Il bambino spaventato che dorme alle radici del male
«Riprendersi la vita» Esce il nuovo saggio di Alice Miller sull’origine dell’orrore
In ogni terrorista o dittatore, come Hitler, si cela un’infanzia gravemente umiliata
di Alice Miller (l’Unità, 13.05.2009)
Da oggi è in libreria per Bollati Boringhieri un nuovo saggio di Alice Miller, la psicoanalista che ha dedicato la sua vita allo studio delle conseguenze di violenza e anaffettività sui bambini. Ne anticipiamo un brano.
In ogni dittatore, sterminatore o terrorista, per terribile che esso sia, si cela sempre e comunque un bambino che un tempo è stato gravemente umiliato e che è sopravvissuto solo grazie alla totale negazione dei propri sentimenti di assoluta impotenza. Tuttavia questa completa negazione della sofferenza subìta produce uno svuotamento interiore, e assai spesso blocca lo sviluppo della capacità innata di provare compassione per gli altri. Queste persone non hanno difficoltà a distruggere altre vite umane, persino la propria stessa vita vuota di senso. Oggi siamo in grado di vedere sullo schermo del computer le lesioni cerebrali che si producono nei bambini che hanno subìto percosse o che sono stati abbandonati. Ne riferiscono numerosi articoli di ricercatori di neurobiologia, in particolare di Bruce D. Perry, che è anche psichiatra infantile.
Dal mio punto di vista e sulla base delle mie ricerche sull’infanzia dei dittatori più efferati, come Hitler, Stalin, Mao e Ceausescu, vivo il terrorismo e gli ultimi attentati terroristici come la macabra, ma precisa dimostrazione di ciò che accade a milioni e milioni di bambini di tutto il mondo dietro il pretesto dell’educazione, e che purtroppo viene ignorato dalla società. Tutti noi in quanto adulti abbiamo dovuto conoscere ciò che molti bambini vivono nella loro quotidianità. Se ne stanno impotenti, muti e tremanti davanti all’imprevedibile, incomprensibile, brutale e indescrivibile violenza dei loro genitori che vendicano sui figli le sofferenze della propria infanzia, non rielaborate perché negate.
Dobbiamo solo ricordarci dei sentimenti che abbiamo provato l’11 settembre per immaginare la portata di una simile sofferenza: siamo rimasti tutti sopraffatti dall’orrore, dal raccapriccio e dal terrore. E tuttavia i rapporti esistenti tra vicende dell’infanzia e terrorismo continuano a essere minimizzati. È tempo di prendere sul serio il linguaggio dei fatti.
PRIMO, NON PICCHIARE
In base alle statistiche, più del novanta per cento della popolazione mondiale è fermamente convinta che i bambini vadano picchiati per il loro bene. Poiché quasi tutti noi abbiamo sperimentato l’umiliazione derivante da tale mentalità, la sua crudeltà non ci risulta affatto evidente. Ma ora il terrorismo mostra - come in precedenza è accaduto per l’Olocausto e per altre forme di barbarie - quali siano le conseguenze del sistema punitivo in cui siamo cresciuti.
Ciascuno di noi può osservare sullo schermo televisivo gli orrori del terrorismo, mentre quelli in cui crescono i bambini vengono raramente mostrati dai media, poiché noi tutti abbiamo imparato già nella prima infanzia a reprimere il dolore, a far finta di non vedere la verità e a negare l’assoluta impotenza di un bambino umiliato. Noi non veniamo al mondo - come si credeva un tempo - con un cervello già completamente formato; esso si sviluppa solo nei primi anni di vita. Ciò che il bambino ha vissuto in quel periodo lascia spesso dietro di sé tracce sia del bene sia del male che durano tutta la vita. Il nostro cervello conserva infatti la completa memoria fisica ed emotiva, anche se non quella mentale, di ciò che ci è successo.
