Cadendo negli studi recenti l’associazione fra capitalismo e protestantesimo fatta da Max Weber, ora un saggio trova le radici dell’imprenditoria moderna addirittura nel francescanesimo
di FLAVIO FELICE (Avvenire, 21.06.2008)
In un recente saggio Rodney Stark sostiene che la tesi secondo la quale il capitalismo sarebbe nato nel mondo protestante è stata da tempo abbandonata dagli storici del pensiero economico; anzi, va molto oltre le critiche correnti che anche in Italia molti studiosi rivolgono alle tesi di Max Weber. Da una parte, sostiene che il cattolicesimo è alle origini non solo del capitalismo, ma anche della scienza e della nozione di libertà personale, e dall’altra, semmai il protestantesimo avrebbe danneggiato l’economia moderna nascente e ne avrebbe ritardato il progresso. Se le analisi di Stark rivoluzionano le spiegazioni più comuni su un Medioevo come periodo di decadenza o di stasi, la ricerca di Oreste Bazzichi: Oltre l’usura. L’etica economica della Scuola francescana, dimostra, documenti alla mano, che non è stata la contrapposizione tra la società laica e quella religiosa, ma la teologia cristiana, che ha aperto la strada alla libertà, alle innovazioni intellettuali, antropologiche, economiche, politiche e sociali.
È stata una felice intuizione di Lord Acton quella di ascrivere al cristianesimo il merito di aver introdotto nella storia quel dualismo tra stato e Chiesa che costituì un’autentica garanzia di libertà, che si manifestò in modo particolare durante il Medioevo. Nel suo più recente lavoro, il Bazzichi analizza l’ampia serie di fonti della Scuola francescana medievale e tardo-medievale, sottolineandone la modernità della visione economica: circolazione e produttività del denaro, regolamenta- zione del mercato, legittimità della mercatura, investimento sociale della ricchezza, accumulazione produttiva. La figura del mercante operoso è valutata positivamente nella misura in cui contribuisce alla crescita del bene comune cittadino, mentre la ricchezza o l’accumulazione infruttuosa - le rendite parassitarie - è sterile e negativa.
Ciò comporta che i mercanti, secondo il frate francescano Pietro di Giovanni Olivi, provvedono «indiscutibili vantaggi e cose necessarie che provengono alla comunità dalle azioni e dal mestiere del mercante e, insieme con ciò, dal peso delle fatiche, dai rischi, spese, inene dustrie e dalle attenzioni sollecite e insonni che tale ufficio esige». A questo proposito, c’è stato chi - da De Roover, Schumpeter, Rothbard, Chafuen a Antiseri - ha inteso leggere negli scritti del frate provenzale il tentativo di una embrionale descrizione analitica dei processi di mercato che, a partire da una teoria soggettiva del valore che anticipa di circa seicento anni la rivoluzione marginalista, lo condurrà ad affermare che il prezzo corrente (di mercato) corrisponderebbe al ’bene comune’.
È un fatto che l’Olivi condanna il prezzo di monopolio e le esazioni dei prezzi effettuate approfittando di eventuali stati di necessità e lega la nozione di ’prezzo giusto’
all’utilità oggettiva: virtuositas,
alla scarsità del bene: raritas
e alla sua desiderabilità, ossia all’utilità soggettiva: complacibilitas,
oltre che ad altri elementi riconducibili al costo di produzione.
Non mancano coloro che hanno evidenziato il paradosso: il francescano distingue il necessario dal superfluo, ma valorizza il denaro fruttuoso; apre un acceso dibattito sulla povertà assoluta di Cristo e gli Apostoli, ma considera i mercanti onesti ’esperti di ricchezza’ e ’benefattori’ del benessere della comunità; sottolinea la distinzione del credito cristiano, in quanto orientato alla produzione, dall’usura che sfrutta e uccide i bisognosi; differenzia il concetto tra ’usura’ e ’interesse’, dove l’interesse diventa un profitto moderato ma necessario, e il prezzo di mercato diventa la base di riferimento per il ’giusto prezzo’ del prestito; condanna il prestito usurario (esoso), ma fonda la ’reciprocità economica solidale’ con la geniale intuizione dei Monti di Pietà, promuovendo la circolazione del denaro; chiarisce la differenza fra lusso e giusto uso dei beni, nell’orizzonte del bene comune, che richiede non una mera enunciazione di intenzioni, ma una organizzazione politicosociale che lo sostenga e lo renda concretamente possibile. Insomma, i francescani, fautori della povertà volontaria, diventano, paradossalmente, i ’teorici’ dell’ordine di mercato. Merito di Oreste Bazzichi è stato di avere sottolineato il nesso tra società civile e sistema economico, evidenziando come il collegamento tra competizione e società civile non sia stata una degenerazione della cultura occidentale post-fordista, quanto un elemento imprescindibile della tradizione e della cultura romano-cristiana.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Chiesa e libero mercato.
Il capitalismo l’ha inventato san Francesco
Nuovi studi gettano luce sulle origini della moderna economia liberista. E le fanno risalire ai teologi francescani del Medioevo. Ma ai vertici della Chiesa le diffidenze restano forti
di Sandro Magister *
ROMA - Che Francesco d’Assisi sia il santo giusto per anticapitalisti e no global lo sostengono persino Toni Negri e Michael Hardt nel loro libro "Impero", la bibbia della contestazione mondiale.
