Bendati verso il precipizio
di Barbara SPINELLI (La Stampa, 30/3/2008)
Le campagne elettorali sono un’occasione non ordinaria, per le democrazie che sempre le traversano trepidanti. Sono l’occasione di guardare dentro se stesse, di fare i conti con le proprie debolezze inesplorate, con le proprie virtù trascurate. Sono una breve opportunità, data a politici ed elettori, di aggiustare quel che eventualmente s’è spezzato, di meditare su altre vie. L’occasione si può cogliere o perdere, a seconda di come si comportano gli attori del dramma. Per guardare dentro di sé è indispensabile avere un senso acuto della realtà, e questo senso può crudelmente mancare.
Per organizzare la convivenza civile non basta denunciare l’avversario politico, ma occorre esaminare il risentimento effettivo che l’avversario amplifica o distorce, e tale esame è spesso negletto.
L’Occasione si perde facilmente, sin dalle tragedie greche coglierlo è tra le sfide umane più ardue.
Il nascondimento della realtà è tentazione frequente, nelle democrazie di oggi (nelle dittature è la regola): ne sono affetti Stati apparentemente forti come l’America, regimi apparentemente decisionisti come Francia o Inghilterra. L’illusione di poter fare da sé li affligge tutti. L’Italia possiede questa tentazione in sommo grado, e la campagna elettorale lungi dal diminuirla sembra dilatarla. Non di fatti si discute ma di opinioni, che sono il vestito fatto indossare al reale e all’irreale per meglio confonderli. Non alla realtà e alla ragione ci si apre, ma al sonno dell’ideologia.
Una delle cose eccelse che ha detto Pascal riguarda il nostro correre dissennato verso i precipizi. Non è un correre inerte, fatalistico: individualmente, l’inerzia ha una sua nobile tristezza. È un affrettarsi colmo d’attivismo, di chiasso: «Noi corriamo senza preoccupazione nel precipizio, dopo aver messo qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo» (Pensieri, 166-183).
Precisamente questo accade, nell’odierno correre di tante democrazie: a cominciare dalla nostra. Accade con l’Alitalia, in modo spettacolare e emblematico. Accade con il posto dell’Italia nel mondo: non solo quando si parla d’economia ma anche di tenuta delle istituzioni, di giustizia, di diritti dell’uomo. Accade con il nostro passato lontano e recente.
L’esperienza dei governi Berlusconi l’abbiamo avuta ma contrariamente a quello che sperava Montanelli non ne siamo usciti vaccinati, come forse non siamo usciti vaccinati neppure dal fascismo. Non è solo l’anomalia del politico-imprenditore che nascondiamo alla nostra vista. Sono interi segmenti di realtà che tanti s’ostinano a ignorare. Quel che costoro vedono sono le innumerevoli cose consolatorie che Berlusconi mette davanti agli occhi degli italiani perché non s’accorgano di come corrono, e verso dove.
Che cosa non si vuol vedere, della realtà e dei suoi precipizi? In primo luogo: la piccolezza cui sono ormai ridotti gli Stati-nazione, specie in un paese, come il nostro, gravato da un debito che l’impiglia nell’impotenza. L’Alitalia è emblematica perché l’idea che tanti se ne fanno è completamente distorta: non è una grande compagnia, anche se ieri lo fu. Spende cronicamente più di quello che guadagna, e nell’economia-mondo il suo peso è nullo. A Friburgo, giovedì, Prodi ha parlato il linguaggio dei fatti e dell’Occasione da cogliere quando si è augurato che l’Alitalia possa «essere riammessa nel grande circuito internazionale delle linee aeree», e «partecipare al grande schema europeo del trasporto aereo». Da soli magari potremmo farcela, ma con sacrifici probabilmente ancora più grandi di quelli oggi previsti.
