L’ANALISI
Il contratto spezzato
di MASSIMO GIANNINI *
Un filo sottile, ma visibile, unisce il ritorno della Cgil al Circo Massimo previsto oggi e le dichiarazioni dei redditi degli italiani diffuse ieri. Sette anni dopo l’oceanica manifestazione che vide in piazza 3 milioni e mezzo di persone a difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e al culmine di un incendio globale che alimenta non solo la "rabbia populista" denunciata da Newsweek, ma anche la "rivolta popolare" avvistata da Fitoussi, c’è qualcosa che si incrina nel tessuto connettivo dell’individuo e nel vissuto collettivo dei cittadini. C’è qualcosa che minaccia di rompersi. Di rompere, o quanto meno interrompere, il circuito delle relazioni e delle istituzioni di cui vive una democrazia. Quel qualcosa è il contratto sociale. Il patto tacito, ma condiviso, che lega gli uomini, le generazioni, i ceti, le categorie, in un destino comune che ci vede (o ci dovrebbe vedere) diversi nelle condizioni, ma uguali nelle opportunità. Cos’altro rappresentano i dati sui redditi del 2007, se non un monumento all’ingiustizia fiscale? Cos’altro gridano, quell’italiano su tre che denuncia meno di 10mila euro e quel risibile 0,9% che dichiara oltre 100mila euro, se non lo scandalo della disuguaglianza sociale?
È vero, questi numeri della vergogna non sono mai nuovi. Nell’oceano dell’evasione nuotano non solo gli squali del lavoro autonomo che esportano i soldi alle Cayman. Ma nuotano anche i pesci piccoli del lavoro dipendente che arrotondano con i "mestieri" del sommerso. E nuotiamo anche tutti noi, quando non pretendiamo la ricevuta dal medico, la fattura dall’idraulico, lo scontrino dal commerciante. Ma letti nel pieno di quella che oggi l’ex presidente della Repubblica Ciampi definisce una "crisi epocale e non congiunturale", che morde la carne viva di tanta gente e taglia la connessione tra capitale e lavoro, questi numeri interrogano una volta di più le responsabilità di una politica che non sa o non vuole vedere. Chiamano in causa un’idea della società italiana che questo governo non dimostra di possedere. Spiace dirlo ai "modernisti" alle vongole, ma la redistribuzione del reddito, e quindi la perequazione tributaria, restano il cuore del problema. Oggi, nell’era dell’ordoliberismo compassionevole di Giulio Tremonti come ai tempi della Grande Riforma di Ezio Vanoni.
Possiamo non rimpiangere il "saio fiscale" caro a Vincenzo Visco. Possiamo non avere nostalgia di quel sottile accanimento "di classe" col quale l’ultimo centrosinistra unionista ha braccato i cosiddetti ricchi, con la malcelata intenzione di "farli piangere". Ma non possiamo non vedere che l’evasione fiscale continua a costarci oltre 100 miliardi l’anno, pari a 7 punti di Pil. Continua a mantenersi su livelli ben superiori a quelli dei paesi europei.
"Questi livelli di evasione sono incompatibili con la democrazia", aveva detto Romano Prodi poco prima della caduta, nell’autunno 2007. Cosa dice oggi Silvio Berlusconi? Nel Dpef e nella manovra di bilancio triennale si parla di piano straordinario di controlli finalizzato all’accertamento sintetico, di aumento del numero delle verifiche. Ma alle intenzioni iniziali non corrispondono le azioni successive. Lo scrive la Corte dei conti, che solleva "perplessità" sulle conseguenze devastanti che alcune cosiddette "semplificazioni" potranno avere, "non solo sui comportamenti dei contribuenti, ma anche sulla possibilità per gli uffici di acquisire gli indispensabili mezzi di prova. Ciò riguarda la soppressione dell’obbligo di allegazione alla dichiarazione Iva degli elenchi clienti/fornitori... l’abrogazione delle norme in materia di limitazione dell’uso di contanti e di assegni, di tracciabilità dei pagamenti e di tenuta da parte dei professionisti di conti correnti dedicati".