SECONDO, SOCCORRERE
Senza la presenza di un Testimone soccorrevole il bambino impara a esaltare quello che ha incontrato: crudeltà, brutalità, ipocrisia e ignoranza. Ogni bambino infatti impara solo dall’imitazione e non dalle belle parole che si cerca di propinargli. Se, più tardi, quel bambino cresciuto senza la presenza di un Testimone soccorrevole arriverà a posizioni di potere, potrà essere uno sterminatore, un serial killer, un boss mafioso o un dittatore, e infliggerà allora a molte altre persone, o addirittura a intere popolazioni, lo stesso terrore che ha sperimentato nella propria infanzia sulla propria pelle. Se poi non ha un potere diretto, aiuterà i potenti a esercitare il terrore.
Purtroppo la maggioranza di noi non vuol vedere queste correlazioni. Così rimane ferma alla strategia dell’infanzia, alla negazione. Ma il proliferare della cieca violenza in ogni parte del mondo dimostra che non possiamo proseguire in un simile atteggiamento, che non possiamo più permetterci di essere ciechi.
Dobbiamo uscire dal sistema tradizionale che si orientava sulla punizione e la vendetta, che voleva combattere il male presente nell’altro. Ovviamente non dobbiamo trascurare la nostra protezione. Ma non ci resta quasi altra alternativa: occorre andare alla ricerca di altre forme di comunicazione, diverse da quelle apprese nella nostra educazione, e provare a metterle in pratica, forme di comunicazione basate sul rispetto, che non portino a nuove umiliazioni. È ormai tempo di destarsi da un lungo torpore.
Da adulti non corriamo più il pericolo di morte che nell’infanzia ha realmente minacciato molti di noi e che ci faceva agghiacciare dalla paura. Solo da bambini eravamo costretti a negare per sopravvivere. Da adulti possiamo imparare a non ignorare più il sapere del nostro corpo. Può infatti rivelarsi pericoloso non cogliere i veri moventi del nostro agire e non riuscire a comprenderli. Intanto la conoscenza della nostra storia ci può liberare dall’impiego di strategie inservibili e dalla cecità rispetto alle nostre emozioni. Oggi abbiamo la possibilità di guardarci intorno, di apprendere dall’esperienza e di cercare nuove soluzioni creative per i conflitti.
L’umiliazione dell’altro non produrrà mai una vera e durevole soluzione, ma sia nell’educazione che in politica creerà nuovi focolai di violenza. Anche se da bambini non abbiamo potuto apprendere ad aver fiducia in una comunicazione rispettosa, non è mai troppo tardi per impararla. Questo processo di apprendimento mi pare una significativa e promettente alternativa all’autoinganno fondato sull’esercizio del potere.
(...) Se la Bibbia e il Corano avessero proibito a chiare lettere di picchiare i bambini potremmo guardare al futuro con maggiori speranze. Le autorità spirituali che ci fanno da guida si rifiutano purtroppo pervicacemente di accogliere nella loro coscienza nuove informazioni di vitale importanza sui danni che le percosse possono produrre al cervello infantile. Non pensano minimamente a impegnarsi affinché i bambini vengano trattati con rispetto e a favore di un migliore futuro dell’umanità, perché tutti quanti, come bambini completamente terrorizzati, e come un tempo Martin Lutero, Calvino e anche numerosi filosofi, badano soprattutto a proteggere e a onorare l’immagine immacolata della propria madre.
Si tratta dell’immagine idealizzata della madre, che si vuol credere avesse agito bene, quando castigava senza pietà i propri figli. Mentre si scrivono tante belle parole sull’amore, ci si rifiuta di vedere come la capacità di amare venga distrutta quando si è ancora bambini.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
ALICE MILLER (Wikipedia)
ALICE MILLER (Sito)
SCHEDA EDITORIALE DEL LIBRO (Bollati Boringhieri)
il contenuto
Marilyn Monroe, Jean Seberg, Dalila: tre donne bellissime, celebrate dive dello spettacolo che al culmine del successo hanno preferito la morte. Alice Miller, scrutando l’enigma di questi suicidi, vi scorge la sofferenza del bambino che ha visto prematuramente soffocata la propria vitalità. Niente è infatti più mortifero del mettere a tacere i propri sentimenti profondi contro i maltrattamenti subiti da piccoli. Perché si può forse sopravvivere a un’infanzia di umiliazioni, ma non si può tornare a vivere davvero, riprendendosi l’esistenza, se non dopo aver riconosciuto la rabbia e il dolore di un tempo.