La realtà che urge contemplare non è solo questa, come abbiamo visto: è la debolezza delle istituzioni italiane, dell’imperio della legge, della giustizia. È il pallore mortale d’una classe dirigente che non produce anticorpi pronti a sbarrare il cammino a chi fa politica privatizzandola per proprio tornaconto, e sistematicamente non edifica ma distrugge. È stato necessario che intervenisse il Financial Times, per dire che Berlusconi, con il suo no a Air France, puntava semplicemente alla bancarotta d’Alitalia.
In una democrazia solida è difficile che un imprenditore senza senso dello Stato e del bene comune vada al potere più volte, senza esser scartato prima di tentare o ritentare. Quanto alla fragilità delle istituzioni democratiche, i fatti creati dai governi Berlusconi parlano da sé. Le leggi ad personam sono un esempio. Ma c’è anche quel che è accaduto nella caserma di Bolzaneto, tra il 20 e il 22 luglio 2001 dopo il G-8 di Genova. È una macchia che non sarà dimenticata, e il governo d’allora ne è responsabile. La recente requisitoria del pubblico ministero al processo su Genova è chiara: «Alla tortura si è andati molto vicini». Le violenze elencate non sono diverse da quelle praticate a Guantanamo o Abu Ghraib.
Lo storico Marco Revelli ha ragione a concludere, scoraggiato, che il silenzio su Bolzaneto aprirà un baratro impaurente fra molti giovani e le istituzioni. Il modo in cui la requisitoria è stata banalizzata creerà la «fuoriuscita di un’altra Italia dall’Italia ufficiale» (il manifesto, 13 marzo 2008). Ancora una volta, la realtà vien fatta evaporare. Il male non visto a Bolzaneto secernerà risentimento, odio: due passioni devastanti che non si sanano senza contemplarne le radici. Anche in questo l’Italia non è un caso a parte. In America, nel più importante discorso tenuto finora, Barack Obama ha invitato gli americani a guardare la realtà e i fatti prima di denunciare il rancore razziale di tanti afro-americani. Il rancore va condannato, ma al tempo stesso studiato alle radici: scoprendo ad esempio che la Costituzione non è gloriosa ma «incompiuta», che in America «esiste il peccato originale della schiavitù». Sempre andare alle radici è un imperativo: in economia, in politica, nella lotta al terrore.
Sono tante le cose che alacremente ci mettiamo davanti per non vedere. È ancora Pascal che parla di chi «crede di vedere quel che non vede affatto», e dell’immaginazione come «maestra dell’errore». L’immaginazione senza rapporto col reale non è meno deleteria dello spavento, e così come c’è una politica della paura c’è anche una politica dell’immaginazione falsa, che inganna e svia. Una politica che perversamente vede unite destre e sinistre estreme, nella storia di ieri e di oggi. L’immaginazione, diceva Malebranche, sovente si tramuta in folle du logis: in donna folle che si chiude in casa, nel suo logis. Il fascismo era di questa pasta, presuntuosamente credendo di poter fare in sé.
L’italianità è una fantasia, e tante altre cose lo sono, compresa la naturale bontà degli italiani. La forza irradiante della Chiesa è una fantasia, e non basta il gran rumore della conversione di Magdi Allam a occultarla. È fantasiosa anche la pretesa dei berlusconiani di rappresentare il Nord, o di quei politici locali che pretendono di rappresentare il personale Alitalia. I sindacalisti, nelle ultime ore, sono ben più vicini ai fatti di quanto lo sia Berlusconi. Il principio di realtà e dunque di responsabilità è nella loro storia. È questo principio che ieri ha spinto Epifani a dichiarare, in sintonia con gli altri sindacati, che «al momento esiste solo l’offerta Air France». E che, in ogni caso, «non ci vuole una soluzione nazionale ma una soluzione attenta agli interessi nazionali».