Ma la realtà storica dice l’opposto. La moderna teoria del libero mercato nacque proprio dai primi discepoli di san Francesco, dai teologi francescani che più esaltavano il voto di povertà.
L’ultima scoperta degli storici del Medioevo è che persino il gioco d’azzardo, nelle analisi dei teologi francescani, fu volto in bene. E aprì la strada alle moderne concezioni economiche del rischio.
Lo studioso che ha compiuto questa scoperta e l’ha esposta in un libro documentatissimo è Giovanni Ceccarelli, professore alle università di Venezia e Padova, a sua volta discepolo di un altro storico dell’economia medievale, Giacomo Todeschini, dell’università di Trieste.
Nel 2002, l’editrice il Mulino ha pubblicato di Todeschini un libro dal titolo "I mercanti e il tempio". Nel quale egli mostra le fortissime radici teologiche ed ecclesiologiche delle moderne teorie e pratiche capitaliste. Fin dal Medioevo, molto prima che arrivasse Calvino.
E nell’estate di quest’anno ecco ancora il Mulino pubblicare di Ceccarelli "Il gioco e il peccato". Dove a segnare il passaggio dalla condanna totale del gioco d’azzardo a una sua ridefinizione come contratto a rischio sono proprio i teologi francescani dal Duecento in poi.
Le sorprese sono forti. È la riflessione francescana sulla povertà volontaria a riconoscere nel possesso materiale dei beni un desiderio naturale e universale dell’uomo.
È dal loro volontarismo e dal primato dato all’individuo, sulle orme di sant’Agostino, che i francescani ricavano una teoria economica tutta centrata sul soggetto contraente e sui contratti intersoggettivi.
Sono soprattutto i francescani a precorrere la Salamanca del Cinquecento: dove teologi sia francescani che domenicani che gesuiti creano una vera e propria "scuola" del capitalismo in ascesa.
Sulla scuola economica dei teologi di Salamanca ha scritto un saggio di grande interesse Alejandro A. Chafuen, economista argentino che vive negli Stati Uniti, dove presiede la Atlas Research Foundation.
Mentre sulle teorie economiche dei teologi francescani del tardo Medioevo è uscito quest’anno un libro di Oreste Bazzichi, lui stesso studioso di teologia e della dottrina sociale cristiana.
Curiosamente, però, questo liberismo economico ’ante litteram’ dei teologi medievali e del Cinquecento è oggi pochissimo valorizzato in campo ecclesiastico.
In larghi strati della Chiesa cattolica, vertici compresi, il capitalismo continua ad avere cattiva fama. È giudicato di per sé cattivo, selvaggio, oltre che "di spirito protestante". Nell’enciclica "Centesimus Annus" del 1991 Giovanni Paolo II ne riconosce i meriti. Ma in una sua intervista a Jas Gawronski del 1993 il papa non esita a spiegarli così: "Se il capitalismo odierno è migliorato, è in buona parte merito delle buone cose realizzate dal comunismo: la lotta contro la disoccupazione, la preoccupazione per i poveri. Il capitalismo invece è individualista".
Ma ecco qui di seguito una presentazione del libro di Bazzichi fatta da uno studioso cattolico che è uno dei più appassionati sostenitori dell’incontro tra liberismo e cattolicesimo. È apparsa il 7 agosto 2003 su "Avvenire", il quotidiano della Conferenza episcopale italiana: - PER PROSEGUIRE LA LETTURA, CLICCARE SUL ROSSO.
Weber, l’infanzia liberale del leader carismatico
Nasceva 150 anni fa il sociologo tedesco che definì alcuni concetti della politica ancora oggi cruciali
L’attualità della sua concezione religiosa
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 04.05.2014)
«La politica come professione», «il capo carismatico», «l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità» , «L’etica protestante e lo spirito del capitalismo», «la razionalità come essenza dell’Occidente» . A chi non capita oggi, in una dotta conversazione anche tra amici, di usare queste espressioni, sicuro di trovare approvazione? E’ l’eredità intellettuale di uno dei «classici» della scienza politica, della sociologia, della storia del secolo passato - Max Weber. Di lui si ricorda in questi giorni il centocinquantesimo della nascita. Il rito degli anniversari si presta a due operazioni. O è un ripasso di citazioni. O offre l’occasione di rivisitare qualche punto critico per verificarne la forza analitica, ancora oggi.
Cominciamo dalla politica. Weber coltiva un realismo politico che non lascia spazio a quella enfasi sulla «società civile», sui concetti di «cittadinanza» e di «partecipazione democratica» che è caratteristica del nostro tempo. La democrazia per lui è sostanzialmente un meccanismo di governo di interessi che richiedono una guida, un leader (ovvero con il termine tedesco storico, che alle nostre orecchie suona sinistro, un Führer). Il leader naturalmente deve essere espresso da meccanismi elettivi: «Un Parlamento forte e partiti parlamentari responsabili devono fungere da luoghi di selezione e di prova dei capi delle moltitudini come reggitori dello Stato». Ma il capo è tale soltanto se possiede il «carisma», se possiede doti di attrazione, consenso e «seduzione di massa». Si deve proprio a Weber l’utilizzo definitivamente positivo di questo concetto in politica, anche se ha ambigue componenti di tipo «demagogico».