Indagando su infanzie celebri o meno celebri, l’autrice ripercorre le tappe degli «omicidi dell’anima» perpetrati su bambini - sempre innocenti e inermi - che saranno poi destinati a riprodurre sofferenze e violenze: scampati ai tormenti subiti, si tramuteranno a loro volta in carnefici. Ed è proprio nel circolo vizioso della violenza, prima patita e poi rimessa in atto in età adulta, che Alice Miller indica la radice del male, dai fatti di cronaca quotidiana, fino alle guerre e agli eccidi di massa.
Indice
Prefazione: Dire la verità ai bambini
A. Il sé in esilio
Depressione - la coazione all’autoinganno. L’inganno uccide l’amore. La mia cara mammina.
B. Da vittima a distruttore
Come sorge il male nel mondo. Cos’è l’odio. Alle origini dell’orrore. Follia privata. Quando finalmente non ci saranno più soldati ideali? Sadismo puro. Il caso di Jessica.
C. Terapia - Risolvere le conseguenze dei maltrattamenti precoci
La strada più lunga ovvero cosa dobbiamo aspettarci da una psicoterapia. L’indignazione come strumento terapeutico. Informazioni fuorvianti. Possiamo rintracciare le cause della nostra sofferenza. Come trovare un buon terapeuta?
D. Risposte alle lettere dei lettori
E. Interviste
Il bambino sensibile. Al di là della filosofia. La violenza uccide l’amore: botte, quarto comandamento e repressione dei sentimenti più autentici
D. Dal diario di una madre
l’autore
Alice Miller, psicologa zurighese, da circa trent’anni ha abbandonato la psicoterapia per dedicarsi alla scrittura di saggi sulla realtà infantile e sulle conseguenze di un’educazione violenta, repressiva o anaffettiva.
Tra le sue opere ricordiamo per Bollati Boringhieri: Il dramma del bambino dotato (1979), La persecuzione del bambino e le radici della violenza (1980), Il bambino inascoltato (1981), rivelatisi veri bestseller in tutto il mondo; tra i suoi libri più recenti: L’infanzia rimossa (1988), La fiducia tradita (1990), Le vie della vita (1998) per Garzanti; Il risveglio di Eva (2001) e La rivolta del corpo (2004) per Cortina.
Le parole terribili che si dicono ai bambini
di Gianni Agostinelli (DoppioZero, 04.06.2017)
Giorni fa ero con mia figlia al supermercato e tra le file di scaffali abbiamo incontrato dei conoscenti. Marito e moglie sui sessantacinque anni. La signora si è chinata sorridente verso la bambina e le ha domandato: “Ti vende il babbo? Ti vuole vendere? Ti lascia qui?”. Senza ottenere risposta ha continuato a sorriderle, fissandola, per alcuni secondi. Poi si è tirata su, ha guardato me e ha detto “bellina che è”. Un attimo dopo non c’erano già più.
A quel punto ho guardato la piccola e l’ho vista immobile, gli occhi spalancati sulla schiena di quei due e muta. Ha aperto bocca solo per infilarci il dito. Ha ricambiato il mio sguardo per capire se fosse tutto a posto. Le ho detto qualcosa per tranquillizzarla, poi abbiamo ripreso velocemente il giro.
Ancora prima di arrivare alla cassa mi sono messo a pensare a tutte le cose orribili che si dicono ai bambini senza avere alcuna intenzione di farli soffrire, solo “per gioco”.
Come sempre, tutto si riduce alla scelte delle parole.
Credere che i bambini non ascoltino è stupido, e credere che non capiscano lo è ancora di più.