Dell’immaginazione impazzita gran parte dell’Italia è malata, gravemente. Se solo si svegliasse un attimo, vedrebbe le cose come sono: non il Paradiso che desidereremmo, ma i disastri che conviene evitare e gli inferni che prepariamo a figli e nipoti se non ci togliamo in tempo le bende dagli occhi. È più facile certo mentire e far pagare il conto alle generazioni future. Magari vinci anche un’elezione. Ma il precipizio non cambia posto: è nella sua natura restare lì dov’è.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il conflitto perfetto
di Furio Colombo *
Se Berlusconi vincesse le elezioni si realizzerebbe il conflitto perfetto. Perché non potrebbe più trattarsi di una «svista», qualcosa che è accaduto durante la corsa al potere, qualcosa che sul momento non si poteva evitare ma a cui si porrà rimedio «nei prossimi trenta giorni» (Paolo Mieli), «nei prossimi cento giorni» (Gianfranco Fini), «entro un anno dall’inizio della legislatura» (Franco Frattini, autore di una legge finta).
E anche perché questa volta non si potrebbe parlare di una temporanea disattenzione degli elettori. Chi lo voterà saprà, con esattezza, che sta portando di nuovo al vertice del governo italiano il più esemplare conflitto di interessi che vi sia nel mondo democratico, quello che riguarda il controllo praticamente totale delle fonti di informazione.
Gli elettori potranno invocare il fatto che pochi e poche volte gliene hanno parlato e hanno fatto notare la contraddizione vistosa fra democrazia e conflitto di interessi. Non ci illudiamo sul peso e sulla capacità di persuasione di questo giornale. Né cerchiamo l’alibi dei «io lo avevo detto».
Per chiarezza: condividiamo l’idea che meno si litiga e meglio si discute. Però è impossibile non notare due tratti di comportamento che rende difficile la tanto sognata discussione pacata. L’interessato svicola da ogni possibile confronto con tute le scuse. E quando gli chiedono di commentare un’idea o una proposta dei suoi avversari, prontamente replica che «quelli di sinistra fanno come Stalin». La battuta avrebbe animato il fortunato cinema d’altri tempi detto «commedia all’italiana».
Adesso serve a motivare le tristi e dure parole di Paolo Flores d’Arcais (La Repubblica, 25 marzo) che sarebbe bello - ma è impossibile - definire esagerate: «Se Berlusconi vincerà, il fondamento antifascista della Costituzione sarà irriso, la morsa clericale celebrerà fasti medievali, tolleranza zero verso gli emarginati, impunità totale per gli amici».
Gli risponde (La Repubblica, 26 marzo) Michele Serra: «Un quadro grave che amerei molto poter alleggerire, non fosse che è piuttosto realistico, anche perché descrive processi degenerativi della democrazia già ampiamente in atto». Mi sembra però necessario chiarire un punto della previsione triste di Flores d’Arcais.
Il chiarimento è questo. Il conflitto di interessi non è un vecchio signore di Arcore che vuole tornare a governare. Il conflitto di interessi è il centro di tutto e si ripete e moltiplica in ogni azione, iniziativa, dichiarazione o atto che Berlusconi compie. In altre parole il vero scandalo - adesso, e in un deprecabile futuro che dobbiamo essere capaci di rendere impossibile - è la continuazione del reato. Continuando, quel reato si allarga, occupa spazi sempre nuovi e attrae sottomissioni sempre più vaste, come si nota già adesso, osservando con quanto zelo una parte della borghesia italiana già va a mettersi a disposizione, dalla collocazione in lista ai favori, pur di farsi trovare nel posto giusto in caso di vittoria. Sa benissimo che, se Berlusconi tornerà alle sue ville a i suoi cactus, con il centro sinistra non perde niente. Ma con un leader vendicativo come l’uomo di Mediaset, è bene non farsi trovare dalla parte sbagliata.
Questo hanno notato i grandi giornali stranieri, da The Economist a The Wall Street Journal, esprimendo, persino con candore, la meraviglia per i sondaggi italiani. Si stanno chiedendo ad alta voce: «possibile?». Possibile che gli italiani preferiscano il prodotto usato pur avendo la certificazione internazionale del niente (con danno) che è stato il «berlusconismo»? È ricordato, sempre e da tutti, per l’amabile dialogo dell’allora presidente del Consiglio italiano e presidente del Consiglio d’Europa, con l’eurodeputato tedesco Martin Shultz, definito spiritosamente «Kapò»” dall’uomo di Arcore che ha poi descritto l’intero Parlamento europeo come un luogo frequentato dai «turisti della democrazia» solo perché non lo applaudivano come alle feste a pagamento di Forza Italia e, adesso, del «Popolo delle Libertà»?