E’ facile vederne oggi il potenziale pericoloso (la Führerdemokratie, che alcuni studiosi italiani traducono con imbarazzo oscillando tra «democrazia autoritaria» o «democrazia guidata»). Non c’è dubbio alcuno però che Weber, convinto liberale, non coltivasse alcuna tendenza autoritaria. Pensava ad una sorta di democrazia presidenziale che, lui vivente, si sarebbe potuto instaurare in Germania dopo la prima guerra mondiale. La scomparsa prematura (1920) di Weber gli ha impedito di verificare se la sua ipotesi avesse contribuito a portare alla crisi la democrazia tedesca, per l’abuso delle competenze presidenziali della Costituzione weimariana, aprendo le porte al Führer per antonomasia.
A questa problematica è dedicato il saggio La politica come professione. Solidamente inquadrate in un’etica politica (distinta tra convinzione e responsabilità), ancorate ad una robusta idea di professione/vocazione (di lontana matrice religiosa) le tesi weberiane sono esenti da ogni sospetto di tendenze fascistoidi o autoritarie o populiste (come diciamo noi oggi). Si può obiettare che la lezione weberiana rimane sostanzialmente di ordine etico, senza che abbia trovato una chiara formula politico-istituzionale. Ma come negare che di fatto oggi le democrazie più efficienti sono quelle che hanno esecutivi guidati da personalità che contano su forti competenze istituzionali e posseggono capacità decisionali? Che godono di un consenso di massa che utilizza anche spregiudicatamente il sistema mediatico (ignoto a Weber)? Insomma in qualche modo sono capi carismatici?
Certo: contro ogni deriva o tentazione populista vale la raccomandazione che il vero leader sa contemperare la determinazione all’azione che gli deriva dalle sue convinzioni con l’etica della responsabilità verso la pluralità degli interessi che deve governare. Compreso un oculato calcolo delle conseguenze non previste delle sue decisioni. Questo ci porta ad alcune considerazioni sull’altra tesi che fonda il pensiero di Weber: la razionalità o il razionalismo come tratto caratterizzante, anzi come «essenza» dell’Occidente. Alcune sue pagine sembrano l’apoteosi del razionalismo occidentale, che trova la sua realizzazione nello Stato moderno, dotato di una costituzione razionalmente promulgata, di un diritto razionalmente costituito, di un’amministrazione di funzionari specialisti, affiancato dalla scienza della politica e dalla organizzazione capitalistica dell’economia, che è definita «la potenza più fatale» dell’Occidente.
Weber naturalmente vede i lati negativi di questa costruzione. Da un lato la burocratizzazione del sistema che lo riduce ad una paralizzante «gabbia d’acciaio» e dall’altro la subordinazione della logica del capitalismo ad una visione e ad una pratica predatoria, mentre l’economia produttiva reale lascia il posto alla mera speculazione finanziaria. E’ l’esito che abbiamo sotto i nostri occhi.
Ma a questo punto dobbiamo allargare il discorso sull’idea di razionale e di razionalità che percorre il pensiero weberiano - dalla politica, all’economia, alla religione. La razionalità infatti convive sempre con il suo opposto, con l’irrazionalità. L’irrazionale è il polo di rimando del razionale e allo stesso tempo ciò che, nel suo nucleo profondo, è ad esso irriducibile. Esprime «la vita», nel cui ambito si genera l’elemento carismatico, profetico, demoniaco e l’erotico - tutte potenze attive e positive dell’esperienza vitale.
Il testo che tratta questa problematica è la Considerazione intermedia (nella Sociologia delle religioni) dove l’esistenza umana è presentata come un insieme di sfere vitali in conflitto tra di loro, perché ciascuna segue una sua propria logica specifica. Così è per la sfera dell’etica religiosa che entra in tensione con la sfera dell’economia e della politica che è la depositaria del monopolio dell’uso legittimo della forza. Ma non meno drammatica e radicale è la tensione tra la sessualità e l’etica della fratellanza, tra la sfera erotica e quella della religione. L’erotismo in particolare appare come una forza di rottura irresistibile verso l’irrazionale, «una porta verso il nucleo più irrazionale e insieme più reale della vita». Ma è nella sfera religiosa che si consuma il contrasto più radicale. «Con la crescita del razionalismo della scienza empirica la religione viene progressivamente cacciata dal regno del razionale nell’irrazionale e diventa la potenza irrazionale e antirazionale sovrapersonale tout court».
Sono frasi forti, un po’ enigmatiche nella loro perentorietà. Ma offrono uno sguardo enormemente più penetrante dei dibattiti oggi correnti sulla secolarizzazione o viceversa sul «ritorno delle religioni», sulla potenza dei nuovi carismi comunicativi delle personalità religiose. Il Weber studioso del fenomeno religioso si conferma intellettualmente stimolante come e più dello studioso del razionalismo capitalistico o della politica. Meriterebbe maggiore attenzione anche nel discorso pubblico e pubblicistico.