Lo scoprii per la prima volta qualche anno fa, quando non ero padre ed ero a fine turno, in libreria. Avevo un foglio arricciato sotto la mano sinistra, la destra sulla tastiera del computer e gli occhi sul monitor. Mi si avvicinò un bambino chiedendomi: “Cosa fai?”
Risposi stancamente “Carico le bolle”.
“Bello, allora sei un caricatore”.
Sorrisi. Fu molto istruttivo.
Ma, almeno in quello che vedo, le parole, e molte volte anche i gesti, nel pensare comune valgono zero quando si ha a che fare con loro. Perché, credo sia questo il ragionamento che ci nascondiamo, i bambini, appunto, sono bambini: non capiscono. E poi, che male possono fare le parole a un bambino? Stavamo solo scherzando. Più o meno ci si giustifica come fanno loro con noi quando sanno di aver fatto qualcosa di sbagliato. Il bambino lo si percepisce come un essere imperfetto, come qualcosa di incompiuto e col quale crediamo di poterci permettere tutto.
Mr. Brainwash.
Non che ci si debba mettere a fare l’analisi di ogni frase con cui gli si rivolgono gli adulti, ma ad ascoltarle per quel che sono, cioè parole con un significato preciso, alcune fanno proprio paura.
Limitandomi a parlare dell’esperienza diretta ho cercato di ricordare cose che erano state dette da conoscenti o estranei a mia figlia negli ultimi tempi.
Lei ha 3 anni, quindi è ancora piccola per riconoscere lo “scherzo” degli adulti.
E soprattutto per dubitare della loro parola.
Mi è tornata in mente così quella volte che l’hanno presa in braccio senza il suo volere. Si tratta di un’operazione accessibile agli anziani, come in quel caso, e se il bambino non supera i 15-20 chilogrammi l’anziano può permettersi di imbrigliarlo a sé senza particolare sforzo, per poi cullarlo e oscillarne il corpo mentre gli sussurra: “Ti butto di sotto, ora ti butto di sotto. Vuoi che ti lasci cadere? Ti lascio cadere? No, non ti lascio cadere.
Se fai la brava”.
Ho scoperto in seguito che certe frasi le utilizzano tutti, non soltanto gli anziani, come pensavo all’inizio. Dimestichezza con i bambini la si acquisisce soltanto frequentandoli. Il fatto che non sia obbligatorio farlo non implica però che qualsiasi metodo scelto vada bene. Vale così anche per i cani, se può essere d’aiuto.
Però, sembra strano, sono tutte parole volte a “proteggere” la creatura, a tenerla a sé. Con la conseguenza di farle conoscere la paura e il pericolo nel modo più traumatico possibile.
O così, o morte.
Spesso sono parole che si usano anche per accontentare le comodità dell’adulto che deve badare al bambino. Quindi è frequente sentir dire: “Lo vedi quello?” (solitamente l’identikit è di un adulto, sesso maschile, dall’aspetto poco rassicurante, agli occhi di chi parla). “Quello lì, se ti alzi dalla sedia, ti porta via. Quindi non ti muovere, hai capito?”
E l’estraneo indicato che vede gli occhi del bambino incrociare i suoi, ma senza aver colto l’ammonimento dell’adulto, non fa altro che scoprire i denti verso la creatura.
Per sorridere.
“Eccolo eh, ti ha vista. Fai la brava.”
Ci rivolgiamo ai bambini pensandoli come esseri “anormali”. Però siamo noi ad avere il controllo, finché restano bambini non ci sembrano pericolosi e quando non sono più innocui si possono regolare con maniere più decise. Specie quando non riescono in qualcosa per noi semplice. Mai capitato di sentirli apostrofati con un “vedi che non capisci?”.
Forse, mi sono detto, dipende dalla nostra percezione da adulti. E la percezione che possiamo avere di un estraneo che vediamo la prima volta è legata all’aspetto fisico. Sono trattamenti che democraticamente si riservano a tutti, figurarsi ai bambini di cui siamo certi di essere superiori in ogni aspetto. Non arrivano al metro, sono più bassi. Si rovesciano l’aranciata addosso, piangono in pubblico. Impossibile prenderli sul serio.
