Le accuse alla sinistra sull’Afghanistan: "Mi sono fatto prendere la mano".
Ma Berlusconi vuole evitare lo scontro frontale prima del giudizio sul Lodo
"Ho esagerato, ma era un comizio"
il Cavaliere irritato dal Quirinale
di CARMELO LOPAPA *
ROMA - "Mi sono lasciato prendere la mano, dal clima del comizio. Posso aver commesso una leggerezza, avrei dovuto specificare che mi riferivo alla sinistra extraparlamentare. Però quei fatti che ho denunciato erano veri, ero in assoluta buona fede. Ad ogni modo, vedete? Il Quirinale non me ne lascia passare una, pronto a intervenire alla prima occasione".
Scuote la testa il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, quando ad Arcore viene scosso dalla nota ufficiale con cui il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano risponde a tamburo battente all’appello al "ripristino della verità" che gli aveva rivolto l’opposizione, Casini in testa.
Rimbomba ancora l’eco dei tre "vergogna" urlati da Berlusconi contro la minoranza dal palco del comizio di Milano. Ciò non toglie che il richiamo pur generico della Presidenza della Repubblica ha irritato non poco il premier. In effetti, il clima è quello che è. E non ha contribuito a rasserenarlo una campagna come quella lanciata dieci giorni fa dal quotidiano filo berlusconiano "Libero" proprio contro il capo dello Stato subito dopo la morte dei sei parà in Afghanistan. Allora il giornale di Belpietro non aveva esitato ad accusare il Quirinale di aver rinviato di alcune ore il rientro delle salme in Italia per poter consentire a Napolitano di tornare in tempo dalla missione in Giappone. Episodio poi smentito dai capi di Stato maggiore. Ma tant’è.
La parola d’ordine del Cavaliere tuttavia è evitare lo scontro frontale. Tenere un profilo basso, evitare di alzare i toni. Impedire che si ritorni al clima da "guerra fredda" che si era instaurato tra Palazzo Chigi e Quirinale ai tempi del caso Eluana. Il capo del governo non intende inasprire i rapporti per un paio di motivi, assai concreti. Il primo ha a che fare con lo scudo fiscale in via di approvazione alla Camera. Berlusconi e Tremonti sanno bene che il testo non coincide completamente nelle parti essenziali con quello che era stato sottoposto al vaglio del Quirinale nel luglio scorso.
Il secondo timore è legato invece al passaggio cruciale che attende il premier a partire dal 6 ottobre: l’esame di costituzionalità sul lodo Alfano in Consulta. "La tensione c’è, stiamo vivendo una sorta di lungo, nervosissimo prepartita - racconta un dirigente pidiellino dell’inner circle berlusconiano - nulla è deciso ma non c’è grande ottimismo, cautela, piuttosto".
E in questo contesto già abbastanza problematico resta irrisolto il nodo dei rapporti tra il presidente del Consiglio e quello della Camera, Gianfranco Fini. L’ennesima, plateale bocciatura - in ultimo dal palco di Milano - del progetto finiano di cittadinanza rapida agli immigrati, ha rafforzato nella terza carica dello Stato il convincimento che anche il "patto della Camilluccia", il pranzo chiarificatore a casa Letta, sia da intendersi archiviato. "Non gli ribatto colpo su colpo. Ma è evidente che, alla prova dei fatti, Silvio perde sempre l’occasione di dar seguito ai buoni propositi" confidava ieri l’inquilino di Montecitorio ai deputati più fidati.
D’altronde, la tenuta complessiva del Pdl continua a risentire delle fibrillazioni. Accade così che il seminario sul Sud organizzato dai gruppi parlamentari a Napoli venga disertato dai tre coordinatori Bondi, La Russa e Verdini. "Avevamo inserito i loro nomi pur sapendo dell’assenza per altri impegni, condividono comunque le nostre istanze" minimizza Gaetano Quagliariello. Assenze non casuali, in realtà, raccontano altri. L’appuntamento meridionalista e in salsa "anti-Lega", aveva tra gli obiettivi quello di piantare una prima bandierina in favore della candidatura a governatore di Mara Carfagna, ministro e big sponsor dell’evento. "Peccato - sussurra un ministro campano del Pdl - che Verdini abbia già garantito la candidatura al coordinatore regionale Nicola Cosentino".
Oggi il premier festeggia i 73 anni andando prima in Abruzzo e poi cenando coi parlamentari del Pdl. Un paio di battute e tutti torneranno a sorridere. Almeno per stasera.
* la Repubblica, 29 settembre 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SILVIO BERLUSCONI - QUATTRO MANDATI DA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO (Wikipedia): Nel gennaio del 1994 ha fondato il movimento politico Forza Italia. Nel 2009 il partito è confluito nel Popolo della Libertà.