Ora si allentano anche gli studi di settore su imprese e lavoratori autonomi. L’Agenzia delle Entrate dovrà applicarli "con particolare cautela", adottando "particolare prudenza in sede di accertamento, quando gli scostamenti saranno di lieve entità". I primi frutti di questa semina sono già visibili. Su un fabbisogno aumentato a 14,5 miliardi a marzo, i minori incassi fiscali pesano per ben 2 miliardi. Incide il calo dell’attività economica, ovviamente. Ma la contrazione del Pil è inferiore al calo delle entrate. La guardia, sulle tasse, è clamorosamente bassa. Lo conferma, ancora una volta, la Corte dei conti, quando denuncia a tutt’oggi "la mancata presentazione, entro il 30 settembre, della relazione al Parlamento alla quale il governo è annualmente tenuto per dar conto dei risultati di gettito del contrasto all’evasione".
Anche così si esasperano le disuguaglianze. E si accresce il disagio di chi, nella caduta del reddito e del potere d’acquisto, non ha vie di fuga. Anche per questo la manifestazione della Cgil di oggi, indipendentemente da come si giudichino certe resistenze di Epifani, ha comunque un suo significato profondo. E anche per questo la partecipazione del leader del Pd, indipendentemente da come si giudichi la linea del segretario, merita grande rispetto. Dove c’è un povero, un disoccupato, qualcuno che perde il lavoro, non può non esserci un progressista al suo fianco. Se lo dice Brown è riformismo, se lo dice Franceschini è massimalismo. Non si capisce perché. A meno di non voler estirpare per sempre le radici della sinistra dalla storia del mondo.
* la Repubblica, 4 aprile 2009.
Gasparri: "E’ una decisione politica, hanno evitato il confronto"
Il ministro della Pubblica amministrazione Brunetta: "Una scampagnata"
Il Pdl contro la Cgil in piazza
"Fanno solo solo carnevalate" *
ROMA - "Il diritto a manifestare è sacrosanto. Spiace che la Cgil abbia ancora una volta preso una decisione politica e non sindacale scegliendo la piazza piuttosto che il confronto. Le misure a sostegno dei lavoratori, delle imprese, delle famiglie le ha prese e continuerà a prenderle il governo con responsabilità, con i fatti e lasciando ad altri inutili carnevalate". Il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri attacca così il corto della Cgil. E trova sponda nel ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta che definisce l’iniziativa del sindacato "una scampagnata che muove risorse, ristoranti, autobus, quindi è un fatto positivo per la ripresa economica". Per il leghista Roberto Cota "quella di oggi mi sembra più che altro una sfilata di apparati. I diritti dei lavoratori si difendono giorno per giorno con fatti concreti e non con le comparsate".
Brunetta e l’evasione. ’Direbbe Humphrey Bogart: questa e’ l’Italia, bambola". Brunetta, commenta a Cernobbio i dati delle dichiarazioni dei redditi relative al 2006 diffusi ieri dal ministero dell’Economia, secondo i quali solo il 2% dei contribuenti guadagna più di 70 mila euro. "Mi meraviglio della vostra meraviglia, nel senso che sono dati straconosciuti. Questa è l’Italia". Ma il governo non fa poco per contrastare l’evasione? "Questi -replica il ministro- non sono problemi di questo o di quel governo, sono problemi strutturali, problemi della struttura produttiva italiana, della struttura fiscale del paese. Sono anche problemi di carattere tipologico: piccola impresa, famiglia e risparmio. Questa- conclude- è l’Italia".
Il ministro, poi, ha messo in guarda dal considerare la crisi economica in via di soluzione. "Alcuni elementi di miglioramento ci sono, ma attenti a non illudersi che la crisi sia già alla fine". Brunetta ha spiegato che stiamo andando verso la stagione buona, favorevole per l’agricoltura, per il turismo, per la mobilità, per i consumi e per l’occupazione. "Stiamo attenti però che poi contano sempre i fondamentali: conta il commercio con l’estero, conta il credito, contano i risparmi e contano le risposte che i singoli paesi danno alla crisi, individualmente o in maniera coordinata".
* la Repubblica, 4 aprile 2009.
