E’ la giustizia creativa, bellezza!
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Berlusconi ha dimostrato a sufficienza quanto la sua personale, privatissima giustizia possa essere creativa: negli anni, non c’è stata "stazione" del processo penale che non ne sia stata sconvolta (il reato, i tempi di prescrizione, la pena, le prove, la procedura). Il "lodo Alfano" doveva essere, nelle intenzioni del mago di Arcore, il sortilegio finale. Nessuno processo per Iddu. Impunità piena. Ma il diavolo ci ha messo la coda e il processo a Berlusconi, imputato di aver corrotto il testimone David Mills, può riservare ancora qualche sorprendente esito.
La spina che affligge Iddu è questa: è vero, dopo la vergogna del "lodo Alfano", Berlusconi non può essere processato, ma Mills sì. E se i giudici dovessero concludere che corruzione c’è stata e il testimone si è lasciato corrompere, chi volete che sia il corruttore in un processo che vede al banco soltanto due imputati (Mills e Berlusconi) e un unico fatto da valutare (i 600 mila dollari finiti nei conti dell’avvocato d’affari inglese)? Berlusconi si sarebbe salvato da una condanna, ma non salverebbe la faccia. Con tutto quel che potrebbe significare per il suo futuro istituzionale e per la sua immagine internazionale.
Ecco perché, con una nuova mossa di "giustizia creativa", il drappello dei suoi avvocati-parlamentari pretende che il processo Mills "muoia" fuori dell’aula del tribunale, fuori dal processo, fuori da ogni rito conosciuto e praticato finora. Chiedono che i giudici chiudano la porta e se ne vadano a casa.
I consiglieri del mago sanno quel che accadrebbe se la luce in aula restasse accesa. I giudici dovrebbero, per il "lodo Alfano" sospendere il giudizio per Berlusconi e concluderlo per Mills (il processo di fatto è finito e prima di Natale ci potrebbe una sentenza); dovrebbero dare la parola sulla sospensione al pubblico ministero che proporrebbe l’incostituzionalità del "lodo". E, vista la ragionevolezza dell’obiezione (la legge non è uguale per tutti?), a decidere sarebbe la Consulta: altro rischio che il mago non vuole affrontare non fidandosi dei suoi trucchi. Per farla breve, tutto potrebbe tornare in alto mare con scenari, per il mago, poco tranquillizzanti.
Ecco allora che gli avvocati non si presentano in aula per inconsueti impegni parlamentari, nonostante sia venerdì. Lavorano a un piano e hanno bisogno di tempo. Ecco perché. Hanno presentato in Cassazione una richiesta di ricusazione contro il giudice di Milano, Nicoletta Gandus. Dicono: quella toga è prevenuta contro Berlusconi, non può giudicarlo, non è né serena né imparziale. La mossa è assai bizzarra. Se Berlusconi grazie al "lodo" non può essere giudicato, che senso ha chiedere la ricusazione del giudice?
Ma è la giustizia creativa, bellezza!
E’ vero che la Gandus non giudicherà Berlusconi (accusato di essere il corruttore), ma potrebbe giudicare Mills (accusato di essere il corrotto). Screditare l’imparzialità del giudice dà al mago di Arcore la possibilità di svalutare la possibile condanna dell’avvocato d’affari inglese (che, al contrario, non ha mai ricusato il giudice).
Gli avvocati e consiglieri di Berlusconi puntano così a trasferire in Cassazione - e nel Palazzo - la battaglia per affondare il processo e salvare la faccia. Sulla decisione della Suprema Corte contano di far pesare il ricatto, tutto politico, della riforma della giustizia. Che, invece di risolvere le inefficienze e i ritardi del sistema penale e del processo civile, si occuperà in via prioritaria di giudici e pubblico ministeri e, soprattutto, del Csm di cui - minaccia il governo - andranno rivisti i compiti, il sistema elettorale, la sezione disciplinare e in definita, l’autogoverno della magistratura. E chissà che, dinanzi a tante pressioni, in Cassazione le eccellentissime toghe non convengano che sia meglio l’uovo oggi che la gallina domani. Bocciando il giudice di Milano e quindi anche la credibilità dell’eventuale condanna di David Mills.
