forze più sensibili a questi temi: le norme varate possono essere arricchite".
Lei parla di dialogo, ma a giudicare dalle prime reazioni il clima non sembrerebbe così conciliante. In particolare da parte delle categorie, tassisti in primis... "Lo sportello del ministero e il confronto saranno aperti a tutti, ma non accetterò volgarità come, ad esempio, l’accusa di aver assecondato gli interessi delle Coop: in Inghilterra e negli Stati Uniti le cooperative non esistono, eppure da moltissimi anni i farmaci sono in vendita anche nei supermarket. E poi chiedo che non si neghino i problemi: lo dico, ad esempio, agli assicuratori. Una ricerca delle Generali certifica che nonostante la Rc auto italiana sia la più cara d’Europa, da noi il rapporto tra compagnia e assicurato dura mediamente più di dodici anni, contro i 4,7 della Germania e i 2,9 della Gran Bretagna".
E a chi l’accusa di aver dimenticato la concertazione cosa risponde? "Che le regole non sono oggetto di concertazione. Il diritto di avere informazioni è sacrosanto, ma quanto accaduto in passato dimostra che solo con la riservatezza si possono condurre in porto certe riforme: mi auguro che in futuro ci sia un clima culturale diverso, tale da consentire altri metodi. Si potrebbe costruire già da adesso non fermandosi ad un’analisi superficiale delle misure: ogni norma ha una voce che risponde agli interessi della categoria. E poi non ci dimentichiamo che anche gli avvocati prendono i taxi e i tassisti hanno una polizza e il conto corrente in banca...".
A proposito di riservatezza, l’impressione è che il lavoro sottotraccia sia servito anche ad evitare possibili intralci all’interno dello stesso governo... "Con Romano Prodi ed Enrico Letta c’era il patto di procedere in modo riservato per prevenire incidenti di percorso. Ma sono rimasto colpito dalla convinzione e comprensione dimostrata da una coalizione ampia come la nostra. Lo dico pensando, in particolare, ai ministri più esposti come Mastella, Turco e Ferrero. Sono convinto che questa compattezza si ripeterà anche a livello parlamentare".
C’è chi contesta la scelta di utilizzare un decreto per misure che non avrebbero i requisiti dell’urgenza. "E’ urgente rimuovere, come ci chiede la Commissione europea, gli ostacoli alla concorrenza: dietro alle misure adottate ci sono provvedimenti di infrazione da parte di Bruxelles, senza contare che anche il quadro economico e sociale del Paese presenta le sue urgenze. Dunque, d’ora in poi, ci si aspetti un governo che interviene dove esistono impedimenti alla libera concorrenza".
Dalle misure sono rimasti fuori settori come la pubblica amministrazione, il lavoro e l’università. Non ritiene che anche lì occorrano interventi di apertura? "Si tratta di materie diverse da quelle affrontate nel mio provvedimento. Certo, si possono immaginare elementi di concorrenza nell’offerta universitaria, ma si tratta di scelte programmatiche, mentre la pubblica amministrazione ha problemi di ammodernamento che andranno affrontati. Comunque le liberalizzazioni non si fermano qui: Mastella, ad esempio, metterà mano alla riorganizzazione complessiva degli ordini professionali e procederemo anche alla riforma dei servizi pubblici locali, con un progetto che non abbiamo collocato nel decreto perché non presenta i requisiti d’urgenza".
O magari perché il confronto con gli enti locali è già in salita, come dimostrano i casi Tav e Centrale di Civitavecchia... "A proposito di infrastrutture, sono convinto che il territorio è e resterà di competenza locale, quindi servono negoziati e confronti per trovare soluzioni. Ma non si venga a dire che in Italia è impossibile fare certe opere: vorrei ricordare che ci sono ventimila megawatt di energia autorizzate e che l’Alta Velocità va avanti". (2 luglio 2006)
* WWW.REPUBBLICA.IT, 02.07.2006