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Ma questo stato di sorpresa, condivisa nell’opinione pubblica europea ripetuta e manifestata dalla Spagna del Pais allo Zeit di Amburgo, è esso stesso prova delle conseguenza (in questo caso percezione distorta dei fatti) del conflitto di interessi.
E il conflitto di interessi, proprio mentre deborda dal suo alveo «normale» (notizie false o taroccate che si sovrappongono alle notizie vere e da cancellare a causa del controllo completo di tutte le fonti di informazione e della gigantesca intimidazione sugli operatori tecnicamente «liberi» che ne consegue) va mostrando, come una malattia non curata, la sua capacità di espandersi e perfezionarsi.
L’espansione si verifica nel momento in cui Berlusconi si impadronisce senza alcuna cautela del problema Alitalia, ne fa una questione elettorale, benché ogni sua dichiarazione abbia riflessi immediati sull’andamento del titolo in Borsa. E annuncia un suo modo di risolvere il problema che è due volte fuori legge. Una prima volta perché il candidato presidente del Consiglio (che oggettivamente è già in conflitto di interesse in quanto è l’uomo più ricco ed economicamente potente in ogni campo del Paese che vuole governare) non esita ad affermare che i suoi figli (i suoi figli) faranno parte di una cordata italiana che sostituirà la sola trattativa finora reale ed esistente, quella con Air France.
Una seconda volta perché nega, pur avendone parlato enfaticamente in televisione, di avere mai nominato i suoi figli, e annuncia in modo disinvolto, con l’espediente di «svelare qualche segreto» a un bravo reporter, una serie di nomi che sarebbero parte della nuova, grande avventura d’affari. Tutto ciò avviene in un articolo di prima pagina, de La Stampa (27 marzo) che reca la firma di un provato specialista delle confidenze di Berlusconi, Augusto Minzolini. Ma Augusto Minzolini è anche un buon amico, o meglio questa è la condizione per continuare a ricevere confidenze. Il 28 marzo si lascia benevolmente smentire. E benevolmente le varie Tv pubbliche e private stanno al gioco, che avrebbe stroncato altrove qualunque candidato: a mano a mano che le persone o gruppi indicati come partner della «cordata» smentiscono. Tutti si prestano a mettere in onda, senza precisazioni ulteriori, l’ultima notizia che Berlusconi decide di dare di se stesso. Afferma che non ha mai detto i nomi che ha detto. A tutti va bene così. Eccoci dunque di fronte al conflitto di interessi perfetto.
Primo, non riguarda solo le notizie, ma - come era stato ripetuto dagli allarmisti solitari che non hanno mai smesso di denunciare questo male terminale della democrazia - si estende apertamente a questioni economiche di grande rilevanza.
Secondo, mentre fa campagna elettorale per diventare presidente del Consiglio, Berlusconi non esita a restare con le mani in pasta in affari che lo riguardano, al punto di coinvolgere i suoi figli.
Terzo, nel farlo altera drammaticamente e gravemente il corso del valore delle azioni Alitalia, una iniziativa che sarebbe duramente contestata e punita in ogni legislazione che non consente il conflitto di interessi, e dunque lo «insider trading» (influenzare il corso di un valore azionario attraverso l’uso delle informazioni che hai o che generi).
Quarto, Berlusconi torna tranquillamente e indisturbato al primo tipo di conflitto di interessi, quello sul controllo delle fonti delle notizie. Di fronte alle smentite e alla prova di ciò che ha detto, annunciato, promesso da candidato elettorale, ma anche potente uomo d’affari, nega tutto. Non solo nega, ma attribuisce a Prodi e al suo governo il reato di cui lui si è reso colpevole. Insinua che lo svolgersi della trattativa in corso fra Alitalia e Air France, approvata dal governo italiano, sarebbe - quella e non le sue piazzate - la causa di un oscillazione dei valori azionari dell’Alitalia.