* la Repubblica, 19 settembre 2008
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Meno di Zero
di Furio Colombo *
Un viaggio mi è rimasto in mente fra i tanti della mia vita. Con l’Avvocato Agnelli stavo andando a dire al presidente degli Stati Uniti (in quel momento si trovava in California) che il colonnello Gheddafi non era più azionista della Fiat. L’Azienda aveva ricomprato la sua quota, decuplicata di valore nel tempo. Ma erano i giorni dell’assassinio di Klingofer, il vecchio ebreo in sedia a rotelle buttato in mare dal ponte dell’Achille Lauro per mano dei terroristi che avevano sequestrato la nave italiana. Erano i giorni in cui Gheddafi, quasi nelle stesse ore, alternava il gesto del mediatore alla funzione di complice. Consideravo quel giorno un evento importante, che valeva anni di lavoro in America: avere separato l’immagine di Gheddafi da quella del lavoro italiano, per quanto la presenza dei capitali libici fosse disponibile, conveniente e sempre alla ricerca di rispettabili opportunità di accasarsi.
Ma era già evidente allora l’andamento infido e ondivago di quelli accostamenti ai paesi democratici mentre continuava e continua la parte non visibile e non decifrabile (mai in tempo reale) di azioni, motivazioni e vere intenzioni politiche. Come non pensarci nei giorni in cui un presidente del Consiglio italiano trascorre con Gheddafi ore di festa, si scambia doni e vestiti, e tutto il mondo giornalistico, il mondo politico, l’opinione pubblica italiana sanno solo di questa festa e di un presunto impegno di Gheddafi a fermare la gran parte dell’immigrazione africana che parte dalla sue coste per arrivare in Italia. E tutto ciò in cambio di una immensa cifra che l’Italia pagherà per «danni di guerra», ma senza mettere in alcun conto, ad esempio, i ricorrenti e sanguinosi progrom contro gli ebrei italiani (si noti bene: nel dopoguerra) che sono accaduti in Libia contro persone e famiglie appena scampate alla persecuzione fascista. E senza spiegare che cosa faceva Tarik Ben Ammar, socio in affari dell’imprenditore Berlusconi ma non consigliere del primo ministro Berlusconi, in quella festa e nella foto di quella festa pubblicata da "Dagospia". C’erano altre cose da sapere dello storico incontro Berlusconi-Gheddafi in Libia. Non le abbiamo sapute né dal presidente del Consiglio né dal ministro degli Esteri. Una l’ha benevolmente condivisa con gli italiani il colonnello Gheddafi facendo sapere che il nuovo rapporto Italia-Libia firmato da Berlusconi sospende i trattati internazionali dell’Italia se e quando quei trattati fossero sfavorevoli alla Libia. Uno è stato comunicato senza troppa enfasi da alcuni giornali. Il presidente del Consiglio, nel consueto «angolo degli affari» che lo statista riserva sempre ai suoi colloqui internazionali (vedi i quaranta minuti di conversazione con Putin, mentre c’era la guerra in Georgia e di cui né i cittadini, né i politici, né gli specialisti, fuori e dentro il Parlamento, sanno nulla) ha trattato con Gheddafi la presenza di una quota di capitale libico nell’azienda Telecom italiana. In questo modo la nostra storia si rovescia: tornano i grembiulini, tornano le case chiuse e torna Gheddafi, come in un film bizzarro e privo di senso. Un’altra cosa ancora sappiamo, dei festosi e segreti accordi Italia-Libia. Lo ha spiegato Sergio D’Elia ("Nessuno tocchi Caino") in una interpellanza parlamentare e a Radio Radicale, mentre ancora duravano le celebrazioni per lo storico incontro. Come farà Gheddafi a fermare il fiume di immigrazione dal Sud del mondo verso l’Europa? Non ci riuscirà, naturalmente. Ma è una buona occasione per attivare la sua polizia e allargare i campi di morte in cui vengono rinchiusi i più sfortunati tra i profughi che cercano di scampare alla fame e alla guerra, quando cadono nelle retate, nei rastrellamenti, o vengono venduti dagli stessi mercanti di uomini. Vengono ingabbiati e lasciati morire dove la Croce Rossa o l’Onu non arriveranno mai, dove si perde (purtroppo non solo in Libia, ma questa volta con un complice italiano) ogni traccia di umanità.