“Protestantesimo e capitalismo. Galeotta fu la Roma cattolica”
Il biografo tedesco: colse il nesso nel suo soggiorno italiano
intervista di Tonia Mastrobuoni (La Stampa, 04.05.2014)
È uscita ora in Germania la sua monumentale biografia su Max Weber, edita da C.H. Beck: il sociologo dell’Università di Marburg, Dirk Kaesler, è considerato da decenni tra i massimi conoscitori del padre della sociologia. E una sua vecchia monografia sul genio prussiano è stata pubblicata anni fa anche in Italia, dal Mulino. Ma Kaesler, pur riconoscendone la modernità in alcune, profetiche tesi - la burocratizzazione di tutto, il predominio del capitalismo d’impresa e della razionalità occidentale - invita sempre a considerare con grande cautela la presunta «modernità» di Max Weber. Infine, sull’intuizione più nota, quella sul presunto nesso tra etica protestante e capitalismo, lo studioso ha scoperto che l’Italia c’entra moltissimo. Anzi, paradossalmente, con la più famosa teoria economica sul protestantesimo, c’entra moltissimo la capitale mondiale del cattolicesimo: Roma.
Quanto è attuale il pensiero di Max Weber, ad esempio la sua analisi sul rapporto tra razionalità e Occidente?
«Io sono fra coloro che tentano di proteggere Max Weber da un’eccessiva modernizzazione. Non credo che si possa capire il suo pensiero slegandolo dalla sua epoca. E’ inutile chiedersi, per fare un esempio, “cosa avrebbe detto Max Weber sulla crisi in Ucraina”. Tuttavia esistono tre grandi temi che lo rendono eterno. Primo, il concetto del “betriebskapitalismus”, del capitalismo d’impresa razionale che è diventato poi imperante. Il secondo è quello della progressiva burocratizzazione di tutto. Ma forse è il terzo ad impegnarci di più, al giorno d’oggi: quello della razionalità occidentale e della posizione dell’Occidente rispetto al resto del mondo. Weber era convinto che prima o poi avrebbe prevalso su tutto. Oggi, invece, ci accorgiamo più che mai che ci sono forti resistenze a questo modello - basti pensare all’Islam. Però bisogna fare attenzione nell’adottare il pensiero di Weber senza filtri: va sempre calato nella sua epoca e interpretato con spirito critico».
Uno dei saggi più famosi ma anche più criticati è quello sul rapporto tra etica protestante e capitalismo. Quanto sopravvive oggi di quella tesi?
«Nella mia biografia cerco di raccontare quanto sono state importanti Roma e l’Italia per Max Weber. E sono il primo a farlo. Weber cominciò a scrivere quell’opera proprio a Roma: non è un dettaglio. Vivendo quotidianamente il cattolicesimo, Weber ha cominciato a riflettere su se stesso e sulla sua confessione, sul protestantesimo. E’ un nesso importante: l’Italia vissuta da Weber, la leggerezza degli italiani, la loro voglia di vivere, lo indussero a riflettere sulla sua identità di prussiano, sul protestantesimo, sulla sua “pesantezza”».
Molti, però, hanno messo in discussione la causalità tra etica protestante e capitalismo.
«Certo, ma al di là della critica sui singoli punti, quello dell’etica protestante e il capitalismo è divenuto un grande filone narrativo della sociologia moderna. E’ diventato talmente un luogo comune che in molti Paesi funziona come una profezia che si autoavvera. Quindi non conta più che Max Weber abbia avuto ragione a scrivere che il calvinismo abbia predestinato determinati popoli al capitalismo (o viceversa, come sostiene qualcuno). E’ una tesi che funziona perché la gente ci crede, negli Stati Uniti la “Weber thesis” funziona perché è nota a tutti, anche tra milioni di persone che non hanno mai letto una riga di Weber».
E Calvino inventò la puntualità
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 01.09.2015)
Altro che stereotipi. Max Weber con la sua sociologia delle religioni ci aveva visto giusto. Lo testimonia un altro Max (chiaramente) un po’ meno famoso: vale a dire il teologo Engammare, ricercatore dell’Istituto di storia della Riforma dell’Università di Ginevra e autore del libro L’ordine del tempo (Claudiana, pp. 223, € 28). Un volume fascinoso nel quale, fonti alla mano, lo studioso mostra come la puntualità (con correlate virtù e ossessioni) rappresenti un’invenzione del XVI secolo sgorgata dall’universo protestante e, in particolare, dalla Ginevra riformata dove, non per nulla, cominciarono a proliferare gli orologi pubblici e il calvinismo reimpostò il rapporto tra la spiritualità e lo scorrere (o l’incalzare, per l’appunto) del tempo. Mentre quella cattolica - forzando un po’... - rappresentava una sensibilità spirituale proiettata eminentemente sulla centralità dello spazio, tra gli «interni» delle chiese e gli «esterni» dei pellegrinaggi.
Tempus fugit. E, quindi, andava rigorosamente messo a profitto, tanto sul piano oltreterreno e mistico quanto su quello mondano e materiale, perché time is money: così ci risiamo con il paradigma weberiano dello spirito del capitalismo prodotto dell’etica protestante, mentre, per venire ai giorni nostri, si spiega pure (parzialmente) l’autentico «scontro di civiltà» tra la «formica» (la protestante Germania di Wolfgang Schäuble) e la «cicala» (la levantina e mediterranea Grecia di Alexis Tsipras e del dimissionato Yanis Varoufakis).