Detta così la balla è un po’ grossa. Ma per Berlusconi non c’è problema. I mezzi di comunicazione scritti, radiofonici, televisivi glielo passano, e non c’è autorità della concorrenza o le comunicazioni, che, finora, si sia fatta sentire. La vita continua e la probabilità che questo campione usato del conflitto di interessi vinca di nuovo le elezioni, alle quali si candida per la quinta volta benché «over Seventy», è considerata da molti troppo rischiosa per contraddirlo, per dare prova di ciò che ha effettivamente detto, dopo ogni smentita.
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Vale la pena di osservarlo bene mentre dice - di nuovo senza il minimo riscontro - «Io sono un uomo di fatti, gli altri offrono solo parole», e lo dice con disprezzo rivolto a Veltroni, che è stato, con successo, sindaco della città più bella ma anche più complicata d’Europa.
Chiunque annunciasse una cordata che non esiste, mentre piovono smentite, comprese quelle grosse come una casa di Eni e Mediobanca, sarebbe considerato un «pataccaro», termine romano per coloro che tentano di vendere il Colosseo. Nel gergo americano il pataccaro è un «con-man» abbreviazione di «confidential-man», persona che a parole, ma solo a parole, guadagna attenzione e interesse per qualcosa che è falso o non esiste e comunque nasconde un imbroglio. «L’uomo dei fatti» se la cava, perché per le sue parole non esiste posto di blocco. Ripeto: è questo il conflitto di interessi perfetto.
Ma la storia diventa più interessante se uno si domanda, con la insistenza tipica della stampa americana: «fatti? quali fatti?».
Si potrebbe fare una bella celebrazione dei «fatti di Berlusconi» ricordando come tutto comincia. Comincia prima con un oscura ricchezza divisa in tanti depositi intestati a pensionate, segretarie e sconosciuti vari. Poi con una legge, speciale, unica, quella del governo Craxi, per consentire alle sue tante stazioni Tv locali di diventare «reti». Poi con un periodo di duro ed efficace controllo della televisione di Stato, sua unica concorrente in modo da tenere il concorrente nei limiti desiderati. È l’unico vero risultato dei cinque anni del suo governo, oltre alle leggi ad personam. Con quelle leggi «l’uomo dei fatti» si mette al riparo, attraverso una ulteriore estensione del conflitto di interessi (questa volta fra imputato e giustizia) dalle conseguenze penali di tutte le scorciatoie, sentenze acquistate, corruzione di giudici, falsi in bilancio, fondi neri, in modo da non dover mai pagare le conseguenze delle sue disinvolte iniziative (i fatti di cui si vanta sono quasi sempre reati) o a causa della prescrizione guadagnata dai suoi bravi avvocati, che fanno durare troppo i suoi processi (con la sarcastica collaborazione del premier che si presenta per dire «non lo vedete che devo governare e ho cose più importanti da fare che farmi giudicare?»). O perché i reati sono stati cancellati dal Codice con l’operosa attività dei suoi avvocati divenuti, intanto, membri o presidenti delle Commissioni Giustizia della Camera e Senato.
Ma è proprio su questo nuovo e interessante fatto politico che il conflitto di interessi, ormai maturo e solido puntello della vita privata, pubblica e politica di Berlusconi (e forse la vera ragione che gli fa desiderare di non abbandonare la politica) mostra tutta la sua forza.
Mi riferisco a una dichiarazione di Gianfranco Fini che ha annunciato, senza ripercussioni e smentite istituzionali che «il 13 aprile sarà la data in cui celebreremo finalmente la vera liberazione d’Italia». Il 13 aprile è il primo dei due giorni delle prossime elezioni, che Fini presume di vincere. Poiché quella dichiarazione è di un post-fascista, l’ostinazione a smentirlo e dunque a vincere queste elezioni dovrebbe farsi ancora più tenace e ostinata, per tanti di noi. Nessun giornale o tv ha autorevolmente detto a Fini che l’Italia è già stata liberata, il 25 aprile, e liberata proprio dall’oppressione degli antenati e predecessori politici del postfascismo.