Da uomo politico siede alla Camera dei Deputati dal 1994, anno della sua prima elezione. Ha ottenuto quattro mandati da presidente del Consiglio: il primo nella XII legislatura (1994), due consecutivi nella XIV (2001-2005 e 2005-2006); infine, l’attuale, nella XVI (2008)
Lo spirito incostituente
di Norma Rangeri (il manifesto, 14.10.2015)
Il vicepresidente della Lombardia, arrestato ieri per corruzione, è stato davvero sfortunato. La magistratura è intervenuta, purtroppo per lui, prima che il nuovo Senato dei consiglieri regionali diventasse realtà. Perché tra i tanti obbrobri che il governo del “fare” vorrebbe regalarci con il Senato delle regioni c’è appunto quello di un ramo del Parlamento formato dalla classe politica più squalificata del nostro paese. Ma protetta, domani, dall’immunità.
La nuova Costituzione di Renzi e Verdini ha tagliato un importante traguardo. Con la benedizione di Napolitano. L’ex Presidente della Repubblica, «il vero padre di questa riforma», secondo la ministra Boschi, è intervenuto per benedire la sua creatura. In fondo riconoscendovi quella “grande riforma” disegnata da Craxi ai vecchi tempi della Prima Repubblica. Con il voto finale alla prima lettura del progetto controriformatore si mette agli atti lo “spirito incostituente” che ha segnato questi lunghi mesi di forsennato attacco alla nostra Carta costituzionale. A partire dall’anomalia, sconsiderata, di essere una revisione della legge fondamentale originata non da un’iniziativa parlamentare, ma da una proposta di governo. Anzi, e più precisamente, dalla volontà di un presidente del consiglio e “capo” di un partito i cui elettori non sono mai stati chiamati a pronunciarsi su questo progetto di manomissione della Costituzione.
Al consenso parlamentare e elettorale sono stati preferiti i patti del Nazareno e i successivi accordi con quei galantuomini di Verdini&Co. Con le continue, ripetute forzature dei regolamenti parlamentari dettati e piegati ai tempi imposti dall’esecutivo. Uno stravolgimento delle regole della discussione perfettamente coerente con i contenuti della riforma.
Principalmente finalizzata alla creazione di un premierato senza contrappesi, come in nessun paese europeo. Disegnato sulla silhouette di quello che nel suo intervento in dissenso dal gruppo del Pd, Walter Tocci ha definito «il demagogo che potrà fare quello che vuole».
Del resto, di essere il dominus anche del futuro potere legislativo questo presidente del consiglio se ne fa vanto («le riforme si fanno, l’Italia cambia, avanti tutta più decisi che mai»). Con motivazioni di bassa lega (meno senatori, meno costi della politica) e disprezzo per le minoranze, a cominciare da quelle del suo partito. Bersani e i fedeli della “ditta” hanno masochisticamente scelto di farsi umiliare fino a votare la trasformazione del Parlamento in cassa di risonanza dei piccoli Cesare. Di oggi e di domani.
Il documento spiega perché e come, questa riforma, nell’abbinamento con la nuova legge elettorale, costituisce una torsione autoritaria delle istituzioni, in definitiva della democrazia parlamentare: «Uno stravolgimento dell’impianto della Costituzione del ’48, sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto». Tuttavia ancora non è stata scritta la parola definitiva.
Se si verificheranno le condizioni per poterci esprimere in un referendum, saremo chiamati, come già nel 2006, a una grande battaglia che potrà farci svegliare dall’incubo cancellando questo frutto avvelenato del renzismo.
Va comunque preso atto che il presidente del consiglio sta segnando punti a suo favore: grazie alla forza dei numeri e agli squallidi trasformismi, vince. Però non convince. Per lui contano le bandierine della conquista, come quelle che accompagnarono la marcia trionfale di Berlusconi. Ma Renzi sta facendo anche terra bruciata nel suo partito, perché ne sta distruggendo quel poco che resta della sua storia.
Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni"
di GOFFREDO DE MARCHIS (la Repubblica, 14 ottobre 2015)
ROMA. "Ce l’avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l’uscita dall’aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l’anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall’ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n’è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell’esodo", scherza Napolitano.
È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell’intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata.
Sempre sul filo dell’ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici".
Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l’ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell’ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia".
Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l’ho nominata sapevo bene che aveva un’estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l’ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.
Gelo fra palazzo Chigi e il Colle che nega a Letta una precisazione
L’ira del Cavaliere contro Fini: "Deve smettere di criticare tutto ciò che faccio"
Napolitano, Berlusconi non si arrende
"Al Quirinale burocrazia contro di me"
di CARMELO LOPAPA *
ROMA - Lo stupore del premier Berlusconi, poco prima di imbarcarsi per Washington. "Perché mai il Quirinale si sarebbe irritato? Quelle cose io le ho sempre dette e poi non era un attacco personale al presidente Napolitano". Gianni Letta che contatta la presidenza della Repubblica per chiedere conto dell’irritazione, per sollecitare quanto meno una puntualizzazione. Il caso non si chiude e la temperatura torna a salire tra Palazzo Chigi e il Colle, proprio nel momento più delicato, nei giorni in cui il dibattito sulle riforme prova a decollare.
