A questo punto dovrebbe apparir chiaro che, nel suo significato etico e politico, destra non è soltanto il contrario della sinistra, ma qualcosa di più. Ma perchè la cosa risulti ancor più evidente, nulla potrà forse meglio aiutarci che l’antica parabola del cane enunciata dallo stoico Crisippo.
Quando un cane insegue una lepre, nota Crisippo, se questa nel fuggire ha saltato un fosso, il cane, giunto al fosso, prima annusa a destra e, non avvertendone traccia, annusa a sinistra: se anche a sinistra non avverte traccia, non continua all’infinito ad annusare un pò a destra e un pò a sinistra, ma si decide a saltare il fosso. Ebbene, vero uomo di destra non è colui che si butta a destra soltanto per evitare di buttarsi a sinistra e per contrapporre semplicemente una destra alla sinistra, così come si contrappone il freddo al caldo, o il pari al dispa ri: chi così si comporta è soltanto un conservatore cieco, che vuol contrapporsi ai rivoluzionari, ma non sa e non vuole creare davvero una sua realtà che funzioni.
Il vero uomo di destra non è un automa che si contrappone meccanicamente alla sinistra, ma un autentico essere vivente; anzi è il vero e tipico essere vivente, e come il cane di Crisippo, disdegna la sterile contrapposizione di destra e sinistra, ma punta all’essenza delle cose; e perciò salta il fosso, al di là della contrapposizione meccanica di destra e sinistra.
E questa è la vera autentica destra: non è cioè, il semplice contrario della sinistra, ma quella tendenza consapevole "alla salute e al conseguimento della funzionalità" di cui parlava Crisippo. La parabola di Crisippo non è mai stata tanto attuale come al giorno d’oggi. Essa serve a distinguere gli automi, ovvero gli uomini privi di vitalità (simile ai cani stupidi che siano incapaci di saltare il fosso e continuino a rimbalzare dalla destra alla sinistra e viceversa) dagli uomini vitali, capaci di compiere autonome scelte per la "salute la funzionalità" della Nazione.
Sono certi politicanti che vorrebbero che gli italiani continuassero in eterno a combattere fra loro, come gli antichi guelfi e ghibellini; sono certi politicanti che vorrebbero che tutta la vita politica consistesse nella lotta della sinistra contro la destra (e viceversa), dell’antifascismo contro il fascismo, della rivoluzione contro la conservazione. E perchè vorrebbero perpetuare questa sterile battaglia all’infinito? Perchè sono incapaci di una qualsiasi azione positiva e creatrice; essi sono le forze dell’inerzia, della distruzione e dell’incapacità.
Il vero uomo di destra, invece, combatte la sinistra soltanto se e quando ciò è necessario; ma il suo scopo è di giungere il più presto possibile a un giorno in cui i cittadini possano collaborare unitariamente, nel nome della Nazione, al solo scopo di creare una vita individuale e sociale sana e funzionale. Perciò il vero uomo di destra non è soltanto un "Anti", ma è soprattutto un uomo che vuol creare una vita migliore per sè e per gli altri.
PAROLA DI FINI
di Ida Dominijanni (il manifesto, 14.09.2008)
L’abito fa il monaco più spesso di quanto il proverbio popolare non creda. Asceso alla terza carica dello Stato, perennemente in pole-position per la leadership post-berlusconiana della destra italiana, ansiosamente in cerca di un riconoscimento della destra europea, Gianfranco Fini porta a compimento il suo processo di autolegittimazione giocandosi l’asso di briscola, cioè iscrivendo se stesso e la sua destra nel campo degli eredi dell’antifascismo. Da Fiuggi 1995 a Roma 2008, tredici anni vissuti oculatamente che due colonnelli intemperanti come Alemanno e La Russa rischiavano di rovinargli con i loro distinguo fra il fascismo razzista e il fascismo modernizzatore. Tanto più dopo il severo ammonimento del presidente della Repubblica, Fini non aveva altra scelta: doveva sconfessarli e ieri l’ha fatto, sfidando il suo partito, e in particolare i giovani del suo partito, a un taglio netto delle radici fasciste.
A Fiuggi il leader di An aveva detto che la destra politica non è figlia del fascismo ma c’era prima e gli è sopravvissuta, e che l’antifascismo fu essenziale al ritorno dei valori democratici concultati dal fascismo. Ieri il presidente della Camera si è spinto oltre: ha detto che la destra italiana deve riconoscersi nei principi democratici e costituzionali di libertà, uguaglianza e giustizia sociale che sono stati «a pieno titolo» valori antifascisti.
Ha aggiunto che il giudizio della destra sul fascismo deve essere di conseguenza negativo, il fascismo essendo stato una «dittatura a tutti gli effetti» limitatrice della libertà, e che il fascismo non lo si può giudicare a pezzetti, da qui a qui buono e da qui a qui cattivo. Ha perfino ammesso che quelli che difesero Salò e quelli che fecero la Resistenza non si possono mettere sullo stesso piano, perché i primi stavano dalla parte del torto e i secondi della ragione.