Sul momento non sapevamo che la frase di Fini precedeva di poco l’annuncio della candidatura sotto le bandiere di Berlusconi (a cui si è piegato e sottomesso anche Fini) del fascista Ciarrapico, che della sua fede fondata sul delitto (Matteotti, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Fosse Ardeatine) sulla persecuzione dei nemici politici, sulle leggi razziali, fa un vanto orgoglioso e pubblico. Lo fa, in romanesco bonario, nella città che il 16 ottobre 1943 ha visto scomparire mille e diciassette cittadini ebrei romani (quasi nessuno è tornato) in un silenzio prudente di personaggi piccoli e grandi, un po’ come succede adesso.
Ecco dove il conflitto di interessi diventa perfetto. Una democrazia libera e normale non dà pace a un finto leader democratico che include con onori e fanfara nelle sue liste un fascista dichiarato con la motivazione «mi servono i suoi giornali» (segue, come sempre, smentita). Invece rispetto e silenzio. Chi vorrebbe farsi espellere disturbando il giocatore avversario che intanto è diventato arbitro (arbitro mentre gioca)?
La situazione resterà penosa, umiliante, estranea alla civiltà democratica fino ai giorni 13 e 14 aprile. In quei giorni sarà impegno e dovere di tanti italiani esseri sicuri che Paese e governo tornino a celebrare il 25 aprile, la data in cui Ciarrapico e i padrini del post-fascismo hanno perduto il controllo del Paese e l’Italia è diventata, e potrebbe tornare ad essere, un Paese grande, rispettato e libero.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 30.03.08, Modificato il: 30.03.08 alle ore 8.45
Il Cavaliere liberale ha abolito il mercato
di EUGENIO SCALFARI *
TEMPO fa, in uno dei miei articoli domenicali, citai una battuta di Petrolini raccontata da un suo scrupoloso biografo. La cito di nuovo perché si attaglia bene al caso presente. Il grande comico romano stava cantando la sua canzone intitolata "Gastone". Arrivato alla fine, uno spettatore del loggione fischiò sonoramente. Petrolini avanzò fino al bordo del palcoscenico, puntò il dito verso il fischiatore e nel silenzio generale disse: "Io nun ce l’ho cò te ma cò quelli che stanno intorno e che ancora nun t’hanno buttato de sotto". Seguì un piccolo parapiglia sopraffatto dagli applausi di tutto il teatro. Così si dovrebbe dire oggi a Berlusconi per il suo comportamento sull’Alitalia, oltre che per tante altre cose.
Pare che finalmente la Consob abbia acceso un faro su quel comportamento e così pure la Procura di Roma. Starebbero esaminando se nelle quotidiane esternazioni berlusconiane vi siano gli estremi del reato di "insider trading" e di turbativa del mercato. Non voglio credere e non credo che il leader del centrodestra stia speculando in Borsa (altri certamente lo fanno e si saranno già arricchiti di parecchi milioni di euro) ma sulla turbativa di mercato non c’è da accender fari, basta affiancare ad ogni dichiarazione berlusconiana le oscillazioni del titolo Alitalia che sono dell’ordine di 30/40 punti all’insù o all’ingiù.
In qualunque mercato del mondo Berlusconi sarebbe già stato chiamato a render conto di quanto dice; l’Agenzia che tutela le contrattazioni di Borsa lo avrebbe ammonito e multato, la magistratura inquirente l’avrebbe già messo sotto processo. Ma soprattutto gli elettori ne avrebbero ricavato un giudizio di inaffidabilità e di non credibilità definitivo. Voglio sperare che gli elettori ancora incerti su chi votare l’abbiano a questo punto escluso dal loro ventaglio di possibilità.
Affidare il governo del paese per i prossimi cinque anni a un personaggio che non si fa scrupolo di turbare il mercato con false notizie riportate e diffuse da tutto il sistema mediatico è uno di quegli spettacoli che purtroppo squalificano un paese intero almeno quanto l’immondizia napoletana.