L’infanzia violata: 168 milioni di minori costretti a lavorare, ogni 7 secondi una bambina si sposa
L’ultimo rapporto di Save the Children: il mondo ha dimenticato l’età dell’innocenza
di Francesca Paci (La Stampa, 01/06/2017)
Majerah ha diciassette anni e dal 2017 è coniugata con un uomo che ne ha ventisette. Quando il padre concordò il suo futuro lei frequentava l’ottavo grado della scuola dove era un’alunna modello e sognava di diventare un dottore capace di aiutare le donne del villaggio precluse dall’assistenza sanitaria. Adesso il marito, un negoziante della periferia di Kabul, vuole risposarsi liberandosi di lei perché l’accusa di non riuscire a diventare mamma e, picchiandola come ha già fatto più volte, le ha dato due mesi di tempo prima di ripudiarla. «Non ho mai chiesto ai miei genitori di comprarmi vestiti o portarmi al parco, tutto quello che volevo era studiare e diventare un giorno dottore» racconta la ragazzina che non c’è più.
Majerah è una delle migliaia di bambine che ogni giorno, a getto continuo, vengono dare in sposa a pretendenti dell’età dei padri o talvolta dei nonni: una ogni 7 secondi, secondo l’ultimo rapporto di Save the Children «Infanzia rubata» pubblicato proprio in queste ore.
Senza istruzione, sfruttati, uccisi
Majerah e le altre sono un tassello del puzzle composto da «Infanzia rubata», che compone il quadro di un mondo a tinte foschissime: un bambino su 6 non ha accesso all’educazione (263 milioni non vanno a scuola), 168 milioni sono coinvolti nel lavoro minorile, oltre 16 mila minori di 5 anni muoiono ogni giorno per malattie facilmente curabili come polmonite o diarrea, 156 milioni hanno problemi di crescita legati alla malnutrizione. E poi ce ne sono 28 milioni in fuga da guerre e persecuzioni (la Siria ma non solo), 75 mila uccisi violentemente nel solo 2015 (più di 200 al giorno), un esercito di piccolissime spose che ogni 2 secondi mettono al mondo un neonato (15 milioni ogni anno).
Maglia nera dell’infanzia rubata Niger, poi Angola e Mali
Nell’indice globale dell’infanzia negata, il primo del genere, Save the Children stila la classifica dei peggiori paesi in cui essere bambini: al primo posto c’è il Niger seguito da Angola, Mali, Repubblica Centrafricana, Somalia. La maglia rosa va alla classifica c’è la Norvegia, società modello. L’Italia è in buona posizione, migliore della Germania e del Belgio ma peggiore di Olanda, Svezia, Portogallo, Irlanda e Islanda.
“Protezione ed educazione per tutti entro il 2030”
«È inaccettabile che nel 2017 milioni di bambini continuino ad essere privati della propria infanzia e del loro diritto di essere al sicuro» dice il Direttore Generale di Save the Children Valerio Neri. Qualcosa è stato fatto, ma non basta: «Nel 2015, i leader mondiali si sono impegnati a garantire a tutti i bambini, entro il 2030, il diritto alla salute, alla protezione e all’educazione, a prescindere da chi siano e dove vivano. Si tratta indubbiamente di un obiettivo molto ambizioso ma che deve essere raggiunto, i governi dovranno impegnarsi per assicurare a tutti i bambini l’infanzia che meritano».
Le spose bambine
Majerah ha raggiunto una consapevolezza pagata con la propria vita: «Mi ero sempre concentrata sugli studi indipendentemente dalle difficoltà quotidiane, le mie sorelle sono tutte più piccole di me, non ho mai avuto la possibilità di godermi l’infanzia sono stata forzata troppo presto a entrare nell’età adulta». Quindici milioni di ragazze l’anno si maritano come lei quando sono ancora sui banchi di scuola. I giochi - quando c’erano - s’interrompono senza appello, i doveri si moltiplicano nell’assenza totale dei diritti, l’orizzonte si frantuma sulle pareti di una casa-prigione. Le spose bambine sono il paradigma di una società che non si limita a perdere l’età dell’innocenza ma la violenta. Lo sappiamo, lo leggiamo, avviene drammaticamente in costante diretta alla luce del sole.