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L’accordo, presentato come una soluzione e una vittoria, oltre che come un giorno di spettacolo dell’unico protagonista italiano, non è un evento isolato per la nuova immagine dell’Italia nel mondo. In Europa, nella settimana appena conclusa, l’Italia ha ottenuto fischi e «buuu» in occasione della presentazione del moderno progetto italiano di incursioni notturne con obbligo di impronte digitali - bambini inclusi - nel campi rom. È stata anche l’occasione per permettere ai deputati europei più attenti di scoprire l’imbroglio Maroni. In linea con il ministro degli Esteri che (sia pure per precisa direttiva di Berlusconi) alla Russia dice una cosa e agli Stati Uniti ne dice un’altra, Maroni ha mandato in Europa un piano sforbiciato dal peggio. Ma, come hanno detto e ripetuto anche al Senato italiano deputati europei che sanno e hanno visto, il peggio resta riservato ai rom e ai raid nei campi italiani. Intanto l’On Cota capo gruppo della Lega Nord-Indipendenza della Padania, prende la parola alla Camera per chiedere «test di accesso per gli studenti stranieri nelle scuole dell’obbligo» e «in caso di bocciatura, la frequenza in una classe ponte» (leggi: "ghetto"). «In questi classi - dice il noto pedagogista Roberto Cota - si svolgeranno corsi per diversità morale e cultura religiosa del Paese accogliente e ci saranno lezioni al rispetto delle tradizioni territoriali e regionali». Le parole suonano ovviamente ridicole, dato anche l’orizzonte minimo della vita a cui si affaccia Cota. Suonano tragiche se si tiene conto della crudeltà nel Paese di Gentilini, di Borghezio dell’orina di maiale versata sulla terra in cui deve sorgere una Moschea, dell’accanito susseguirsi dei divieti di luoghi in cui pregare per gli islamici sventuratamente approdati in Italia. Ma quelle parole hanno un suono sinistro a pochi giorni dalla morte a Milano del diciannovenne Abdul Salam Guibre, cittadino italiano di origini africane, abbattuto a sprangate da una buona e unita famiglia italiana (padre e figlio, ciascuno con la sua mazza per colpire lo "sporco negro") a causa del furto di due biscotti. E tutto ciò nel silenzio del sindaco di Milano. Ma sono anche i giorni in cui l’onorevole Borghezio, capogruppo al Parlamento europeo del partito italiano di governo "Lega Nord per l’indipendenza della Padania", annuncia con orgoglio la sua partecipazione, insieme con bande dichiaratamente naziste a una serie di manifestazioni contro gli immigrati a Colonia. Ogni volta che qualcuno si fa avanti a ripetere con invidia che «la Lega è radicata nel territorio», sarà bene ricordare che anche il fascismo e il nazismo lo erano, che il radicamento in sé non è una ragione di ammirazione e di applauso. Può essere una disgrazia da combattere. Del resto, chi era più radicato nel territorio del Ku Klux Klan prima del sacrificio di Martin Luther King?