A manifestare personalmente una relazione concitata e tumultuosa con il tempo era, infatti, lo stesso padre fondatore Giovanni Calvino (1509-1564), la cui agenda finì per impazzire, inducendolo a lamentarsi di non riuscire a preparare adeguatamente le prediche e le lezioni. Il riformatore diede allora per primo una dimensione morale all’«uso responsabile» del tempo, codificando modalità (simboleggiate dalla clessidra sui pulpiti per verificare la durata dei sermoni) e istituti per la sua regolazione. E la sua Ginevra divenne pertanto la capitale della precisione e diligenza oraria protestante che si estese dall’ugonottismo francese sino al puritanesimo inglese.
Se torna l’etica nel capitalismo
di Jean Paul Fitoussi (la Repubblica, 23 febbraio 2009)
Sembra che nel periodo in cui viviamo l’etica abbia invaso tutti gli spazi: commercio etico, finanza etica, imprese che adottano una Carta etica, preoccupazione per le generazioni future espresse in tutti i discorsi.
Eppure il capitalismo è ormai come fuori di sé. Mai prima d’ora «l’amore per il denaro», per usare l’espressione di Keynes, l’aveva condotto a simili eccessi: remunerazioni astronomiche ai più facoltosi, speranze realizzate di rendimenti chimerici, oscenità della miseria nel mondo, esplosione delle disuguaglianze, degrado ambientale ecc.
Per spiegare questo paradosso si possono formulare, in sostanza, due sole ipotesi: la prima è che l’etica sia emersa come reazione allo spettacolo sconfortante delle conseguenze morali e sociali di un mondo economico per l’appunto alieno dall’etica. L’altra è che il tema morale costituisca l’elemento chiave di una nuova strategia di marketing, finalizzata a soddisfare più che mai la voglia di accumulare capitale. Del resto, queste due ipotesi non si escludono affatto a vicenda.
Non c’è dunque da stupirsi di quanto avviene nel momento attuale, caratterizzato da una grande distanza tra etica e capitalismo. Ma come spiegarla? È stata l’assenza di etica a spingere il capitalismo sull’orlo dell’abisso? In questo caso viene da pensare a un apologo: l’avidità e la cupidigia sarebbero gli "attivi" più "tossici" della finanza mondiale. Di fatto, non si può scartare l’ipotesi che oggi come ieri, l’abbandono dell’etica abbia portato il sistema alla crisi. «Due sono i vizi più caratteristici del mondo economico in cui viviamo», scriveva Keynes. «Esso non assicura né la piena occupazione, né l’equità della ripartizione della ricchezza e del reddito, che è arbitraria». Da dove procede questo giudizio morale sullo stato del mondo? Oppure, in altri termini: l’economia non è stata definita come scienza per eccellenza, avulsa da ogni considerazione etica?
Il suo irresistibile slittamento dallo status di disciplina morale e politica verso quello di economia-scienza, concepita come un ramo della matematica applicata, si è cristallizzato in un concetto di economia di mercato, apparentemente scevro da ogni connotazione storica o istituzionale. Eppure il capitalismo è senza dubbio una forma di organizzazione storica, con una sua precisa collocazione (un modo di produzione, direbbe Marx), nata dalle macerie e dalle convulsioni politiche dell’Ancien régime. Perciò il suo destino non è inciso nel marmo. In due parole, non è dissociabile dal politico. È l’interdipendenza tra lo Stato di diritto e l’attività economica a conferire al capitalismo la sua unità. L’autonomia dell’economia è dunque un’illusione, come lo è la sua presunta capacità di autoregolarsi. Ed è proprio perché il bilanciere si è inclinato un po’ troppo verso quest’illusione che siamo giunti all’attuale rottura.
Dal punto di vista dell’etica, questo movimento del bilanciere corrisponde a un’inversione dei valori. Il rispetto dell’etica, si pensava, può essere meglio garantito imponendo più regole al funzionamento degli Stati (soprattutto in Europa, ma la teoria ci viene dall’America) e meno regole ai mercati. E a fare il resto ha provveduto dapprima l’ingegnosità dei mercati finanziari, poi il loro accecamento. Non è neppure il caso di sottolineare qui quanto fosse lontana dall’etica la grossa bugia delle istituzioni finanziarie, quando promettevano a tutti i loro clienti - contro ogni logica aritmetica - rendimenti superiori alla media. Era solo incompetenza? O forse, come recentemente ha osservato Paul Krugman, in fin dei conti l’attività finanziaria lecita non si è rivelata moralmente superiore a quella di un Bernard Madoff?
In ogni caso, alla radice del deficit etico del capitalismo contemporaneo c’è l’inversione della gerarchia tra politica ed economia, o spesso la pura e semplice subordinazione della prima alla seconda. Lo scandalo etico del nostro tempo sta nella globalizzazione della povertà, diffusa ormai anche nei Paesi più ricchi; e ancor più nell’accettazione di un grado insostenibile di sperequazione nei regimi democratici. Di fatto, il nostro sistema procede da una tensione tra due principi: quello del mercato e della disuguaglianza da un lato (un euro, un voto) e dall’altro quello della democrazia e dell’uguaglianza (una persona, un voto). E ciò comporta di necessità la ricerca permanente di una via di mezzo, di un compromesso.