Cgil, il sindacato in piazza con oltre 2 milioni di lavoratori
di Malcom Pagani *
Arriva al microfono quando il sole è già alto e nel grande anello è ormai impossibile farsi spazio. E’ determinato, concentrato, diretto. Guglielmo Epifani ce l’ha fatta. Un corteo enorme, una partecipazione spaventosa. La fotografia in carta carbone di un lontano 23 marzo di qualche anno fa. Sono giunti a centinaia di migliaia, da Belluno e da Prato, da Enna e da Napoli. «Non era scontato» dice orgoglioso il segretario generale della Cgil tra gli applausi. Prima di lui hanno parlato studenti e precari, operai e medici. Chiude Epifani, con la consapevolezza che non è il giorno giusto per dimenticare le ragioni dell’adunata. Il lavoro. La crisi. Le risposte che mancano. Gli basta appena nominare Berlusconi, per far sì che i fischi coprano anche il rumore dei tanti elicotteri che volteggiano sulle teste dei manifestanti. «Il governo fa molto meno di quello che serve ma non va bene aspettare che passi la nottata, è da quella che dipende il nuovo giorno. Perché l’esecutivo non ha voluto, non vuole fare di più? Stanziando solo 4 miliardi per fronteggiare la crisi, non percependo l’urgenza di serie politiche industriali, per l’edilizia, per i servizi pubblici, per le piccole e medie imprese ha mostrato disinteresse e sottovalutazione». Quindi, conseguente, la richiesta. «Bisogna aprire un tavolo vero di confronto per affrontare in modo serio, ordinato, coerente, la crisi».
Parole che scaldano l’Italia che prova a resistere, che viaggia da ieri e tornerà a casa solo domani. I cassaintegrati di Pomigliano d’Arco e quelli quasi esclusivamente africani di Afragola, i lavoratori del tessile di Prato, le donne e i bambini che si aggirano con palloncini colorati. La gente distesa sui prati, i volti che di manifestazione in manifestazione, si incontrano nuovamente. Sono le speranze ad essere mutate, in quel caleidoscopio di illusioni tradite che questa stagione governativa propone. Un popolo preoccupato, colorato e comunque composto, «nella migliore tradizione del sindacalismo italiano» come suggerisce Antonio Bassolino e conferma Sergio Cofferati, che quando gli chiedono quanto sia diversa la sua stagione da quella attuale frena i confronti e dice soltanto: «Sono iscritto alla Cgil, era ed è il “mio” sindacato».
Mancano Cisl e Uil ed Epifani non lo dimentica: «Abbiamo scelto di stare in campo anche quando gli altri non ci hanno consentito di fare le battaglie che avremmo dovuto intraprendere insieme». Non c’è solo protesta ma una fitta teorie di proposte a controbilanciare: «Bisogna decidere subito di estendere la durata della cassa integrazione ordinaria, per evitare che il passaggio a quella straordinaria voglia dire ristrutturazioni, mobilità, licenziamento dei lavoratori. Investimenti e Mezzogiorno, la possibilità di chiedere il blocco effettivo dei licenziamenti per tutta la durata della crisi, per discutere delle condizioni e del reddito di pensionati, lavoratori e precari. E infine, il tema della lotta all’evasione fiscale e della restituzione del Fiscal drag».
Il segretario della Cgil ha sottolineato che è difficile fare previsioni sulla crisi, «ma se la ricchezza del Paese scenderà davvero del 4% quest’anno, la caduta non potrà essere affrontata né con battute né con misure non all’altezza. Lo dico con il cuore in mano: dietro a queste cifre ci sono milioni di persone e molte imprese. Un calo di queste dimensioni non vuol dire tornare a sei-sette anni fa, ma per molti è un ritorno nel vuoto». Applausi a scena aperta. Grida, piedi che battono sul terreno, abbracci. E’ finita, si sciama verso una primavera crudele, più confortati. La questura parla di 200.000 persone. Erano molte di più. Non è il dato più importante. Fondamentale è lo spirito. Gambe in marcia, cuori pulsanti. Nessuno si rilassi. La Cgil rimarrà vigile: «È stata una delle più grandi e più belle manifestazioni di sempre. Rappresenta quella parte d’Italia che vuole superare la crisi ma che chiede serietà rispetto ai propri problemi, alla propria condizione». Quella ci vuole, insieme a molto altro.