Intervista a Paolo Perticari
LA CATENA INVISIBILE DEL MALE
realizzata da Barbara Bertoncin *
Paolo Perticari insegna Pedagogia generale e Filosofia della formazione all’Università degli Studi di Bergamo. Il libro di cui si parla nell’intervista è Pedagogia Nera. Fonti storiche dell’educazione civile (a cura di Paolo Perticari) , Katharina Rutschky, Mimesis, 2015.
La prima domanda è: che cosa significa "pedagogia nera”?
La pedagogia nera è una realtà piuttosto subdola, vischiosa, di cui non si colgono bene i contorni. Di sicuro non si sta parlando di pedagogia come di solito la si intende, cioè come forma di intervento positivo, costruttivo. Si sta parlando di vita, io credo, e nello specifico di ciò che distrugge la vita, cioè di processi distruttivi e a volte anche autodistruttivi. Si parla di inconscio e di rimosso, di nevrosi e di psicosi, di neuroni e di coazioni a ripetere, atti malvagi. Parliamo di violenza, di un male indecifrabile, di cui si ha però la possibilità di vedere gli effetti. Purtroppo quando si capisce che cos’è, è già molto tardi: c’è infatti il rischio che questo male si sia installato in un organismo sano molto in profondità, che può essere in una persona, ma può anche essere una realtà sociale, come la famiglia o una collettività. Le conseguenze di questo male indecifrabile sono gravi sempre per la vita umana e qualche volta diventano incurabili.
Quando parliamo di pedagogia nera parliamo di bambini, e della violenza loro inferta, che può condizionare pesantemente la loro vita. Non è detto che un bambino che subisce la pedagogia nera diventi una persona con disagio mentale, disturbata; proprio in virtù di questa esperienza, potrebbe essersi fatto la pelle più dura e quindi diventare una persona che ottiene dei successi. E tuttavia, una volta che a un bambino è stata spezzata l’anima, la personalità, il suo sé nel profondo, questo tende a lasciare una traccia che prima o poi si manifesta, magari anche molti anni dopo.
Dunque la pedagogia nera è questa realtà di violenza e di abuso sui bambini che avviene perlopiù nei contesti familiari, inter-parentali, quando le porte di casa si chiudono. Può succedere che questa pedagogia venga esercitata anche fuori, nella scuola, nell’extra-scuola, ma in realtà la zona dell’abuso infantile riguarda la rete parentale. Non stiamo parlando solo di violenza fisica...
No, non stiamo parlando solo di violenza fisica. Quest’ultima però non va sottovalutata, perché si tende a pensare sia tramontata, invece non è così. Una banale sculacciata in fin dei conti può essere il primo passo verso il male.
Il libro di Katharina Rutschky è una summa di citazioni, anche nel senso beniaminiano del termine. Rutschky propone brani tratti da manuali, testi di teoria pedagogica, breviari, libri di esperienza, strumenti educazionali, scritti nell’arco di un periodo che va dal Diciottesimo secolo fino ai primi anni del Ventesimo secolo.
Da tutti questi testi di educazione emerge una forma di male su cui non si è ancora adeguatamente riflettuto dentro la cosiddetta Europa borghese e civile.
Ci sono anche testi progressisti, ma poterli leggere tutti insieme in questa chiave ci consente di intravedere una forma di orrore vero e proprio.