Che altro avrebbe dovuto dire, il democratico Fini aspirante leader di una destra aspirante europea, postnovecentesca e perbene, per spianare il campo al «superamento del passato» e alla «costruzione di una memoria condivisa» che gli stanno tanto a cuore? Nella sua accelerata autorevisionista, Fini non è riuscito a rinunciare anche all’equiparazione fra i totalitarismi, sottolineando che «chi è democratico è antifascista, ma non tutti gli antifascisti sono stati democratici», e quindi lasciando aperta (a Berlusconi?) la porta di un anticomunismo che può sempre tornare utile. Ma non è questo il punto.
Nell’indecoroso mercatino dell’usato della storia nazionale che tiene banco da lustri sulla scena politico-mediatica, le parole di Fini potrebbero avere il suono solenne di una cesura, di un taglio e di un ricominciamento storici che invece non riescono ad avere. Non solo perché suonano interne a un gioco politico calcolato e indirizzato (ad Alemanno e a La Russa, al Berlusconi silente su Alemanno e La Russa, all’altra metà del campo democratico cioè al Pd, al Ppe eccetera eccetera). Ma perché suonano altresì scollate da un clima sociale e culturale in cui tanta puntigliosa distinzione fra i valori democratici e quelli del ventennio in verità non si sente e non si vede.
La strada della soluzione politica del rapporto fra passato e presente è sempre lastricata di trappole. Può accadere ad esempio che si possa rinunciare a un’identità quando non c’è più bisogno di rivendicarla per farne vivere i frutti. Da Fiuggi in poi, Fini ha tagliato radici e dismesso valori «storici» via via che la legittimazione politica acquisita gli consentiva di tradurli e riconvertirli nel linguaggio «democratico» corrente di oggi. Vale l’esempio del suo discorso d’insediamento alla presidenza della Camera: anche allora ci fu un taglio «postideologico» con i valori del passato, ma sotto l’insegna di valori 2 non meno preoccupanti per l’oggi. Il tutto sotto quella professione di fede nella religione democratica che ormai non manca mai a destra come a sinistra.
Diamo pure credito a Gianfranco Fini di aver detto una parola chiara sul passato. A quando e a chi, adesso, qualche parola chiara sul presente? Questa, ad esempio: tanto più se - se - si pervenisse a una memoria condivisa, c’è bisogno oggi di un conflitto che divide. Fra idee e pratiche contrapposte della democrazia in primo luogo. Quale interiorizzazione dei valori costituzionali e antifascisti può rivendicare la destra plebiscitaria, anticostituzionale, xenofoba, classista che ci governa? E con che cosa pensa di arrestare questo svuotamento della democrazia la sinistra che (non) fa opposizione?
Attenti al Cav post-fascista
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 17.09.2008)
Salvate il soldato Fini. Ancora sulla svolta «antifascista» di Fini. Inequivoca, netta, s’è detto. E conferma plateale della giusta battaglia «antirevisionista» contro le ambivalenze di An. E contro tutti quelli che hanno sempre negato la centralità del fondamento antifascista di Costituzione e Repubblica: da Della Loggia, a Pera, a Pansa, etc. Ora anche Fini lo dice chiaro e tondo: valore positivo e costituzionale, l’antifascismo! Nondimeno Fini è un po’ solo, dentro e fuori An. E Berlusconi tace e parla d’altro: «siamo tutti democratici e questo basta». Lo ha ribadito nel corso del grottesco Porta a Porta di ieri l’altro. Con la Vezzali e Miss Italia «coccodè», e Vespa scambiato... per Fede. Dunque, insidia trasformista. Con il Cav post-fascista e anti-antifascista (vedi lodi a Balbo). La Russa e Alemanno (post?) fascisti. E Fini all’angolo, e devitalizzato, da liberal-conservatore. Salvate il soldato Fini? Sì, nel senso di insistere sul tema. Ma fino a un certo punto, perché l’uomo è flessibile e ambizioso. E potrebbe finire da sgabello premierale del Cav post-fascista al Quirinale. Per meriti antifascisti...
Attali adieu. Evviva! Qualche volta il... bene trionfa. La «Attali» alla romana è naufragata. E Amato ha deciso di dare forfait. Ora è vero che stavolta ex malo bonum: il motivo addotto è stata la rivalutazione di Alemanno del fascismo. Ma quella commissione papocchio non andava fatta a prescindere. Per motivi di decenza politica. Non si progettano, in commissione bypartisan, futuro e sviluppo di Roma. Con famosi e non, e un ex premier (post)socialista nominato da un sindaco An. Adesso se la facciano loro la «commissione». Con l’ex ministro di Fi. Non più alla romana ma alla napoletana. Alla San Marzano.
Balbo assassinato? Un lettore di Ravenna, Tommaso Pagnani, ci chiama, dopo aver letto un nostro pezzo su Italo Balbo. E ci dice: «Mio padre Salvatore era a Tobruk, il 6 giugno 1940. Vide con chiarezza i due aerei italiani che volavano basso e rientravano verso il porto. Avevano lo stemma del fascio dipinto e ben visibile, e solo uno dei due fu mitragliato: quello di Balbo». Interessante. E però Folco Quilici, figlio di una delle vittime con Balbo (era il suo uomo di fiducia) ha scritto Tobruk 1940 (Mondadori). Dove esclude il complotto, pur confermando l’idea del «Balbo anti-Mussolini». Ricerca puntigliosa. E attendibile.