La tensione tra questi due principi è dinamica, in quanto consente al sistema di adattarsi senza incorrere nella rottura che invece generalmente si produce nei sistemi retti da un solo principio organizzativo (il sistema sovietico). In altri termini, la tesi in base alla quale il capitalismo è sopravvissuto come forma dominante di organizzazione economica solo grazie alla democrazia, piuttosto che suo malgrado, appare intuitivamente assai più convincente. Ne abbiamo oggi una nuova dimostrazione.
Una normale gerarchia di valori esigerebbe allora che il principio economico sia subordinato alla democrazia, e non viceversa. Ora, i criteri generalmente adottati per giudicare se una politica o una riforma siano ben fondate o meno sono criteri di efficienza economica. Dan Usher ha proposto un altro criterio, che consiste nel chiedersi se una riforma sia suscettibile di rafforzare la democrazia, o al contrario di indebolirla; di promuovere l’adesione dei cittadini al regime politico, o di ridurla. Come appare evidente oggi, è questo il criterio giusto. In nome di quale pretesa efficienza si costringerebbero le persone a essere meno solidali di quanto vorrebbero? Di fatto, i rapporti tra democrazia e mercato sono più complementari che conflittuali. Impedendo al mercato di generare esclusione, la democrazia rafforza la legittimità del sistema economico; e il mercato a sua volta favorisce l’adesione alla democrazia limitando l’incidenza del politico sulla vita dei cittadini.
Quando il valore primario è l’accumulazione del capitale, lo spettacolo del denaro facile offusca gli orizzonti temporali. L’anomalia di rendimenti finanziari eccessivi contribuisce al deprezzamento del futuro, all’impazienza verso il presente, alla disaffezione per il lavoro. Non c’è bisogno di ricorrere all’Antico Testamento, ad Aristotele o a Tomaso D’Aquino per illustrare la problematicità dei rapporti tra l’etica e il rendimento del denaro. Basta fare riferimento ad Adam Smith - non alla sua Teoria dei sentimenti morali, bensì alla Ricchezza delle nazioni. Smith postulava un controllo rigoroso dei tassi d’interesse, per un motivo apparentato a quello che ho appena sottolineato: il rischio di un deprezzamento del futuro. Scrive Adam Smith: «Se il tasso d’interesse legale in Gran Bretagna fosse fissato a un livello molto elevato quale ad esempio l’8 o il 10% ... gran parte del capitale del Paese sarebbe sottratto ai soggetti in grado di farne probabilmente l’uso più proficuo, per cadere nelle mani di chi finirebbe per dilapidarlo o distruggerlo».
Il deprezzamento del futuro, in conseguenza di insostenibili pretese di rendimenti finanziari (ieri), o di tassi d’interesse anormalmente alti (oggi) si pone in contrasto con l’orizzonte temporale della democrazia, necessariamente di lungo periodo. E questa contrapposizione pregiudica la possibilità degli Stati di fornire beni pubblici essenziali, e in particolare quei beni che dovrebbero rispondere alle preoccupazioni per le generazioni future. Il benessere dell’attuale generazione può essere analiticamente dissociato da quello delle generazioni future, o accresciuto a spese di queste ultime; in altri termini, tra le generazioni di oggi e di domani esiste in teoria un arbitraggio politico. Una delle chiavi di quest’arbitraggio è il tasso sociale di preferenza temporale, che ad esempio Nicholas Stern ha scelto di considerare pari a 0. Evidentemente, a determinarlo dovrebbe essere il dibattito politico, cioè la democrazia.
I rapporti tra le generazioni non sono tanto semplici da consentire l’ipotesi di un altruismo generalizzato. Esiste tuttavia un ambito in cui il benessere delle generazioni presenti e di quelle future si può considerare più complementare che alternativo: quello della giustizia sociale. Quando le disuguaglianze sono stridenti, una parte importante della società non ha più alcuna possibilità di proiettarsi nel futuro, neppure se lo desidera, imprigionata com’è nelle necessità impellenti del presente e del quotidiano. La questione ecologica si può allora riassumere nei seguenti termini: di quale politica abbiamo bisogno per consentire a ciascuno di proiettarsi nel futuro? Nell’ipotesi ottimistica che l’altruismo intergenerazionale sia "un sentimento morale" spontaneo, come sembra peraltro indicare l’attenzione di tutti noi per la sorte dei nostri figli, appare evidente che una riduzione delle disuguaglianze potrebbe riconciliare il capitalismo con il lungo termine.
In sintesi, per restituire più etica al capitalismo conviene approfittare dell’attuale momento di rottura negativa per rompere anche concettualmente con un passato dottrinale che ci ha condotto alle gravi turbolenze di oggi. Allo stesso modo, per restituire prospettive al futuro servirebbe una "deregulation delle democrazie", riservando cioè più spazio alla volontà politica, e imponendo al tempo stesso più regole ai mercati. Ma non è proprio questo che oggi si sta verificando spontaneamente?