Eccellono in questa gara soprattutto le emittenti televisive, quelle private e quelle pubbliche; in particolare - dispiace dirlo - il Tg1 il quale riferisce in presa diretta le sortite del Cavaliere senza che vi sia una voce che ne sottolinei gli effetti sul listino borsistico. Il risultato è che Berlusconi resta in video per il doppio del tempo del suo principale avversario turbando non solo i mercati borsistici ma anche l’andamento del negoziato tra Air France e sindacati tra lo stupore di tutti gli operatori internazionali.
Venerdì sera l’annunciatrice del Tg1 delle ore 20 si è addirittura lasciata andare ad una critica contro la legge della "par condicio", da lei ritenuta incivile, senza spiegare perché in Italia esista una legge del genere, dovuta ad un vergognoso conflitto di interessi che fa capo al proprietario delle reti Mediaset. Legge che peraltro nessuna delle emittenti televisive rispetta a cominciare dal Tg1, già ufficialmente ammonito dall’Agenzia delle comunicazioni.
Evidentemente direttori e conduttori danno per scontata la vittoria elettorale del centrodestra e sanno anche che se l’esito fosse diverso il vincitore di centrosinistra si guarderebbe bene dal praticare vendette. Perciò tanto vale scommettere in anticipo senza rischiare nulla se non la reputazione. Ma chi si preoccupa della reputazione nell’Italia dei cannoli alla siciliana.
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Domenica scorsa, occupandomi dell’Alitalia e della fantomatica cordata patriottica berlusconiana, scrissi che a mio avviso quella cordata ci sarà davvero se Berlusconi vincerà. Per lui è un punto d’onore e i mezzi per realizzare l’obiettivo ci sono. Li ho anche enumerati ed è stato proprio il leader del centrodestra a confermarlo quando ha detto appena ieri che dopo la sua sicura vittoria chiamerà uno ad uno gli imprenditori italiani per chiedere l’obolo di san Silvio e "voglio vedere chi non ci starà".
Ci staranno tutti, non c’è dubbio alcuno, "chinati erba che passa il vento". Ci staranno i capi delle società pubbliche a cominciare dall’Eni e da Finmeccanica, in attesa di riconferma o di nuova nomina; ci staranno i capi di imprese private concessionarie dello Stato, ci staranno le banche desiderose di benefici; ci staranno le imprese medie che hanno già o ambiscono di avere rapporti fluidi con l’uomo che dovrebbe governare l’Italia per altri cinque anni in attesa di volare per altri sette sul più alto Colle di Roma.
Il mercato? Chissenefrega del mercato, contano i rapporti tra affari e politica e il Berlusca è imbattibile su quel terreno: tu dai una cosa a me e io do una cosa a te. Il mercato di Berlusconi si configura così e non saranno certo un Tremonti o un Letta ad impedirglielo, anzi. Quanto a Fini non è neppure il caso di scomodarsi a chiedere: lui aspetta l’eredità ed è d’accordo su tutto, sebbene non sia ancora certo dell’esito d’una così lunga attesa.
Dunque la cordata patriottica ci sarà. Ma che tipo di cordata? L’obolo di san Silvio versato dagli imprenditori non è sufficiente, se supererà il miliardo sarà già molto, ma diciamo pure che arrivi a due o a tre. Per rilanciare Alitalia e insieme Malpensa e la Sea ce ne vogliono almeno altri otto. E in più ci vuole un "know-how" che non si improvvisa. Forse i tedeschi di Lufthansa? Forse gli americani del Tpg? Forse l’Aeroflot di Putin? Air One non è decentemente presentabile come vettore di due hub con pretese internazionali.