* l’Unità, 04 aprile 2009
La crisi come una guerra
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 05.04.2009)
Man mano che s’estende e s’aggrava, la crisi economica che traversiamo somiglia sempre più all’esperienza che l’uomo fa della guerra. È violenta, e suscita nel popolo violenza, ira. Chiude le porte dell’avvenire, troncando non solo le vite ma i progetti, le aspettative che oltrepassano l’immediato presente. Le sue due prime vittime sono il tempo lungo e la verità. Al pari dei generali, i governanti tendono a esecrare le cattive notizie che gli organismi internazionali diffondono ogni ora sulla ricchezza delle nazioni che scema, sulla disoccupazione che cresce. Le brutte notizie pubblicizzano i mali, aprono finestre che sarebbe preferibile tener chiuse, permettono alle lingue di sciogliersi, di sfatare menzogne dette per decenni sulle intrinseche virtù del mercato.
Nella sete di verità e nella sua divulgazione non si vede che disfattismo, questa passione triste che tenta il soldato in trincea. In parte per pigrizia, in parte per vigliaccheria, i governanti sembrano quasi voler curare il male con i mali che l’hanno scatenato: con l’illusionismo, con il nascondimento dei rischi, con il pensare-positivo che ignora i pericoli, con l’escamotage. Non con l’analisi psicologica ma con il coaching, l’incoraggiamento sbrigativo che ti riconforta scansando non tanto il pessimismo, ma il realismo. Non con lo sguardo proiettato sul domani, ma con l’istante che l’abolisce. Quel che diceva Samuel Johnson della guerra, in un articolo del 1758, s’adatta all’oggi in maniera impressionante: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia».
Il gruppo dei 20 Paesi riunitosi giovedì a Londra s’è sforzato di uscire dalle pigrizie, e anche di far luce su quel che tanti vorrebbero oscurare: ad esempio su alcuni paradisi fiscali, o sui conti bancari segreti. Ma il fastidio che la verità incute nei governanti resta intenso, specie in Europa. Sarkozy ha perso la pazienza qualche giorno fa, irritato dalle cifre pessimiste che circolano a Bruxelles. E il fastidio è forte nel governo italiano. L’Italia è più impreparata alla crisi di quanto il potere voglia far credere, ma il capo del governo è aggrappato al pensare-positivo come ci si aggrappa a una droga. Il contrario del pensare-positivo non è per lui altro che pensare-negativo: non è verità, necessità. Le colpe sono sempre di altri, e in particolare degli organismi internazionali che sfornano ogni giorno cifre più allarmiste: l’Ocse è invitata a «star zitta», i commissari europei «a lavorare piuttosto che far prediche ai governi» e «disturbarne» il lavoro. Così facendo Berlusconi ammette il disastro: chiede di non renderlo pubblico.
Eppure la verità è rimedio essenziale, e chi comincia a dirla già compie metà del cammino, già si esercita a veder più lontano e più chiaro. Solo se si conosce l’ampiezza del male e la sua natura, solo se si discerne l’enorme mutazione che sta avvenendo e se si guardano in faccia le violenze e i conflitti sociali che s’accompagneranno alla mutazione, si può pensare di uscire dal disastro non distrutti. La verità è un’etica e al tempo stesso un farmaco contro il pensare positivo o negativo: nelle tragedie, è il punto in cui l’eroe accecato o colpevole si trasforma grazie alla peripezia, al rovesciamento di cose che parevano avere un senso e d’un tratto ne hanno un altro.
La medicina della verità, Kant la chiama pubblicità: che non è réclame ma è il dibattito fra opinioni diverse reso pubblico, la rinuncia del potere alla segretezza dispotica, le istituzioni comuni che prima ancora d’esser democratiche si fanno repubblicane, appartenenti alla sfera pubblica. Il rischiaramento dei Lumi e il sapere aude! (osa sapere!) che Kant invoca permettono all’uomo di diventare cittadino e alle nazioni di divenire cosmopolite: l’uno e le altre non più responsabili solo verso se stessi.