Sarebbe inoltre il caso di prendere più sul serio l’attività deliberativa sulle norme di giustizia che caratterizzano la democrazia. Il grado di disuguaglianza accettabile dovrebbe essere oggetto di una deliberazione pubblica annuale in sede parlamentare. Questo dibattito, basato sulle informazioni fornite degli istituti di statistica e dal lavoro dei ricercatori, avrebbe l’insigne vantaggio di evitare la deriva delle società democratiche verso livelli di disuguaglianza insostenibili, in assenza di controlli e di campanelli d’allarme e senza che l’opinione pubblica ne sia informata. La pubblicità che dovrebbe essere data ai dibattiti e la loro solennità permetterebbe di interrompere, una volta tanto, la concorrenza sociale e fiscale verso il basso, con la conseguente distruzione di beni pubblici. La speranza è che possa instaurarsi al suo posto una concorrenza verso l’alto.
Traduzione di Elisabetta Horvat
IDEE.
Alle origini del capitalismo: ecco come i pensatori medievali riuscirono a conciliare il cattolicesimo e lo sviluppo economico
I francescani contro Weber
È ben nota la tesi del sociologo tedesco sull’etica protestante: una teoria che ha spinto nell’ombra i contributi di teologi come Pietro di Giovanni Olivi, Alessandro di Alessandria, fino a Bernardino da Siena
di DARIO ANTISERI (Avvenire, 07.11.2008) *
Non è il caso di soffermarsi sulla insostenibilità della prospettiva marxiana che vede la genesi del capitalismo in quella «accumulazione originaria» frutto di violenza politica. D’altro canto, è ben nota la tesi di Weber sulla genesi dello «spirito del capitalismo ». «La sete di lucro, l’aspirazione a guadagnare denaro più che sia possibile, non ha di per se stessa nulla in comune col capitalismo.
Quest’opinione si ritrova presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatori di bische, i mendicanti; si può dire presso all sorts and conditions of men, in tutte le epoche in tutti i paesi della terra dove c’era e c’è la possibilità obiettiva ». Ebbene, dice Weber, l’auri sacra fames «non è affatto identica col capitalismo, tanto meno corrisponde allo spirito ’di questo’». Egli identifica il capitalismo «con un disciplinamento o per lo meno con un razionale temperamento di un tale impeto irrazionale. In ogni caso, il capitalismo è identico colla tendenza al guadagno in una razionale e continua impresa capitalistica, al guadagno sempre rinnovato, cioè alla risarcibilità».
Scrive Weber: «L’ascesi protestante intramondana agì (...) potentemente contro il godimento spregiudicato del possesso e restrinse il consumo, specialmente il consumo di lusso. D’altra parte, essa liberò nel risultato psicologico l’acquisizione dei beni dagli ostacoli dell’etica tradizionalistica, spezzò le catene dell’aspirazione al guadagno non soltanto legalizzandola, ma considerandola addirittura come voluta da Dio (...). La valutazione religiosa del lavoro professionale, mondano, indefesso, costante, sistematico, come il più alto mezzo ascettico e nello stesso tempo come la conferma più sicura e visibile dell’uomo rigenerato e della genuinità della sua fede, costituiva la leva più potente che si potesse pensare per l’espansione di quella concezione della vita che abbiamo qui definito come spirito del capitalismo. E se noi combiniamo quella restrizione al consumo con questo scatenamento dell’aspirazione all’acquisizione, il risultato esteriore è ovvio: la formazione del capitale attraverso la costrizione ascetica al risparmio. Gli ostacoli che si frapponevano all’uso consumisti- co di ciò che veniva acquisito, dovevano andare a vantaggio del suo impiego produttivo, ossia del suo impiego come capitale di investimento ».
Weber è ben consapevole che è «pazzamente dottrinaria» la tesi stando alla quale ’lo spirito capitalistico’ (...) sia potuto sorgere solo come emanazione di determinate influenze della Riforma o che addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto della Riforma. Già il fatto che alcune importanti forme di aziende capitalistiche sono notoriamente assai più antiche della Riforma si oppone una volta per sempre ad una tale opinione ». E quel che a lui sta a cuore è «porre in chiaro soltanto se e in quale misura influenze religiose abbiano avuto parte nella formazione qualitativa e nella espansione quantitativa di quello ’spirito’ nel mondo e quali lati concreti della civiltà che posa su basi capitalistiche derivino da tali influenze». E, pur tuttavia, per decenni e decenni la tesi di Weber (se non si considera quella di Marx) ha spinto nell’ombra della dimenticanza, o, in ogni caso, nel regno dell’irrilevanza quei contributi che qua e là avevano posto l’attenzione sui rapporti tra cattolicesimo e capitalismo.