Il fatto è che la tensione al Quirinale resta palpabile, dopo la sparata di Parma sullo staff della presidenza della Repubblica che controllerebbe "anche gli aggettivi" dei provvedimenti governativi. Le scuse di Letta al telefono non sono bastate a chiudere l’incidente. Berlusconi, alla vigilia della missione Usa che lo terrà fuori tre giorni, parlando coi suoi in parte minimizza, in parte rincara: "Non ce l’avevo col presidente. Dire che il suo staff va a guardare anche gli aggettivi non è mica uno scandalo, è così e lo vado ripetendo da tempo. Ponevo un problema più generale, della burocrazia che spesso ostacola il cittadino come pure il governo. E talvolta l’atteggiamento del Colle è stato burocratico. Ma io non ce l’ho con lui, anzi, voglio provare a ricostruire un corretto rapporto istituzionale".
Sembrava essere ripartito, in effetti, un dialogo più tranquillo tra Napolitano e Berlusconi. Dopo lo scontro a muso duro di un mese fa, il faccia a faccia ostile sul decreto salva liste, nei giorni scorsi la promulgazione della legge sul legittimo impedimento aveva spinto il premier a telefonare di persona al presidente della Repubblica, per ringraziarlo. Se il Cavaliere torna ora a mostrare un certo nervosismo è perché teme che l’atteggiamento del Quirinale torni "burocratico", che passino sotto la lente di ingrandimento gli aggettivi sul provvedimento che gli sta più a cuore: il disegno di legge sulle intercettazioni che il Senato sta appunto correggendo, per rimandarlo infine alla Camera. Anche perché lì la partita si gioca proprio attorno a un aggettivo: "evidenti", come gli indizi di colpevolezza che renderebbero possibile la registrazione delle telefonate. Ed è una partita, questa del giro di vite sulle intercettazioni, sulla quale Berlusconi non intende cedere. E dinanzi alla platea di Confindustria è tornato a ripeterlo, se non fosse ancora chiaro.
In questo momento tuttavia, più che con il capo dello Stato, il premier ce l’ha con il cofondatore del Pdl, Gianfranco Fini. Non ne fa mistero coi suoi più stretti collaboratori: il presidente della Camera, complice l’asse privilegiato col Quirinale, viene ritenuto responsabile di molti degli ostacoli "istituzionali" frapposti all’attività del governo Berlusconi. Il controcanto quotidiano dell’ex leader di An o dei suoi fedelissimi ad ogni uscita del presidente del Consiglio viene ritenuta ormai "insostenibile". Come, in ultimo, il no di Fini e dei finiani al mantenimento dell’attuale sistema elettorale, addirittura la sponsorizzazione del doppio turno. "La deve smettere di criticare tutto quello che dico - è sbottato in queste ore Berlusconi riferendosi all’inquilino di Montecitorio - Se continua così, comincio a parlare io per davvero". L’altro fronte, quello finiano appunto, ritiene indispensabile modificare l’attuale legge elettorale per evitare di scivolare in un semipresidenzialismo sì, ma "alla sudamericana", come ammoniva ieri su Repubblica Italo Bocchino. E come ora rilancia Carmelo Briguglio: "Prospettiva inaccettabile per chi crede nel Pdl come casa di una destra riformatrice. Se poi si continua a cedere spazi e posti alla Lega, nel partito scoppierà la rivolta. Attenzione, siamo sull’orlo del precipizio". È partendo da questi presupposti che Fini e Berlusconi torneranno a incontrarsi nel fine settimana. Ennesimo tentativo di tenere in piedi la convivenza.
Ma se c’è un punto sul quale il premier non intende cedere è proprio sulla legge elettorale. "Ribaditelo in questi giorni in cui non ci sarò, ditelo in tutte le salse che l’attuale sistema non si tocca" ha raccomandato ad alcuni ministri. Tra loro non Calderoli. Il rapporto col braccio destro del Senatur si è raffreddato, dopo la fuga in avanti consumata con la presentazione della bozza di riforme al Colle. Per non dire dell’annuncio che con un Berlusconi presidente, nel 2013, potrebbe esserci un premier leghista. "Calderoli studia da sottosegretario al Quirinale, un po’ come faceva D’Onofrio con Cossiga", ironizza il ministro Rotondi. Cicchitto ieri sparava a pallettoni contro il responsabile della Semplificazione. Non a caso. Berlusconi non ha gradito, anche perché ha altre intenzioni, altri progetti, confidati a pochi in questi giorni. "Se condurremo in porto la riforma e sarò presidente, coltivo un sogno: chiamare al mio fianco un premier donna, passare alla storia come l’artefice dell’ingresso di una signora a Palazzo Chigi".
* © la Repubblica, 12 aprile 2010