Dunque la cordata patriottica non sarebbe patriottica se non nei fiocchi che impacchettano il torrone. Il torrone sarebbe straniero. L’organizzazione sarebbe straniera. Gli esuberi sarebbero trattati dal gestore straniero, esattamente come sta accadendo in queste ore con Air France, ma con una variante in più: la pratica richiede tempo e il tempo non c’è. Per allungarlo ci vuole un aiuto di Stato, vietato dall’Ue in mancanza di garanzie bancabili. Se questa norma fosse violata saremmo denunciati alla Corte di giustizia europea e multati pesantemente.
Oppure si va, volutamente, al fallimento come anche ora si rischia di fare. Allora tutto diventa più facile perché il fallimento significa congelamento dei debiti e interruzione dei contratti di lavoro. I nuovi padroni decideranno a tempo debito quali di quei contratti rinnovare e quali no, ripartendo comunque da zero. Dov’è la vittoria? Si sciolga la chioma e se la lasci tagliare. La prospettiva, diciamolo, non è esaltante.
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Nella stessa giornata di ieri il Cavaliere si è manifestato anche a proposito del cosiddetto voto disgiunto e ha tirato in ballo sua eminenza il cardinal Ruini. Eminence, come dice la Littizzetto. È stata una pagina da manuale. Per chi se la fosse persa raccontiamola perché ne vale la pena. E cominciamo dal voto disgiunto. Che cosa significa? Perché è venuta fuori questa ipotesi?
Normalmente un elettore vota per lo stesso partito nella scheda della Camera e in quella del Senato, specie ora con una legge come l’attuale che non prevede preferenze ai candidati. Nella sua assoluta certezza di vincere le elezioni alla Camera, nell’animo di Berlusconi si è però insinuato il dubbio di pareggiare o addirittura di perdere al Senato (aggiungo tra parentesi che questa ipotesi corrisponde esattamente alla realtà). Perciò suggerisce agli elettori centristi il cosiddetto voto disgiunto: votino pure per Casini Udc alla Camera, ma al Senato no, al Senato votino per il Pdl in modo da evitare il pareggio.
Che c’entra Eminence in questo pasticcio? Il Cavaliere ce lo fa entrare, gli chiede pubblicamente di entrarci e gli fa pubblicamente presenti i vantaggi che avrà se eseguirà il mandato o invece i danni che può subire se rifiuterà di adoperarsi in favore.
Convinca Casini a incoraggiare o almeno a subire senza strilli il voto disgiunto. In cambio (è il Cavaliere che parla) avrà l’impegno del nuovo governo ad adottare tutti i provvedimenti chiesti dalla Chiesa in tema di coppie di fatto (mai), di procreazione assistita (abolirla), di eutanasia (quod deus avertat), di testamento biologico (come sopra), di aborto (moratoria e radicale riforma), di Corano nelle scuole (divieto), di insegnamento religioso (anche all’Università). Se c’è altro chiedetelo e "aperietur".
Ma se rifiuterà, tutto diventerà problematico. In fondo (molto in fondo) lo Stato è laico e bisogna pur tenerne conto. Se lo ricordi, sua Eminenza, e non creda che la partita si giochi sul velluto. Del resto il Papa ha pur battezzato Magdi Allam. E dunque il Cavaliere ne adotterà il programma e magari farà in modo di fargli affidare la direzione del "Corriere della Sera", purché gli elettori dell’Udc votino per Berlusconi al Senato. Ha sentito, Eminenza?
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Una cosa risulta chiara: hanno ridotto la religione ad una partita di giro. Forse per la gerarchia ecclesiastica lo è sempre stata, per i cardinali e per molti vescovi. Ma non fino a questo punto. I credenti per primi dovrebbero esserne schifati e ribellarsi di fronte a questa vera e propria simonia. Gli opinionisti (esistono ancora?) dovrebbero spiegarla e indignarsene. Ho un presentimento: il centrosinistra vincerà sia alla Camera sia al Senato. Fino a pochi giorni fa pensavo il contrario, che non ce l’avrebbe fatta. Ebbene ho cambiato idea. Ce la fa. Con avversari di questo livello non si può perdere. Gli elettori cominciano a capirlo. Io sono pronto a scommetterci.
* la Repubblica, 30 marzo 2008.