La pedagogia nera è una forma mentale, estetica, civile, politica, teologica. È un tema destinato a non passare facilmente. Esso implica la trasformazione continua del rapporto genitori-figli, ma anche insegnanti-studenti, molto lontana, distante dallo stereotipo dell’infanzia come il periodo più felice, gioioso e spensierato. Fin da subito, anche le relazioni affettivamente meglio strutturate si ammalano di questa cifra del potere sovrano, del comando supremo, dell’obbedienza assoluta. Un’obbedienza da ottenere appunto attraverso la forza, che un corpo più massiccio, più grande impone su un altro corpo decisamente più indifeso, più piccolo, con la violenza sia fisica sia psicologica. Ecco, la pedagogia nera di Katharina Rutschky dà una... [ continua ] **
* Paolo Perticari insegna Pedagogia generale e Filosofia della formazione all’Università di Bergamo
L’infanzia negata
In Italia 56 bambini vivono dietro le sbarre con le madri nella totale indifferenza del Parlamento
di Silvia D’Onghia (il Fatto, 09.09.2010)
“Vidi una bimba che cercava di mettersi in tasca la neve. Le chiesi: ‘Cosa stai facendo?’. Mi rispose: ‘La porto alla mamma’”. Leda Colombini è la presidente dell’associazione “A Roma, insieme”, che dal settembre del 1994 lavora nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia. Al fianco delle detenute madri e dei loro bambini. Sì, perché non tutti sanno che, nelle carceri italiane, vivono anche 56 bambini, vittime della detenzione delle loro mamme. La maggior parte delle quali straniere, 31 di loro con sentenza definitiva.
I dati li ha forniti ieri, in commissione Giustizia alla Camera, il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta. E proprio ieri, nella sala Santa Rita della Capitale, è stata inaugurata la mostra “Che ci faccio io qui?”, un reportage realizzato da cinque fotografi di fama internazionale, nato dalla collaborazione tra l’agenzia fotografica “Contrasto” e l’associazione “A Roma, insieme”. “Ogni sabato portiamo i bambini fuori dal carcere - racconta Leda Colombini -. Li portiamo al mare, in montagna, e tutte le volte vorrei che il mondo intero fosse lì per assistere allo stupore di quei bambini”. Che invece vivono reclusi. Il loro unico orizzonte è il muro, quello della cella, quello del corridoio, quello di recinzione. “Tutto questo genera enormi problemi - prosegue Colombini -. Il primo è alla vista: questi piccoli sono privati degli spazi, degli orizzonti, delle altezze, del movimento della città. Sono tutti stimoli necessari a un’adeguata crescita del senso della vista. Per non parlare del mondo delle relazioni. Le uniche persone con cui sono a contatto per i primi tre anni di vita sono le madri, il personale penitenziario e gli altri bambini. Il loro mondo finisce qui. Chi li ripaga di queste carenze? Che cosa si produce al livello della mente?”.
Da un punto di vista materiale ai bambini non manca nulla
All’inizio della loro attività, con una battaglia durata un anno, i volontari dell’associazione hanno ottenuto che i figli delle recluse frequentassero asili comunali esterni al penitenziario. E questo significa che almeno una parte della giornata trascorre senza un muro all’orizzonte.
Le celle si aprono alle 8 del mattino, per richiudersi alle 8 di sera. I bimbi possono giocare (anche se non tutti i giocattoli possono essere portati in carcere) e, d’estate, hanno “addir ittura” la possibilità di correre in giardino. Quasi un lusso. “Festeggiamo tutti i compleanni - racconta Colombini -, le madri, il personale, i volontari si ritrovano tutti a spegnere le candeline assieme ai bambini. Cerchiamo di rendere speciale ogni occasione”. Ma è una goccia in un mare che non dovrebbe esistere.
Le proposte inascoltate
“SONO tre legislature che avanziamo proposte perché si ottenga che nessun bambino varchi più la soglia del carcere - spiega Colombini, e la sua voce pacata si increspa di rabbia - Tutti i ministri si sono impegnati, ma la soluzione non è mai arrivata. Ora abbiamo presentato cinque testi di legge: due al Senato, tre alla Camera, dove si è arrivati a un testo unificato attualmente in discussione in commissione Giustizia”.