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Ma questi sono anche i giorni in cui il ministro della Difesa italiano dichiara, alla presenza del Capo dello Stato, e in un giorno sacro alla Resistenza, che si devono ricordare e celebrare i soldati della repubblica fascista di Salò che hanno combattuto a fianco dei tedeschi occupanti contro gli angloamericani che, insieme ai soldati italiani del legittimo governo, insieme alla Brigata ebraica, stavano liberando l’Italia dal nazismo, dal fascismo, dal razzismo. Il ministro La Russa ha tentato, dunque, il giorno 8 settembre a Roma di esaltare come normali e rispettabili combattenti italiani coloro che stavano difendendo Auschwitz. Il presidente Napolitano ha risposto subito e con fermezza. E ha ripetuto varie volte anche dopo: «La Costituzione italiana sbarra il passo alla falsificazione della storia». Ma quella falsificazione c’è stata. L’ha fatta il ministro della Difesa, in un Paese che, da settimane, è presidiato da unità delle Forze armate. Per fortuna è stata immensamente più autorevole la risposta del Capo dello Stato. Ma il fatto, inaudito e impossibile in ogni altro Paese europeo, è accaduto in Italia in modo solenne e pubblico. Pochi giorni dopo i giovani di An hanno detto forte e chiaro, ripudiando prontamente le parole di invito alla democrazia appena ascoltate da Gianfranco Fini: «Non saremo mai antifascisti».
Mi rendo conto che tutto ciò non è che una parte del dramma italiano provocato da un legittimo e riconosciuto voto popolare. Ma il breve elenco di fatti che avete letto non è che un accenno al rischio evidente e grave a cui è esposta, con questo governo, la Costituzione italiana. Dunque la democrazia. E tutto ciò, compreso lo sdegno che l’Italia di questa destra sta suscitando in Europa (e che ha fatto dire all’imprenditore ed editore Carlo De Benedetti, nell’ultimo incontro dello Aspen Institute: «Noi, l’Italia, non siamo più nulla, siamo irrilevanti nel mondo») è solo una parte, il mezzo cerchio della asfissia che sta stringendo il Paese. L’altra metà degli eventi è economica e personale. Riguarda il presidente del Consiglio e la sua ricchezza. Una parte delle infaticabili iniziative per lo sviluppo di quella ricchezza ci è ignota. Ne possiamo solo constatare la continua crescita, come di un pane miracoloso che continua a lievitare, governando. Una parte è pubblica, sbandierata. È di questi giorni la notizia che la famiglia Berlusconi - con la figlia del premier vice presidente e tre uomini dell’uomo di Arcore nel Consiglio di amministrazione - controlla Mediobanca, la più importante e la più potente Banca d’affari, a cui fanno capo tutti i nodi, tutti gli accordi, tutte le alleanze e gli incroci del potere economico in ogni campo e settore in Italia. Questo Paese, come tutti sanno, è economicamente a zero. Le notizie ci dicono che, moralmente, questo Paese è meno di zero.
La domanda è: di fronte a una così clamorosa emergenza in cui sono in gioco l’immagine politica, l’identità storica, la natura morale, la difesa costituzionale di un Paese che sta per essere sottoposto al violento shock di frantumazione del federalismo leghista, e dove tutto il potere politico, tutto il potere mediatico e - da adesso - tutto il potere economico sono nelle stesse mani (con l’infinita possibilità di guidare qualsiasi gioco, incrociando questi poteri) in Italia si può continuare a fare opposizione di normale andatura parlamentare, come se il Parlamento non fosse stato neutralizzato e disattivato persino nella sua componente di maggioranza? Si può fare una opposizione all’ombra di un governo ombra, che vuole dire corrispondenza simmetrica e valori condivisi, quando, in realtà, alla simmetria si contrappone il segreto, e i valori condivisi sono rappresentanti solo dal Capo dello Stato? Si può fare opposizione parlamentare senza separarsi nettamente dalla finzione di un gioco impossibile, che comprende persino la celebrazione del fascismo?