Non so cosa pensi Sergio Marchionne del grande crollo ma non è del tutto improbabile che la sua visione del futuro sia scabrosa, non ottimista: che veda un domani dove l’auto sarà un peso, costoso e dannoso per il pianeta. Che proprio questa visione l’abbia spinto a innovare radicalmente e conquistare l’America. La mutazione del mondo è la cosa più difficile da vedere, governare. È difficile per l’America, che fatica a smettere l’egemonia. Ma non è meno difficile per gli europei, che alla trasformazione rispondono concentrandosi su singoli duelli con Obama, e chiedendo che l’America ripari il riparabile visto che è stata lei a sfasciare.
L’ascesa di nuove potenze come Cina e India è un’ulteriore verità che disturba il loro sonno dogmatico, e il mal dissimulato desiderio di ricominciare la storia di ieri: una storia in cui l’Unione europea brilla forse per intelligenza, ma non per capacità di guida e responsabilità mondiale. Quando Berlusconi dice che il vertice veramente importante sarà quello degli Otto Grandi alla Maddalena, quando i governanti europei parlano della crisi come di una burrasca passeggera, la presa di coscienza è rinviata e il rovesciamento tragico lontano.
La verità di cui si teme il disvelamento è che la piccola élite del G8 è sorpassata, non è neanche più élite. Le idee nuove sulla crisi sono venute non dall’Europa o dall’America ma dalla Cina, che con realismo vede il declino del dollaro e con questa visione attrae un numero crescente di Paesi: non solo il governo russo che per primo ha denunciato il pericolo del dollaro-moneta di riserva mondiale ma anche Indonesia, Filippine, Malaysia, Argentina, Venezuela. La Cina non solo è più inventiva: il racconto che fa del mondo - lo spiega bene lo storico Paul Kennedy sull’Herald Tribune del 2 aprile - fotografa il reale e le necessità del domani con fedeltà difficilmente confutabile.
Il racconto veritiero sul mondo che abitiamo - il filosofo Paul Ricoeur lo chiama la «narrativa» - è da tempo usato nelle terapie dei tossicodipendenti, per la ricostituzione di identità frantumate. È utile anche per la tossicodipendenza delle nostre società e dei loro governanti: aiuta a comprendere meglio le rivolte che si estendono, la questione sociale che si risveglia, Marx che secondo Paul Kennedy rinasce.
È futile parlare di piagnoni o fannulloni: i tumulti di questi giorni a Londra e Strasburgo, ma ancor più i sequestri di manager o l’ira contro i ricchi che si moltiplicano in Francia, sono segni ominosi. Alle rivolte partecipano sempre più lavoratori - scrive il sociologo Carlo Trigilia che le analizza con lucidità - e a esse occorre replicare riconoscendo gli effetti sociali della crisi e dando ai minacciati più giustizia e protezione (Sole- 24 Ore, 2 aprile). Anche Obama ha parlato di violenza, vedendola come fenomeno della società-mondo, e sembra desideroso di opporre un suo racconto della crisi al racconto ostile che va gonfiandosi. Ha cominciato col descrivere il proprio Paese, denunciando la fede nel mercato che per anni l’ha cattivato e annunciando che l’America di domani non sarà più il Paese che era: «Voracemente consumatore», drogato dall’indebitamento, incapace di risparmiare. Un mercato ideale per tanti.
In un saggio scritto nel 1926 su Montesquieu, Paul Valéry racconta la Francia prima della rivoluzione e narra un Paese arguto ma smarrito: «Senza che nulla di visibile sia mutato (nelle istituzioni dell’epoca), esse non hanno più altro che la bella presenza. Il loro avvenire si è segretamente esaurito. Il corpo sociale perde dolcemente il domani. È l’ora del godimento e del consumo generalizzato». È un Settecento adorabile e tuttavia viziato, senza futuro. Non diverso da quello dipinto da Samuel Johnson: affetto da credulità, interesse miope, disamore della verità. Un mondo che precede le guerre, le rivoluzioni, e se tutto va bene le grandi trasformazioni.