Nella storia delle dottrine economiche e politiche sono stati trascurati sino a non molto tempo fa gli itinerari aperti dalla Scuola francescana. Un solo, comunque importante, esempio. Sull’idea di produttività del capitale monetario - tema indubbiamente centrale delle teorie economiche - Joseph Schumpeter scrive: «Già prima adombrata, essa fu per la prima volta espressa da sant’Antonino, il quale spiega che sebbene il danaro circolante possa essere sterile, il capitale monetario non lo è, perché esso rappresenta una condizione necessaria per intraprendere affari. Ora, è ben vero che il domenicano arcivescovo fiorentino sant’Antonino (1389-1459) accoglie nella sua Summa l’idea della funzione del prestito di danaro sia per i consumi che per gli investimenti vantaggiosi, richiamandosi all’autorevole proposta di san Bernardino da Siena (1380-1440), solo però che costui, da parte sua, ripeteva le idee di due francescani: Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) e Alessandro di Alessandria (12701314). È nella Prima Quaestio del Tractatus de emptione et venditione che l’Olivi tratta del valore economico. Il valore di una cosa, egli afferma, nasce dalla concorrenza di tre cause che sono: quelle proprietà che la rendono adatta meglio di un’altra a soddisfare i nostri bisogni; la scarsità e quindi la difficoltà ad essere reperita; la preferenza individuale di coloro che intendono usarla.
Nella terminologia di san Bernardino da Siena, nella trascrizione che egli fa dei passi dell’Olivi, il valore di una cosa è data dalla raritas, dalla virtuositas e dalla complacibilitas. La raritas sta a significare la scarsità del bene economico rispetto alla domanda; la virtuositas è la sua capacità oggettiva di rispondere ad un bisogno; e la complacibilitas è la preferenza che un soggetto dà ad un bene in vista dell’appagamento di un bisogno piuttosto che di un altro, stabilendo una gradualità tra questi. Con la complacibilitas l’Olivi introduce nella concezione del valore un elemento che risulterà poi nevralgico per il marginalismo e nella successiva e contemporanea teoria economica. In sintesi, annota ancora il Bazzichi, «il valore economico si determina in funzione dell’utilità - sia nella sua forma oggettiva ( virtuositas) sia nella sua forma soggettiva ( complacibilitas) - e in funzione della rarità». E precisa: «È questa veramente la migliore e la più moderna tra le teorie del valore del Medioevo».
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ANTICIPAZIONE
Esce oggi in libreria il volume del filosofo Dario Antiseri «L’attualità del pensiero francescano» (Rubbettino, pagine 84, euro 7), in cui l’autore rintraccia all’interno della scuola di pensiero francescana del Medioevo le teorie che cercavano di conciliare la fede cristiana e lo sviluppo economico, assai prima delle tesi espresse dal sociologo tedesco Max Weber. Qui anticipiamo alcuni brani.
Ansa» 2008-07-16 21:12
GIORNALISTI AGGREDITI DOPO PUBBLICAZIONE SERVIZIO ANTIUSURA
CORATO (BARI) - Ieri avevano pubblicato sulla testata cittadina on line la notizia di una grossa operazione antiusura con arresti compiuta nel barese dai carabinieri. Oggi sono stati aggrediti in redazione dai figli di una delle persone arrestate che, in una vera e propria spedizione punitiva a viso aperto, hanno devastato computer e mobili, picchiato a sangue il direttore della testata e un altro giornalista che aveva tentato di fermarli. E’ successo a Corato, nella redazione di Corato Live, testata che fa parte di un network on line che ha sede in 14 città della provincia. Due giovani - arrestati dopo poche ore dai carabinieri - si sono presentati in redazione chiedendo del direttore, Mario Lamanuzzi. Una volta individuatolo, lo hanno aggredito prendendolo a pugni e facendo chiaramente riferimento, tra insulti e invettive, alle notizie pubblicate sulla operazione in cui ieri, nella vicina Andria, erano state arrestate per usura due persone e sequestrati beni per sei milioni di euro. Un altro giornalista, Salvatore Vernice, intervenuto in difesa del collega, è stato preso a pugni e tramortito.
Poi i due aggressori, accompagnati da una ragazza che ha assistito al fatto, hanno scagliato addosso ai giornalisti i computer danneggiando mobili e suppellettili della redazione. Gli aggrediti sono finiti in ospedale: Vernice è stato medicato e dimesso con una prognosi di dieci giorni, Lamanuzzi é stato sottoposto ad una Tac e trattenuto in osservazione con la diagnosi di trauma cranico e commozione cerebrale. Nel giro di poche ore i carabinieri hanno rintracciato e arrestato i due presunti aggressori: sono Gloriano Zinfollino, di 28 anni e suo fratello Alessandro, di 22, figli di Savino Zinfollino uno degli arrestati ieri per usura. E’ uno dei due titolari di una concessionaria di auto ad Andria attorno a cui, secondo gli investigatori, ruotava un enorme giro di usura ai danni di imprenditori locali. La ragazza di nazionalità spagnola e fidanzata di uno dei due fratelli, è stata denunciata. Solidarietà ai giornalisti aggrediti è stata espressa dall’Ordine dei giornalisti e l’Associazione della Stampa di Puglia e della sezione locale del sindacato. Solidarietà anche dal senatore di An Francesco Amoruso. Mentre il presidente nazionale dell’unione cronisti, oltre ad esprimere condanna e solidarietà, afferma che "il lavoro dei cronisti non si piegherà mai ad alcun tentativo da parte della criminalità di condizionare o di impedire la libertà di stampa".