Chiariamo. È il governo Berlusconi che è uscito dal Parlamento per andarsene in incontri segreti o nella cancellazione della storia italiana o nelle banche. È l’opposizione che resta al suo posto nelle Camere a nome degli italiani che vogliono sapere chi li rappresenta. Ma non possiamo fare opposizione con lampi stroboscopici che alternano sprazzi di luce a una disorientante penombra. Qui si tratta di testimoniare ogni giorno, ogni ora, in ogni atto della nostra vita pubblica che il loro voto è legittimo, il loro modo di governare no.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.09.08, Modificato il: 21.09.08 alle ore 12.46
La bolla delle illusioni
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 21.09.2008)
Il baratro di cui ha parlato Berlusconi, giovedì quando s’è rotto il negoziato Alitalia e la cordata Colaninno ha ritirato la propria offerta, è la condizione in cui ci si trova ogni qual volta la realtà si vendica sull’illusione, che più o meno lungamente aveva abbagliato e confuso le menti. Ogni disincanto genera baratri. La grande illusione esiste anche nel mondo della finanza ed è chiamata bolla: proprio in questi giorni, anch’essa sta scoppiando nelle mani di chi per decenni l’aveva dilatata, fino a scambiarla col reale. Il motore dell’illusione è la distorsione della realtà, ed è il motivo per cui si può parlare di bolla della menzogna per Alitalia e di bolla delle false credenze per la finanza. Come quando è fatta di sapone, la bolla ti avvolge con una membrana trasparente, che ti sconnette dal reale.
Più enormi le illusioni, più durevole la bolla e più brutale lo scoppio. Per questo è importante esplorare il passato, anche se presente e futuro sono prioritari. L’anamnesi della bolla aiuta a capire il momento in cui l’illusione non solo cancella il principio di realtà, ma crea realtà affatto nuove che pesano ancora: una tentazione che non è di ieri ma di sempre, essendo le false credenze loro ingrediente essenziale. La bolla Alitalia s’è palesata non solo alla fine del governo Prodi, ma anche quando ha preso corpo la cordata Colaninno. L’alternativa berlusconiana poteva riuscire, ma essendo nata come bolla aveva bisogno di menzogne e queste non sono state ininfluenti sul negoziato. Ogni volta che il premier parlava (l’ultima a Porta a Porta, il 15 settembre), le contro-verità per forza riaffioravano facendo riemergere il passato ineluttabilmente. Le contro-verità sono almeno sei. Primo, non è vero che le promesse elettorali sono state mantenute: Berlusconi aveva garantito soluzioni migliori rispetto a Air France, e la Cai è certo un rimedio ma non migliore. Secondo, i costi erano ben più alti: sia per i licenziamenti; sia per il futuro mondiale della compagnia (l’italianità era garantita, non una compagnia competitiva nel mondo); sia per il prezzo pagato dai contribuenti.
L’economista Carlo Scarpa ha calcolato, sul sito La Voce, che lo Stato - i contribuenti - devono pagare nel piano CAI 2,9 miliardi di euro. Terzo, non è vero che non ci sarebbero stati stipendi diminuiti ma solo aumenti di produttività, come detto dal premier: altrimenti il negoziato non si sarebbe bloccato su questo. Quarto, non è vero che Berlusconi non avrebbe impedito l’accordo Air France: il premier disse pubblicamente che l’avrebbe revocato, se vittorioso alle urne. Quinto, Air France non prevedeva 7000 licenziati ma 2150. Sesto, non è Berlusconi a poter lamentare l’uso politico spinto del caso Alitalia.
Rammentare illusioni e contro-verità non è vano perché mostra la stoffa di cui son fatte le bolle: in economia, in politica, nell’individuo. La bolla infatti crea una realtà in cui si finisce per credere, e che diventa realtà: magari virtuale - un’ombra, un’ideologia - ma che incide sulla vita. Chi la dilata comincia a ignorare la membrana e influenza gli attori circostanti. Ogni metafora naturalmente ha difetti, anch’essa deve fare i conti con il reale. Ma l’euforia di illusioni e false credenze è il tessuto della bolla, e se è vero quello che dice Erasmo - la menzogna ha cento volte più presa sull’uomo della verità - la sua potenza non va sottovalutata.
La crisi finanziaria è bolla specialmente deleteria: perché ha ramificazioni più vaste e antiche, legate a illusioni sul potere unilaterale Usa e sulla sua pretesa di poter fare da sé. È il morbo descritto nell’ultimo libro di George Soros, il finanziere che s’ispira alla teoria della fallibilità di Popper (The New Paradigm for Financial Markets, 2008). La bolla è centrale nella sua analisi, ed egli la scorge nella crisi dei mutui, dell’economia, della politica estera Usa. All’origine un peccato originale: il doppio fondamentalismo del libero mercato e della superpotenza unica.