La speranza, però, è ridotta al lumicino: “Non a caso il problema più grande riguarda le straniere. La legge Bossi-Fini prevede che, una volta scontata la pena, l’espulsione sia automatica. Una volta, per esempio, una donna è stata rispedita in Nigeria mentre il figlio era al nido. Le italiane che hanno una famiglia e un tetto sulle spalle, presentano le condizioni per i domiciliari o per l’affidamento in prova. Le straniere non ottengono neanche i permessi premio”. Non solo: quando i bimbi compiono i tre anni, vengono separati dalle madri e finiscono in affidamento. Chi li ripagherà di tutto questo?
«I seminaristi fuggono la sessualità»
intervista al teologo Eugen Drewermann,
a cura di Nathalie Versieux
in “Le Temps” del 25 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
La riunione annuale dei vescovi tedeschi, che si svolge nel sud del paese da lunedì, avrebbe dovuto essere dedicata all’Afghanistan e all’invecchiamento della popolazione. Ma i prelati non hanno potuto far a meno di affrontare l’argomento che fa scandalo in Germania, dopo che, alla fine di gennaio, sono stati resi noti molti atti di pedofilia avvenuti all’interno di istituti cattolici famosi negli anni ’70 e ’80. Eugen Drewermann, teologo, psicoterapeuta ed ex prete, ritiene che la morale sessuale rigida predicata dalla Chiesa sia in parte responsabile degli abusi commessi.
Il presidente della Conferenza episcopale tedesca Robert Zollitsch ha chiesto perdono alle vittime. È l’inizio di una rimessa in discussione della Chiesa?
La Chiesa cattolica ha l’immagine di una istituzione sacra. Tutti gli errori commessi al suo interno sono messi in conto a persone fallibili, mai all’istituzione stessa. Questa distinzione tra persone e istituzione non autorizza la minima rimessa in discussione. La Chiesa è un apparato monolitico, con una forte gerarchia che deve incanalare la grazia di Dio dall’alto verso il basso, dal Cielo verso la Terra. In questo sistema, non c’è posto per una riflessione sulla fallibilità della struttura, eventualmente responsabile delle sofferenze sopportate dalle vittime, dai bambini della cui fiducia hanno abusato dei rappresentanti di Dio in Terra.
Lei vede un rapporto diretto tra la morale sessuale predicata dalla Chiesa e le violenze sessuali all’interno degli istituti scolastici cattolici?
La morale sessuale cattolica è indubitabilmente rigida e repressiva. Per un laico, è appena concepibile. Ma, dal punto di vista teologico, ogni emozione di ordine sessuale è considerata peccato grave quando ha luogo al di fuori del matrimonio. Questa concezione della sessualità è inserita nell’insegnamento ricevuto dagli adolescenti negli istituti cattolici. In conseguenza di ciò, si mettono in atto dei meccanismi di resistenza particolarmente forti ad uno sviluppo naturale della sessualità. La donna è intoccabile, sacra. Non c’è apprendimento naturale di un approccio al sesso femminile. La proibizione che circonda la donna può portare a delle fasi di omosessualità. Per un periodo abbastanza lungo, il contatto tra ragazzi maschi sembra in effetti lecito. La sessualità nascente, con il suo carico di pulsioni e di tentazioni, genera paura e senso di colpa. Non è più un segreto che molti uomini scelgano il mestiere di prete per sfuggire a questi pericoli.
Per lei, allora, la scelta del presbiterato sarebbe un modo di fuggire la propria sessualità?
Sì. Fuggono la sessualità che non hanno avuto il diritto di avere e questa fuga è perfino sacralizzata. Ciò che è particolarmente fatale in tutto ciò è che questo comportamento di difesa viene interpretato dalla Chiesa come un richiamo di Dio. Un giovane che si fa ordinare prete a 25 o 28 anni è condannato a restare per tutta la vita a questo stadio del suo sviluppo sessuale. La formazione dispensata nei seminari non contribuisce in niente alla maturità; tutti questi argomenti sono totalmente tabù. Coloro che hanno abusato di bambini non hanno scelto di diventare preti con l’intenzione di commettere un giorno tali crimini. Loro stessi sono per metà bambini!