Nella finanza la grande illusione è stata la seguente: i prezzi di vari prodotti (alta tecnologia, case) sarebbero cresciuti indefinitamente, e l’aspettativa di tale crescita li avrebbe ancor più aumentati. Niente li frenava, visto che i tassi restavano bassi e si moltiplicavano mutui a prezzi attraenti anche se irrealistici. Tale deformazione del mercato, Soros la chiama self-fulfilling prophecy (profezia che si autorealizza) del pensiero manipolatore. Esso pesa sulla realtà sino a stravolgere insidiosamente il rapporto tra domanda e offerta: il finanziere parla di interferenza «riflessiva» tra percezioni distorcenti e fatti reali (questi riflettono la manipolazione e ne vengono trasformati).
La profezia che si autorealizza avviene quando la narrazione del reale schiaccia il reale: il vero è sostituito dal racconto. Il postmoderno ha molte affinità con quest’illusione, così simile alle ideologie che affogano il reale nella sua narrativa. Soros denuncia la complicità tra postmoderno e Bush, ma la complicità vale anche per Berlusconi e Alitalia. Un episodio lo comprova, raccontato anni fa dal giornalista Ron Suskind. Già nel 2002, prima della guerra irachena, un consigliere di Bush gli disse: «Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi e empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora» (New York Times, 17-10-2004. Il consigliere sarebbe Karl Rove).
Chi non s’adegua è accusato d’appartenere alla reality-based community: comunità antiquata perché interessata alla realtà anziché alla credenza. La comunità realista s’inquieta per le conseguenze della bolla: Iraq, caos afghano, Iran in ascesa, crollo della borsa, declino del dollaro, debolezza mondiale Usa. Chi vive nella bolla non bada a conseguenze, fino a quando la realtà si vendica. Le bugie possono avere gambe molto più lunghe del proverbio: ma non infinitamente lunghe. Chi vive in una bolla è come stregato. Pensa che la profezia si autorealizzi, nel male o nel bene. In Italia abitano il sogno Berlusconi ma anche Cgil e parte dei dipendenti Alitalia. In America il sogno non è meno forte: sia all’inizio, quando milioni di cittadini credettero nella bugia di mutui troppo facili, sia dopo l’infrangersi dell’illusione col piano di salvataggio che trasforma lo Stato in infermiere.
Chi vive nella bolla pensa che il mercato prima o poi riequilibrerà domanda e offerta, non si cura degli effetti della bolla né di quelli della bolla scoppiata. L’illusione permane, quando le perdite (di Alitalia o delle compagnie Usa) son convogliate verso bad companies magari salvifiche, e però finanziate dal contribuente. Chi vive nella bolla ha infine e soprattutto l’impressione di poter correre ogni sorta di rischio: in particolare quello che nell’assicurazione si chiama moral hazard, azzardo morale. Si può dar fuoco alla propria casa, tanto siamo coperti. Si può fumare a letto se siamo assicurati dall’incendio, anche se magari nelle fiamme moriremo.
Il moral hazard diventa un pericolo nazionale, quando un governo gioca con l’inaffondabilità di un’impresa - l’Alitalia - fidando sul fatto che alla fine pagherà il cittadino. Diventa un pericolo mondiale, quando a correrlo è una superpotenza convinta di dominare il mondo incontrastata, anche se ormai domina poco. Tutto è permesso: tanto siamo i più forti, simili a dèi; o siamo assicurati, il che consente impunità e irresponsabilità. Dicono che il mercato vero deve riprendere il sopravvento. Non so se sia il mercato, visto che il fondamentalismo ne ha fatto uno stendardo. Sono la realtà e la cittadinanza e l’informazione attenta ai fatti (la reality-based community) che devono sgonfiare le bolle, una dopo l’altra.